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Sommario del 20/08/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Lutto, Francesco ringrazia: "Anche il Papa ha una famiglia"

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“Anche il Papa ha una famiglia”. Con queste parole Papa Francesco ha ringraziato al temine dell’udienza generale tutte le persone che in Aula Paolo VI gli hanno espresso le condoglianze per il lutto familiare patito ieri. In precedenza, la catechesi era stata interamente dedicata all’esperienza vissuta nel recente viaggio apostolico in Corea. Il servizio di Alessandro De Carolis

Gli amici si stringono con affetto all’amico che ha perso qualcuno che amava. Niente di meno è stata l’udienza generale. Come in una casa, solo di dimensioni più grandi, un unico abbraccio e un’unica espressione di condivisione del dolore, pur espressa in tante lingue, ha raggiunto Papa Francesco, che ieri ha appreso del gravissimo evento che ha in un istante annientato la famiglia di un suo giovane congiunto:

“Anche ringrazio voi, le preghiere, le condoglianze, per quello che è accaduto nella mia famiglia. Anche il Papa ha una famiglia e noi eravamo cinque fratelli, ho sedici nipoti e uno di questi nipoti ha avuto un incidente stradale: è morta la moglie, i due figli piccoli di due anni e pochi mesi l’altro, e lui in questo momento è in stato critico. Ma vi ringrazio tanto, tanto, delle condoglianze e della preghiera”.

Il grazie del Papa conclude un’udienza che, come da tradizione al rientro di un viaggio apostolico, rilegge incontri e sonda sentimenti che cominciano a sedimentarsi. Papa Francesco usa tre parole per riassumerli. Si comincia con la “memoria”, quella di chi, in Corea, ha avuto il dono un giorno di capire il senso del Vangelo dall’interno del cuore – non compreso grazie a un annuncio venuto dal di fuori – e da quel momento ha deciso che quel messaggio non doveva essere mai più dimenticato:

“In questa situazione, la Chiesa è custode della memoria e della speranza: è una famiglia spirituale in cui gli adulti trasmettono ai giovani la fiaccola della fede ricevuta dagli anziani; la memoria dei testimoni del passato diventa nuova testimonianza nel presente e speranza di futuro”.

La Corea è un Paese di “notevole e rapido sviluppo economico”, popolata da persone che sono “grandi lavoratori, disciplinati, ordinati”. Papa Francesco lo sottolinea assieme al fatto che la Corea è anche un popolo di martiri, come i 124 beatificati qualche giorno fa. La loro “testimonianza” – ecco la seconda parola – ha dato alla Chiesa coreana un’impronta che il tempo non cancella:

“I primi cristiani coreani si proposero come modello la comunità apostolica di Gerusalemme, praticando l’amore fraterno che supera ogni differenza sociale. Perciò ho incoraggiato i cristiani di oggi ad essere generosi nella condivisione con i più poveri e gli esclusi, secondo il Vangelo di Matteo al capitolo 25: ‘Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me’”.

“La storia della fede in Corea”, conclude Papa Francesco, è emblematica di un fatto importante per quanto riguarda l’evangelizzazione:

“Cristo non annulla le culture: Cristo non annulla le culture. Non sopprime il cammino dei popoli che attraverso i secoli e i millenni cercano la verità e praticano l’amore per Dio e il prossimo. Cristo non abolisce ciò che è buono, ma lo porta avanti, lo porta a compimento. Ciò che invece Cristo combatte e sconfigge è il maligno, che semina zizzania tra uomo e uomo, tra popolo e popolo; che genera esclusione a causa dell’idolatria del denaro; che semina il veleno del nulla nei cuori dei giovani”.

Ed è su questo che mette radici la terza parola, la “speranza”, quella che un popolo spezzato in due da troppo tempo ritorni ad abbracciarsi come due fratelli dovrebbero fare”:

“Con questa fede abbiamo pregato, e anche ora preghiamo affinché tutti i figli della terra coreana, che patiscono le conseguenze di guerre e divisioni, possano compiere un cammino di fraternità e di riconciliazione”.

Molti gli spunti regalati dai saluti rivolti da Papa Francesco ai gruppi in Aula dopo le sintesi della catechesi nelle varie lingue. Ad esempio, l’apprezzamento espresso con simpatia per una numerosa famiglia – padre, madre e sei figli – giunta in Vaticano dopo aver percorso la Via Francigena, da Avignone a Roma, a dorso d’asino. O per l’analogo “coraggio” mostrato da un gruppo di pellegrini giunti in canoa da Loreto.

Al momento dell’ingresso in Aula, quando la folla ai due lati del corridoio centrale lo ha inondato con tutto il suo calore, Papa Francesco ha incontrato dietro le transenne i calciatori della sua squadra del cuore, il San Lorenzo, fresca vincitrice della Coppa Libertadores, realtà definita alla fine dal Papa come “parte della mia identità culturale”. Da registrare anche il pensiero di augurio dedicato ai fedeli polacchi, specialmente ai giovani che stanno lavorando in vista della Gmg di Cracovia del 2016.

L’ultimo pensiero è per l’odierna memoria liturgica di San Bernardo, che il Papa accompagna con questo auspicio: “Il suo amore alla Madonna, definita Stella maris, ispiri la vita cristiana di ciascuno: impariamo a guardare e ad invocare Maria per non essere mai vinti dal peccato e poter vivere dei frutti della grazia donataci dal suo Figlio Gesù”.

