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Sommario del 23/08/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa al Meeting: Chiesa in uscita, unica possibile per il Vangelo

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Non perdere “mai il contatto con la realtà”, tenere “sempre lo sguardo fisso sull’essenziale”. Sono i due punti chiave intorno ai quali ruota il messaggio di Papa Francesco indirizzato al 35.mo Meeting per l’amicizia dei popoli, al via questa domenica a Rimini. Nel documento, a firma del cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, il Papa ringrazia gli organizzatori delle evento per aver scelto come tema “le periferie del mondo e dell’esistenza” e ribadisce che  una “Chiesa in uscita” è “l’unica possibile secondo il Vangelo”. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

Lavorare per il “ritorno all’essenziale, che è il Vangelo di Gesù Cristo”. E’ l’esortazione che Papa Francesco rivolge ai partecipanti al Meeting di Rimini, sottolineando due attenzioni particolari. Anzitutto, scrive, non “perdere mai il contatto con la realtà”, anzi “essere amanti della realtà”. Nel messaggio, a firma del cardinale Parolin, il Papa cita don Giussani e afferma che “l’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale”. Ancor più, “in presenza di una cultura dominante che mette al primo posto l’apparenza, ciò che è superficiale e provvisorio”.

Francesco invita dunque a “tenere sempre lo sguardo fisso sull’essenziale”. I “problemi più gravi, infatti – avverte – sorgono quando il messaggio cristiano viene identificato con aspetti secondari che non esprimono il cuore dell’annuncio”. Anche perché, annota, Gesù è tornato ad essere “uno sconosciuto in tanti Paesi anche dell’Occidente”. Per questo, si legge nel messaggio, “un mondo in così rapida trasformazione chiede ai cristiani di essere disponibili a cercare forme o modi per comunicare con un linguaggio comprensibile la perenne novità del Cristianesimo”. Anche in questo, soggiunge, “occorre essere realisti”.

Il Papa ringrazia quindi i promotori del Meeting per aver scelto come tema “le periferie del mondo e dell’esistenza”. Una “Chiesa in uscita – ribadisce – è l’unica possibile secondo il Vangelo”, come dimostra la vita di Gesù che andava di villaggio in villaggio annunciando il Regno di Dio. Il cristiano, prosegue, “non ha paura di decentrarsi, di andare verso le periferie, perché ha il suo centro in Gesù Cristo”. Solo così si può vincere il “rischio", anche per i cristiani, "di vivere una tristezza individualista, isolata anche in mezzo a una quantità di beni di consumo, dai quali comunque tanti restano esclusi”. 

Al Meeting di Rimini partecipano quest’anno quanti stanno vivendo sulla pelle le tragedie del mondo contemporaneo: vescovi, politici, intellettuali provenienti dalle aree calde del Pianeta. Luca Collodi ne ha parlato con Giorgio Vittadini, uno degli organizzatori dell’evento: 

R. – Il Meeting vuole far parlare i protagonisti, mostrando l’orrore di chi non butta le bombe su alcuno, ma le subisce, e vivendo lì da secoli non gli è permesso di vivere in Iraq, in Nigeria, in Pakistan e altrove, indipendentemente dalla guerra di religione. Noi, invece, abbiamo sempre questi figli dell’Illuminismo di basso profilo, che non guardano la realtà. Il Meeting vuol parlare della realtà, della realtà della povera gente, che prende le bombe da una parte e dall’altra e che non è difesa.

D. – Il Papa ha detto: si deve fermare l’aggressore, ma ci devono pensare le Nazioni Unite. Le Nazioni Unite, però, sembrano lontane dal prendere una decisione...

R. – Ma questa è la cosa grave, che sta andando avanti da anni. Ricordiamoci che Giovanni Paolo II si è opposto alle due guerre in Iraq, pensando che questo avrebbe portato solo tragedie. Questo è il risultato, cui hanno portato gli sfracelli dell’Occidente. Certo, ci vorrebbe che le Nazioni Unite prendessero una posizione e bisognerebbe avere Paesi che intervenissero. Qui ci vuole una forza di interposizione. Io sono totalmente d’accordo col Papa, ma questi Paesi che sono all’origine del disastro mediorientale, insieme al fondamentalismo, questi Paesi se ne infischiano. Invece ci vorrebbe veramente che le Nazioni Unite intervenissero e difendessero gli inermi. Non solo lì, però, anche in Nigeria. Perché la gente nigeriana deve essere uccisa da Boko Haram ogni giorno?

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Tweet del Papa: un cristiano sa dare, la sua vita piena di atti generosi verso il prossimo

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“Un cristiano sa dare. La sua vita è piena di atti generosi – ma nascosti – verso il prossimo”. E' il tweet di Papa Francesco pubblicato oggi sul suo account Twitter @Pontifex, seguito da 15 milioni follower.

