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Sommario del 10/08/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Angelus: il Papa ricorda il dramma dell’Iraq e invoca la pace per Gaza

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All’Angelus il Papa, dopo essersi soffermato sull’episodio di Gesù che cammina sulle acque, ha ricordato la drammatica situazione in Iraq, dove “migliaia di persone, tra cui tanti cristiani, cacciati dalle loro case in maniera brutale”. Anche a Gaza, dopo una tregua – ha aggiunto il Pontefice – “è ripresa la guerra”. Preghiamo – ha poi detto il Santo Padre - anche per le vittime del virus “ebola”. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

Lasciano increduli e sgomenti – ha detto il Papa - le notizie giunte dall’Iraq, dove migliaia di persone, tra cui tanti cristiani, sono state cacciate dalle loro case in maniera brutale:

“Bambini morti di sete e di fame durante la fuga; donne sequestrate; persone massacrate; violenze di ogni tipo; distruzione dappertutto; distruzione di case, di patrimoni religiosi, storici e culturali. Tutto questo offende gravemente Dio e offende gravemente l’umanità. Non si porta l’odio in nome di Dio! Non si fa la guerra in nome di Dio!  Noi tutti, pensando a questa situazione, a questa gente, facciamo silenzio adesso e preghiamo”.

Il Papa ha poi auspicato una soluzione politica a livello internazionale:

“Ringrazio coloro che con coraggio stanno portando soccorso a questi fratelli e sorelle, e confido che una efficace soluzione politica a livello internazionale e locale possa fermare questi crimini e ristabilire il diritto. Per meglio assicurare la mia vicinanza a quelle care popolazioni ho nominato mio Inviato Personale in Iraq il Cardinale Fernando Filoni, che domani partirà da Roma”.

Il Santo Padre ha anche ricordato il dramma di Gaza ed invocato la pace:

“Anche a Gaza, dopo una tregua, è ripresa la guerra, che miete vittime innocenti, bambini… e non fa che peggiorare il conflitto tra Israeliani e Palestinesi. Preghiamo insieme il Dio della pace, per intercessione della Vergine Maria: Dona la pace, Signore, ai nostri giorni, e rendici artefici di giustizia e di pace”.

Il Pontefice ha quindi esortato a pregare per le vittime del virus ebola:

“Preghiamo anche per le vittime del virus “ebola” e per quanti stanno lottando per fermarlo”.

All’Angelus, soffermandosi sul passo del Vangelo in cui Gesù cammina sulle acque, Papa Francesco ha sottolineato che i discepoli sono “accomunati dall’esperienza della debolezza, del dubbio, della paura, della poca fede”.

“Quante volte anche a noi accade lo stesso… Senza Gesù, lontani da Gesù, ci sentiamo impauriti e inadeguati al punto tale da pensare di non potercela fare: manca la fede! Ma Gesù sempre è con noi, nascosto forse, ma presente e pronto a sostenerci”.

“Questa – ha aggiunto - è una immagine efficace della Chiesa: una barca che deve affrontare le tempeste e talvolta sembra sul punto di essere travolta”:

“Quello che la salva non sono le qualità e il coraggio dei suoi uomini, ma la fede, che permette di camminare anche nel buio, in mezzo alle difficoltà. La fede ci dà la sicurezza della presenza di Gesù sempre accanto, della sua mano che ci afferra per sottrarci al pericolo. Tutti noi siamo su questa barca, e qui ci sentiamo al sicuro nonostante i nostri limiti e le nostre debolezze. Siamo al sicuro soprattutto quando sappiamo metterci in ginocchio e adorare Gesù: adorare Gesù, l’unico Signore della nostra vita”.

Papa Francesco ha infine ricordato che mercoledì prossimo si recherà in Corea per il viaggio apostolico nel Paese asiatico:

“Per favore, accompagnatemi con la preghiera! Ne ho bisogno. Grazie”.

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Tweet di Papa Francesco sull’Iraq

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Ricordando il dramma dell’Iraq, il Papa ha lanciato oggi due nuovi tweet: “Le persone private della casa in Iraq – scrive il Santo Padre - dipendono da noi. Invito tutti a pregare e, quanti possono, ad offrire un aiuto concreto”. Nel secondo tweet il Pontefice scrive che “le notizie che giungono dall’Iraq ci addolorano. Signore, insegnaci a vivere in solidarietà con i fratelli che soffrono”. Ieri il Papa aveva inoltre ricordato, in un altro tweet, che “la violenza non si sconfigge con altra violenza. Dona la pace, Signore, ai nostri giorni!”.

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Mons. Tomasi: intervento necessario in Iraq a difesa di civili inermi

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Sulla situazione delle migliaia di civili cacciati dalle loro città dai miliziani jihadisti, ascoltiamo l’arcivescovo Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Ufficio Onu di Ginevra, al microfono di Sergio Centofanti

R. – E’ evidente che ci sia l’urgenza di difendere anche fisicamente i cristiani nel Nord dell’Iraq, provvedere all’aiuto umanitario – acqua, cibo – perché i bambini stanno morendo, i vecchi stanno morendo, per mancanza di aiuti alimentari.  Bisogna intervenire adesso, prima che sia troppo tardi. Un intervento umanitario è richiesto dalla realtà di queste decine e decine di migliaia di cristiani e di altre minoranze nella Piana di Ninive, che sono dovute scappare senza niente … solo i vestiti che avevano addosso. Hanno bisogno urgente di essere aiutati. L’azione militare forse in questo momento è necessaria, ma mi pare anche urgente fare in modo che, coloro che forniscono armi e denaro ai fondamentalisti, i Paesi che tacitamente li appoggiano, vengano allo scoperto e smettano questo tipo di supporto, che alla fine non fa del bene né ai cristiani né ai musulmani.

