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Sommario del 21/08/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco riceve Filoni. Il porporato: cintura di sicurezza per sfollati

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Papa Francesco ha incontrato stamani il cardinale Fernando Filoni, rientrato ieri a Roma dopo la sua missione in Iraq quale suo inviato personale. Il porporato è rimasto oltre una settimana nel Paese per portare la solidarietà concreta del Papa agli sfollati iracheni, cacciati dalle loro case dalla violenza jihadista. Sull'incontro con il Papa, ascoltiamo lo stesso cardinale Filoni al microfono di Sergio Centofanti

R. - È stato molto bello perché il Papa ha voluto subito accogliermi appena ritornato - questo mostra la sua sensibilità - per conoscere direttamente da me ciò che ho visto e ciò che ho sentito dopo aver visitato i nostri cristiani, gli yazidi, in questa settimana che sono stato in Iraq. Quindi era molto attento. Il Papa ha preferito l’ascolto; mi ha lasciato parlare ampiamente e ovviamente ha preso a cuore tutte le situazioni di cui gli ho parlato: le attese dei nostri cristiani, le preoccupazioni e quelle che sono un po’ le linee della Chiesa. Ha appreso con piacere le linee che sono state adottate da parte della Chiesa locale. Posso dire che l’incontro è stato bello; il Santo Padre era molto attento e partecipe di quello che gli ho detto.

D. - C’è stata qualche parola del Papa che l’ha colpita in particolare?

R. - Come dico, il Santo Padre era molto preso da quanto gli dicevo e ha preferito l’ascolto.

D. - Lei è stato tra queste minoranze, tra i cristiani e anche tra gli yazidi. Il problema oggi è come aiutare questi sfollati, come fermare l’aggressore…

R. – Intanto, credo che ormai tutti siano consapevoli dell’urgenza immediata di sistemare queste famiglie sfollate. Credo che ormai tutti abbiano potuto vedere la situazione in cui vivono: dovunque c’è un prato, una stanza, un luogo messo a loro disposizione, questo è stato occupato; tutto questo tenendo naturalmente presente che durante il periodo più caldo di tutto l’anno - con 47-48 gradi - i ripari, la necessità di avere acqua, la necessità di lavarsi, di stare un po’ all’ombra … sono cose da tenere assolutamente in modo immediato per favorire questa gente, soprattutto bambini, anziani, ammalati … Favorire questa gente, offrire loro un riparo. Poi, dopo di questo, tutti giustamente si domandano quanto durerà questa situazione, cosa ci aspetta. E su questo ovviamente abbiamo le speranze, ma poi dobbiamo vedere nella realtà. Certo, i nostri cristiani, tantissimi dei quali desiderano ritornare, aspirano a vedere però che i villaggi - ritornando - abbiano una cintura di sicurezza - chiedono che sia possibilmente internazionale - che garantisca loro la ripresa di una vita normale.

D. - Ora la crisi irachena sembra giunta ad una svolta, dopo la barbara uccisione del giornalista americano che ha destato l’orrore un po’ di tutto il modo. Lei come vede la situazione?

R. - Rimango un po’ con i piedi per terra, perché fino a quando i villaggi sono occupati, la gente non riprende la fiducia, non comincia a ritornare, a riprendere le proprie case, le proprie cose e attività, possiamo fare solo supposizioni. Quindi se c’è un inizio speriamo che si concretizzi; speriamo che questa certezza ritorni e che questa cintura di sicurezza venga loro garantita. Solo allora la questione sarà effettivamente a buon punto.

D. - La sua missione è stata una missione delicata, difficile, anche faticosa. Un bilancio di questo viaggio …

R. - Direi che la mia missione è stata soprattutto e prima di tutto - per non dire esclusivamente - di tipo umanitario. Quindi, da questo punto di vista, non ci sono state questioni politiche o di altro genere che rientravano nell’ambito della mia missione. Sono contento di aver potuto fare questa missione umanitaria, perché per me è stato un ritorno in questa terra che conosco e che amo da tanto tempo, rivedere ancora tante persone che sono impegnate in attività di aiuto,  e poi dare anche una parola di speranza, di fiducia, di incoraggiamento. Loro avevano bisogno di farsi sentire. Quindi ascoltarli è stato molto utile per conoscere le loro aspirazioni; ma è stato utile anche perché per loro è stato come uno sfogo: “Chi ascolta le nostre preoccupazioni? Chi le sente?”. Quindi poi poterle riportare, poterle divulgare, farle conoscere, diventa anche un modo per dire a questi nostri fratelli e sorelle: “Non è che voi non siete ascoltati, siete sempre all’apice delle nostre attenzioni”. Per me è stato poi un momento molto bello anche spiritualmente, perché essere accanto alla sofferenza di tanti fratelli e sorelle aiuta a non vedere questi problemi da lontano come delle cose che non ci riguardano, e quindi ad esserne partecipi. Devo dire che in questo sono stato ricambiato con tanto affetto, con tanta generosità, con il sorriso di tanti bambini, con la gentilezza di tanti uomini e donne che venivano a farsi accarezzare, che volevano baciare la mano, l’anello, ricevere una benedizione, chiedere una preghiera … Questo è stato molto bello ed emozionante.

D. - Si parla di 120-130 mila sfollati. Noi parliamo di cifre, lei ha visto dei volti …

R. - Le immagini certamente più vive sono quelle relative alle persone che hanno perso tutto, ma direi ancora di più: chi ha perso tutto, ma ha avuto salva la vita e comunque non ha avuto danni rispetto a parenti ed amici è già - si può dire - una fortuna. Ma quando si incontrano uomini, donne, bambini, anziani soprattutto insieme a bambini, ad alcune donne che hanno avuto delle vittime - parlo in modo particolare della comunità degli yazidi, dove uomini sono stati uccisi, e donne sono state rapite, violate, vendute - questo naturalmente è angosciante. I loro volti erano quelli di gente che guardano nel vuoto, dispersi in un futuro che non ha un modo di essere comprensibile. Pensiamo, ad esempio, che una donna in Medio Oriente ha sempre bisogno della presenza di un uomo - di un papà, di un fratello, di uno sposo - che sia quasi la garanzia della sua vita secondo la cultura. Ora, chi non ha più una persona - un uomo - che possa curarsi di lei, quale sarà il suo futuro? Non è come in Occidente, dove una donna può anche costruirsi una vita con le proprie capacità e con la propria forza. Quindi questo diventa molto, molto penoso; lo sguardo di queste donne sedute, accasciate, prive di espressione, era molto impressionante.

D. - A questo punto, quali sono le sue speranze concrete?

R. - Le mie speranze concrete le condivido con quelle di questa gente. Se noi riusciamo a dare loro una sicurezza per ritornare, questa speranza è anche la mia.