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Rinuncia e nomina episcopale in Giappone

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In Giappone, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Osaka, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Leo Jun Ikenaga, della Compagnia di Gesù. Al suo posto, ha nominato arcivescovo di Osaka mons. Thomas Aquino Manyo Maeda, finora vescovo di Hiroshima.

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Mons. Tomasi: morte immigrati è tragedia europea, vincere indifferenza

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Prosegue il confronto tra Unione Europea e Italia sulla questione dell’immigrazione. La Commissione europea, rispondendo al ministro dell’Interno Alfano, ha sottolineato che non sono possibili nuovi aiuti al governo italiano per affrontare gli sbarchi. Intanto, il numero degli immigrati che perdono la vita nel Mediterraneo continua ad aumentare. Gabriele Beltrami ha intervistato a questo proposito mons. Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra:

R. - La luce rossa d’allarme del disfunzionamento nelle relazioni tra Paesi è anzitutto data dal numero delle vittime, gli emigrati che si trovano sepolti nel cimitero silenzioso che è diventato il Mediterraneo. Le stime che riportano come dal 2000 al 2013 circa 23,000 immigrati siano morti nel tentativo di raggiungere i punti di entrata in Europa: Grecia, Lampedusa, Canarie, Spagna, non possono lasciarci insensibili. La globalizzazione dell’indifferenza deve essere vinta davanti a questa tragedia europea. E non conosciamo le vittime anonime non contate dagli organismi di controllo e monitoraggio delle frontiere.  C’è il rischio di assuefarsi alle notizie di questi barconi che trascinano sottacqua individui e famiglie con bambini che avevano investito tutto per cercare una vita decente.  Mi pare che anzitutto si debba chiamare con il nome giusto queste persone che fuggono dalla violenza, dall’oppressione e da situazioni che mettono la loro vita in pericolo. Gran parte di loro sono rifugiati che hanno diritto di asilo, ad un’accoglienza che deve essere coordinata con l’Unione Europea. La solidarietà non può essere solo una teoria. Davanti poi all’evidenza della necessità di mano d’opera e di rafforzamento demografico che i paesi europei hanno per mantenere un’economia efficace e influenza politica, fare degli emigrati il capro espiatorio di frustrazioni sociali e strumentalizzarli per obiettivi elettorali diventa una strategia, un meccanismo poco onesto che favorisce la paura dell’altro e il pregiudizio. Il risultato è la riduzione dell’immigrato a persona di seconda classe. Ci si focalizza sulla funzione economica dell’immigrato senza dare priorità al fatto che è una persona con un volto, un sorriso, delle aspirazioni come ogni altro essere umano. La lettura sbagliata del fenomeno migrazioni porta a delle politiche amministrative che forzano le persone in cerca di rifugio a percorrere strade pericolose per raggiungere sopravvivenza e un minimo di benessere.

D. - Quali risposte la comunità internazionale deve mettere in atto al più presto?

R. - Il primo passo è l’applicazione coerente delle regole già concordate, il rispetto degli strumenti di protezione in vigore, per esempio, le convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e, anche per i paesi ricchi, l’accettazione della Convenzione Internazionale sulla Protezione dei Lavoratori Migranti e delle loro Famiglie approvata dalle Nazioni Unite nel 1990 ed entrata in vigore alcuni anni più tardi. Provvedere canali legali per l’arrivo di rifugiati e migranti indispensabili per l’economia dei paesi sviluppati e l’applicazione dei diritti umani sono misure che possono migliorare subito la governance delle migrazioni. Mi pare un passo nella direzione giusta la decisione dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati di affrontare il prossimo dicembre nel suo “Dialogo internazionale” la questione della protezione in mare. Il Mediterraneo però non è il solo luogo di tragedie di immigrazione. Il fenomeno è globale e tocca i ‘boat people’ che tentano di entrare in Australia, i latinoamericani che attraversano il deserto dell’Arizona, gli haitiani che si imbarcano verso la Florida. La risposta ai tentativi disperati di tante persone forzate a lasciare la loro terra non è un’ulteriore rafforzamento dei controlli o addirittura la militarizzazione dei confini, politiche che spingono i migranti a muoversi su cammini più pericolosi o ad affidarsi a mercanti di carne umana. Occorre invece attuare il Common European Asylum System, sostenere i Paesi sotto pressione per nuovi arrivi, formare funzionari sensibili alle motivazioni dei richiedenti asilo, punire seriamente i trafficanti di persone e simili misure. Già Leone XII scriveva nella sua Enciclica “Rerum Novarum” che nessuno lascerebbe la propria patria se potesse vivere lì dignitosamente. Permettere che di fatto possano realizzarsi l’accesso ai mercati, la creazione di posti lavoro, la stabilità politica, per i paesi da cui ora partono gli emigrati, rimane l’opzione migliore perché fa dell’emigrazione una libera scelta e non una costrizione per sopravvivere. 