D. – Una situazione drammatica …

R. – Si tratta di una nuova tragedia nel Medio Oriente, dove i diritti umani fondamentali di tantissime persone e comunità intere sono violati. Ci troviamo di fronte ad una situazione veramente complicata: da una parte abbiamo questi fondamentalisti jihadisti, che in nome di un Califfato che vogliono mettere in piedi, stanno distruggendo e uccidendo senza misericordia e, dall’altra, una certa indifferenza da parte del mondo occidentale. Quando si tratta di cristiani, infatti, c’è un falso pudore a parlarne e a difenderne i diritti. Quindi è un momento dove la voce della coscienza deve emergere con chiarezza.

D. – Ora, però, qualcosa si sta muovendo …

R. - La comunità internazionale comincia a fare qualcosa. Abbiamo visto il segretario generale delle Nazioni Unite che ha parlato dell’inaccettabile crimine commesso contro i cristiani, menzionando finalmente i cristiani per nome; poi, il Consiglio di Sicurezza ha trattato la questione delle minoranze in Medio Oriente, in particolare dei cristiani e di altri gruppi, che sono più a rischio. Direi quindi che questo sia l’inizio di un cambio di atteggiamento, in cui vengono esplicitamente nominati i cristiani, che sono esposti ad una violazione radicale dei loro diritti, nel contesto della complessità politica e militare che vediamo in Medio Oriente. La novità mi pare che sia anche il fatto che alcuni musulmani, come per esempio il segretario generale dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, si siano espressi con parole piuttosto forti per condannare questa persecuzione di cristiani innocenti e per difendere il loro diritto, non solo a non essere uccisi e ad essere rispettati nel loro ambiente, ma anche al loro diritto di vivere a casa loro, come tutti gli altri cittadini dell’Iraq, per esempio, o della Siria. Un Medio Oriente senza cristiani sarebbe un impoverimento, non solo perché la Chiesa sarebbe assente, ma anche per l’islam stesso, che mancherebbe di una spinta alla democrazia e di un senso di dialogo con il resto del mondo.

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Il Papa agli scout: il mondo ha bisogno di giovani coraggiosi

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“Il mondo ha bisogno di giovani coraggiosi, non timorosi”. E’ quanto ha detto Papa Francesco salutando in collegamento telefonico oltre 30 mila giovani scout che hanno partecipato alla Santa Messa presieduta dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, in occasione della conclusione a San Rossore della Route nazionale Agesci. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

E’ stata una telefonata affettuosa quella di Papa Francesco agli oltre 30 mila scout. Il Pontefice ha salutato i giovani augurando loro di percorrere strade di coraggio orientate verso il futuro. Il coraggio – ha detto il Santo Padre – è una virtù dei giovani:

“Il mondo ha bisogno di giovani coraggiosi, non timorosi. Di giovani che si muovano sulle strade e non che siano fermi: con i giovani fermi non andiamo avanti! Di giovani che sempre abbiano un orizzonte per andare e non giovani che vanno in pensione! Ma è triste! E’ triste guardare un giovane in pensione. No, il giovane deve andare avanti con questa strada di coraggio”.

Il Papa ha poi esortato i giovani ad andare avanti con coraggio, ad impegnarsi per rendere il mondo migliore:

“Questo è il vostro compito: fare una città nuova. Sempre avanti con una città nuova: con la verità, la bontà, la bellezza che il Signore ci ha dato. Cari giovani, cari ragazzi e ragazze vi saluto di qua e vi auguro il meglio. Non abbiate paura, non lasciatevi rubare la speranza. La vita è vostra! E’ vostra per farla fiorire, per dare frutti a tutti. L’umanità ci guarda e anche vi guarda a voi in questa strada di coraggio. E ricordatevi: la pensione arriva a 65 anni! Un giovane non deve andare in pensione, mai! Deve andare con coraggio avanti. Prego per voi e chiedo al Signore che vi dia la benedizione”.

Nell’omelia il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha affermato che “il coraggio è il contrario del conformismo”. Gesù – ha concluso il porporato – ci invita al coraggio di essere liberi”.

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Papa in Corea: tra le priorità della Chiesa coreana la formazione dei laici

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Papa Francesco inizierà mercoledì prossimo il suo viaggio apostolico in Corea del Sud, in programma fino al 18 agosto. Oltre ai ragazzi della Giornata della gioventù asiatica, per il Papa sarà occasione di conoscere da vicino la piccola realtà della Chiesa locale, che, tra le sue priorità pastorali, ha quella della formazione di laici sempre più coscienti della propria vocazione all’interno della società. Esperienza, questa, vissuta in profondità da don Ezechiele Ki, già parroco nella diocesi di Jeonju, intervistato da Davide Dionisi: 

R. – La Chiesa coreana è giovane e non vuole perdere questa giovinezza. Vivere da parroco in Corea è una grazia del Signore, perché da quando sono parroco sento che ogni giorno devo sempre andare avanti. I laici coreani chiedono, soprattutto, nella crescita spirituale di avvicinarsi a Dio: cercano tanto, lavorano tanto, pregano tanto. Davanti a questa situazione, come prete coreano, non posso fermarmi, non posso rimanere indietro. I fedeli, attraverso la fede, vogliono riuscire a vivere meglio in relazione con Dio, però il vivere quotidiano in Corea non è facile: ci sono tanti problemi, come – ad esempio – la disoccupazione…. Vivere con loro, parlare con loro, fare qualcosa con loro: un prete per essere un buon pastore deve prima di tutto capire i fedeli, cosa pensano e in quale situazione vivono.