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Francesco: vergognoso chi rende schiavo un essere umano

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“La schiavitù è una terribile ferita aperta nel corpo della società contemporanea, è una piaga gravissima nella carne di Cristo!”. Lo afferma il Pontificio Consiglio Giustizia e pace nel comunicato col quale presenta il titolo del Messaggio di Papa Francesco per la 48.ma Giornata mondiale della pace, del primo gennaio 2015: “Non più schiavi, ma fratelli”. I particolari nel servizio di Alessandro De Carolis

Uomini e donne di pelle nera in catene sulle navi o chini al lavoro in piantagioni sterminate. È molto difficile che la parola “schiavo” ancora oggi evochi d’istinto un’immagine diversa da quelle antiche illustrazioni, in fondo più folkloristiche che drammatiche, da libro di storia scolastico. E invece la parola “schiavo” è ancora oggi una porta aperta su una galleria di orrori. Il Pontificio Consiglio Giustizia e Pace li elenca, perché – esclama – sono “una piaga gravissima nella carne di Cristo”: traffico di esseri umani, tratta dei migranti e della prostituzione, lavoro-schiavo, sfruttamento dell’uomo sull’uomo, mentalità schiavista nei confronti delle donne e dei bambini. Una catena di infamie sulla quale – soggiunge il dicastero vaticano – “speculano vergognosamente individui e gruppi, approfittando dei tanti conflitti in atto nel mondo, del contesto di crisi economica e della corruzione”.

Papa Francesco, sensibilissimo al tema, ne fa oggetto di riflessione nel prossimo Messaggio del primo gennaio, poiché – spiega il Pontificio Consiglio – la schiavitù “colpisce a morte” la fraternità universale “e, quindi, la pace”. La pace, si legge nel comunicato, “c’è quando l’essere umano riconosce nell’altro un fratello che ha pari dignità” e dunque il titolo del Messaggio che afferma “Non più schiavi, ma fratelli”.

Per contrastare “efficacemente” la schiavitù in tutte le sue forme, scrive il dicastero pontificio, “occorre innanzitutto riconoscere l’inviolabile dignità di ogni persona umana, e inoltre tenere fermo il riferimento alla fraternità, che richiede il superamento della diseguaglianza, in base alla quale un uomo può rendere schiavo un altro uomo, e il conseguente impegno di prossimità e gratuità per un cammino di liberazione e inclusione per tutti”.

L’obiettivo, conclude, “è la costruzione di una civiltà fondata sulla pari dignità di tutti gli esseri umani, senza discriminazione alcuna. Per questo, occorre anche l’impegno dell’informazione, dell’educazione, della cultura per una società rinnovata e improntata alla libertà, alla giustizia e, quindi, alla pace”.

Il Pontificio Consiglio Giustizia e Pace ricorda alla fine che l’istituzione della Giornata Mondiale della Pace fu opera di Paolo VI e che il Messaggio del Papa “viene inviato alle cancellerie di tutto il mondo e segna anche la linea diplomatica della Santa Sede per l’anno che si apre”.

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Il Papa all’Opera di Nazaret: Gesù è la via per trovare se stessi

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“Gesù è la via aperta davanti ad ogni uomo per incontrare Dio”. E’ quanto ha affermato Papa Francesco incontrando a Santa Marta i membri dell’Opera di Nazaret, associazione internazionale di fedeli impegnata in opere apostoliche, caritative e missionarie. Ad accompagnare l'associazione, il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

La storia dell’Opera di Nazaret – ha detto il Papa – è segnata da due aspetti. Il primo è la “scoperta di Gesù come la Via dell’uomo” verso il Padre:

“Gesù è la via aperta davanti ad ogni uomo per incontrare Dio, per entrare in relazione e in comunione con Lui, e così trovare veramente sé stesso! Noi troviamo pienamente noi stessi quando diventiamo pienamente figli del nostro Padre, e questo avviene grazie a Gesù: per questo Lui è morto sulla croce”. 

La gioia – ha aggiunto il Santo Padre – è il secondo aspetto che ha contrassegnato la storia dell’Opera di Nazaret:

“Quando uno scopre Gesù come la via, la gioia entra nella sua vita. Entra per sempre, ed è una gioia radicata in noi e che nessuno può toglierci, come ha promesso il Signore. E questa gioia di essere discepoli di Gesù diventa testimonianza, cioè apostolato, missionarietà”.

La gioia per aver scoperto in Gesù la via, porta dunque gli uomini a diventare testimoni, apostoli, missionari:

“Voi lo fate con uno stile di presenza discreta, umile e semplice – lo spirito di Nazaret –, negli ambienti in cui vivete e lavorate, in particolare nell’ambiente universitario. Vi incoraggio in questo, e vi ringrazio per il bene che avete già fatto, con la grazia di Dio”.

Fine primario dell’Opera di Nazaret, fondata nel 1964 a Reggio Emilia, è che il volto di Cristo venga incontrato da ognuno nella quotidianità della propria vita. L’Opera incoraggia inoltre lo sviluppo di esperienze di operosa carità che, contribuendo a nuove iniziative sociali, rispondano alle necessità materiali di uomini, luoghi e tempi.

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Papa, tweet: chiediamo al Signore un cuore libero e luminoso

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “Chiediamo al Signore questa grazia: che il nostro cuore diventi libero e luminoso, per godere la gioia dei figli di Dio”.

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Lutto Papa, cordoglio della presidente argentina Kirchner

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Sono stati numerosi i messaggi di condoglianze che in questi giorni hanno raggiunto Papa Francesco, colpito due giorni fa dalla tragica morte della moglie di suo nipote e dei loro due bambini, rimasti coinvolti in un incidente stradale in Argentina. E proprio la presidente argentina, Cristina Fernández de Kirchner, ha telefonato ieri pomeriggio al Papa per esprimergli il cordoglio suo e dei suoi connazionali.

Ieri, intanto, si sono svolti i funerali a Buenos Aires della signora Bergoglio, Valeria Carmona, e dei due bimbi. Restano invece critiche le condizioni del nipote del Papa, Emanuel Bergoglio, ricoverato in una clinica a Cordoba dove è stato già sottoposto a due interventi. Le autorità sanitarie hanno escluso che l'uomo sia trasferito in un'altra struttura sanitaria, circostanza che, considerate le sue condizioni, potrebbe rappresentare “un rischio”.

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Mons. Toso: sull’Iraq, Francesco nel solco della Dottrina della Chiesa

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Le parole di Papa Francesco su come fermare “l’ingiusto aggressore” in Iraq, pronunciate in aereo di ritorno da Seoul, continuano a suscitare riflessioni e confronti non solo nell’ambito ecclesiale. Ha colpito anche l’affermazione del Pontefice per cui si starebbe combattendo “la Terza Guerra Mondiale a pezzetti”. Proprio da qui, muove la riflessione di mons. Mario Toso, segretario del dicastero vaticano “Giustizia e Pace”, intervistato da Alessandro Gisotti: 

R. – Papa Francesco esprime un’impressione abbastanza comune: pensando ai molti conflitti in atto qua e là e ai vari popoli coinvolti in essi, non si può non ricavare l’idea che la famiglia umana sia immersa in una parziale e potenziale "Terza Guerra Mondiale". Quello che deve preoccupare è che, sebbene i confini dei conflitti appaiano circoscritti, essi in definitiva rappresentano sempre focolai da cui può scatenarsi da un momento all’altro una guerra globale che potrebbe coinvolgere gran parte dell’umanità. Simili conflitti sono affrontati in maniera inadeguata. Non emerge tra coloro che paiono interessarsi alla loro soluzione una chiara e netta volontà di pace e di giustizia. Sembrano sempre prevalere i punti di vista particolari: mai il bene comune della famiglia umana, dei popoli o dei popoli di una regione. Occorre lavorare seriamente a rimuovere le cause che li innescano e a creare le condizioni per la pace.