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Mons. Zenari: tragedia siriana finita nel dimenticatoio, jihadisti avanzano

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In Siria, si assiste ad una catastrofe umanitaria dimenticata: a denunciarlo è l’Onu che riferisce un dato agghiacciante, oltre 191 mila morti in quasi tre anni e mezzo di guerra. L'Alto commissario Onu per i diritti umani, Navy Pillay, parla di una "paralisi internazionale" di fronte ad una crisi che non finisce. Ascoltiamo il commento di mons. Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, al microfono di Sergio Centofanti

R. – Purtroppo, i riflettori sulla Siria si sono spenti. La Siria è scomparsa dai radar della comunità internazionale. Non fa più notizia la gravità quotidiana e la gente naturalmente – tutti, tutti! – dicono: “Noi che siamo qui, che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni delle atrocità … e non se ne parla più!”. Ogni giorno, ci sono una media di 180 morti, in Siria: una cifra che dovrebbe non lasciare tranquilli. E purtroppo, la Siria è caduta nel dimenticatoio …

D. – Preoccupa l’avanzata dei jihadisti dello Stato islamico?

R. – Questi jihadisti sarebbero a una quarantina di chilometri da Aleppo. Questo preoccupa tutti. Preoccupa i cristiani, ma preoccupa tutti, perché la Siria è un Paese a maggioranza islamica però è un islam moderato e i musulmani siriani rigettano questo estremismo; addirittura quei giovani militanti che vanno ad ingrossare – parlo di siriani – le file di questi estremisti dello Stato islamico, in genere non vanno per convinzioni ideologiche, ma perché sono frustrati nel vedere che gli ideali di democrazia e di libertà non vanno avanti, che la situazione è in stallo … Quindi, passano a loro perché sono più efficienti e anche perché a volte ne ricevono un sostegno economico maggiore.

D. – Come si spiega, lei, la diffusione di questo integralismo islamico, di questa ferocia che vediamo?

R. – Trova un terreno adatto, qui: in Siria, in Iraq, in questa regione che sta vivendo veramente dei momenti molto, molto difficili … Queste mancate soluzioni, questo conflitto che perdura, è un terreno favorevole alla crescita di questo estremismo. E poi ci sono tanti anche in Europa che seguono queste utopie di creare una società utopica, perché è fallito il tentativo di riforma e di portare avanti degli Stati più democratici, con maggiore libertà. E allora, scatta la molla di queste utopie.

D. – C’è il rischio che sempre più cristiani lascino il Paese?

R. – Purtroppo questa è una realtà quotidiana. I Patriarchi ed i vescovi continuamente qui invitano e incoraggiano i fedeli, i cristiani, a rimanere, ma in certe condizioni, quando magari si tratta del rischio della vita o di un futuro molto incerto, si può anche capire questa spinta dei cristiani a cercare, se possibile, di emigrare nei Paesi limitrofi o in Europa. Ma bisogna stare attenti: non sono soltanto i cristiani che pensano di emigrare, ma è la gente che si trova in queste condizioni, la gente che si trova sotto i bombardamenti, la gente che si trova sotto la pioggia di colpi di mortaio, la gente che ha perso il lavoro, che ha avuto la casa distrutta … E’ tutta questa gente cerca di emigrare e di trovare un futuro migliore per la propria famiglia.

D. – Il Papa continua a seguire da vicino la situazione in Siria …

R. – Continuamente! E’ nel cuore del Santo Padre la Siria come l’Iraq, la Terra Santa … sul suo tavolo si trovano le informazioni che arrivano soprattutto da questi Paesi …

D. – Quali sono le prospettive di questa guerra?

R. – Bisogna vincere il pessimismo, perché se ci si guarda attorno, purtroppo la situazione è andata peggiorando. C’è stato in questi ultimi mesi un salto di qualità in negativo che, alcuni mesi fa, nessuno si sarebbe immaginato: avere a che fare con l’utopia di questo Stato Islamico, con queste atrocità … L’avvenire rimane alquanto incerto, anche se dobbiamo avere fede che Dio non dimentica queste persone …

D. – Lei vuole lanciare un appello dai microfoni della Radio Vaticana?

R. – Soprattutto direi alle tre religioni monoteistiche, che sono chiamate a convivere qui e a diffondere il messaggio della pace, direi ai fedeli e ai leader di queste tre religioni monoteistiche: “Raddoppiate gli sforzi per incoraggiare alla pace e per pregare per la pace!”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Il messaggio del Papa per il Meeting di Rimini.

Papa Sarto e la magnifica impresa: il cardinale segretario di Stato conclude a Riese le celebrazioni per il centenario della morte.

Fuga di massa dalle violenze: più di settecentomila i civili rifugiatisi nel Kurdistan iracheno per sfuggire alle efferate violenze dei miliziani.

Il pellegrinaggio è postmoderno: Ugo Sartorio su religione in movimento.

Oltre il tango: il cardinale Gianfranco Ravasi sulle impronte religiose nella musica argentina.

Un articolo di Enrico Reggiani dal titolo "Ma chi approfondisce Hopkins?": esce in Italia una nuova antologia del poeta.

Lazzaro e le briciole di missere Pappa: Giovanni Cerro a proposito della metamorfosi di una parabola.

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Oggi in Primo Piano



Nuove tensioni Russia-Ucraina, Merkel: "La pace è possibile"

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Una pace in Ucraina è possibile, a condizione che sia Kiev che Mosca “si impegnino” per questo. Lo ha detto Angela Merkel dopo aver incontrato il presidente ucraino Petro Poroshenko. La priorità, ha spiegato la cancelliera tedesca, resta “una soluzione diplomatica” della crisi. Intanto, sono rientrati in Russia i camion del convoglio umanitario il cui ingresso in Ucraina – non autorizzato, secondo Kiev - aveva fatto crescere la tensione. Partendo da questo punto, Davide Maggiore ha chiesto a Marco di Liddo, analista del Centro studi internazionali perché l’attenzione di Mosca allo scenario ucraino resta alta: 

R. – Putin ci ha abituato ad azioni dirette. L’establishment del Cremlino non può dimostrarsi debole e non può rinunciare al dossier del sostegno della ribellione delle regioni orientali ucraine, per una questione non solo di principio, ma anche di prestigio. Ha investito molto in quel dossier, e nel caso in cui ci rinunciasse troppo facilmente rischierebbe un ridimensionamento del proprio sostegno interno, nonché un danno a quella che Putin ritiene essere l’immagine che la Russia deve dare a livello internazionale.

