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Sommario del 26/08/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Ucraina. Mons. Shevchuk: ho scritto al Papa il grido della nostra gente

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L'Ucraina è al centro delle preghiere di Papa Francesco, che ha ricordato il dramma che vive il Paese europeo all'Angelus di domenica scorsa. Le notizie che giungono dall'est ucraino sono sempre gravi. Tre civili uccisi a Donetsk e dodici militari morti nelle ultime 24 ore è l’ultimo bollettino del conflitto armato che divide le truppe governative e dai miliziani filorussi. Secondo fonti delle Forze armate ucraine non confermate, sarebbero morti anche 247 miliziani separatisti. Nel pomeriggio a Minsk, si apre il vertice tra i leader dell'Unione doganale (Russia-Bielorussia-Kazakhstan), dell'Ucraina e dei rappresentanti Ue, durante il quale potrebbe svolgersi un incontro bilaterale tra Poroshenko e Putin. Intanto, a denunciare il dolore della popolazione chiedendo solidarietà internazionale è l’arcivescovo maggiore della Chiesa Greco-Cattolica Ucraina, Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, intervistato da Fausta Speranza: 

R. – Purtroppo, la situazione si sta aggravando, specialmente nella parte orientale dell’Ucraina, nelle regioni di Donetsk e Lugansk. Ogni giorno, abbiamo notizie dell’arrivo di armi pesanti, di nuovi soldati che stanno oltrepassando il confine tra Ucraina e Russia. Ogni giorno, muoiono circa 50 civili. Villaggi dove non c’è l’esercito ucraino, pure vengono rasi al suolo. Muoiono fedeli appartenenti a diverse confessioni religiose, a tante Chiese: ortodossi, cattolici, protestanti, ebrei, musulmani…

D. – Lei ha scritto a Papa Francesco. Che cosa in particolare delle sue lettere vorrebbe raccontarci, se può?

R. – Innanzitutto, volevo presentare al Santo Padre il dolore profondo del nostro popolo. Il dolore di tanti civili feriti, il dolore di tanti militari ucraini che sono fatti prigionieri: ogni giorno ne vengono torturati a decine, il dolore delle madri che perdono i loro figli, il dolore della Chiesa madre, che sta soffrendo insieme ai suoi figli. Questo ho scritto al Santo Padre, raccontando anche i fatti concreti della vita della nostra Chiesa nella regione di Donetsk: il piccolo monastero delle suore ancelle di Maria Vergine [Ancelle della Beata Vergine Maria Immacolata (S.A.M.I.)] è stato occupato dai militanti russi. Il nostro vescovo di Donetsk è stato cacciato dalla sua sede e la sua cancelleria è stata sequestrata con tutti i documenti. Molti sacerdoti sono stati costretti a lasciare le loro chiese. Perciò, la gente grida. Grida al cielo per avere giustizia, grida per la pace, grida per la solidarietà internazionale, perché l’Ucraina sarà veramente capace di resistere a questa aggressione soltanto se sarà appoggiata da una solidarietà internazionale.

D. – La gente è certamente addolorata, preoccupata ma anche disorientata da una situazione confusa di per sé…

R. – Certamente. Perché nessuno ci ha dichiarato guerra, non c’è lo stato di guerra in Ucraina. Proprio oggi il nostro presidente partecipa a un vertice a Minsk, dove incontrerà il presidente della Federazione russa, il presidente della Bielorussia, del Kazakistan. Saranno presenti, come ci dicono, anche i rappresentanti dell’Unione Europea. Da una parte, le relazioni diplomatiche ci sono, non c’è una guerra dichiarata. Ma dall’altra parte i carri armati entrano...

D. – Una preghiera…

R. – Io vorrei chiedere a tutti i cristiani, a tutti gli uomini di buona volontà che ci ascolteranno tramite la Radio Vaticana di pregare per la pace in Ucraina: pregare affinché non sia un conflitto armato aperto tra Russia e Ucraina. Questo è il nostro appello. Chiediamo al Signore, alla Vergine Maria, che è la Regina della pace, la pace in Ucraina.