D. - Cosa manca ancora per una gestione efficace del complesso sistema migratorio nel Mediterraneo?

R. - Le due sponde del Mediterraneo sono segnate da differenze demografiche, politiche e religiose notevoli. L’insicurezza causata dai cambiamenti politici e il numero di giovani che sono pronti ad entrare nel mercato del lavoro sosteranno di certo la continuità dei flussi migratori. Anche se il continente più ricco del mondo, l’Europa non potrà accogliere tutti. Dovrà andare alla radice della questione. Dovrà prendere misure più ragionevoli che permettano ai migranti di venire in Europa legalmente e in maniera ordinata, come accennavo sopra, perché ne ha bisogno. Proiezioni demografiche mostrano che per il 2060 la popolazione attiva dell’Unione Europea si ridurrà di più del 10% o di 50 milioni di persone, mentre il numero dei pensionati aumenterà da 84,6 milioni a 151,5 milioni.  Poi la cooperazione con l’Africa del Nord dovrà intensificarsi per aiutarla a sviluppare democrazia e pluralismo, lo stato di diritto, la libertà religiosa, un’economia stabile. Accoglienza e sviluppo procedono di pari passo e questo equilibrio facilita una governance efficace delle migrazioni nella regione del Mediterraneo.

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100 anni fa la morte di San Pio X, Papa pastore e riformatore

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Cento anni fa, moriva il Papa San Pio X. Culmine delle celebrazioni per ricordarlo sarà la Messa presieduta sabato prossimo dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, nel parco del Santuario delle Cendrole, a Riese, in provincia di Treviso. Qui nacque Giuseppe Sarto nel 1835 e sempre il cardinale Pietro Parolin – in un’intervista pubblicata dal settimanale della diocesi di Treviso e ripresa dall’Osservatore Romano – rileva le somiglianze soprattutto nello stile del servizio fra lo stesso Pio X e Papa Francesco. In particolare, il porporato evidenzia come la figura di Pio X non sia “più vincolata al solo problema del modernismo. E’ piuttosto sulla ventata "pastorale" da lui introdotta nella Chiesa del primo Novecento che si sta concentrando l’attenzione”. Condivide questa lettura Gianpaolo Romanato, professore di storia contemporanea all’Università di Padova e membro del Comitato pontificio di Scienze storiche. Lo ha intervistato Debora Donnini

R. – Ci sono molte affinità, anche di carattere biografico, fra Pio X e Papa Francesco: provengono entrambi da famiglie modeste, entrambi hanno uno stile pastorale molto simile ed entrambi hanno posto al centro del loro Pontificato la riforma della Chiesa.

D. – Infatti, Pio X riformò la Curia e questo non avveniva dal 1588...

R. – Sì, la Curia nasce dopo il Concilio di Trento, appunto, nel 1588. Pur con aggiustamenti, rimase invariata fino alla fine del potere temporale e toccò a Pio X, all’inizio del ‘900, ripensarla e riformarla. Successivamente, la Curia è stata ulteriormente riformata da Paolo VI e da Giovanni Paolo II, ma nelle linee portanti, in fondo anche oggi, è ancora quella ripensata da Pio X, con la riforma che varò nel 1908.

D. – A San Pio X stava anche molto a cuore l’evangelizzazione, la preparazione delle persone al cristianesimo. Tant’è vero che egli realizzò anche un "Catechismo" che è stato molto importante. Perché?

R. – L’evangelizzazione, la “catechizzazione” erano al centro della linea di governo e pastorale di Pio X. Non dimentichiamo che Pio X è l’unico Pontefice dei tempi moderni che è stato per molti anni parroco, per una ventina di anni: prima cappellano e poi parroco in piccole parrocchie di campagna. La pastoralità, quindi, e l’approccio diretto con la popolazione, la trasmissione del messaggio evangelico, erano anche dal punto di vista biografico al centro della sua attenzione. Divenuto Papa, allargò sul piano universale questa linea con le riforme liturgiche, quindi con le riforme della partecipazione dei fedeli al culto, con il varo del Catechismo e con la promozione del culto eucaristico. Sino a Pio X, l’Eucaristia era una pratica lontana, che si faceva raramente. Pio X, invece, promuove la comunione frequente e abbassa l’età minima per i bambini per l’accesso alla Comunione, proprio vedendo nell’Eucaristia uno strumento continuo di accostamento del fedele a Cristo.

D. – Quindi, San Pio X è stato un Papa riformatore?

R. – Io credo che al centro del Pontificato – gli studi più recenti sembra che mi diano ragione – c’è la riforma della Chiesa, la pastoralità, il rinnovamento della Curia romana e del rapporto dell’Istituzione ecclesiastica con i fedeli e della partecipazione dei fedeli. La riforma della Chiesa è, quindi, il "focus" del Pontificato.

D. – Pio X poi allentò in parte il "Non expedit" di Pio IX, e nella sua condanna del modernismo c’è anche la sua visione dei pericoli ideologici di esso...

R. – Pio X vide nel modernismo una minaccia grave per l’integrità della fede. Temette che attraverso le correnti moderniste si stesse insinuando un allentamento proprio del vincolo di fede dei fedeli. Accanto a questo, direi che ci fosse anche il suo distacco biografico dalla questione romana e la sua idea che si dovesse allentare la tensione con lo Stato italiano. Non a caso, gli anni di Pio X sono stati chiamati, a suo tempo, da Spadolini, gli anni della "conciliazione silenziosa". Di qui, l’attenuazione del "Non expedit" e l’elezione al parlamento dei primi parlamentari cattolici, con l’elezione del 1904 e poi con quelle successive.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Tra memoria e speranza: ai fedeli riuniti nell’aula Paolo VI per l’udienza generale Papa Francesco parla del significato del viaggio in Corea.