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Oggi in Primo Piano



Iraq: continua il dramma di cristiani e yazidi

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La situazione in Iraq rimane gravissima. Fonti governative britanniche stimano che tra le 50 mila e le 150 mila persone sono intrappolate nelle montagne di Sinjar in attesa di aiuti, che cominciano ad arrivare da parte degli Stati Uniti, del Regno Unito e del governo iracheno. Continuano i raid americani contro le forze dei jihadisti dello Stato Islamico, che sul terreno stanno affrontando le forze curde. E rimane tragica la situazione dei cristiani. Michele Raviart

Aerei cargo americani e inglesi hanno consegnato ai profughi del Sinjar - principalmente yazidi scappati dalle persecuzioni dei terroristi dello Stato Islamico - oltre 20 tonnellate di aiuti, tra cui 16 mila pasti e acqua. Secondo l’Unicef infatti già 56 bambini sono morti per disidratazione sulle montagne. Nelle ultime 24 ore quattro raid americani, autorizzati giovedì da Obama per “fermare il genocidio” hanno distrutto carri armati e strutture dello Stato Islamico, che però continua a uccidere. 500 le vittime nell’offensiva dei jihadisti in corso nel nord dell’Iraq, alcune delle quali, secondo fonti governative irachene, sono state seppellite vive. In ventimila, sempre yazidi, sono intanto riusciti a raggiungere la Siria, scortati dai combattenti peshmerga curdi. Intanto in un comunicato, il patriarca dei Caldei Louis Raphael Sako, fa il punto sulla situazione dei  cristiani, “che hanno perso tutto e non hanno aiuti umanitari sufficienti”. Settemila sono gli sfollati ad Ankawa, riparati nelle chiese o che dormoni in strada. A Dohuk i rifugiati sono più di sessantamila, e cercano di trovare rifugio a Kirkuk o a Baghdad. Nei villaggi cristiani attorno a Mosul  le chiese sono deserte e sconsacrate. Due le scelte per i rifugiati, dice il patriarca Sako: migrare – ma dove, senza documenti o denaro? – o rimanere, aspettando la fine dell’estate e l’arrivo dell’inverno nei campi profughi e nei centri di accoglienza, con l’incertezza per il futuro dei loro figli e per la sorte delle loro proprietà, dalle quali sono stati cacciati a forza dai miliziani dello Stato Islamico.

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Medio Oriente: appello delle Ong italiane per una tregua a Gaza

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L’operazione a Gaza “continuerà a lungo. Israele non è disponibile a negoziare con Hamas finchè nell’area si sparerà”. Lo ha detto il primo ministro israeliano Benjamin Nethanyau durante una riunione di governo nel ministero della Difesa a Tel Aviv. Intanto a Gaza si continua a morire. Secondo fonti palestinesi un ragazzo di 14 anni è morto durante un attacco aereo no a Deir al-Balah, al centro della Striscia, mentre in Cisgiordania un undicenne è stato ucciso in un campo profughi vicino Hebron da un colpo sparato dall’esercito israeliano. Le circostanze sono ancora da chiarire.

Intanto, un appello congiunto per il cessate il fuoco a Gaza e per una pace duratura in Palestina e Israele è stato lanciato dalle Ong italiane che, in un comunicato, chiedono soprattutto la protezione della popolazione civile e la fine del blocco di Gaza. Le operazioni militari, si legge, hanno fallito nell’intento di portare giustizia, pace e sicurezza per entrambi i popoli, palestinese e israeliano. Una soluzione però, non può passare per il ritorno allo status quo, scrivono le organizzazioni che sollecitano cambiamenti radicali affinché si proteggano le persone dalla violenza e affinché i loro diritti e bisogni siano rispettati. Francesca Sabatinelli ha intervistato Raffaele K. Salinari, presidente di Terres des Hommes: 

R. – Perché Gaza non può avere un porto? Perché Gaza non può avere un aeroporto internazionale, anche sotto l’egida dell’Onu? Perché i cittadini di Gaza non possono uscire e andare dall’altra parte, in Cisgiordania, a lavorare, o andare in Israele a lavorare? Perché Gaza non può esportare? Queste sono le richieste che permetterebbero veramente una pace duratura. A quel punto, infatti, un cittadino – e io insisto su questo – che può fare una vita normale, non ha neanche bisogno di appoggiarsi agli estremismi. La parte meno dialogante di Hamas e la parte attualmente al governo, l’ultra destra israeliana, condividono gli stessi obiettivi, che sono quelli di una guerra permanente. Quindi ogni tre, quattro anni si fanno sempre queste operazioni militari, sempre con migliaia di morti, che non hanno risolto assolutamente nulla: né la sicurezza degli israeliani, né la vita quotidiana dei cittadini di Gaza.

D. – Tutto questo, però, come diceva pocanzi, deve anche fare i conti con la necessità di garantire la sicurezza degli israeliani?

R. – Ripeto: bisogna togliere l’acqua al pesce. Il pesce del terrorismo nuota nelle acque torbide della mancanza di diritti umani. Questa è una cosa che sanno tutti. E’ chiaro che un bambino che nasce con di fronte agli occhi il papà e la mamma ammazzati, che non è mai potuto andare a scuola, se viene chiamato a farsi esplodere, lo fa. Un bambino invece che è andato a scuola, un bambino che ha avuto possibilità di studiare, di avere un futuro, non aderisce ai fanatismi. Allora, ad un certo punto, il più forte, in questo caso Israele, che ha delle grosse responsabilità sia tattiche che strategiche, il più coraggioso, deve fare il primo passo, deve fare la pace, altrimenti è chiaro che non se ne esce. Allora la prospettiva o è quella attuale, di una guerra permanente, dove ci perdono veramente tutti, israeliani compresi, oppure ad un certo punto si dice: vediamo quanto dura il governo di unità nazionale; appoggiamo anche Abu Mazen, che è stato per tutte le aperture che ha fatto in questi anni semplicemente schiaffeggiato, dicendo ‘vogliamo di più, vogliamo di più’, ben sapendo che di più lui non può dare, e poi si va a vedere. La pace si fa col nemico e la fa chi è più forte. In questo caso, è chiaro che c’è una asimmetria gigantesca tra quello che è il potenziale di Hamas e il potenziale di Israele. Israele dovrebbe avere questa responsabilità, ovviamente spalleggiata anche dalla comunità internazionale, di sostenere tra l’altro la società civile palestinese, quella moderata, che non è fanatica; e ce ne sono tanti, che non hanno nessuna voglia di vivere in uno stato di guerra permanente. E in questo direi che i cristiani possono svolgere una mediazione ancora più significativa, proprio perché appartengono ad un orizzonte culturale, dove la pace, la convivenza e i diritti umani sono connaturati alla loro visione del mondo.