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Tweet del Papa: “Non si può misurare l’amore di Dio: esso è senza misura!”

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“Non si può misurare l’amore di Dio: esso è senza misura!”: è il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account Twitter @Pontifex, seguito da oltre 15 milioni di follower, in 9 lingue.

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Nomine di Papa Francesco in Italia e Stati Uniti

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In Italia, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Lodi presentata da mons. Giuseppe Merisi, per sopraggiunti limiti d’età. Il Pontefice ha nominato vescovo di Lodi mons. Maurizio Malvestiti, del clero della diocesi di Bergamo, finora Sotto-Segretario della Congregazione per le Chiese Orientali.

Negli Usa, il Papa ha nominato vescovo di Toledo in America mons. Daniel Edward Thomas, finora Vescovo titolare di Bardstown ed Ausiliare dell’arcidiocesi di Philadelphia.

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P. Lombardi, precisazioni sulla vicenda di mons. Wesolowski

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Il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, è intervenuto per un chiarimento con i giornalisti sulla vicenda riguardante mons. Wesolowski, l’ex nunzio apostolico nella Repubblica Dominicana accusato di abusi e già condannato con sentenza canonica di primo grado alla dimissione dallo stato clericale. Contro questa sentenza, mons. Wesolowski – ha informato padre Lombardi – “ha proposto recentemente appello – entro il termine prescritto di due mesi" - e il "relativo giudizio presso la Congregazione della Dottrina della Fede è previsto in tempi brevi, nel corso delle prossime settimane (probabilmente in ottobre)”. In ogni caso, ha proseguito padre Lombardi, “mons. Wesolowski ha già cessato le funzioni diplomatiche e perduto la connessa immunità e, come già dichiarato in precedenza, il procedimento penale presso gli organi giudiziari civili vaticani proseguirà non appena la sentenza canonica sarà definitiva”.

Il direttore della Sala Stampa vaticana ha poi fatto riferimento a quanto apparso in questi giorni su organi di stampa. Nel merito, ha precisato, “bisogna osservare che le Autorità della Santa Sede – fin da quando il caso è stato loro proposto – si sono mosse tempestivamente e correttamente, alla luce dello status specifico di cui Mons. Wesolowski godeva come rappresentante diplomatico della Santa Sede. Ciò sia in occasione del suo richiamo a Roma, sia nella trattazione del caso in contatto con le Autorità della Repubblica Dominicana”.

Dunque, ha proseguito padre Lombardi, “lungi da ogni intenzione di copertura, ciò dimostra, invece, l'assunzione piena e diretta di responsabilità da parte della Santa Sede anche in un caso così grave e delicato, su cui il Papa Francesco si mantiene attentamente informato e che vuole sia affrontato con tutto il giusto e necessario rigore”. Infine, conslude padre Lombardi, di deve “osservare che, avendo mons. Wesolowski cessato le funzioni diplomatiche con la connessa immunità, potrebbe essere soggetto a procedimenti giudiziari anche da parte di altre magistrature che ne abbiano eventuale titolo”.

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P. Horn: freschezza spirituale di Papa Benedetto è straordinaria

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Si è concluso domenica scorsa, a Castel Gandolfo, il decimo incontro del “Ratzinger Schülerkreis”, l’incontro estivo annuale degli ex allievi di Papa Benedetto, il quale ha celebrato con tutti loro una Messa al termine dei lavori. Ne parla il direttore dello Schülerkreis, padre Stephan Horn, intervistato da Gudrun Sailer

R. – Ich mochte zunächst natürlich das nennen…
Innanzitutto, vorrei dire che c’è una cosa che ancora ci rammarica e cioè che il Santo Padre non abbia potuto essere presente alle discussioni teologiche. Quindi, ci manca qualcosa. Anche il cardinale Schönborn non ha potuto partecipare e per questo è stato tanto più importante che fosse invece presente il cardinale Koch, la nuova guida spirituale e teologica dello Schülerkreis. Abbiamo avuto un bravissimo relatore, il prof. Karl-Heinz Menke, che ha parlato della teologia della croce. Da un lato, la Croce come auto-rivelazione di Dio, dall’altro, l’evento della Croce come centro della storia del mondo, come importanza per ogni uomo.