Tregua sfumata tra Israele e Hamas.

Una riscoperta imprevista: l’inchiesta, su “Le Monde”, di Francois Beguin e Laetitia Clavreul sulla sempre più apprezzata regolamentazione naturale della fertilità, con un commento di Lucetta Scaraffia dal titolo “I meriti della Chiesa (con un demerito)”.

Perché non possiamo non dirci ecumenici: Cristiana Dobner a proposito del libro di Brunetto Salvarani.

Rivoluzione Gentile: Antonio Paolucci spiega come nacque l’altro Rinascimento.

Un articolo di Andrea Possieri dal titolo “Uno scontro lungo quasi un secolo”: De Gasperi e Togliatti, due anniversari a confronto.

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Oggi in Primo Piano



Iraq: Francesco prega per le minoranze religiose perseguitate

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“Vi invito ad unirvi alla preghiera di tutta la Chiesa per quelle comunità dell’Asia che ho appena visitato, come anche per tutti i cristiani perseguitati nel mondo, particolarmente in Iraq, anche per quelle minoranze religiose non cristiane”: con queste parole, al termine dell'udienza generale, il Papa è tornato sulla guerra in Iraq e sul dolore della popolazione, cui oggi si aggiunge l’orrore per la decapitazione di un giornalista americano. Sul terreno proseguono i raid, mentre la Germania è decisa a fornire armi ai curdi. Il servizio di Cecilia Seppia: 

James Foley, 40 anni, "free lance" di Boston, è l’ennesima vittima dei jihadisti dello Stato Islamico, che dopo avergli messo addosso una divisa arancione, tipica dei prigionieri di Guantanamo e fattolo inginocchiare, lo hanno decapitato, riprendendo con una telecamera il gesto atroce e disumano che ha fatto subito in rete il giro del mondo. Il video dell’esecuzione si intitola "Messaggio all’America" e vuole essere una risposta al presidente Usa, Barack Obama, per i raid aerei degli ultimi giorni che hanno costretto i miliziani alla ritirata soprattutto da Mosul. Era un giornalista, Foley, ma era anche un cristiano, aveva studiato alla "Marquette University" dei Gesuiti e con loro era sempre rimasto in contatto: li informava dei suoi spostamenti in zone di guerra, delle missioni umanitarie a cui prendeva parte, ma soprattutto chiedeva preghiera. Quella preghiera, il Rosario in particolare, che come lui stesso scrive in una lettera, riportata oggi sul giornale dell’Ateneo, lo aveva salvato nei mesi di prigionia prima a Tripoli in Libia, poi in Siria dove era stato rapito dal 2012. Quattro minuti e 40 minuti di orrore in cui si vede anche un collega di Foley, Steven Joel Sotloff, strattonato da un miliziano dell'Isis che minaccia Obama, di prendere le giuste decisioni pena la morte imminente del reporter. L’intelligence Usa sta per ora verificando, ma le immagini non lascerebbero dubbi riaprendo lo scontro frontale tra Stati Uniti e terrorismo islamico. La madre di Foley su Facebook ha pubblicato un messaggio in cui dice di essere orgogliosa del figlio e del coraggio che ha dimostrato sacrificando la sua vita per mostrare al mondo la sofferenza di quei popoli, poi implora i sequestratori di risparmiare la vita degli altri ostaggi. La diplomazia internazionale intanto lavora per capire come intervenire: Berlino, pensa di armare i curdi, Parigi ha messo in agenda a settembre una Conferenza internazionale sull'Iraq per fronteggiare la minaccia jihadista. Da Baghdad, il premier italiano Matteo Renzi invoca la risposta dell’Europa e chiede una strategia chiara per uscire dalla situazione di violenza. L’Onu dal canto suo ha avviato una grande operazione di soccorso a mezzo milione di profughi in fuga. Non è mancato anche oggi, al termine dell'udienza generale l’accorato appello di Papa Francesco:

"Vi invito ad unirvi alla preghiera di tutta la Chiesa per quelle comunità dell’Asia che ho appena visitato, come anche per tutti i cristiani perseguitati nel mondo, particolarmente in Iraq, anche per quelle minoranze religiose non cristiane ma che anche loro sono perseguitate".

Sulla minaccia aperta e la sfida che lo  Stato Islamico ha voluto lanciare all'America, Cecilia Seppia ha chiesto un commento a Dennis Redmontgiornalista responsabile della comunicazione del Comitato Italia-Usa:

R. – Questa sfida con il mondo islamico è sempre esistita: non possiamo dimenticare gli eventi di New York del 2011 e del World Trade Center. Non possiamo dimenticare neanche la guerra contro i giornalisti, che sia in Pakistan o in altri Paesi: sono morti 70 giornalisti, in Siria, dall’inizio delle ostilità. Allo stesso modo, in questa guerra asimmetrica si utilizza la stampa che fa da cassa di risonanza per poter colpire l’opinione pubblica. Nel caso di Foley, era un giornalista molto esperto e dunque uno collegato con molti centri. Il gruppo Isis ha pensato che sarebbe stato spettacolare eseguire la sentenza mentre lui indossava una divisa che ricorda quelle dei prigionieri di Guantanamo.