D. – Nel vostro appello, interloquite direttamente con il governo italiano e con le istituzioni dell’Unione Europea, perché si adoperino in qualche modo. Eppure, i fatti ci dicono che la politica della comunità internazionale, ha fallito su tutti i fronti...

R. – Sì, lì c’è un problema di non aver capito che il mondo sta cambiando molto rapidamente in quella zona. Non c’è più la situazione di appena cinque, dieci, quindi anni fa; è tutto completamente cambiato. Sono molto preoccupato per l’Europa, ma anche per gli Stati Uniti, che credono di avere un ruolo di arbitri di vicende che, ormai, non siamo più in grado di giocare da soli. Chi sta diventando importante ormai negli anni è sicuramente l’Iran, ovviamente dietro c’è anche la Cina, c’è tutto il contenzioso con la Russia. E c’è l’emergenza di fanatismi ancora peggiori di quelli di Al Qaeda, come l’esercito del Levante della Siria libera, che proprio in queste ore ulteriormente rivendica califfati e sfondamenti nei confronti dell’Iraq. Obama si è dovuto piegare, di fatto, a dei bombardamenti, che non saranno una parentesi, perché dovranno durare. Tutto questo, perché c’è una gigantesca mancanza di visione, a partire dall’Europa. Noi dobbiamo negoziare con le potenze regionali. Non possiamo stare dietro a quello che dicono gli americani, che a loro volta hanno ormai – detto con molta chiarezza – un interesse molto minore in quella zona del mondo, da quando progressivamente stanno raggiungendo anche la loro autosufficienza energetica. Allora l’Europa non può essere l’ultimo vassallo degli Stati Uniti, ma dovrebbe essere il primo partner delle nuove potenze regionali, con le quali è imprescindibile il dialogo, proprio per risolvere qualcosa. Ci vuole un cambio radicale di politica estera dell’Europa, che noi Ong auspichiamo e che non vediamo.

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Libano: torna l'ex-premier Hariri per rafforzare l'esercito contro la jihad

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L’avanzata dello Stato Islamico in Medio oriente non risparmia neanche il Libano. I jihadisti hanno attaccato la città di Arsal, al confine con la Siria e sono stati respinti dall’esercito libanese dopo cinque giorni di scontri. A Beirut, intanto, è tornato dopo tre anni di assenza l’ex-premier Saad Hariri, figlio di Rafiq assassinato del 2005, per appoggiare l’esercito nazionale contro gli estremisti. Ma qual è il ruolo del Libano nell’attuale crisi mediorientale? Michele Raviart lo ha chiesto a Lorenzo Trombetta, corrispondente dell’Ansa da Beirut: 

R. – Il Libano è coinvolto sin dall’inizio nella lotta per il potere in Siria - lo era già prima del 2011- e, come l’Iraq, è coinvolto nella guerra di potere tra Iran e Arabia Saudita a livello regionale. Piuttosto, come l’avanzata dello Stato islamico da qualche mese ha dimostrato, la regione è da considerare come un unicum, in cui il vuoto lasciato dal regime siriano, dal governo Maliki iracheno e in parte - da molto tempo, da decenni – dallo Stato libanese, può essere riempito da altri attori informali: Hezbollah nel Sud del Libano; le milizie sciite iraniane in parte della Siria; miliziani anti regime e jihadisti di varia natura in ampie regioni dell’Iraq e della Siria.

D. – Perché la città di Arsal è stata attaccata dai jihadisti?

R. – La cittadina di Arsal sin dall’inizio dello scoppio della rivoluzione siriana nel 2011, come enclave sunnita in una regione a maggioranza sciita dominata da Hezbollah, ha costituito da sempre una base, un passaggio per uomini, armi, solidarietà medica tra la regione siriana del Kalamun, limitrofa ad Arsal, e la valle Beqā libanese. In questo contesto, lo Stato islamico o i jihadisti vari, come hanno già fatto in Siria e in Iraq, cercano di infilarsi in questi vuoti di potere sunniti. Certo, non vanno a rischiare di entrare in competizione diretta con gli Hezbollah libanesi o, in altri territori, dove la popolazione non sarebbe in qualche modo potenzialmente solidale con loro. Ecco la questione di Arsal va inquadrata in questo senso e non nel senso che il Libano, in quanto Stato è coinvolto in una guerra che coinvolge già Siria e Iraq. Dobbiamo dimenticarci di questo Medio Oriente, come se fosse un’Europa con vari Stati nazionali…

D. – Saad Hariri è tornato in Libano, dopo tre anni di assenza, con un miliardo di dollari, dono dei sauditi da spendere per l’esercito libanese...

R. – Il ritorno con le fanfare di Hariri va inserito in una crisi culturale e politica profonda del sunnismo moderato libanese, che la famiglia Hariri in qualche modo incarnava da anni. La sua assenza, anche fisica, ha contribuito alla radicalizzazione del sunnismo in Libano, che si è spinto sempre di più verso lo Stato islamico, verso lo jihadismo, che comunque, come sappiamo, è ostile anche alla politica saudita, che sponsorizza Hariri. E’ tornato, quindi, con una valigia carica di soldi per fare cosa? Per ricomprare quei sunniti che si stanno spingendo verso un sunnismo sempre più radicale e riportarli ad un sunnismo che possiamo dire moderato.