D. – "E’ lecito fermare l’ingiusto aggressore", ha detto Papa Francesco, aggiungendo: ma i modi devono essere decisi all’Onu, non può essere una sola nazione a decidere. Ecco, qui Francesco, come i suoi predecessori, ribadisce l’importanza del multilateralismo?

R. – L’intervento di Papa Francesco è parso misurato e pensato. Ha precisato che l’ingiusto aggressore va fermato e ha fatto capire che il come ciò possa avvenire deve essere deciso non tanto da un solo Stato, quanto piuttosto dalla comunità internazionale. In sostanza, il Pontefice si è posto non solo nel solco della più recente Dottrina sociale della Chiesa ma anche della comunità internazionale. Per risolvere i conflitti e le aggressioni ingiuste, è indispensabile riferirsi a regole comuni, rinunciando definitivamente all’idea di ricercare la giustizia mediante il ricorso alla guerra, muovendosi solitariamente e isolatamente. La Carta delle Nazioni Unite ha interdetto, lo sappiamo bene, non solo il ricorso alla guerra ma anche la sola minaccia di essa. Occorre, in sostanza, imboccare vie alternative: va cioè coltivata la multilateralità come via che offre maggiori garanzie di giustizia, anche nel caso che si debba attuare il principio di responsabilità di proteggere etnie e gruppi che sono minacciati di morte, come sta avvenendo in Iraq, da gruppi terroristici.

D. – Le parole del Papa scuotono una comunità internazionale silenziosa, indifferente. Chiamano anche, però, in causa le istituzioni internazionali ad agire, d essere efficaci, appunto, in queste situazioni?

R. – Papa Francesco scuote la comunità internazionale, che appare distratta e lenta nell’intervenire a favore della giustizia, costringendo singoli Stati a farlo. Secondo il suo insegnamento, a fronte di problemi delicati e complessi, dalle dimensioni internazionali, è più proporzionato l’intervento delle organizzazioni internazionali e regionali. Esse, però, devono essere in grado di collaborare tra loro per far fronte ai problemi e favorire la pace. Ancora una volta, emerge l’urgenza che, a fronte di problemi globali o di interesse globale, devono esistere istituzioni internazionali adeguate e quindi riformate, come nel caso della tutela e promozione di altri beni collettivi.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Nella prova straordinari: il Papa riceve il cardinale Fernando Filoni, suo inviato personale in Iraq, appena rientrato dalla missione. Il porporato fortemente impressionato dalla testimonianza di fede dei cristiani.

Non più schiavi ma fratelli: il tema della Giornata mondiale della pace 2015.

La voce della pace: in un’intervista di Mario Ponzi, il cardinale Tagle parla del viaggio del Papa in Corea.

Ulisse e il sogno di Guardini: Diego Javier Fares a proposito di una filosofia del concreto vivente.

Un malinteso lungo un secolo: Silvia Guidi ricorda Charles Péguy a cent’anni dalla morte, e Hans Urs von Balthasar su “quel regalo inutile”.

Felice Accrocca sull piccola sorpresa in versi: nella memoria di Maria Vergine Regina.

Vittoria vuota come una sconfitta: Claudia Di Giovanni sui sessant’anni dei samurai di Akira Kurosawa.

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Oggi in Primo Piano



Iraq: Obama attacca lo Stato Islamico. Allarme terrorismo in Europa

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E’ durissima la reazione del presidente Usa, Barack Obama, all’indomani del video shock che mostra la decapitazione in Iraq del reporter americano, James Foley, per mano dei miliziani dello Stato islamico. Il capo della Casa Bianca parla di “cancro da estirpare” e aggiunge: “Nessuna fede predica il massacro degli innocenti”. Sul terreno continuano i raid, mentre l’esercito regolare sarebbe riuscito a liberare alcuni villaggi cristiani a Ninive. Intanto, cresce l’allarme terrorismo in Europa e in Italia. Il servizio di Cecilia Seppia:

Fermare i miliziani la cui intenzione è quella di commettere un nuovo genocidio. E’ nettissima la risposta del presidente Obama all’osceno messaggio all’America firmato dallo Stato islamico col sangue di James Foley. Un gruppo come questo è solo un cancro – prosegue – e non può esserci posto per loro nel XXI secolo. Nessuna fede, aggiunge, predica il massacro degli innocenti. Poi, il capo della Casa Bianca ammonisce i governi del Medio Oriente, chiede un impegno collettivo e il chiaro rifiuto dell’ideologia nichilista. Nessun riferimento all’invio di truppe anche se - secondo fonti statunitensi - il Pentagono starebbe valutando la richiesta del dipartimento di Stato di inviare almeno 300 soldati nel Paese del Golfo per rafforzare la sicurezza a Baghdad, mentre secondo fonti curde, Washington potrebbe aprire persino una base militare a Erbil. Sul terreno, intanto, non si fermano i raid, ma un’altra vittoria l’esercito regolare, con l’aiuto di alcune tribù sunnite, sembra averla conseguita con la liberazione di alcuni villaggi cristiani nella piana di Ninive. Intanto, confermato che l’assassino di Foley è un inglese di Londra, cresce l’allarme per un’escalation terroristica del conflitto iracheno sia in Europa che in Italia.

Quale dunque, alla luce delle dichiarazioni del presidente Obama, l’obiettivo che l’America si sta prefiggendo? Cecilia Seppia lo ha chiesto a Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto affari internazionali: 

R. - Per ora, l’obiettivo sembra quello di far rientrare questa minaccia dello Stato islamico, di questo pseudo-Califfato, soprattutto in Iraq. Però, sembra difficile farlo rientrare soltanto in Iraq senza estendere le operazioni, in qualche maniera, anche alla Siria. Diciamo che rimane il problema politico, nel senso che in Iraq il nuovo governo in formazione lascia sperare nella possibilità di una sorta di governo di unità nazionale, che quindi dia ancora una chance di salvezza all’unità dell’Iraq e allo sviluppo del Paese. Mentre in Siria c’è ancora l’ostacolo Assad, che rimane un intralcio politicamente molto difficile, in particolare per gli americani.

D. - I miliziani non si fermano davanti a niente: lo abbiamo visto nel video orrendo, nella brutalità con cui hanno assassinato James Foley. In realtà, Obama ha anche detto che i miliziani ambiscono a un genocidio. È plausibile una cosa del genere visto il loro modus operandi?