 D. – Nel video, si vede anche il volto di un altro giornalista americano e un miliziano che dice: “La vita di questo cittadino, Obama, dipende dalle tue prossime decisioni”. Di che decisioni parliamo? Cioè, cosa sta chiedendo lo Stato islamico a Washington, all’America?

 R. – L’America adesso si prepara, forse, a ricalibrare tutta la sua politica in Medio Oriente, perché si rende conto che deve considerare la Regione come un tutt’uno e non come singoli Paesi. Peraltro, molti credono che nove-dieci Paesi del Medio Oriente sono forse destinati a disintegrarsi e a diventare piccoli principati o ducati nella guerra di uno contro l’altro, a seconda della religione. Nel caso dell’Isis, che è un gruppo sunnita estremista e terrorista, non corre buon sangue con gli sciiti e nemmeno con la Turchia e per questo la reazione dell’America certamente sarà una reazione ferma, continuando a difendere le minoranze che si trovano sotto attacco e soprattutto i locali strategici investimenti americani, che sia il petrolio o che siano anche basi americane avanzate che monitorano la situazione.

 D. – Ci sono state tante vittime di questa guerra, tanti giornalisti, ultimamente anche un reporter italiano. Foley era un cattolico, ex alunno dei Gesuiti, e la mamma ha detto: “Ha sacrificato la sua vita cercando di mostrare al mondo al sofferenza del popolo siriano”, perché – ricordiamolo – lui era stato rapito in Siria nel 2012. La madre di Foley ha implorato anche i sequestratori di risparmiare la vita degli altri ostaggi: quindi, a questo punto, è necessaria una riflessione sulle tante vittime,in particolare i giornalisti, che sono in primo piano in questa guerra...

 R. – Il problema della stampa è che sempre di più questi giornalisti diventano giornalisti "free lance", cioè che non sono dipendenti da agenzie o da testate, perché sarebbe troppo difficile, troppo pericoloso, troppo costoso assumerli in prima persona. Non hanno assicurazioni. Perciò, alcuni – come Foley – sono preparati, ma altri sono meno preparati. E poi, la prima domanda di qualsiasi guerriglia o terrorista, è: “Di che religione sei?”. In Europa, è un aspetto che noi non contempliamo, ma è molto importante, e questo perché la religione musulmana ritiene che quello sia l’aspetto principale. Perciò, una coincidenza veramente orribile.

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Gaza. Twal: difficile la pace senza soluzione giusta per tutti

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La crisi israelo-palestinese ripiomba in un aperto conflitto a Gaza. Da ieri non regge la tregua con il persistere dello stallo dei negoziati tra le parti mediati dall’Egitto. Al lancio di razzi dalla Striscia, Israele ha risposto con decine di raid aerei. Diverse le vittime palestinesi. Marco Guerra: 

Da ieri pomeriggio, dopo la violazione della tregua da parte di Hamas, sono stati lanciati oltre  80 razzi verso Israele; uno ha colpito una casa ad Ashkelon, nel sud, senza provocare vittime. La risposta dello Stato Ebraico non si è fatta attendere con i bombardamenti dell’aviazione che hanno colpito l’abitazione di Mohammed Dief, un noto comandante di Hamas, uccidendo sua moglie e una sua figlia. Un numero non precisato di miliziani palestinesi è stato poi ucciso in raid aerei mirati. Alle 14 ora locale è stata convocata una riunione del gabinetto di sicurezza israeliano. Il ministro della Giustizia, Tzipi Livni, ha ribadito la sua contrarietà a negoziare con Hamas. E mentre il presidente dell’Anp Abbas è volato in Qatar proprio per incontrare il leader del movimento che controlla la Striscia, Khaled Meshaal, arriva un forte appello a tornare al tavolo della mediazione dall’Egitto che aveva guidato i negoziati dei giorni scorsi. I veti incrociati che bloccano le trattative restano la fine dell’isolamento di Gaza, chiesta dai palestinesi, e la smilitarizzazione della Striscia, pretesa da Israele.

Sulla rottura della tregua e la ripresa delle ostilità, sentiamo il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal: 

R. - Avevamo speranza, però nella speranza c’era anche questa paura interiore che le cose non sarebbero andate bene perché da anni manca una buona volontà politica per arrivare ad una soluzione finale giusta per tutti. Questa soluzione non è arrivata e altri non volevano la tregua, volevano una soluzione! A cosa serve una tregua se le condizioni che portano alla violenza rimangono le stesse? Condizioni che creano persone disperate, frustrate, estremiste e arrabbiate! No! Dobbiamo fare ben altro per creare una vita normale: ci vuole tutta una cultura, una mentalità nuova e una forza internazionale che possa prendere il posto di Israele per rompere questo muro intorno alla città. Noi pensiamo che se ci fosse una vita normale, se fuori ci fossero le strade, se ci fosse un aeroporto per viaggiare, se ci fosse il porto, se le strade fossero aperte fuori, dentro, con Israele, con l’Egitto, con la Giordania e la gente facesse commercio, vivesse, vendesse, si muovesse, studiasse, andasse all’ospedale e all’università, non avremmo degli estremisti frustati e disperati.