D. – Come sarà speso in pratica questo denaro?

R. – La notizia vera è che qualche elemento dell’Esercito libanese per la prima volta ha disertato per associarsi ai jihadisti, proprio nella regione di Arsal. Per la prima volta, dopo la fine della guerra civile, l’Esercito libanese sembra non essere più un’istituzione super partes. Hariri cerca adesso, con questa valigetta piena di soldi, di riportare l’esercito libanese sotto un cappello sunnita-sciita unitario, con un accordo che potrebbe in qualche modo riguardare sia l’Iran, che sponsorizza gli Hezbollah, sia l’Arabia Saudita.

D. – A livello di società civile, quanto attecchiscono i jihadisti nel territorio libanese?

R. – In questo periodo di polarizzazione confessionale e di lotta per il potere, più che di società civile, ciascuna comunità si chiude al suo interno e cerca solidarietà clanica, tribale, familiare e anche confessionale. In questo senso, il discorso, la retorica, la pratica dei jihadisti non si basa sul sostenere la società civile in quanto tale, si basa soltanto sull’acquisire consenso, dando elettricità, pane, acqua e servizi essenziali alla comunità che mi deve sostenere. Un po’ come fa Hezbollah da più di 20 anni nel Sud del Libano, un po’ come faceva Hamas nella Striscia di Gaza, un po’ come fanno tutte le mafie, che hanno bisogno di acquisire potere al di là di uno Stato, che nel caso libanese fatica molto ad imporre la propria autorità.

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La Turchia al voto per le presidenziali. Favorito Erdogan

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In pieno boom economico, la Turchia oggi vota per le presidenziali. Per la prima volta, 53 milioni di cittadini eleggono il nuovo capo dello Stato che in precedenza veniva scelto dal Parlamento. Nonostante le polemiche per una stretta sui social network e per le accuse di corruzione, l’attuale premier Erdogan è favorito e, dal 2002, non ha mai perso una consultazione. L’esito è davvero scontato? Benedetta Capelli lo ha chiesto a Valentina Scotti, ricercatrice Luiss ed esperta dell’area: 

R. – Potrebbero apparire presidenziali scontate. Ci sono, però, tuttavia, delle incognite che meritano di essere considerate. In primo luogo, ci si chiede quale sarà la posizione che prenderanno ad esempio gli alawiti, che potrebbero votare per Ihsanoglu, in ragione di questo suo ruolo di opposizione, ma potrebbero anche decidere di confermare la fiducia ad Erdogan, vedendo nel principale candidato di opposizione un sunnita e, comunque, un pericolo per i loro diritti in quanto minoranza. E lo stesso si potrebbe dire per i curdi. Tendenzialmente, i curdi sostengono il partito di Erdogan. E’ anche vero, però, che questa volta c’è un candidato, Demirtas, che potrebbe sottrarre voti.

D. – Nei mesi scorsi Erdogan è stato, comunque, al centro di polemiche, accuse di corruzione e ha epurato la magistratura. Eppure il suo consenso non scende. Come mai?

R. – Probabilmente perché accanto a questi che possono essere considerati interventi controversi, Erdogan - e in generale l’Akp - è comunque l’autore del boom economico del Paese. Va detto che sono stati introdotti importanti e significativi miglioramenti al funzionamento del sistema sanitario nazionale e anche tutta una serie di altre infrastrutture. Questo governo è anche il governo, comunque, dell’apertura alle minoranze. Non ci dimentichiamo che la Turchia continua ad essere un Paese in crescita, anche in un tempo di crisi così evidente.

D. – Che Paese allora è oggi la Turchia?

R. – Sicuramente è un Paese fortemente diverso da quello che la Akp ha preso in mano, al momento delle prime elezioni. E’ un Paese ancora in espansione economica, un Paese che cresce. Insieme a questa crescita, però, ci sono una serie di situazioni che vanno messe in evidenza: i giovani incominciano ad assumere delle posizioni di chiara opposizione, l’abbiamo visto nei mesi scorsi - Gezi Park è un esempio -; la situazione dei social network; ed emerge in maniera crescente il ruolo delle donne. Quindi, è sicuramente una società molto più consapevole. Non è, però, semplice. La Turchia non è un Paese di facile lettura, è un Paese complesso, dalle molte sfumature, un Paese che deve risolvere il suo problema con le minoranze, perché molto è stato fatto, ma molto ancora si deve fare. Saranno elezioni molto complesse e molto interessanti.

D. – Che ruolo ha la Turchia in questo momento, nella regione, una regione attraversata da una serie di tensioni?

R. – La Turchia cerca da svariati anni di porsi come leader della regione, di diventare la vera e propria potenza regionale, in qualche modo guardando al Nord Africa e ponendosi come esempio. Comunque, però, si cerca di influenzare anche il Nord Africa. Nella situazione irachena, la Turchia ha questo difficile elemento di ponte, che sono i curdi dell’Anatolia sud orientale turca e della regione autonoma del Kurdistan del Nord in Iraq. E quindi c’è proprio un interesse a seguire con attenzione la vicenda e a guardarsi bene da quelle che sono le forze dell’Isis, perché il ritorno di questo califfato è contrario sicuramente a qualunque posizione turca.

D. – Quali sono, secondo lei, le sfide per il nuovo presidente della Turchia?

R. – Va detto che allo stato attuale la Turchia ha ancora una forma di governo parlamentare. Il ruolo del presidente, quindi, non è un ruolo estremamente centrale all’interno dell’architettura istituzionale. Sicuramente la figura del primo ministro ha una maggiore rilevanza. Certamente però se, come ci si aspetta, Erdogan sarà il vincitore di queste elezioni, la figura del presidente della Repubblica cambierà molto e assumerà di fatto delle competenze, degli incarichi e dei comportamenti che finora non abbiamo visto. Gul era molto più dotato, tutto sommato, della capacità di restare nell’alveo delle sue funzioni.