R. - Il termine "genocidio" è sempre un termine da usare con cautela. Però, certamente, massacri generali, spostamenti di popolazione, fanno pensare a quello che accadde dopo la Prima Guerra Mondiale con gli armeni in Turchia. Insomma, nella sostanza sono cose che vanno assolutamente bloccate, sono crimini contro l’umanità. Credo che il tentativo di Obama, sottolineando questo aspetto del genocidio, sia proprio questo, cioè dire: signori, attenzione! Ci sono le vostre lotte politiche: voi volete Assad, voi non volete Assad, l’Iran vuole estendere la sua influenza, l’Arabia Saudita non vuole… Va tutto bene, però ci sono poi dei criminali che commettono delitti contro l’umanità e questi vanno fermati comunque e, possibilmente, con il concorso di tutte le parti.

D. - In questi giorni, sta crescendo l’allarme per un’escalation terroristica del conflitto iracheno che si allarga anche ai Paesi europei, all’Italia… Lo stesso assassino di Foley è un inglese di Londra. Esiste davvero, secondo lei, questo rischio, visto che lo Stato islamico sembra aver proseliti ovunque?

R. - Questa dell’internazionale terroristica che partecipa alle guerre non è una novità. L’avevamo vista addirittura, a suo tempo, in Cecenia, nelle guerre in Bosnia, nei Balcani, nell’ex Jugoslavia. Diciamo che si sta ampliando il numero delle persone coinvolte: è più vasto e include parecchi europei di seconda o terza generazione. Questo è, evidentemente, un aspetto pericoloso. Diciamo che non è una minaccia completamente nuova. E' una minaccia nota, però, l’aumento del numero delle persone coinvolte e fa sì che bisogna certamente prestarvi più attenzione.

D. - Secondo lei, serve armare i curdi per fermare i miliziani? Anche ieri, la Germania ha detto che questa è forse la soluzione più urgente...

R. - I curdi al momento sono le forze a terra che hanno maggiori capacità di combattimento, maggiore esperienza e che quindi vanno rafforzate se non vogliamo mandare un nostro esercito. Il problema è - naturalmente - evitare che poi i curdi diventino talmente forti da voler prendere un pezzo d’Iraq e staccarsi dal governo centrale.

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Gaza: continuano i raid israeliani. Uccisi tre comandanti di Hamas

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A Gaza torna la triste conta delle vittime, dopo la ripresa del conflitto. Dal crollo della tregua, si calcolano almeno 50 morti palestinesi. Fra le vittime di oggi, quattro bambini e tre comandanti di Hamas. Decine i razzi sparati dalla Striscia verso lo Stato ebraico. Il servizio di Marco Guerra: 

L'aviazione israeliana sta conducendo attacchi incessanti a Gaza. Così riferisce Radio Gerusalemme, che parla di assalti mirati anche contro alcuni veicoli. L’obiettivo infatti sembra quello di voler colpire i vertici militari di Hamas. Tre comandanti del movimento sono stati uccisi stamane. Oltre diecimila palestinesi hanno preso parte ai loro funerali e un portavoce del movimento ha detto che “Israele pagherà un duro prezzo”. Intanto, prosegue anche l’incessante lancio di razzi dalla striscia, nel Negev risuonano le sirene di allarme e nel villaggio di Nahal Oz è stata colpita un’abitazione provocando un ferito grave. E oggi è il giorno dell’incontro a Doha, in Quatar, tra il presidente palestinese, Abbas, e il leader di Hamas, Khaled Meshaal, quest’ultimo ha precisato che è stata rifiutata la proposta di tregua egiziana non il ruolo di mediazione svolto dall’Egitto. Per un’analisi sulla ripresa del conflitto e il fallimento dei colloqui, abbiamo raccolto il commento di Alessandro Colombo docente di relazioni internazionali all’università di Milano: 

R. – Non c’è una vera, nuova fase. Questa ennesima crisi è il prodotto, in realtà, di un disfacimento del tessuto negoziale in Medio Oriente, che non è una disgregazione avvenuta nelle ultime settimane e neppure negli ultimi mesi. Lo scoppio di questa nuova crisi, in realtà, era previsto da tutti gli osservatori. Noi possiamo discutere sull’innesco della guerra, ma le cause profonde erano già tutte presenti. Ecco perché le richieste delle due parti sono richieste assolutamente inconciliabili. 

D. – L’Autorità nazionale palestinese, però, aveva avviato un processo di riunificazione con Hamas prima di questa crisi. Quindi, Israele da adesso in poi, se dovrà trattare con il presidente Abbas, dovrà farlo anche con Hamas. Questo come si può conciliare?

 R. - Israele prima dello scoppio di questa guerra aveva già posto come condizione il fatto che il governo di unità nazionale non si facesse e questo è in linea di continuità, in realtà, con la politica israeliana degli ultimi venti anni: prima Arafat, poi Hamas, vincitore dell’elezioni del 2006, e adesso il governo di unità nazionale palestinese. Il problema di Israele è che di volta in volta non riconosce la legittimità delle leadership palestinesi. In questa condizione, è chiaro che non si può negoziare.

 D. – Ecco, quindi, al momento è impossibile attendersi tregue durature...

 R. – In questo momento, il massimo che si possa ottenere è qualche tregua sul terreno, sperando che possa essere prolungata. Le cause di fondo del conflitto, però, purtroppo restano. E non dimentichiamoci che la causa di fondo del conflitto è un’occupazione che dura dal 1967, e che è contraria, da tutti i punti di vista, al diritto internazionale.

 D. – Sembra ci sia una sorta di radicalizzazione tra le parti. Il governo israeliano ha elementi di estrema destra e ormai sul fronte palestinese emerge Hamas...

 R. – Se noi confrontiamo le parti di oggi con le parti dell’inizio degli anni Novanta, ci troviamo un Israele infinitamente più radicalizzato e, naturalmente, anche una leadership palestinese infinitamente più radicalizzata, senza dimenticare che la leadership palestinese dell’inizio degli anni Novanta venne a sua volta e continuamente accusata di essere una leadership terroristica. In altre parole, quello che oggi Israele rimprovera ad Hamas, veniva rimproverato, quasi negli stessi termini, ad Arafat a metà degli anni Novanta.

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Ucraina: è scontro aperto nell'est. Caritas al lavoro tra i profughi

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Nel sudest dell’Ucraina, è ancora scontro aperto tra esercito e i separatisti filorussi: due gli elicotteri militari che i ribelli rivendicano di aver abbattuto, mentre Kiev comunica di aver catturato due blindati russi al confine orientale, anche se Mosca non conferma. Si combatte a Lugansk e soprattutto a Donetsk, dove il bilancio provvisorio è di nove morti tra i civili. La crisi ha intanto già provocato circa 416 mila sfollati e le aree di conflitto sono praticamente isolate. In corso in queste ore, tra Sloviansk e Donestk, la missione della Caritas per valutare gli interventi possibili e visitare i campi di raccolta profughi. Tra gli inviati c’è Pasquale Ionta, di Caritas Germania. Gabriella Ceraso lo ha intervistato: 

R. – Ci siamo fermati ai confini tra le due regioni, quindi fra Kharkiv e Donetsk, dove sono stati ospitati 35 mila rifugiati delle zone est dell’Ucraina. In questo momento, la situazione è abbastanza difficile e può diventare estremamente critica, perché le persone in questa zona sono ospitate nei centri estivi, che chiaramente non sono adatti per affrontare l’inverno ucraino, che dovrebbe iniziare verso metà ottobre.