D. – Questo nuovo Schülerkreis esiste ormai da sette anni: si percepisce una integrazione tra alunni “vecchi” e “nuovi”?

R. – Das kann man durchaus: Natürlich war man sich…
Certamente. È ovvio che sette anni fa non ci conoscevamo ancora. Ora, il gruppo si compone di 30 persone: quest’anno abbiamo accolto ancora soltanto due persone. Ma quest’anno in particolare è stato palpabile come il vecchio ed il nuovo Schülerkreis si stiano integrando. Infatti, il nuovo Schülerkreis ha sentito la necessità di confermare la propria identità e quindi ha parlato di questo tema: io ho avuto l’impressione che il nuovo Schülerkreis, insieme al vecchio, si intendano e si sentano come una famiglia. Inizialmente, Papa Benedetto sentiva il “suo” Schülerkreis come la “sua” famiglia e ora questa famiglia si allarga. Abbiamo tutti rilevato con sgomento che un certo numero di personalità importanti del vecchio Schülerkreis non abbiano potuto essere presenti, soprattutto per ragioni di salute, e che quindi diventa ancora più importante che i giovani maturino al suo interno.

D. – Domenica c’è stato poi il culmine solenne, con la celebrazione della Messa nel Camposanto Teutonico, presieduta da Papa Benedetto XVI. Com’è andata?

R. – Das war wunderbar! Erstens, die Vorfreude…
È stato bellissimo! Intanto, l’attesa e poi la gioia di Papa Benedetto, la Messa – una bella Messa, solenne – con l’omelia del Papa, come fa sempre, sul Vangelo del giorno… La sua predica è stata fresca: e la prova è stata nell’incontro successivo, dove ci è apparso più fresco che un anno fa… Naturalmente, è passato un altro anno, ma la freschezza spirituale e la gioia che ci ha dimostrato sono state straordinarie!

D. – Sapete già quale sarà il tema dello Schülerkreis dell’anno prossimo?

R. – Also, vielleicht konnte ich schon zwei…
Forse ne posso indicare due, ma non abbiamo ancora deciso niente. Uno dei temi è “Come parlare oggi di Dio?”. L’altro riguarda la questione del gender. Sarà nostro impegno affrontare questo argomento, che pure sollecita tante emozioni, nella maniera più obiettiva e lucida possibile, senza lasciarci trascinare dall’emozione, ma soprattutto a livelli molto alti, affinché gli argomenti possano essere esposti e valutati nel modo più chiaro.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Pieluigi Natalia sulla diga della discordia: Egitto, Etiopia e Sudan riprendono le trattative sul Nilo.

Ma come mai non ci sono pinguini al Polo Nord? Carlo Maria Polvani sulla teoria dell'evoluzione tra Darwin e Popper.

Ritorno a Venezia: Carlo Verdone - che il primo settembre sarà insignito del premio Robert Bresson - ricorda le estati più belle della sua vita con il papà.

Un articolo di Silvia Guidi dal titolo "Quell'attimo in cui il passato riemerge dalla terra": nonostante la guerra continua con passione il lavoro degli archeologi in Siria.

Vasi comunicanti, dal documento di Aparecida alla "Evangelii gaudium": intervista di Nicola Gori a Guzman Carraquiry Lecour, segretario della Pontificia Commissione per l'America Latina.