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In Italia in aumento la povertà sanitaria

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Allarme povertà sanitaria in Italia. Forte l’impegno della Fondazione Banco Farmaceutico. Antonio Elia Migliozzi ha intervistato Marco Malinverno direttore Generale del Banco Farmaceutico. 

R. – Innanzitutto, collaborando sempre più con un numero maggior di enti assistenziali perché, con l’aumento della povertà sanitaria, gli enti che precedentemente si occupavano prevalentemente di alimentazione, o di vestiario adesso di rendono conto che le persone hanno bisogno anche di farmaci, soprattutto farmaci da banco. Quindi, stanno aumentando il numero di enti, anche piccoli, che si rivolgono al Banco Farmaceutico; questo è il dato. Poi, in parte c’è la questione dei profughi e degli immigrati che transitano dal nostro Paese per andare verso altre zone dell’Europa ma che comunque si rivolgono ai centri assistenziali.

D. – Importante l’impegno della Fondazione Banco Farmaceutico nella lotta alla povertà sanitaria?

R. – Importante, com’è importante l’attività di tutti gli enti che, attraverso il contribuito di centinaia di migliaia di volontari, spesso anche professionisti, dopo la propria attività lavorativa, dedicano il loro tempo a questi organismi. Noi svolgiamo una funzione come ente secondario, il nostro supporto è di tipo sussidiario. Ovviamente, noi sosteniamo gli enti assistenziali e cerchiamo di farlo recuperando farmaci attraverso modalità diverse: la Giornata di Raccolta del Farmaci per l’automedicazione, che facciamo ogni anno, il secondo sabato di febbraio; ed il recupero dei farmaci che facciamo permanentemente ad esempio in città importanti come Roma, Milano e Torino; inoltre, adesso con questa attività di donazione da parte delle aziende.

D. – Gli italiani sono campioni di solidarietà: crescono del 60% le donazioni di medicinali. Come interpretare questo dato?

R. – Il dato è frutto di un’azione costante che sicuramente vede una disponibilità alla donazione da parte degli italiani che conferma un’attitudine quasi naturale. Però, c’è da dire che gran parte dei farmaci li stiamo recuperando soprattutto grazie al lavoro che stiamo facendo sulle aziende farmaceutiche. C’è un’importante notizia di qualche giorno fa: l’Aifa, Agenzia italiana del farmaco, coordinando un’attività insieme al Banco Farmaceutico nei confronti delle principali associazioni di categoria del farmaco – Farmindustria, Assogenerici, Assosalute – sta impostando un lavoro per riuscire a favorire il sistema delle donazioni attraverso modalità anche costanti, come il metodo di tracciatura della donazione del farmaco che favorisce la donazione. Quello che vorrei dire è che sarebbe interessante se il legislatore, il governo in primo luogo riuscissero a fare una legge sulla donazione dei farmaci che equiparasse l’ente assistenziale consumatore finale perché questo permetterebbe e favorirebbe un maggior flusso di donazioni.

D. – Il Banco Farmaceutico ha contribuito alla nascita di EuroMed. Di cosa si tratta?

R. – E’ una piattaforma europea: attraverso la collaborazione di altre associazioni ed organizzazioni incontrate nella nostra attività - International Health Partners associazione inglese ed Action Medeor associazione tedesca, che fanno già quell’attività di intervento per l’utilizzo delle donazioni di farmaci da parte delle aziende ed intervengono in situazioni di emergenza umanitarie e sanitarie anche a livello internazionale – abbiamo deciso di organizzare un sistema per un rapporto con i quartieri generali delle aziende farmaceutiche soprattutto delle grandi multinazionali che buttano via molti farmaci perché magari hanno difetti di confezionamento, o problemi banali che non hanno nulla a che vedere con la validità del farmaco ma che non possono essere inseriti nel circuito commerciale. Sono farmaci buoni, donabili attraverso un sistema di tracciabilità per interventi appunto di emergenze umanitarie e sanitarie. 

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A Milano oratori aperti per accogliere migranti

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Oratori aperti per accogliere i migranti. Succede nella parrocchia dell’Annunciazione a Milano, dove il parroco don Maurizio Lucchina e don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità, hanno messo a disposizione gli spazi della chiesa per prestare soccorso a centinaia di persone. Tra di loro anche palestinesi scappati da Gaza. Maria Gabriella Lanza ha intervistato don Virginio Colmegna della Casa della Carità: 

R. – A Milano c’è un’emergenza che - continuo a dire - è strutturale, nel senso che ogni giorno arrivano profughi dalla Siria, dall’Etiopia, dall’Eritrea. E allora, con la parrocchia di una zona di periferia di Milano, abbiamo creato un gruppo di operatori, ed è nato un servizio che aiuta la mensa, un servizio per i vestiti e un accompagnamento legale. E’ nata un’esperienza che, però, ha coinvolto davvero la comunità parrocchiale, pur trovandoci nel mese estivo di agosto, con tutte le difficoltà.

D. – In questi giorni sono arrivati anche palestinesi...

R. – Comincia ad arrivare qualcuno da Gaza. Moltissimi di questi, però, si dicono siriani, anche se vivono nel campo profughi. Appartenevano, infatti, alla prima ondata di palestinesi, che avevano creato questo campo profughi in Siria, quando la Siria era un Paese accogliente per loro.

D. – Tanti i volontari che prestano il loro tempo a favore dei migranti, e tra di loro ci sono anche detenuti...

R. – Certamente noi abbiamo una grande conoscenza di volontari, con un’esperienza carceraria ancora in corso, che prevalentemente vengono dal carcere di Bollate. La gestione della pena come servizio agli altri fa intravedere anche la questione del risarcimento e fa crescere quella dimensione di speranza, fa rivivere in termini sociali quella che Papa Francesco chiama sempre la ricchezza della misericordia.