D. – Si inserisce, quindi, in questo contesto anche la pressione militare, che si starebbe effettuando alle frontiere con circa 18 mila uomini dispiegati?

R. – Da quando è iniziata la crisi, la Russia ha sempre mantenuto un nutrito contingente militare ai confini dell’Ucraina. Nel periodo più duro della crisi, questo contingente ha raggiunto anche le 40 mila unità. Giocare la carta della pressione militare fa parte della politica del Cremlino, che intende mostrare i muscoli per mandare un messaggio all’Occidente, ossia: la Russia è presente e non rinuncerà facilmente ad una sfera di influenza che ritiene personale e irrinunciabile. Detto questo, al momento l’opzione di un’invasione di terra, diretta, sembra residuale ma la storia e l’esperienza ci hanno insegnato che le decisioni al Cremlino sono spesso imperscrutabili.

D. – Angela Merkel è in visita a Kiev. Come valutare l’atteggiamento dell’Europa di fronte a questa crisi?

R. – Ci sono molti Paesi, molte aziende strategiche europee, che hanno interessi in Russia e fiorenti rapporti commerciali con la Russia. Non tutti i Paesi, sia per queste ragioni economiche sia per ragioni politiche, intendono peggiorare i rapporti con il Cremlino a causa di un dossier come quello ucraino, che è sicuramente più sentito dai Paesi baltici e dai Paesi dell’Europa orientale che dai vecchi membri dell’Unione Europea. La visita della Merkel si pone come la visita del capo del governo tedesco, che è stato tra i principali sostenitori della rivolta in Ucraina e, quindi, è un segnale di sostegno più tedesco che pienamente e maturamente europeo.

D. – Sempre dalla Germania sono arrivate le dichiarazioni del vice cancelliere Sigmar Gabriel, che dice di vedere di buon occhio una soluzione federale per il futuro dell’Ucraina. Può essere questa la chiave per risolvere la crisi?

R. – Questo è un progetto che piace anche al Cremlino. Naturalmente, bisognerà pensare in modo molto attento quali saranno i poteri delle regioni. A Mosca piacerebbe una soluzione in cui le regioni dell’Est siano in grado di porre un veto o di influenzare le decisioni di tutto il Paese e parlo, in particolare, di una maggiore integrazione europea o di un’eventuale integrazione atlantica; più a Ovest la soluzione patrocinata è quella di un Paese che garantisca ampie autonomie economiche, linguistiche, culturali, ma con un governo centrale, comunque, in grado di prendere decisioni strategiche autonome.

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Iraq: corsa contro il tempo per curare i bambini cardiopatici

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Il drammatico esodo dei profughi iracheni sta mettendo in difficoltà l’attività ordinaria dell’unità di cardiochirurgia pediatrica all’interno del Centro Chirurgico di Duhok, nel Kurdistan iracheno: la struttura, infatti, è stata messa a disposizione - d’accordo con le autorità curde - per gestire l’emergenza. Sul blocco dei ricoveri e degli interventi ospedalieri, Paolo Giacosa ha intervistato il prof. Alessandro Frigiola, primario di cardiochirurgia pediatrica dell’IRCCS Policlinico San Donato e fondatore – insieme alla prof.ssa Silvia Cirri – di “Bambini Cardiopatici nel Mondo”, la Onlus che collabora anche con il Centro di Duhok: 

R. – Sicuramente l’attività ordinaria è bloccata e questo può comportare dei rischi per i numerosi bambini affetti da una cardiopatia congenita. La situazione di emergenza, però, in cui volge il Paese, in quell’area del Medio Oriente, in questo momento, richiede la priorità. Perciò, d’accordo con le autorità curde, abbiamo acconsentito che il centro temporaneamente venga chiuso per quanto riguarda l’attività di cardiochirurgia, mettendolo a disposizione completa per tutti i profughi, in particolare i bambini che arrivano da tutti i Paesi limitrofi.

D. – Il dramma umanitario è quindi doppio: da una parte le famiglie costrette a fuggire dalle loro abitazioni e, dall’altra, la difficoltà di proseguire interventi chirurgici pediatrici di eccellenza...

R. – Purtroppo ci troviamo di fronte a due drammi umanitari. E’ importante sapere che il Kurdistan ha un’incidenza di cardiopatie congenite cinque volte superiore a quelle di tutti gli altri Paesi. E nel nostro programma dell’associazione “Bambini Cardiopatici nel mondo” – in collaborazione con il Ministero della Salute del Kurdistan – ci sono 5 mila bambini in lista di attesa, che devono essere operati per una cardiopatia congenita. Ma, dall’altra parte, abbiamo un dramma umanitario di proporzioni ancora più vaste. In questo momento, quindi, la scelta è di affrontare l’emergenza.