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Oggi in Primo Piano



Siria. Gli Usa sorvolano i territori in mano allo Stato Islamico

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Gli Stati Unti intervengono nella crisi in Siria. Secondo fonti giornalistiche, sono iniziati i voli di sorveglianza sulle zone del territorio controllate dai gruppi jihadisti dello Stato Islamico (Is). Intanto, sul terreno non si placa la violenza che, in oltre tre anni di conflitto, tra oppositori e militari fedeli al regime di Assad, ha provocato oltre 170 mila morti e nove milioni di sfollati. Massimiliano Menichetti ha parlato della decisone statunitense con il prof. Maurizio Simoncelli, vicepresidente di Archivio disarmo: 

R. – Evidentemente, la situazione è andata cambiando rispetto a settembre scorso, quando si parlava addirittura di un possibile intervento statunitense contro il governo siriano, in relazione alla vicenda delle armi chimiche. Oggi, di fronte a un governo islamico, quale quello che si sta presentando sulla scena internazionale, questo intervento sembra una scelta nella logica delle cose. Certamente, va a ribaltare tutta una serie di equilibri delineati nell’asse Iran-Assad-Russia e così via, per cui probabilmente anche l’Iran sarà disponibile a dare un sostegno a una strategia contro l’Is e pensiamo che anche l’Arabia Saudita sia interessata a evitare un pericolo di questo genere.

D. – Adesso, dunque, si ridisegnano le alleanze per contrastare quella che viene considerata una minaccia forte?

R. – Certamente, perché lo Stato islamico in un primo momento sembrava che fosse in realtà una porzione della Siria. Oggi, lo Stato islamico diventa uno Stato transnazionale e così come si va configurando è una minaccia aperta per tutti i governi della regione e per i Paesi che svolgono una strategia globale, come gli Stati Uniti, ma anche la Russia e la Cina.

D. – C’è un rischio concreto che dalla sorveglianza si passi a un intervento armato degli Stati Uniti?

R. – Il primo passo fondamentale è la ricognizione sul campo: individuare dove sono gli avversari. A oggi, sapere con certezza se questo porterà a un intervento armato o meno certamente è troppo presto.

D. – Alcuni osservatori internazionali hanno ipotizzato che i miliziani integralisti siano stati aiutati, in un primo momento, proprio dal regime di Assad, per poi ottenere un consenso internazionale a un intervento all’interno della Siria, e che poi queste milizie jihadiste siano uscite dal controllo del regime. Secondo lei, questa tesi è verosimile?

R. – Ci sono diverse testimonianze in tal senso. Armare dei gruppi integralisti per poterli poi utilizzare è comunque molto difficile. Sappiamo che è stato fatto già nel passato ad esempio in Afghanistan e abbiamo visto il risultato con Bin Laden e al Qaeda. Oggi, ci ritroviamo in una situazione simile. La certezza di utilizzo comunque non c’è, ma sicuramente il flusso di armi che è arrivato a queste forze è notevole, come notevole è il flusso finanziario, che ha messo in grado lo Stato islamico di avviare un’offensiva militare di tutto rispetto.

D. – Alcuni dicono che anche le monarchie del Golfo abbiano avuto parte a questo progetto...

R. – Si parla ripetutamente anche dell’Arabia Saudita, in questo campo...

D. – ...che ora, però, si impegnerebbe per contrastare lo Stato islamico...

R. – Così sembrerebbe. Ma ricordiamo che nel Medio Oriente i giochi politici sono molteplici e su diversi tavoli: i Paesi che fino a poco tempo fa erano anche avversari si trovano oggi ad essere alleati e Paesi che erano alleati oggi si mostrano avversari. Forze nuove emergono nel territorio e ci sono popoli che pongono nuove esigenze.

D. – Come leggere la decisione di armare i curdi contro lo Stato islamico?

R. – Armare i curdi  è stata una delle prime risposte che l’Unione Europea è riuscita a dare, compresa l’Italia, ma non dimentichiamo che questo potrebbe aprire altre prospettive. Quando parliamo di popolo curdo, parliamo di Kurdistan, parliamo anche di una parte della Turchia, di una parte dell’Iran e di una parte della Siria. I curdi abitano questi quattro Paesi oltre l’Iraq e quindi armare i curdi, in prospettiva, potrebbe provocare un altro nodo da affrontare. 