D. – Di che cosa hanno bisogno i migranti che accogliete nell’oratorio della parrocchia?

R. – La crema per le ustioni che hanno sul viso è la prima cosa che chiedono, al di là del cibo. Poi, soprattutto di una doccia e di vestiti. Hanno vissuto e sono persone di grande dignità: erano professionisti del ceto medio di quella società. Il dramma della guerra li ha costretti a fuggire, li ha impoveriti totalmente, li ha impauriti, ma conservano una grande dignità culturale.

D. – Qual è la storia che personalmente l’ha colpita di più?

R. – Ho visto bambini che quando passano gli aerei – noi siamo vicini a Linate – si aggrappano a loro stessi. Hanno avvertito, infatti, quello che significano bombe e aerei. Ci sono bimbi che sono cresciuti senza un giorno di pace, e questo noi non riusciamo neanche ad immaginarlo.

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Nella Chiesa e nel mondo



Iran: cade aereo vicino Teheran. 39 morti

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Un aereo civile iraniano è caduto questa mattina vicino l’aeroporto Teheran per un guasto al motore. Morte almeno 39 persone. Il velivolo, della compagnia Taban Airlines, era da poco decollato dall’aeroporto Mehrabad per raggiungere la città di Tabass, nell’est del Paese. Lo schianto è avvenuto a meno di cinque chilometri dall’aeroporto, nel quartiere residenziale di Azadi, riservato all’esercito e ai loro famigliari. “L’aereo si è schiantato su degli alberi e non ci sono state vittime a terra”, ha dichiarato il capo dell’aviazione civile iraniana. L’apparecchio era un Iran-140 di tecnologia ucraina, usato spesso per i voli interni al Paese. (M.R.)

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Ebola: due nuovi casi in Nigeria. Per l'Oms possibile un vaccino entro il 2015

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Continua l’emergenza Ebola in Africa occidentale, dove il virus ha ucciso finora circa mille persone. Due nuovi casi sono stati accertati a Lagos in Nigeria, quarto Paese a essere colpito dall’epidemia dopo Guinea, Liberia e Sierra Leone. Migliaia i volontari, concentrati soprattutto nella città di Lagos. Smentita la chiusura delle frontiere della Guinea, dove ci saranno comunque misure restrittive e controlli al passaggio tra uno Stato e l’altro. E' rientrato a Madrid il missionario spagnolo 75enne infettato dal virus. Su di lui sarà utilizzato lo stesso vaccino sperimentale già usato in questi giorni su due missionari americani contagiati e che pare stia dando buoni risultati. All’arrivo di un vaccino vero e proprio potrebbero tuttavia mancare pochi mesi. Spiega il direttore del dipartimento di immunizzazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Jean-Marie Okwo Be’le’: “Il nostro obiettivo è di iniziare i test a settembre prima negli Usa, poi in un Paese africano. Verso fine anno potremmo avere i risultati, e trattandosi di un’urgenza si può pensare a delle procedure accelerate per averlo a disposizione entro il 2015”.

Intanto i vescovi del Ghana esortano le autorità a prendere tutte le misure di prevenzione necessarie per evitare che il contagio dell’ebola raggiunga il Paese. Com’è noto, finora l’epidemia ha colpito la Guinea, Liberia, la Sierra Leone e ora anche la Nigeria, causando quasi un migliaio di morti. I presuli sono preoccupati che il contagio possa arrivare attraverso i porti  in cui rientrano i pescatori ghanesi che sono stati nei Paesi colpiti. “Questo – si legge in una nota firmata dal presidente della Conferenza episcopale mons. Joseph Osei-Bonsu e ripresa dal National Catholic Reporter – pone un serio problema, non solo alle loro famiglie, ma a tutta la nazione”. Di qui l’invito alle autorità a fare sottoporre questi pescatori a speciali controlli medici prima del loro rientro a casa. La nota suggerisce, inoltre, l’allestimento di centri attrezzati nelle strutture sanitarie del Paese, con personale medico preparato per affrontare una eventuale emergenza. Per i vescovi ghanesi è inoltre urgente lanciare una vasta campagna di informazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla prevenzione, la trasmissione e le cure della malattia. Ad oggi non esistono vaccini e farmaci specifici per il virus, anche se un trattamento sperimentale sarebbe stato autorizzato negli Stati Uniti su due medici missionari americani colpiti in Africa. Nella nota i vescovi mettono infine in guardia anche dalla psicosi del contagio: “Non serve a nulla sospettare qualsiasi piccolo sintomo, servirebbe solo a creare confusione, terrore e panico” . (M.R. -L.Z.)

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Argentina: la Chiesa di Formosa contraria ad un impianto per l’uranio

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In Argentina, nella provincia di Formosa si è scatenata una forte polemica sull’insediamento di uno stabilimento per l’uranio, nel timore della possibile contaminazione che ne potrebbe derivare. Su questo progetto e sui temi legati alla tutela dell’ambiente il vescovo di Formosa, mons. Jose Conejero, ha presentato un documento intitolato “La vita in abbondanza”. “Non è lecito ipotecare la vita e la salute delle generazioni future del popolo di Formosa e nemmeno la sua ecologia a beneficio di quel che riteniamo un supposto progresso”, afferma mons. Conejero. “Con tante opere incompiute nella nostra Provincia – aggiunge il presule le cui parole sono state riprese dall’agenzia Sir - ci domandiamo il perché questa di iniziativa proprio adesso”. Il vescovo, esprimendo dubbi sulla prospettiva che un simile progetto possa essere considerato “al servizio vero dell’uomo, del bene comune e dei poveri” sottolinea che “la Chiesa incoraggia la speranza di un sano progresso con una buona qualità di vita, equa e socialmente inclusiva, puntando ad una Formosa libera dall’energia nucleare, come peraltro viene proclamato nella Costituzione della Provincia e nella legge 1060 su Politica ecologica e ambientale ”. (A.L.)