D. – La gente, quindi, quando fugge ha dei centri di raccolta?

R. – Fino a questo momento sì, grazie alla solidarietà del popolo ucraino e grazie anche all’intervento della Caritas Ucraina. Stiamo parlando di almeno 35 mila persone, ufficialmente, ma il numero potrebbe essere tranquillamente raddoppiato. Di questi, sempre ufficialmente, si parla di novemila bambini. Le due regioni più colpite sono Lugansk e Donetsk.

D. – Che tipo di assistenza hanno per ora e cosa pensate quindi che si possa fare per loro?

R. – Caritas Ucraina ha già distribuito 150 mila litri di acqua a Sloviensk e stiamo valutando di aprire un ufficio di coordinamento a Kharkiv per distribuire cibo, vestiti, materiale per la cucina e per il riscaldamento. Il problema è che la situazione è molto volatile. La maggior parte dei profughi vorrebbero rientrare nelle zone di provenienza, ma non è sicuro. Anche noi abbiamo problemi di sicurezza per raggiungere Sloviansk.

D. – Infatti, si sa di colpi reciproci - da una parte l’esercito e dall’altra i ribelli - proprio in queste zone, dove siete voi. E’ questa la difficoltà maggiore?

R. – Questa è la difficoltà maggiore, anche perché dobbiamo veramente valutare con molta flessibilità e con molta attenzione i nostri interventi, che in questo momento devono essere veloci, ma devono essere anche facilmente modificabili con il variare della situazione di sicurezza. Speriamo che questa situazione migliori il più presto possibile. Abbiamo questa grossissima emergenza dell’arrivo dell’inverno e dell’inizio delle scuole. Molti rifugiati, infatti, sono stati ospitati fino a questo periodo in strutture scolastiche, che devono essere sgombrate, per dare la possibilità alle scuole di riprendere l’anno scolastico.

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Ebola: dagli Usa, progressi nella ricerca di una cura

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L'ultimo bilancio dell’Oms sull’ebola parla di 1350 morti nei quattro Paesi africani colpiti, precisando che in soli due giorni, il 17 e il 18 agosto, sono stati 106. In un quadro così preoccupante si aprono due spiragli di speranza: le dimissioni del dottore americano curato con il siero sperimentale "Zmapp" e l’ipotesi di utilizzare il plasma di chi è guarito dalla malattia perché contiene anticorpi contro il virus. Per comprendere in cosa consistano le trasfusioni di sangue e se possano essere un valido aiuto per circoscrivere l’emergenza, Paolo Giacosa ha intervistato Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano: 

R. – In pratica si tratta di un’immunoterapia passiva, ovvero chi guarisce mantiene un ricordo si dice “anamnestico”: cioè la stimmata di quanto ha subìto come infezione produce anticorpi specifici. Ed è quanto si faceva anche nel passato con le immunoglobuline iperimmuni, anche contro l’epatite e altre patologie. Quindi, sicuramente, un qualcosa che, se somministrato, può aiutare la risposta immunitaria del paziente. Inoltre, la trasfusione come tale aiuta la qualità del sangue circolante perché uno dei problemi che creano la gravità della malattia è un’alterazione della coagulazione del sangue rispetto ai fattori della coagulazione colpiti e le cellule colpite dalla malattia. Quindi, un aiuto sia in termini di sostegno generale che di aiuto al sistema immunitario.

D. – L’ultimo bollettino dell’Oms registra 1.350 morti, 106 solo tra il 17 e il 18 agosto, nei quattro Paesi principalmente colpiti, perché l’ebola è così contagiosa?

R. – Nei fatti è contagiosa soprattutto in una situazione socio-ambientale, come quella di quelle nazioni che, è importante ribadirlo, sono circoscritte. Oggi si hanno forme di paura nei confronti di un soggetto che arriva dall’Africa, che è un continente: qui si tratta di quattro Stati, un centinaio di città circoscritte. Il problema è che è una malattia che si trasmette per contatto diretto attraverso i fluidi biologici della persona o purtroppo anche del cadavere, che rimane infettivo. Quindi, è una malattia facilmente acquisibile ma anche facilmente controllabile perché non è come per l’influenza, per la quale basta passare in metropolitana e respirare l’aria di chi ha espirato aria con virus, e che è quindi molto meno controllabile. Questa patologia, molto grave per le conseguenze, in realtà, in un contesto ospedaliero strutturato, potrebbe essere contenuta. In questo senso, per eventuali casi importati, che magari ci saranno, anche se è raro - ritengo poco probabile che arrivino in Italia -, al di là della gravità della malattia e dell’assistenza della prognosi per gli ammalati, che rimane pesante, il controllo è fattibile.

D. - Si tratta di un virus debellabile con basilari misure di igiene, che purtroppo sembrano mancare nei paesi più colpiti. La diffusione di guanti e disinfettanti in Africa potrebbe migliorare significativamente la prevenzione?

R. – Quanto ha detto l’Oms in termini di segnalazione di problema grave è soprattutto, non tanto per creare paura nella "signora Maria” nella provincia italiana, ma per far sì che siano prese a livello istituzionale attenzioni e quindi la sorveglianza di casi sospetti, che devono essere ben monitorati, senza eccedere nella paura della persona arrivata dall’Africa per cui un po’ di febbre viene etichettata ingiustamente. E sicuramente l’azione più efficace è sul territorio: materiali per l’igiene, informazione, anche rispetto alle pratiche religiose e ai funerali, che ovviamente se non gestiti in termini adeguati dal punto di vista dell’attenzione ai fluidi biologi del defunto, è triste dirlo, ma diventano un rischio.

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Notte di calma a Ferguson. Il Gran giurì decide tra due mesi

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Un centinaio di persone è sceso nuovamente in piazza ieri a Ferguson, negli Stati Uniti, per protestare contro l’assassinio del giovane nero, Michael Brown, da parte di un poliziotto, episodio che ha scatenato un’ondata di violenze, aggressioni e saccheggi. Si aspetta ora la decisione del Gran Giurì che in base alle prove potrebbe accusare l’agente, ma non arriverà prima di due mesi. Il servizio di Francesca Sabatinelli: 

E’ stata una notte tranquilla quella trascorsa a Ferguson, nonostante le manifestazioni, la prima di calma dopo più di dieci giorni di proteste e rivolte a sfondo razziale a seguito dell’uccisione di Michael Brown. Nel tentativo di calmare la situazione, è volato in Missouri il ministro della Difesa, Eric Holder, il più alto in grado dell’amministrazione Usa inviato da Obama a Ferguson. Per avere una risposta dalla giustizia si dovranno aspettare forse anche due mesi. Il Gran giurì della contea di Saint Louis ha iniziato ieri a studiare il dossier e ci vorrà del tempo prima di definire la posizione del poliziotto accusato dell’uccisione e stabilire se perseguirlo o meno. Lo stesso Holder ha garantito che i procuratori federali condurranno una inchiesta “intransigente” per stabilire se il poliziotto abbia avuto motivazioni razziste. I funerali di Brown si terranno lunedì, in forma pubblica, a ieri oltre 100 mila dollari erano stati raccolti per finanziare le spese della cerimonia. Una manifestazione è prevista per domenica pomeriggio a Ferguson, il cui ricavato sarà devoluto alla famiglia.