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Iraq. Intersos: Erbil è crocevia dei profughi in fuga

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L’Iraq continua a vivere in un perenne stato d’emergenza: a Baghdad è esplosa oggi un’autobomba che ha causato almeno 15 morti e una quarantina di feriti. Sempre stamattina, l’emittente televisiva “Al Sumaria” ha riferito che la diga di Mosul era stata conquistata nuovamente dallo Stato islamico: la notizia è, però, poi stata smentita da fonti militari irachene. Intanto, negli scontri per fermare l’avanzata dello Stato Islamico interviene anche Teheran. Il presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno, Barzani, in una conferenza stampa congiunta con il ministro iraniano degli Esteri Zarif ha annunciato che l’Iran ha recentemente fornito armi ai curdi iracheni per combattere i jihadisti. Si teme che possano conquistare anche città sante per gli sciiti. Questi conflitti causano, però, un dramma umanitario molto grave. Oltre milione e mezzo di sfollati interni in Iraq necessita, infatti, di assistenza continua: fuggono, infatti, in qualsiasi modo, molti a piedi, con solamente i vestiti che indossano, lungo percorsi su terreni difficili, sotto il sole e con poca acqua. Per avere un quadro della situazione, Paolo Giacosa ha intervistato Marco Rotelli, segretario generale di Intersos, recentemente ritornato dal campo di Erbil: 

R. – La situazione è ancora in totale divenire. Oggi, abbiamo oltre un milione e mezzo di sfollati interni - quindi di persone che sono scappate da queste aree sotto controllo dello Stato Islamico - che si aggiungono però alla casistica di rifugiati che arrivavano già lo scorso anno dalla Siria, e quindi siriani che si erano spostati in Iraq. La situazione ha messo in estrema difficoltà le organizzazioni non governative, le Nazioni Unite e il governo di Baghdad stesso – per questioni militari di difesa dei “nuovi confini” in questo momento – ma soprattutto le organizzazioni umanitarie per la gestione di questo enorme numero di persone: un milione e mezzo, vi assicuro, è un numero molto grande da gestire. È una situazione che vede le persone spostarsi dalle aree soprattutto di Ninive verso Erbil, Dohuk. C’è una situazione molto complicata anche a Kirkuk e un flusso che scende verso il sud. Persone che scappano dal contesto in cui sono vittime di violenze efferate, in un clima estremamente difficile da gestire: si vive sopra i 40° per molte ore al giorno, con disidratazione e anche malnutrizione per coloro che sono rimasti diversi giorni intrappolati in aree totalmente inaccessibili per le organizzazioni umanitarie.

D. – Perché Erbil è una città importante per i perseguitati in fuga?

R. – Erbil è una città molto importante perché geograficamente è uno dei primi grandi centri nei quali possono trovare rifugio. È sede di importanti stabilimenti anche militari, delle milizie del Kurdistan iracheno, gli ormai famosi peshmerga, che difendono – supportati, in questo momento, da una sorta di coalizione internazionale, oltre che irachena – i confini. Quindi, le persone che scappano dalle aree sotto controllo dello Stato Islamico lì trovano una situazione temporaneamente tranquilla, ovvero una situazione in cui non c’è ostilità nei loro confronti. Ovviamente, come accadrebbe in qualunque Paese del mondo, un flusso di persone così importante, che arriva da un’altra area – si va da un’area araba a un’area curda – può creare delle difficoltà. E' prevedibile che presto la fatica di assorbire nella propria società un milione e mezzo di persone che in questo momento ha bisogno di tutto, possa creare anche progressive tensioni interne. Quindi, le organizzazioni come Intersos e molte altre stanno in qualche maniera cercando di prevenire questo tipo di tensioni fornendo aiuti non tanto ai curdi, che in questo momento non ne hanno particolare bisogno, ma fornendo aiuti che in qualche modo siano integrati nella società curda.

D. – Quali sono le condizioni in cui gli sfollati sono costretti a fuggire?

R. – Fuggono in tutte le maniere che una persona possa immaginare. C’è chi è riuscito a muoversi per tempo e ha addirittura utilizzato la propria vettura: sono famiglie che erano relativamente benestanti. Altri sono riusciti a organizzare in maniera molto rapida e arrangiata piccoli pullman. Altri sono rimasti intrappolati nelle aree sotto controllo delle milizie e, in alcuni casi, sono pian piano riusciti a scappare, molto spesso a piedi. Immaginatevi lunghi percorsi fatti in un’area torrida, con bambini in braccio, con pochissima acqua potabile, con pressoché nessuna derrata alimentare e che quindi arrivano in condizioni psicofisiche particolarmente provate.