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Diocesi di Cassano all’Jonio: un diario sulla visita di Papa Francesco

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Vengo per chiedere scusa. La cifra spirituale della visita pastorale di Papa Francesco a Cassano all’Jonio diventa ora la traccia di un volume. Per ricordare, si legge nella nota della diocesi, “ma pure per continuare a testimoniare le sensazioni di una giornata storica che chiede d’essere incarnata e vissuta quotidianamente”. Il bollettino speciale sulla tappa cassanese del Papa è curato e distribuito dalla diocesi ionica. Realizzato su impulso del vescovo, mons. Nunzio Galantino, il diario è “una trama cucita attorno alle emozioni del 21 giugno ma che si dipana dall’annuncio della venuta del Pontefice, dato nella Cattedrale di Cassano il 29 marzo”. “Come fosse un film, il racconto si snoda poi sui sentieri seguiti dal cammino di preparazione, con l’incontro con don Luigi Ciotti e le tappe della missione diocesana a Saracena, Francavilla Marittima e Roseto Capo Spulico”.

“Spazio anche ai vari momenti della fase organizzativa, seguita e sostenuta in prima persona dalla diocesi, attraverso i suoi sacerdoti ed il mondo del volontariato, in collaborazione con il Comune e tutte le istituzioni, Prefettura in testa”. A completare il quadro, ricorda il Sir, i discorsi e l’omelia ufficiali del Pontefice, nonché i messaggi di saluto del vescovo e delle autorità, insieme a numerose foto messe a disposizione dall’Archivio dell’Osservatore Romano e da un gruppo di fotografi calabresi. In appendice, infine, la rassegna stampa dei fatti principali visti dalle principali testate giornalistiche italiane e calabresi e un dvd con i servizi realizzati dal Centro Televisivo Vaticano. Il volume, che si compone di più di 200 pagine a colori, potrà essere ritirato a partire dal 12 agosto. Per riceverlo, basterà prenotarlo e donare, se lo si vorrà e nella misura in cui si potrà, un contributo libero. Le richieste potranno essere indirizzate da subito via mail all’indirizzo segreteria@papafrancescoacassano.it (A.L.)

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Sinodo Chiese metodiste e valdesi: la missione in tempo di crisi

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La missione delle chiese nell’Italia e nell’Europa caratterizzate dalla crisi: sarà questo uno dei temi principali del Sinodo delle Chiese metodiste e valdesi, in programma dal 24 al 29 agosto a Torre Pellice, in provincia di Torino. L’agenda dei lavori – informa una nota – includerà anche “la formazione giovanile e l’inculturalità; l’essere chiesa insieme; l’ecumenismo, la libertà religiosa in Italia e l’otto per mille” che quest’anno ha registrato un aumento del 7 per cento a favore dei valdesi. Ampio spazio, poi, ai preparativi delle celebrazioni per il 500.mo anniversario della Riforma, che ricorrerà nel 2017.

“Come tutte le chiese cristiane in Europa – spiega il pastore Eugenio Bernardini, moderatore della Tavola valdese – anche l’unione delle chiese metodiste e valdesi deve affrontare la novità della testimonianza in un continente in cambiamento, che vede processi di secolarizzazione e di trasformazione culturale; un continente che oggi è in difficoltà e in crisi”. “Il ricambio generazionale e una cultura nuova, che sia interculturale – continua Bernardini – costituiscono il binomio che le chiese devono saper affrontare per rilanciare la propria missione in Italia e in Europa

L’apertura ufficiale dei lavori si terrà domenica 24 agosto alle 15.30, nel tempio di Torre Pellice; l’Assemblea si concluderà il venerdì successivo, con l’elezione del moderatore e di altre cariche amministrative. (I.P.)

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Stati Uniti. Il perdono di Dio, tema della Domenica del Catechista

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“Insegnare il dono del perdono di Dio”: sarà questo il tema della Domenica del catechista 2014 che la Conferenza episcopale degli Stati Uniti celebra il 21 settembre, terza domenica del mese. “Anche se ciascuno di noi si può considerare, attraverso il sacramento della penitenza, alla ricerca del perdono – spiega in una nota mons. David Ricken, presidente del Comitato episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi – sappiamo però che Dio è già al lavoro nei nostri cuori”. “Dio ci resta accanto anche nei percorsi secondari della nostra esistenza – continua il presule – intento a ripristinare ed a condividere con noi una vita di grazia, in comunione con Lui”.

Di qui, l’esortazione della Chiesa statunitense a guardare allo Spirito, perché esso “aiuta a discernere dove il peccato ci ha feriti e resi schiavi, così da creare in  noi penitenti la prontezza nell’abbracciare una vita di conversione, grazie al sacramento della confessione amministrato dal sacerdote”.

“Sia che vi confessiate regolarmente, sia che vi accostiate a questo sacramento per la prima volta – conclude mons. Ricken, rivolgendosi ai fedeli – possiate andare al confessionale con fiducia nella tenerezza dell’amore di Dio”. Un richiamo, quello alla tenerezza del Signore, molto ricorrente nel magistero di Papa Francesco, che spesso ricorda i fedeli che “Dio non si stanca di perdonare” e che i confessionali non devono essere “una sala di tortura” (EG n. 50).

Nelle edizioni precedenti, la Domenica del catechista si è soffermata su diversi temi: la Parola di Dio, il matrimonio, l’Eucaristia, la nuova evangelizzazione; in particolare, il tema del 2013 è stato: “Apri la porta della fede”, un richiamo a ‘Porta Fidei’, il Motu proprio con cui l’allora Papa Benedetto XVI indiceva l’Anno della fede, in occasione del  50.mo anniversario del Concilio Vaticano II. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 222

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.