A mons. Robert James Carlson, arcivescovo di Saint Louis, la diocesi di cui fa parte Ferguson, Chris Wells ha chiesto come stia agendo in questo momento la Chiesa:

R. – There’s a number of things we’re doing…

Una delle tante cose che stiamo facendo è dare supporto piscologico alle persone colpite dalla violenza. Ci siamo recati sul posto e abbiamo pregato sul luogo nel quale il giovane è stato ucciso. Ci sono anche sacerdoti che danno supporto ai poliziotti coinvolti, perché anche per loro la situazione è drammatica. Le nostre organizzazioni di beneficienza forniscono cibo perché molti negozi sono chiusi: insieme ad altre organizzazioni umanitarie forniamo cibo perché ce n’è bisogno. Nelle nostre scuole cattoliche, offriamo un certo numero di borse di studio ai poveri con la speranza di creare per loro un’opportunità e sfuggire alla povertà.

D. – Che ruolo ha la Chiesa quando si tratta di affrontare e gestire questo tipo di problemi sociali?

R. – There’s a number of things...

Si possono fare diverse cose. L’associazione ecumenica, di cui sono presidente, ha pubblicato una dichiarazione e chiesto una riflessione sugli argomenti di attualità. Infatti, noi crediamo che la sparatoria sia stata semplicemente il catalizzatore che ha consentito alla rabbia sopita di esplodere. Siamo stati coinvolti insieme ad altre Chiese, sono stati coinvolti i sacerdoti per partecipare a incontri di preghiera nelle chiese della zona. Due notti fa, alcuni esponenti delle Chiese ecumeniche sono stati coinvolti nel tentativo di calmare i manifestanti, per separare i violenti dalla polizia e per cercare una soluzione pacifica.

D. – Lei ha anche chiesto di pregare nelle scuole e la recita del Rosario quotidiano…

R. – Yes, we’ve asked our Catholic grade schools…

Sì, abbiamo chiesto che i nostri alunni delle scuole elementari, un centinaio di scolari che vanno nelle circa 26 scuole elementari cattoliche, recitino quotidianamente il Rosario per la pace e la giustizia. I giovani possono dare un grande contributo in maniera sicura ed efficace, perché è una preghiera che offriamo. Ed è anche importante che le scuole continuino a mantenere l’attenzione sulla necessità di affrontare con i giovani la natura del razzismo sistemico, di farla comprendere loro e di indurli ad operare nelle loro comunità.

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Carceri invivibili: in vigore legge che introduce misure compensative

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Novità nel sistema carcerario italiano. È in vigore da oggi la legge che introduce misure compensative per i detenuti che hanno subito un trattamento inumano. Previsti risarcimenti in denaro, o sconti di pena, e un maggior numero di agenti di polizia penitenziaria. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

Sono diverse le misure compensative introdotte in caso di violazione della Convenzione sui diritti dell’uomo. Per chi non è più detenuto, è previsto un risarcimento di 8 euro per ciascun giorno trascorso in cella in condizioni non adeguate. La richiesta, in questo caso, deve essere inoltrata entro sei mesi dalla fine del periodo di detenzione. Per i risarcimenti saranno disponibili, per il momento fino al 2016, oltre 20 milioni di euro. Patrizio Gonnella presidente di “Antigone”, Associazione impegnata nella difesa dei diritti nel sistema penale:

“Sicuramente, è stato un gesto di riparazione per tutti quelli che in passato hanno subito trattamenti umani degradanti, costretti a vivere in una condizione insopportabile di sovraffollamento, in meno di tre metri quadri. Rispetto al futuro, per quelli che si ritroveranno in una situazione analoga, speriamo che un risarcimento economico anche se minimo - parliamo di una cifra quasi simbolica, 8 euro al giorno - possa costituire, comunque, un disincentivo a pratiche che non sono degne di un Paese civile. Violare i diritti umani deve diventare una cosa residuale e anche onerosa e costosa”.

Se la condanna è ancora da espiare, la pena detentiva viene ridotta di un giorno ogni dieci trascorsi in spazi non idonei. Prevista poi una stretta sul carcere preventivo. Scatta il divieto di custodia cautelare in carcere in caso di pena non superiore ai tre anni. La norma non vale però per i delitti a elevata pericolosità sociale (tra cui mafia e terrorismo, rapina ed estorsione, furto in abitazione, stalking e maltrattamenti in famiglia) e in mancanza di un luogo idoneo per i domiciliari. I benefici previsti dal diritto minorile sui provvedimenti restrittivi si estendono inoltre a chi non ha ancora 25 anni (anziché 21 come oggi). Aumenta di 204 unità l’organico della polizia penitenziaria, con un saldo finale che vedrà meno ispettori e più agenti. Si registrano novità anche per i magistrati di sorveglianza. Qualora l’organico sia scoperto di oltre il 20% dei posti, il Consiglio superiore della Magistratura (Csm) destinerà alla magistratura di sorveglianza anche i giudici di prima nomina. Per quanto riguarda il sistema penitenziario nel suo complesso, recentemente si è raggiunta infine la quota di 54.200 detenuti. Ma l’emergenza carceri non deve essere sottovalutata. Ancora Patrizio Gonnella:

“ C’e stata una serie di norme approvate che hanno favorito una decongestione del sistema. I numeri sono calati: erano 66 mila più o meno due anni fa, oggi siamo intorno ai 54 mila detenuti per 45 mila posti letto. Quindi, esiste ancora un sovraffollamento, ma meno drammatico. Però, questo non significa che bisogna fermarsi, perché basta pochissimo: basta un po’ di campagna di stampa, di opinione pubblica che si ribella rispetto a un fatto di cronaca, che si ritorna ai numeri precedenti. È necessario fare in modo che il sistema abbia gambe solide”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Iraq, Maradiaga: si fermino atrocità dei jihadisti

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La Caritas Internationalis dà pieno “sostegno e solidarietà alla Chiesa irachena, come agli operatori della Caritas locale e a tutte le congregazioni religiose e alle altre organizzazioni che forniscono un aiuto concreto alle comunità” perseguitate nel Paese dalle milizie dell’Is “per alleviare le loro sofferenze, fornire cibo e un tetto o guarirle dai traumi che stanno subendo”. E’ quanto si legge in una lettera inviata il 15 agosto dal presidente dell’organizzazione, il card. Rodriguez Maradiaga, al patriarca di Babilonia del Caldei, Louis Raphael Sako, e al presidente della Caritas irachena mons. Shleimon Warduni.