D. - Qual è la situazione della piccola comunità cristiana a Gaza?

R. - Questa zona non è stata toccata. Il compendio con la scuola e il convento, hanno aperto le porte ad alcune centinaia di persone - musulmani e cristiani - che vivono lì dentro ora, ma non è stato toccato nulla. È bello che la Chiesa sia aperta a tutti coloro che hanno bisogno, musulmani, cristiani ... La nostra carità qui corrisponde alla vostra solidarietà da fuori.

D. - Il Papa, anche nel suo viaggio in Corea nei giorni scorsi, è tornato molto sulla situazione in Medio Oriente e Gaza. Si sente questa vicinanza del Papa?

R. - Si sente, per noi è un padre, e noi ringraziamo il Santo Padre, gli siamo grati; abbiamo un ricordo molto positivo del suo passaggio qui, della sua sosta al muro, un’immagine che ha fatto il giro del modo. Credo che la gente qui non abbia dimenticato questa sua sosta sul muro di separazione, che significa tutto.

D. - I due popoli, comunque, vogliono la pace. Diciamo che sono un po’ esausti di queste violenze, non sopportano più la guerra …

R. - Assolutamente sì! Immagini qui la nostra Caritas sta raccogliendo aiuti da tutto il mondo: sono state due o tre organizzazioni israeliane che hanno partecipato a questi aiuti materiali da mandare a Gaza. Certamente, non manca la buon volontà a condannare un certo tipo di politica.

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Cresce la protesta antigovernativa in Pakistan

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Cresce la protesta antigovernativa in Pakistan. Anche oggi migliaia di manifestanti, guidati da i due principali leader dell’opposizione, hanno marciato a Islamabad fino alla sede del parlamento, scandendo slogan e chiedendo le dimissioni del premier Nawaz Sharif. I militari esortano i dimostranti al dialogo, ma c’è il rischio che la situazione possa invece esplodere sulla falsariga di altri scenari purtroppo noti. Sui motivi di questa protesta, Giancarlo La Vella ha intervistato il collega Stefano Vecchia, esperto di Asia: 

R. – La protesta è cresciuta ed è guidata soprattutto dai movimenti islamisti, in parte radicali, in parte moderati, contro l’immobilismo del governo. Ma anche contro la linea dura del governo verso i movimenti talebani jihadisti nelle aree tribali, in parte con il sostegno degli Stati Uniti. Diciamo che c’è una serie di concause che nascono dai problemi irrisolti di questo Paese. Teniamo presente che il Paese è piegato dalla povertà, dall’incertezza, e rappresenta una delle poche eccezioni in un’Asia che invece continua ad essere in forte crescita.

D. – C’è rischio che anche il Pakistan diventi un’area calda al pari di quanto stiamo vedendo in Iraq, in Siria e in altre zone?

R. – Il rischio è presente ed è associato anche alla relativa instabilità afghana in questo anno di transizione. L’elemento radicale musulmano è un forte elemento di coesione del malcontento. Tutto dipenderà molto dalla posizione e dagli interventi del governo. La linea dura, in questo momento, potrebbe pagare soltanto però se sostenuta dalla popolazione. E’ dunque un braccio di ferro quello in corso a Islamabad e le prospettive sono assolutamente incerte. Molto dipenderà anche da come i leader dell’opposizione, che stanno guidando la protesta, indirizzeranno i movimenti nei prossimi giorni.

D. – Quanto la comunità internazionale è preoccupata che il Pakistan diventi un Paese instabile?

R. – Nonostante l’interesse della comunità internazionale sia in questo momento puntato molto sul Medio Oriente e sull’Est europeo, chiaramente la situazione in Pakistan è tenuta sotto grande attenzione. Il Pakistan è un Paese "cerniera" tra il mondo mediorientale e il mondo asiatico. I contrasti permanenti con la vicina India ne fanno anche un Paese coinvolto potenzialmente in un conflitto di gravi dimensioni. Solo due giorni fa, sono stati interrotti i colloqui tra Nuova Delhi e Islamabad sul Kashmir, una zona contesa fin dall’indipendenza dei due Paesi, dove sono in azione da decenni movimenti armati di ispirazione islamista e che resta una miccia accesa nei rapporti non solo tra i due Paesi, poiché, una volta esplosa la situazione, coinvolgerebbe inevitabilmente anche i Paesi vicini. Tra l’altro, un conflitto riguarderebbe due potenze nucleari, quali sono appunto l’India e il Pakistan.

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Nella Chiesa e nel mondo



Pakistan. Leader cristiani: su Iraq comunità internazionale si svegli

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La condanna delle violenze e della massiccia migrazione dei cristiani iracheni e un appello alla comunità internazionale per garantire sicurezza a tutte le minoranze religiose in Iraq. E' quanto chiedono leader cristiani pakistani riunitisi a Lahore nei giorni scorsi in un incontro interconfessionale dedicato, in modo speciale, alla drammatica situazione dell’Iraq. Come appreso da Fides, erano presenti leader cristiani di diverse confessioni. Tutti hanno concordato nel ricordare che i cristiani sono in Iraq fina sono dal primo secolo dopo Cristo e che lì gli Apostoli Tommaso e Taddeo hanno predicato la fede in Cristo: dunque, essi hanno il diritto di abitare quella terra quanto tutti gli altri, musulmani o di altre religioni.