D. – Come accade spesso, sono i più deboli a pagare le conseguenze. Come state aiutando i bambini in difficoltà?

R. – I più deboli in questo caso sono i bambini e in parte le persone anziane. I bambini sono le persone più deboli ma quelle sulle quali si può lavorare di più. Quindi, la priorità è fornire loro “pillole” di normalità: attraverso riallestimenti di scuole di fortuna e centri per i bambini più piccoli, si offre la ripresa di attività che li vedano fare quello che un bambino, un ragazzo della loro età deve fare. Quindi, tende – che tra l’altro devono essere climatizzate, altrimenti diventerebbero veri e propri forni – e l’utilizzo, con uno slancio molto generoso da parte dei curdi, delle scuole pubbliche per fare gli esami che altrimenti avrebbero perso. Questo crea un enorme problema in termini di ripresa delle normali attività nell’area autonoma del Kurdistan, perché presto le scuole dovranno riaprire e il numero oggi di ragazzi e di persone che dovrebbero frequentarle è assolutamente superiore alle capacità. Molte di queste scuole sono, tra l’altro, occupate da famiglie.

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Gaza. Caritas Gerusalemme in aiuto dei bambini: situazione terribile

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Mentre in casa Onu si lavora a una risoluzione del Consiglio di sicurezza che porti ad un cessate-il-fuoco nella Striscia di Gaza, continuano incessanti i lanci di razzi di Hamas verso Israele e i raid di rappresaglia di Israele, che ogni giorno mietono vittime palestinesi e tra questi vi sono molti bambini. Roberta Gisotti ha intervistato padre Raed Abusahlia, direttore della Caritas di Gerusalemme, di ritorno da una missione a Gaza: 

R. – Questa guerra di 51 giorni ha prodotto una situazione terribile, a Gaza. Prima di tutto i morti – oltre 2.200 – di cui la maggioranza sono civili e tra questi oltre 550 bambini, 300 donne, più di 200 anziani… E poi, i feriti, che sono oltre 11 mila e un terzo di loro rimarranno disabili. Dunque, per ricostruire quello che è successo in 51 giorni serviranno almeno tra 7 e 10 anni. Oggi, un quarto della popolazione di Gaza vive nelle scuole e ci sono più di 15 mila famiglie che quando torneranno non troveranno più le loro case, che sono completamente distrutte ed altre 30 mila abitazioni sono parzialmente danneggiate. A Gaza, ci sono 400 mila bambini, alunni: quando inizierà per loro l’anno scolastico? Tutte le scuole infatti sono piene di evacuati.

D. – Che cosa può fare la Caritas per questi bambini?

R. – Noi, come Caritas, abbiamo aperto il nostro Centro medico a Al Shati Camp e ogni giorno abbiamo tra i 150 ai 200 casi, soprattutto bambini con diversi problemi di malattie. Inoltre, massima parte dei bambini di Gaza vivono nelle scuole, in un’atmosfera difficile… I nostri volontari della Caritas hanno organizzato giornate per loro di divertimento, per portare un’atmosfera gioiosa ai bambini che da settimane vivono lì.

D. – Dunque, una guerra di sola distruzione, che del resto non ha risolto i problemi di sicurezza del popolo israeliano. Voi siete a contatto con la popolazione palestinese: come vivono loro gli attacchi che vengono portati da loro connazionali verso Israele, che poi sono all’origine delle rappresaglie dello Stato ebraico?