La lettera esprime profonda preoccupazione per la sorte toccata ai cristiani, agli yazidi e alle altre minoranze costrette a fuggire dalla ferocia dei jihadisti, ma anche per “le conseguenze che questa ondata di violenze potrebbe avere sul dialogo islamo-cristiano e sulle coesistenza pacifica desiderata e apprezzata dalla maggioranza dei musulmani e dei cristiani in Medio Oriente e in tutto il mondo”. Essa elogia quindi “il coraggio e la fermezza dimostrata dalla Chiesa irachena e da tutte le persone di buona volontà di fronte a questi crimini contro l’umanità”.

Ricordando le parole di Papa Francesco per cui “la violenza non si vince con la violenza, ma con la pace”, il card. Maradiaga si rivolge direttamente ai militanti dell’Is perché fermino le loro atrocità e lavorino invece per la costruzione di società “in cui tutti gli esseri umani, che appartengano a comunità minoritarie o meno, possano vivere in pace”. Infine l’appello ai leader mondiali affinché sia garantita la sicurezza delle persone coinvolte, venga ripristinato lo stato di diritto e si interrompano le forniture di armi a quelli che commettono questi crimini contro la vita e la dignità umana. (L.Z.)

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Leader religiosi inglesi: Is sia perseguito per crimini contro umanità

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Portare i jihadisti dello Stato Islamico davanti alla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità. E’ quanto chiedono i leader cristiani, musulmani ebraici, indù, sikh e zoroastriani del Regno Unito in un appello congiunto al premier David Camerun pubblicato sul quotidiano “Daily Telegraph”. Le conversioni forzate, le decapitazioni e le crocifissioni di cristiani e yazidi sono una tragedia di “proporzioni storiche”, afferma la lettera , firmata tra gli altri, per parte cattolica, da mons. Declan Lang, vescovo di Clifton.

Secondo i leader religiosi britannici questi crimini non possono rimanere impuniti: “La cultura dell’impunità in cui queste atrocità vengono commesse devono essere contrastate in modo energico”. Di qui il pressante appello al Governo Cameron ad usare le sue prerogative di membro permanente del Consiglio di Sicurezza per ottenere un’inchiesta della Corte Penale Internazionale. “La comunità internazionale deve mandare un segnale chiaro a coloro che stanno commettendo queste atrocità che a un certo punto dovranno rispondere delle loro azioni”.

Nella lettera si ricorda inoltre che quanto sta accadendo in Iraq si inserisce in un quadro più vasto di crescenti persecuzioni e restrizioni alla libertà religiosa nel mondo: “I governi, le istituzioni internazionali e le ong – si legge - devono prendere atto di questa crisi più generale e impegnare il tempo e le energie necessarie per garantire il rispetto di questo diritto fondamentale in modo da fermare ulteriori future tragedie”.

Solidarietà ai cristiani in Iraq è stata espressa anche dal presidente del Congresso Ebraico Mondiale (WJC), Ronald S. Lauder, che in un appello pubblicato sul sito del WJC - e intitolato “Who will stand up for the christians?” - ha chiesto a “tutte le persone di buona volontà di unirsi e di fermare questa ripugnate ondata di violenza”, ricordando che “il popolo ebraico conosce fin troppo bene cosa può accadere se il mondo rimane in silenzio”. (A cura di Lisa Zengarini) 

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Vescovi Sudafrica: in Iraq, Siria e Gaza è "bancarotta morale"

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“In diverse parti dell’Africa, in Iraq e Siria ed ora a Gaza siamo di fronte con evidenza cruda e sconvolgente alla bancarotta morale della guerra moderna”. Lo affermano i vescovi di Sudafrica, Botswana e Swaziland in una dichiarazione pubblicata al termine dell’Assemblea Plenaria della Southern African Catholic Bishops’ Conference (Sacbc)  riferita dall’agenzia Fides. “La guerra che è diventata interminabile - o che si auto-perpetua, come a Gaza - non risolve nulla; non porta mai alla riconciliazione, ma riesce solo a radicare l'odio e la divisione”, scrivono i vescovi che invitano a sradicare “le forme strutturali di violenza” (gli insediamenti illegali, il muro di separazione, i posti di blocco, e l’insicurezza che colpisce entrambe le parti) che fanno sì che “vi siano poche speranze per una pace durevole”. I presuli della Sacbc definiscono poi “assolutamente ripugnante” l’espulsione e il “martirio” della comunità cristiana irachena erede di una tradizione che risale a quasi 2000 anni. “La distruzione totale di antiche diocesi, di parrocchie piene di fervore e di famiglie a causa del loro attaccamento alla fede è – sostengono – un crimine contro l'umanità”. E portiamo “nel nostro cuore – proseguono – anche quelle altre tradizioni religiose dell'Iraq che soffrono la stessa sorte della comunità cristiana”. Nel documento di esprime ammirazione per “i grandi insegnamenti religiosi dell'Islam”, in particolare per “l’attenzione per i poveri e i bisognosi”. Dunque, concludono i vescovi, “invitiamo i fedeli musulmani che credono nella nostra comune umanità di far pressione sugli estremisti perché smettano di opprimere comunità profondamente religiose e di cercare invece quella pace che l'Islam si impegna a promuovere”. (A.D.C.)

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Africa. Papa a donne consacrate: servite Cristo con tutto il cuore

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Un incoraggiamento a “servire Cristo con tutto il cuore”: è quanto scrive Papa Francesco in un breve messaggio, a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, inviato alla 16.ma Assemblea triennale dell’Associazione delle donne consacrate dell’Africa Centrale e Orientale (Acweca). In corso fino al 30 agosto a  Lusaka, in Zambia, l’Assemblea ha come tema “Andate, non abbiate paura, e servite” (Gv 16,23). Vi prendono parte oltre 150 tra Superiori maggiori e Segretarie generali delle Associazioni nazionali delle religiose di Eritrea, Etiopia, Kenya, Malawi, Sudan, Tanzania, Uganda e Zambia. Presente, inoltre, padre Ferdinand Lugonzo, Segretario generale dell’Amecea, l’associazione delle Conferenze episcopali dell’Africa Orientale in rappresentanza del suo nuovo presidente, l’arcivescovo di Addis Abeba, Berhaneyesus Demerew Souraphiel. 

Le sessioni di lavoro sono incentrate, in particolare, sull’evangelizzazione nella regione. Tra gli altri temi in discussione: la lotta contro la povertà e la sfida del traffico di esseri umani, un’analisi-confronto tra il diritto canonico e quello civile, la trasparenza e responsabilità nella leadership e la gestione finanziaria delle Congregazioni religiose.

Composta attualmente da più 20 mila suore, l’Acweca celebra quest’anno il suo 40.mo anniversario di fondazione: è stata, infatti, istituita nel 1974 con l’obiettivo di  “sviluppare e rafforzare la formazione e l’educazione delle religiose, operando a favore della pace e della giustizia e dell’autosostentamento”. L’Associazione si impegna anche a “coordinare il supporto logistico e amministrativo delle associazioni nazionali e delle altre istituzioni cattoliche, secondo la propria missione ispirata alle parole di Gesù Cristo ‘Voi mi sarete testimoni”. (L.Z.)