Il rev. Shahhid Meraj, della Chiesa del Pakistan (comunità anglicana), decano della Cattedrale di Lahore, ha chiesto al governo del Pakistan di condannare ufficialmente l'uccisione dei cristiani iracheni e delle altre minoranze, contribuendo a garantire la fine della crudeltà. “La comunità internazionale deve svegliarsi e tutelare il diritto di ogni essere umano a vivere secondo le proprie convinzioni”, ha detto. La Chiesa del Pakistan in questo periodo ha pregato per le minoranze religiose in Iraq, per il popolo della Palestina e Kashmir e per quanti soffrono in Pakistan. Il cattolico p. Inayat Bernard, rettore del Seminario di S. Maria a Lahore, ha ringraziato Papa Francesco, che ha mostrato la sua preoccupazione verso i cristiani e tutte le altre minoranze religiose in Iraq, chiedendo al segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, di promuovere una un'azione in sede Onu. Preghiere speciali sono state elevate per la giustizia in Pakistan e per la libertà di ogni individuo di professare la propria fede.

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Ferguson. L’arcivescovo di St. Louis celebra Messa per la pace

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Ancora scontri e tensioni a Ferguson, nello Stato americano del Missouri, dove la folla si è riunita per protestare contro l’uccisione avvenuta il 9 agosto di Michael Brown, ragazzo di colore disarmato, da parte di un agente della polizia locale. Nella notte, ha riferito la polizia locale, sono state arrestate 47 persone e sono state sequestrate tre pistole cariche.

Di fronte a tale scenario, mons. Robert Carlson, arcivescovo di Saint Louis, a pochi chilometri da Ferguson, ha deciso di presiedere oggi alle 17.00 (ora locale) una Messa per la pace e la giustizia nella Cattedrale della città. “Siamo tutti colpiti dalla tragedia che sta sperimentando la comunità locale – spiega il presule, in una lettera aperta ai fedeli – Come discepoli di Cristo, dobbiamo trovare la giusta direzione nel caos attuale”. Nei giorni scorsi, il presule ha visitato Ferguson e ha pregato sulla tomba di Michael Brown: “In ogni circostanza – sottolinea – ma specialmente in quelle più difficili, siamo tutti chiamati ad essere strumenti di pace, con le parole e le azioni, affinché, come ha detto Papa Francesco, una catena di impegno per la pace unisca tutti gli uomini e le donne di buona volontà" (Angelus, 1 settembre 2013).

La colletta della Messa per la pace e la giustizia verrà devoluta alle parrocchie di Ferguson che si stanno mobilitando per aiutare le vittime degli scontri, inclusi i commercianti che hanno visto i propri negozi devastati e saccheggiati dai manifestanti. Infine, mons. Carlson esorta le scuole cattoliche a recitare il Santo Rosario all’inizio delle lezioni e ad offrire intenzioni di preghiera per la pace durante le celebrazioni quotidiane. (I.P.)

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Messico. Il vescovo di Saltillo: in aumento migranti vittime della tratta

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“Il traffico di esseri umani è la schiavitù moderna che colpisce soprattutto donne e bambini" ha affermato mons. Raúl Vera López, vescovo di Saltillo (Coahuila, Messico), che ha denunciato come il numero delle persone oggetto di traffico e sfruttamento è in aumento mentre le autorità fanno poco al riguardo. "I migranti sono il settore che soffre di più la tratta di persone a Coahuila, è la parte della popolazione completamente priva di protezione", ha sottolineato mons. Raúl Vera López.

Il presule ha osservato che il problema della tratta deriva dalla migrazione forzata di coloro (soprattutto cittadini degli Stati centro-americani) che cercano un futuro migliore negli Stati Uniti, sfidando i rischi derivanti dalla bande criminali che approfittano della loro condizione. "Coloro che sono di passaggio sono le prime vittime dal crimine organizzato - ha ribadito il vescovo - c'è chi estorce soldi, chi li costringe a commettere attività illecite, e si giunge perfino a l'impedire loro di attraversare la frontiera". Mons. Vera, riferisce la nota inviata a Fides, vuole in questo modo incoraggiare i migranti a denunciare questi fatti, perché ancora oggi, per paura di rappresaglie sono pochissimi a farlo.

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India. Il presidente dei vescovi incontra il neo-premier Modi

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Il cardinale Baselios Cleemis Thottunkal, presidente della Conferenza episcopale indiana (Cbci), è stato ricevuto nei giorni scorsi dal nuovo primo ministro del Paese, Narendra Modi. Una visita di cortesia richiesta dallo stesso arcivescovo maggiore di Trivandrum dei siro-malakaresi per esprimere personalmente le felicitazioni dell’Episcopato per la sua elezione. In una nota diffusa al termine di una riunione nei giorni scorsi del Comitato permanente dei vescovi, la Cbci aveva espresso l'apprezzamento della Chiesa cattolica per l'impegno del nuovo governo, guidato dai nazionalisti indù, per condurre la Nazione a traguardi di pace e prosperità per tutti.