D. – Da quanto tempo siete sul territorio iracheno?

R. – Sono più di sette anni. Abbiamo effettuato più di venti missioni e trattato più di 250 bambini cardiopatici, in associazione con la “Heevie Nazdar for Children”, che è l’associazione che in questo momento si occupa di aiutare i profughi. Ma il grande progetto è soprattutto quello di rendere autonomo il centro di cardiochirurgia di Duhok, per quanto riguarda l’attività pediatrica. A questo proposito abbiamo formato medici e infermieri. Il governo curdo in questo momento ha congelato tutti i finanziamenti relativi allo sviluppo del Centro, dedicandoli ovviamente alla priorità, che è l’emergenza umanitaria provocata dalla guerra. Ma noi dobbiamo continuare a lavorare per formare questi medici. Così l’associazione "Bambini Cardiopatici nel mondo" e la "European Heart for Children" offrono borse di studio per permettere a questi medici di venire in Italia per la formazione e a settembre arriveranno quelli che continuano il programma. Stiamo preparando il chirurgo, che ha fatto cinque anni di studio in Italia, e in questo momento è a Boston, presso l’Harvard Children’s Hospital, dove sta completando il suo ciclo di formazione. L’anno prossimo tornerà e sarà il direttore del Centro. Questo, quindi, sarà autonomo al cento per cento e potrà effettuare tutti gli interventi.

D. – Quali sono i progetti futuri della vostra associazione?

R. – Il Kurdistan e l’Iraq del Nord sono uno dei progetti, che porteremo a termine sicuramente. Nel frattempo, stiamo lavorando per la realizzazione di altri grandi progetti, come in Camerun, in Etiopia, in Senegal, in Romania e in Siria, a Damasco. E’ un progetto che permetterà la realizzazione di 15 centri di cardiochirurgia, di cui ben sette in Africa, per operare bambini che hanno un problema al cuore. Se cerchiamo di raggiungere la pace, se cerchiamo di raggiungere una collaborazione tra i popoli, dobbiamo farlo andando da loro e aiutandoli a progredire anche nel campo della medicina.

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Giornata internazionale per l'abolizione della schiavitù indetta dall'Onu

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Si celebra oggi la Giornata internazionale della commemorazione del commercio degli schiavi e della sua abolizione. Un giorno per ricordare questa tragedia dell’umanità, ma anche per aprire gli occhi sulle moderne forme di schiavitù ed agire insieme per debellarle. Cecilia Seppia: 

Una Giornata per commemorare l’abolizione della schiavitù e della tratta e onorare i milioni di africani che per oltre tre secoli sono stati violentemente e sistematicamente strappati alle loro terre, venduti, trattati come carne da macello. Ma ancora oggi, il razzismo inquina il nostro mondo e la schiavitù esiste in forme diverse, spesso mascherate ma altrettanto umilianti di quelle del passato, come lo sfruttamento sessuale, quello lavorativo, l’impiego dei bambini soldato, il mercato di organi. D’altra parte stando ai dati dell’Onu queste piaghe affliggono attualmente 21 milioni di persone, l’80 per cento delle quali donne e bambini in cerca di stabilità e benessere che si ritrovano vittime di trafficanti e criminali. Cosa si deve fare allora per spezzare queste nuove catene? Riccardo Nouri portavoce di Amnesty International Italia:

R. - Servono intanto norme internazionali adeguate, perché le norme dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro parlano chiaro, così come le convenzioni internazionali sul traffico di esseri umani; però mancano aspetti di coercizione, di giustizia internazionale. C’è un sistema di denuncia degli organi internazionali per la violazione dei diritti economici e sociali, che ancora non funziona. Poi, quello che occorre indubbiamente è che le autorità dei Paesi in cui transitano o in cui arrivano persone vittime di traffico di esseri umani, adottino misure molto rigorose per impedirlo, e misure di tutela profonda per i lavoratori che vengono sfruttati, le lavoratrici che vengono sfruttate. Ci vorrebbe attenzione, ad esempio, anche in settori inconsueti al tema dello sfruttamento del lavoro migrante, come nella costruzione di impianti sportivi in Qatar. E quindi questo manca sicuramente, così come il mondo dell’informazione, dei media, dovrebbe essere più pronto a denunciare in maniera più continuativa fenomeni di schiavitù anche quando accadono nel nostro Paese. Ci vorrebbe anche un’attenzione maggiore da parte dei consumatori perché poi ci sono prodotti di largo consumo - penso all’alimentazione, all’abbigliamento, … - che lungo una trafila ed una filiera incontrollabile giungono da noi e vengono acquistati anche a prezzi economici, perché alla base c’è un lavoro minorile o adulto in condizioni di schiavitù. Pensiamo a molti articoli che arrivano dai centri di detenzione, ai campi di rieducazione ed altre strutture detentive della Cina, e pensiamo alla sofferenza di persone in prigionia, costrette a lavorare per i nostri capi di abbigliamento.

Un tema quello della schiavitù particolarmente sentito da Papa Francesco, che per la 48esima giornata mondiale della Pace del primo gennaio 2015 ha scelto il titolo “Non più schiavi ma fratelli”. La schiavitù infatti – Spiega il Pontificio Consiglio Giustizia e Pace “colpisce a morte la fraternità universale”, mentre fondamentale, prima di ogni intervento e misura, è riconoscersi fratelli con pari dignità e diritti. Questo è uno degli obiettivi primari della Santa Sede per l’anno che si apre. Ancora Riccardo Nouri:

R. - É un segnale molto importante che il Papa ha voluto dare, perché sono parole chiare di indirizzo e con un’autorità morale straordinaria. Ora sta agli altri, ai governi, ai leader della Comunità internazionale, all’opinione pubblica dare seguito a queste parole. Il Santo Padre ha indicato molto chiaramente che c’è una linea che non va mai oltrepassata: è la linea dei diritti, della dignità. Quando si dice fratellanza, significa questo: riconoscere i diritti dell’atro come propri e viceversa.