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India. Card. Cleemis: nuovo governo aperto a minoranze religiose

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Le prime mosse del governo Modi in India non dovrebbero dare motivo di preoccupazione alle minoranze religiose che vivono nel Paese. In questo senso – come riporta il sito di attualità religiosa Mattersindia.com. – si è espresso il cardinale Baselios Cleemis Thottunkal, presidente della Conferenza episcopale indiana (Cbci), in una conferenza stampa dedicata al colloquio da lui avuto, lunedì scorso, con il neopremier eletto il 12 maggio scorso. Un incontro che l’arcivescovo maggiore di Trivandrum dei siro-malakaresi ha definito “cordiale e caloroso” e che ha lasciato un’impressione positiva sulle intenzioni della nuova coalizione di governo guidata dal partito nazionalista indù Bharatiya Janata (Bjp).

La schiacciante vittoria di Modi, come è noto, ha destato non poche apprensioni tra le minoranze nel Paese a causa del conservatorismo religioso del Bjp e della sua storica vicinanza ai movimenti induisti radicali, responsabili anche delle violenze contro i cristiani. Preoccupazioni che, secondo il cardinale Thottunkal, non hanno motivo di essere almeno a giudicare dalle prime dichiarazioni di Modi sull’intenzione del governo di fermare le violenze su base religiosa, ma anche dal fatto che, dal suo insediamento, non si è verificato nessun episodio rilevante di violenza settaria. “Ha appena iniziato a governare e quando il primo ministro annuncia una moratoria sulle violenze interreligiose, dobbiamo credere a quello che dice , senza dietrologie”, ha detto il porporato, evidenziando che durante il colloquio Modi ha espresso grande apprezzamento per l’opera della Chiesa in India, in particolare nel campo dell’assistenza.

Da parte sua, il cardinale Thottunkal ha portato all’attenzione del premier alcuni problemi  che stanno particolarmente a cuore alla Chiesa. Tra queste, l’annosa questione delle discriminazioni dei dalit cristiani che, ha sottolineato, andrebbe affrontato nel quadro dell’annunciato impegno programmatico del nuovo governo sul fronte della lotta alla povertà e alle ingiustizie sociali. (L.Z.)

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Amazzonia: al via rete ecclesiale per tutelare ecosistema

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“Amazzonia, polmone del pianeta” sarà il tema dell’incontro che dall’8 al 13 settembre, a Brasilia, si propone creare una Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) per tutelare la dignità e i diritti umani delle popolazioni e promuovere un’ecologia responsabile della regione attraverso una pastorale comune e una strategia  globale in difesa del patrimonio umano e naturale del vasto territorio. All’evento parteciperanno gli esponenti delle istituzioni che organizzano l’incontro: il cardinale Claudio Hummes, presidente della Commissione per l’Amazzonia della Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb), mons. Pedro Barreto, presidente del Dipartimento di Giustizia e pace del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), mons. Josè Luis Azuaje, presidente del Segretariato latinoamericano e dei Caraibi della Caritas (Selacc);, Sr. Mercedes Casas, presidente della Confederazione latinoamericana e caraibica di religiosi e religiose (Clar),  rappresentati e delegati delle diverse Congregazioni e Associazioni cattoliche che lavorano nella regione amazzonica e un delegato del Pontificio Consiglio Giustizia e pace.

La presenza della Chiesa in Amazzonia è stata sempre costante e complessa, quasi “eroica”, a causa delle distanze, delle difficoltà di accesso e della mancanza di risorse. Nonostante le preziose testimonianze dei missionari e delle comunità religiose indigene, afroamericane e meticcie, la carenza di missionari, le limitazioni strutturali e finanziarie, l’isolamento e una missione ecclesiale non sempre orientata alla piena inculturazione e all’evangelizzazione hanno indebolito i tentativi di rafforzare l’impegno ecclesiale nella difesa delle comunità più bisognose e del loro habitat. Oggi, il modello di sviluppo incentrato sul consumo e veicolato dalla globalizzazione fanno pressione sulla ricchezza dell’Amazzonia: multinazionali estrattive senza scrupoli si nascondono dietro la debolezza istituzionale, la mancanza di regolamenti e la negligenza di governi permissivi  e corrotti. Il ritmo di estrazione e dell’espansione delle frontiere agricole mette a repentaglio intere comunità e l’equilibrio ambientale, in particolare quello idrico.

In questo contesto, la Rete ecclesiale panamazzonica si propone di definire strategie di azione per promuovere l’associazionismo tra i gruppi ecclesiali e laici, che solitamente lavorano dispersi e isolati, in modo da costruire ponti che consentano la creazione di una pastorale congiunta, in chiave territoriale, indirizzata a promuovere l’integrazione e lo sviluppo integrale delle popolazioni amazzoniche, la difesa dei loro diritti, delle loro culture e del loro territorio, facendo un’opzione preferenziale per i poveri e gli esclusi. Al contempo, si vuole anche creare, nell’opinione pubblica, una consapevolezza maggiore dell’incidenza delle politiche pubbliche nazionali e internazionali su questo “polmone del pianeta”. Infine, la Repam mira a stabilire azioni concrete per rispondere al difficile compito di custodire il Creato, tema portante del magistero di Papa Francesco (A.T.)

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Social network congiunto tra Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice

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In occasione del Bicentenario della nascita di Don Bosco, al via in questi giorni, i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice (Fma) del Brasile hanno pensato di offrire un "regalo" per il loro Fondatore. Il 13 e 14 agosto, i rappresentanti delle due istituzioni si sono riuniti per fare i primi passi nella formazione di un social network salesiano di comunicazione congiunta, denominato “Rescom”. Come riferisce l’agenzia salesiana Ans, la proposta è che, a partire dal 2015, questa rete possa unire le forze e rispondere sempre più efficacemente alle sfide attuali della comunicazione sociale,  a partire dagli insegnamenti e dalle esperienze di Don Bosco, grande esempio di comunicatore, soprattutto per i giovani.

I lavori preparatori del network, composto da  sacerdoti, suore e laici, hanno preso il via il 13 agosto con una riflessione di approfondimento su "Il sistema salesiano di comunicazione sociale" e "Culture giovanili nell’Edu-comunication visiva"; quindi si è svolto uno scambio di esperienze su servizio di comunicazione di ogni ispettoria, evidenziando come la comunicazione sociale sia di buona qualità, ma scarseggi nella partnership tra i diversi gruppi.  

Il secondo giorno della riunione è stato dedicato a rilevare le sfide e le opportunità attuali di Rescom. In particolare, i partecipanti hanno sottolineato due missioni primarie del nuovo network: incoraggiare e assistere i processi relazionali e organizzativi della rete salesiana, garantendo gli ecosistemi di comunicazione, nella prospettiva educativa e pastorale e rafforzare i processi di comunicazione salesiana a servizio dell'evangelizzazione e dell'educazione dei giovani. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 233

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.