Allo stesso tempo, nella nota i presuli hanno espresso anche qualche preoccupazione per nuovi episodi di violenza e discriminazione contro i cristiani avvenuti ancora di recente in alcune aree del Paese. Ad inquietare i vescovi anche alcune dichiarazioni fatte da alcuni esponenti del governo e della magistratura circa l’intenzione di favorire la religione induista, maggioritaria nel Paese. (L.Z.) 

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Canada: “Sviluppo e pace” in visita di solidarietà nelle Filippine

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Incoraggiare la popolazione filippina e fare il punto sulla ricostruzione del Paese, devastato nel novembre 2013 dal tifone Hayan. Con questi obiettivi, una delegazione di “Sviluppo e pace” – l’organismo della Chiesa cattolica canadese dedicato a progetti di carità e solidarietà – si trova in questi giorni nelle Filippine. Fino al 25 agosto, gli esponenti della Chiesa del Canada, tra cui mons. Michael Miller, arcivescovo di Vancouver, attraverseranno la regione di Visayas, al centro del Paese, una delle zone più colpite dal tifone.

Numerosi gli incontri previsti, sia con la Caritas filippina, presieduta da mons. Broderick Pabillo, che con i vescovi locali, tra cui il presidente della Conferenza episcopale, mons. Socrates Villegas, e con l’arcivescovo di Manila, card. Louis Antonio Tagle. Dopo aver raccolto più di 13 milioni di dollari canadesi destinati agli aiuti umanitari più urgenti, ora “Sviluppo e pace” ha messo in atto un programma triennale di ricostruzione per aiutare la collettività filippina a restaurare le infrastrutture, rilanciando al contempo l’economia locale e aiutando la popolazione a sviluppare una migliore resistenza ad eventuali cataclismi futuri.

“Siamo felici di essere presenti nelle Filippine – dice Michael Casey, direttore generale di “Sviluppo e pace” – e di vedere il coraggio e la forza della collettività locale, colpita da un terribile disastro”. Quindi, Casey ringrazia “la generosità e la solidarietà dei cattolici canadesi e di tutti i donatori”, grazie ai quali la Chiesa di Ottawa ha potuto portare agli sfollati gli aiuti necessari. (I.P.)

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La Chiesa del Brasile pubblica una guida per le elezioni politiche del 5 ottobre

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In vista delle elezioni politiche in Brasile, il 5 ottobre prossimo, la Chiesa brasiliana ha deciso di pubblicare una speciale guida per preparare i cristiani a questo importante appuntamento elettorale, in cui i cittadini dovranno scegliere il nuovo presidente, 27 governatori federali oltre ai deputati e senatori federali e statali. Un voto che – nonostante la presidente uscente, Dilma Roussef, sia data ancora favorita nei sondaggi – è tutt’altro che scontato anche a causa delle difficoltà economiche e delle tensioni sociali che hanno segnato il Paese in questi ultimi mesi.

Preparato con il contributo di diverse Università cattoliche e organismi legati alla Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb) – tra i quali il Centro nazionale Fede e Politica "Dom Helder Câmara" (Cefep) – il manuale è stato inviato a tutti i vescovi perché ne diano la massima diffusione tra i fedeli ed è ora in vendita on line sul sito www.cpp.com.br . “Il vostro voto ha delle conseguenze: un nuovo mondo, una nuova società” è il titolo della guida, a sottolineare l’importanza di una partecipazione consapevole e responsabile al voto per il futuro del Brasile. In particolare, spiega la didascalia, i fedeli vendono invitati a compiere tre passi: vedere, ossia informarsi sull’attuale realtà politica e socioeconomica del Paese e sulle proposte dei candidati. Quindi, valutare i programmi alla luce della Parola di Dio e del Magistero di Papa Francesco, infine mobilitare tutti i brasiliani perché possano agire insieme partecipando al controllo dell’operato dei poteri dello Stato. (L.Z.)

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Sud Sudan. I vescovi: la chiusura di Radio Bakhita si poteva evitare

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Un fatto “spiacevole”: così i vescovi sudanesi commentano la chiusura imposta il 16 agosto dalle autorità sud-sudanesi a Radio Bakhita, la principale emittente cattolica del Sud Sudan. La radio dell’arcidiocesi di Juba è stata chiusa dopo aver dato notizia di scontri il 15 agosto tra le truppe governative fedeli al presidente Salva Kiir e quelle dell’opposizione legata all’ex vice presidente Riek Machar.

Il segretario generale della Conferenza episcopale del Sudan (SCBC), padre Jacob Odwa, ha dichiarato ieri all’agenzia cattolica CRN che la Chiesa locale si sta attivando presso le autorità sud-sudanesi per risolvere il caso, osservando che la chiusura e l’arresto avrebbero potuto essere evitati se si fosse aperto un tavolo di discussione.

Radio Bakhita non è l’unica emittente ad avere avuto problemi con le autorità di Juba. Da quando, a dicembre, è scoppiata la grave crisi che ha messo in ginocchio il Paese, indipendente da appena tre anni, diversi media locali sono stati costretti alla chiusura o hanno subito pesanti pressioni dal servizio di sicurezza sud sudanese. Gli accordi di pace siglati lo scorso giugno tra il governo e i ribelli fedeli a Riek Machar non sono stati applicati dalle parti: in particolare non è ancora stato costituito il governo di unità nazionale. (L.Z.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 232

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.