Prendere atto di queste nuove schiavitù e denunciarle è il primo passo verso una soluzione. Lo devono fare non solo i governi, attraverso leggi appropriate, ma anche i mezzi di comunicazione, le scuole, le varie espressioni della società civile e pure le diverse religioni, ciascuno facendosi carico anche del proprio ruolo formativo ed educativo.

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Perdonanza Celestiniana. Mons. Petrocchi: il perdono umanizza

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Aperta all’Aquila la 720.ma edizione della Perdonanza Celestiniana. In questa occasione l'arcivescovo della città, Giuseppe Petrocchi, ha scritto alla comunità ecclesiale e civile un messaggio in cui spiega cosa sia il perdono cristiano. Federico Piana lo ha intervistato: 

R. - Ogni affermazione del Vangelo non ha soltanto una valenza spirituale ma ha anche una grande potenza di umanizzazione: cioè, ciò che corrisponde al piano di Dio è anche ciò che realizza pienamente l’uomo. Di conseguenza, dobbiamo cercare di esplorare il significato del perdono non soltanto nella sua valenza sacramentale ma anche nei riflessi che ha sul piano personale e sociale. Vivere il perdono significa assicurare la salute sul piano dell’anima ma anche delle relazioni interpersonali e comunitarie. Il perdono non è rinuncia alla giustizia, non è un arrendersi di fronte a una violenza subita. Il perdono pone le condizioni autentiche: ricostituire quel bene che è stato danneggiato.

D. - Come si è preparata la sua diocesi a vivere questo evento straordinario?

D. - La diocesi si prepara anzitutto attraverso una catechesi che viene riproposta nelle comunità parrocchiali, una tradizione, quella della Perdonanza, che ha ormai anche itinerari collaudati, e quindi consolidati nel tempo. Oltre, all’aspetto, lo sottolineo, interno alla comunità ecclesiale, si cerca anche di avere con le istituzioni civili un dialogo, un confronto, e quelle forme di convergenza importanti perché mirate a promuovere il bene comune che è il bene di tutti e di ciascuno. Quindi, cerchiamo di fare in modo che la Perdonanza possa essere sempre di più e sempre meglio un evento che coinvolge l’intera comunità ecclesiale e sociale.

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"Un soffio di speranza", Gianni Guerriero canta la fede e la vita

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Gianni Guerriero è un giovane cantautore cattolico, nativo di Senise in provincia di Potenza. Laureato in filosofia, canta la fede, la famiglia e la vita nel suo album “Un soffio di speranza”. Paolo Giacosa lo ha intervistato: 

R. – La musica è sempre stata uno dei miei punti fermi. Assieme alla musica ho coltivato anche la filosofia e ho iniziato a comporre testi e musiche come autodidatta per chitarra e mandolino. Ho mantenuto, comunque, sempre vivo questo desiderio di esprimere in musica le mie emozioni, finché nel 2013, ho maturato questo mio primo lavoro, tutto autoprodotto.

D. – L’album nasce con l’intento di essere la base per un futuro musical...

R. – L’album è composto da 20 tracce. L’apertura del disco è un po’ insolita. Solitamente, infatti, si inseriscono nel disco 10 brani; io, invece, ho voluto inserire 20 tracce. Secondo un percorso logico, ci sono scenari, sia dal punto di vista musicale che dello stile; quindi varie tematiche sul senso religioso, sul tema della vita. Nel titolo del disco è racchiuso un poco il senso di questo percorso musicale: spesso potrebbe bastare un soffio per dare vita alla speranza. Dopodiché ho pensato ad un arcobaleno e, allo stesso modo, volevo dar vita a canzoni con toni e sfumature diverse. E mi sono chiesto: perché non parlare di Dio o di tematiche sul senso religioso, allo stesso modo in cui vengono proposti temi di vita quotidiana o quando si esprime l’amore verso la propria amata?

D. - La copertina raffigura la spiaggia, il mare, l’orizzonte: un’immagine immediata per capire l’anima del cd...

R. – Volevo mettere come protagonista uno scenario a me caro: l’orizzonte e gli elementi della natura, che richiamano un po’ tutto quello che è la creazione. Da questo si evince il mio desiderio di esprimere qualcosa che abbraccia tutti gli uomini.

D. – La scelta di parlare indipendentemente a credenti e non credenti è stata ripagata dal terzo posto nel concorso indetto da una radio laica di Bologna...

D. – L’album è uscito a dicembre 2013. Dopo circa un mese mi chiama la coordinatrice di un format di Bologna che si chiama “Musici e poeti”, in cui si esibiscono circa 60 cantautori e poeti. Sono andato lì senza aspettarmi nulla, dicendo che la vita va difesa sin dal concepimento. Io dico, come provocazione, che senza il seme della terra come potrà mai esserci l’albero e come potrà esserci il frutto? Partecipando con questo tema, non mi aspettavo certamente di arrivare in finale. Ho superato la prima eliminatoria, la seconda, fino ad arrivare alla finalissima e di questo sono felice. Lì, nella giuria, sentivo alcuni che dicevano: “Che bel coraggio che hai avuto!”.

D. – Ci può commentare “Il timoniere” e un “Soffio di speranza”, due brani molto significativi?

R. – “Il timoniere” è il brano che dà avvio al disco. E’ nato prima sotto forma di preghiera. Io spesso mi chiedo quale sia la rotta giusta nelle mie scelte quotidiane, nelle scelte determinanti. Spesso noi siamo portati a sentirci autosufficienti, protagonisti della vita, dominatori delle cose. A questo punto in me nasce, invece, una consapevolezza: spesso credo di fare la cosa giusta, però non è così. Allora, nelle parole unite alla musica, esce questa canzone, dove dico: “La barca della mia vita, guidala Tu”. Mi muovo in un quadro che si estende verso temi che sono a me cari, quali il senso della vita, della famiglia, come atto d’amore. “Un soffio di speranza” è il tema della vita, la difesa della vita fin dal concepimento.

D. – Il cd è stato occasione, per alcuni suoi amici, per riavvicinarsi alla fede in maniera inaspettata...

R. – Io sono stato chiamato da alcuni amici che non frequentavano la Chiesa. Molti hanno comprato il disco proprio perché non pensavano che avesse in sé tematiche religiose. Hanno visto la copertina splendente con il mare, l’orizzonte e l’hanno ascoltato in macchina. Molti mi hanno chiamato dopo una settimana, dicendomi: “Noi lo ascoltiamo sempre, di continuo”. Ed alcuni mi hanno detto che sono tornati anche a Messa...

D. – Si parla di fede come relazione. Come coltiva nel quotidiano questo aspetto della vita?

R. – Parto dal fatto che sono cattolico e che il primo punto su cui si basa la fede è proprio la domenica, la Messa domenicale, con i Sacramenti: l’Eucarestia, la Confessione. Nel mio Paese, Senise, in provincia di Potenza, c’è il gruppo della Medaglia Miracolosa e c’è anche il Movimento di Comunione e Liberazione, che io frequento da anni. Se io non dovessi frequentare questi gruppi, probabilmente da solo sarebbe più difficile.

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Il commento di don Ezechiele Pasotti al Vangelo della Domenica

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Nella 21.ma Domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci presenta il passo del Vangelo in cui Gesù, chiede ai discepoli: “Chi dite che io sia?”. Pietro risponde: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù dice:

«Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”.

Su questo brano evangelico, ascoltiamo il commento di don Ezechiele Pasotti, prefetto agli studi nel Collegio Diocesano missionario “Redemptoris Mater” di Roma: 

Gesù giunge con i suoi discepoli nella regione di Cesarea di Filippo, ai piedi del Monte Hermon, una ragione di confine, di pagani. E qui pone ai suoi discepoli due domande importanti: “Chi sono io per la gente? Chi sono io per voi?”. Al tempo di Gesù l’attesa per la venuta del Messia era molto forte, tanto che alcuni esegeti parlano di una specie di “febbre messianica”. La gente facilmente, nelle parole e nelle opere del Cristo, vede nuovamente vivo Giovanni Battista, o Elia, Geremia o qualcuno dei profeti. Ma la domanda che sta a cuore a Gesù è un’altra: “Ma voi, chi dite che io sia?” – e la domanda giunge oggi fino a me ed a te, direttamente. Nasce dal cuore di Cristo e giunge al cuore dell’uomo, così come la risposta di Pietro, nasce dal suo cuore, per rivelazione del Padre, e giunge al cuore di Cristo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. È la domanda ed è la risposta della fede. E sulla fede di Pietro, che è dono del Padre, Cristo fonda la sua Chiesa, con il potere di legare e di sciogliere, di perdonare e di santificare, con la missione di evangelizzare, di annunciare la buona notizia a tutte le genti. La Chiesa è stabilita sulla comunione con Pietro e nell’obbedienza a Pietro. Consola e conforta sentire anche oggi la parola del Signore che sigilla questo disegno di Dio: “Le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”. Dà forza poter camminare anche nel mondo di oggi, non con presunzione, ma con la certezza che a condurre la Chiesa è lo Spirito di Dio.

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Nella Chiesa e nel mondo



Iraq: Onu condanna attacco a moschea sunnita, oltre 70 morti

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Gli attacchi contro i luoghi di culto sono “inaccettabili”, “proibiti dal diritto internazionale” e “utili solo ai nemici dell’Iraq”. Così il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha condannato l’attacco di ieri contro una moschea sunnita nel governatorato orientale di Dyiala, di cui si cercano ancora i responsabili: vi hanno perso la vita oltre 70 persone. Dura presa di posizione anche del dipartimento di Stato Usa, che ha parlato di fatti “abominevoli”. (D.M.)

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Kenya: gli Shebab decapitano un cristiano

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In Kenya, miliziani islamisti Shebab hanno decapitato, nei pressi dell'isola turistica di Lamu, un autista keniano di religione cristiana, sequestrato con dei commercianti musulmani che sono invece stati liberati. Lo ha riferito la polizia. I militanti avevano sequestrato il gruppo di commercianti mercoledì portando gli ostaggi nella foresta di Boni.

Gli agenti hanno specificato che il corpo della vittima è stato rinvenuto venerdì nella foresta. A quanto riferito dai superstiti, gli aggressori erano armati fino ai denti e si sono presentati come Shebab in missione per combattere le forze di sicurezza in Kenya. Gli Shebab somali hanno lanciato a più riprese attacchi in territorio keniano, come rappresaglia contro la presenza militare keniana in Somalia nel quadro della forza dell'Unione Africana che sostiene il fragile governo contro i fondamentalisti islamici. 

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Belgio: cattolici, ebrei e musulmani uniti nel difendere la libertà religiosa

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“Condanniamo la violenza perpetrata in nome della fede e lanciamo un forte appello al rispetto dell’altro, indipendentemente da credo, razza, etnia o cultura”: è quanto scrivono, in una dichiarazione congiunta, mons. André-Joseph Léonard, arcivescovo di Malines-Bruxelles, il Gran Rabbino del Belgio, Albert Guigui, e Noureddine Smaili, presidente dei musulmani belgi. Il documento è stato diffuso mentre in molti Paesi mediorientali, in particolare in Iraq, in Siria ed a Gaza, si registrano continuamente violenze contro numerose minoranze religiose, a causa dell’avanzata dei miliziani dello Stato Islamico.

Di fronte a “le tante vittime innocenti, le popolazione sfollate, i luoghi di culto distrutti, le violazioni dei diritti umani – scrivono i tre rappresentanti religiosi – nessuno può restare indifferente”. Tali “atroci avvenimenti”, dunque, comportano “il dovere morale di dare prova di solidarietà con tutte le popolazioni” colpite dai conflitti, cercando di “contribuire al raggiungimento di una soluzione”. In quanto “rappresentanti di tre religioni”, prosegue la nota, “spetta a noi condannare tutte le violenze commesse in nome della religione”, poiché nessun credo mai “metterà in pericolo la stabilità, la pace e la coesione sociale”.

Al contrario, si legge ancora nella dichiarazione congiunta, “lo spirito religioso promuovere la convivenza e la tutela della vita umana sulla terra”. “Niente – quindi – può giustificare l’espulsione o lo sterminio di minoranze etniche, religiose o di altro tipo”. Rifiutando, infine, “le strumentalizzazione della fede” in nome di “una guerra civile o religiosa”, e prendendo le distanze da “discorsi politici di circostanza”, mons. Léonard, il Rabbino Guigui e il musulmano Smaili invitano alla solidarietà con le popolazioni più colpite dai conflitti. (I.P.)

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Africa: impegno dei Gesuiti nella lotta al virus ebola

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Sono l’ignoranza, il pregiudizio e la paura i primi nemici da combattere, se si vuole debellare il virus ebola: lo afferma l’Ajan, il network dei Gesuiti che da anni si prende cura di pazienti affetti da un'altra terribile malattia, l’Aids. In una nota diffusa nella sua newsletter, l’Ajan sottolinea che “è urgente e necessario fornire un’informazione adeguata” per fermare il rapido diffondersi dell’ebola.

Soprattutto in Africa Occidentale – notano i gesuiti – “le persone rimangono contagiate a causa dell’ignoranza, del pregiudizio e della paura, che le portano a compiere atti controproducenti e dannosi, come l’attacco ad una clinica di Monrovia, in Liberia”. Nei giorni scorsi, infatti, un gruppo di uomini armati ha assaltato il centro medico liberiano dove erano ricoverati, in regime di isolamento, numerosi malati di ebola, costringendoli a fuggire.

Non solo: l’Ajan sottolinea che per alcune popolazioni “l’ebola è uno scherzo”, mentre per altre il virus “viene trasmesso appositamente dagli operatori sanitari” e per questo si decide di “portare via dagli ospedali i propri familiari”. “Alcune comunità rurali – spiega ancora padre Paterne Mombe, direttore dell’Ajan – si rifiutano di adeguarsi alle misure sanitarie proposte dalle istituzioni e dalle ong internazionali, che vedono come fonte del problema”. E questo comporta che “tutte le comunità, inclusa la Chiesa, hanno un compito importante da portare avanti, ovvero informare le popolazioni su come evitare l’epidemia”.

L’Ajan si è già attivata per agire su tre linee: informazione, formazione e comunicazione sull’ebola. Materiale apposito verrà diffuso capillarmente attraverso le comunità dei gesuiti, le parrocchie e le Caritas locali. Due le fasi dell’operazione: in un primo momento, poster illustrati, volantini ed opuscoli verranno diffusi nei Paesi in cui l’ebola è già una triste realtà; in un secondo momento, poi, si terranno dei veri e propri seminari informativi e formativi nelle nazioni in cui l’ebola potrebbe arrivare, così da prevenirne la diffusione. (A cura di Isabella Piro)

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Filippine: in attesa del Papa, la Chiesa dedica Anno pastorale ai poveri

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Sarà la cura e l’attenzione ai poveri il tema dell’Anno pastorale 2015 della Conferenza episcopale filippina. In particolare, i presuli rifletteranno su “l’impegno di diventare davvero una Chiesa povera per i poveri”, come auspicato da Papa Francesco che proprio dal 15 al 19 gennaio 2015 visiterà le Filippine. Affrontare sfide come “fame, povertà, globalizzazione, cambiamenti climatici” e sradicare i mali “della corruzione e degli squilibri politico-economici” dalla società saranno, quindi, le principali sfide da affrontare in questo ambito. “Tutta la Chiesa – sottolineano i presuli filippini – ricchi e poveri, potenti e non potenti, devono essere solidali nel restaurare integrità e verità, giustizia, pace e amore nel Paese”.

La scelta del tema dell’Anno pastorale rientra nell’ambito dei “Nove anni per la nuova evangelizzazione”, promossi dal relativo ufficio episcopale. Iniziati nel 2013, in coincidenza con l’Anno della fede indetto da Benedetto XVI per il 50.mo anniversario del Concilio Vaticano II, i “Nove anni” hanno riflettuto, tra il 2013 ed il 2014, sulla formazione integrale alla fede e sul ruolo dei laici, intesi come “agenti di evangelizzazione e promotori di trasformazione sociale”.

Nei prossimi anni, la Conferenza episcopale di Manila affronterà altri temi rilevanti: nel 2016, in coincidenza del 51.mo Congresso eucaristico internazionale, che avrà luogo a Cebu dal 25 al 31 gennaio, si rifletterà sul legame tra Eucaristia e famiglia. “Una famiglia evangelizzata è una famiglia evangelizzatrice”, spiegano i presuli, richiamandone poi il carattere di “Chiesa domestica” e sottolineando la necessità di “rafforzare l’istituzione del matrimonio” contro “le ideologie e i disvalori che lo distruggono”. Il 2017, invece, sarà dedicato alla parrocchia, affinché sia sempre più “una comunità di comunità”.

Sacerdoti e giovani, poi, saranno i protagonisti del biennio 2018-2019: i primi, definiti “la chiave della nuova evangelizzazione”, sebbene “non immuni da errori dovuti ad una dicotomia di fede e ad una inadeguata sequela di Cristo”, dovranno dedicarsi al “rinnovamento dei loro valori e comportamenti”. Ed anche i giovani, “presente e futuro della Chiesa”, vengono invitati ad una “maggiore partecipazione nella Chiesa stessa”, così come a “discernere in modo approfondito la loro vocazione nel mondo e la chiamata del Signore alla vita religiosa e consacrata”.

E ancora: nel 2020, i vescovi filippini rifletteranno su ecumenismo e dialogo interreligioso, “sfida formidabile per una nazione che lotta per essere un’unica comunità, un’unica famiglia umana, un’unica unità nella diversità”. La missione principale, allora, sarà quella di promuovere “i grandi valori della pace e dell’armonia soprattutto nelle aree di conflitto, portandovi solidarietà, integrità e giustizia sociale”. Il 2021, infine, ultimo anno del progetto episcopale, sarà riservato alla “missio ad gentes”, affinché ciascun fedele sia spinto a “diventare missionario a casa ed in parrocchia”, portando pienamente a compimento la propria vocazione cristiana. (I.P.)

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Bolivia. I vescovi: campagna elettorale minaccia stabilità democratica

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I vescovi della Bolivia sono preoccupati dalla piega che sta prendendo la campagna elettorale in corso per le presidenziali e parlamentari del prossimo 12 ottobre, che – affermano - minaccia la stabilità democratica del Paese. In un comunicato, intitolato “Per una democrazia che rafforzi il servizio del bene comune”, la Conferenza episcopale critica la violenza degli scontri verbali tra i candidati in lizza, la carenza di proposte serie e concrete per rispondere alle aspettative degli elettori e la disparità di mezzi tra i contendenti. Il partito di governo, denuncia in particolare la nota, “usa le risorse dello Stato per ottenere consensi e restare al potere”.

“Non è lecito cercare il potere per il potere”, avvertono i vescovi che chiedono una campagna più trasparente, proposte politiche orientate al bene comune e l’imparzialità del Tribunale Supremo Elettorale. Tre condizioni fondamentali – sottolineano - per la credibilità e la solidità democratica alle quali i cittadini hanno diritto quando esercitano liberamente il loro diritto di voto. Anche i media vengono esortati ad informare in modo responsabile e veritiero, evitando manipolazioni e rinunciando alla spettacolarizzazione della politica.

L’episcopato boliviano osserva, infine, che problemi strutturali del Paese come la povertà endemica, la crescita dell’insicurezza dei cittadini, l’aumento del narcotraffico l’inefficienza della giustizia, dei servizi educativi e sanitari sono stati finora assenti dalla campagna. Si tratta di “richieste dei cittadini che attendono risposte e proposte chiare per il futuro del Paese”, sottolineano i vescovi che concludono esortando i boliviani a far valere il proprio diritto di ottenere, dalle varie formazioni politiche, una lettura obiettiva e proposte fondate sulla realtà del Paese e sui bisogni più pressanti della gente. (A cura di Alina Tufani)

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Cordoglio in India per la morte del missionario Piergiorgio Mennini

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"Un missionario zelante, un vero testimone del Vangelo”: con queste parole, affidate ad un telegramma, il nunzio apostolico in India, l’arcivescovo Salvatore Pennacchio, ricorda padre Piergiorgio Mennini, il missionario gesuita scomparso il 16 agosto a Ranchi, nel Paese asiatico. Ricoverato in ospedale dal luglio scorso, dopo una grave caduta, il sacerdote si è spento all’età di 76 anni.

Fratello dell’arcivescovo Antonio Mennini, nunzio apostolico in Gran Bretagna, e del dott. Paolo Mennini, presidente dell’Associazione Tincani, padre Piergiorgio si trovava da 45 anni in India, dove aveva prestato servizio come direttore spirituale, guida, e consigliere fedele per migliaia di giovani in formazione a Pune, Chennai, New Delhi, Hazaribagh, Jharna, e Ranchi.

Le sue esequie si sono svolte il 19 agosto, presso la Cattedrale “Santa Maria” di Ranchi, e sono state presiedute dall’arcivescovo della città, il card. Telesphore Toppo, il quale ha sottolineato che la scomparsa di padre Mennini è “una perdita irreparabile per la Chiesa in India”. Dopo il funerale, la salma del missionario gesuita è stata sepolta a Jhanra, presso il Centro di Spiritualità dei gesuiti. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 235

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.