R. – Certamente, ambedue le parti subiscono gli effetti di questa guerra, e questa guerra ha dato la prova che non è possibile una soluzione militare a questo conflitto e che lo Stato di Israele, malgrado la sua potenza militare, non può dopo 50 anni controllare i militanti di Hamas e non può continuare a controllare la volontà di un popolo che chiede la sua libertà. Dunque, io so che la popolazione civile di Gaza vuole la fine di questa guerra e non vuole più violenze contro Israele. E non chiede l’impossibile: chiede di vivere in pace, una vita normale come tutti i popoli del mondo. Dall’altra parte, certamente noi siamo cristiani e diciamo che gli israeliani hanno il diritto di vivere in sicurezza. Ma devono capire che se vogliono la sicurezza e la pace, la strada più corta non sono i muri, non sono i bombardamenti, non è la potenza militare: la strada più corta è la giustizia al popolo palestinese, la fine di queste occupazioni. Ci sono tanti israeliani che hanno capito questa lezione. Avevo proprio adesso nel mio ufficio il rappresentante di un movimento di pace israeliano che si chiama “Bus for Peace”, il pullman della pace: questi ci hanno aiutato negli ultimi giorni a raccogliere viveri, latte, cibo e anche soldi per la popolazione di Gaza. Non soltanto loro, ma tante organizzazioni israeliane, come “Women to Women”, donne per donne. Un altro gruppo che si chiama “Yad b’Yad”, che vuol dire mano nella mano, un altro movimento che si chiama “We Say Enough”, cioè "diciamo basta"... Allora, tutti questi gruppi che vogliono la pace si sentono colpevoli per quello che succede a Gaza, perché hanno visto la distruzione, la morte di tanti innocenti e dicono che quello che fa lo Stato di Israele è una perdita morale per lo spirito del giudaismo, nel senso che se si vuole veramente attenersi alla morale della religione ebraica, si deve fare giustizia e risolvere questo conflitto e mettere fine a questa occupazione.

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Sud Sudan: nuovo cessate il fuoco, ma è crisi alimentare

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Cessazione delle ostilità in Sud Sudan e un governo di transizione e unità nazionale entro 45 giorni. È l’accordo siglato ieri ad Addis Abeba dal presidente del giovane Paese africano, Salva Kiir, e dal suo ex vice, Riek Machar, nell’ambito degli incontri promossi dall’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) del Corno d’Africa. Già in gennaio era stata siglata un’intesa per la fine delle violenze tra le fazioni rivali, cominciate a dicembre 2013, con un bilancio di decine di migliaia di vittime e quasi due milioni di sfollati. Secondo l’Onu, in Sud Sudan è in atto la peggiore crisi alimentare al mondo. Sulle attese per il nuovo accordo di cessate il fuoco, ascoltiamo Enrica Valentini, direttrice della Rete delle Radio Cattoliche del Sud Sudan e dei Monti Nuba, raggiunta telefonicamente a Juba da Giada Aquilino

R. – Sicuramente da parte della popolazione c’è voglia che la situazione si riassesti e che le due parti in conflitto possano davvero accordarsi. Sembra però una strada non facile, perché da entrambe le parti ci sono molte precondizioni e sembra difficile capire esattamente chi debba far parte di questo governo: se, cioè, il presidente e l’ex vice presidente debbano farne parte. Si presume, quindi, che non sia un facile accordo. Per la questione del cessate-il-fuoco è la stessa cosa, più o meno: in questi giorni nello Stato di Unity ci sono stati degli scontri e la settimana scorsa in quello dell’Upper Nile. Quindi sicuramente la situazione può cambiare in qualsiasi momento e non mi sembra ci sia veramente l’intenzione di smettere di combattere e di mettersi d’accordo.

D. – Sul terreno si combatte, dunque. Cosa c’è alla base delle violenze?

R. – Il conquistare o comunque il voler riprendere il controllo di zone di interesse cruciale, zone quindi che garantiscono il controllo sia delle risorse, sia della popolazione in generale.

D. – Ma si può parlare di motivi etnico-politici?

R. – La questione etnico-politica è un po’ lo sfondo di tutto. Gli ultimi scontri che si sono verificati sono avvenuti senza il coinvolgimento di civili e senza uccisioni mirate in una certa tribù o in un’altra, ma proprio a livello di tattica militare.

D. – Invece nei mesi scorsi c’era stato il coinvolgimento di tribù contrapposte?

R. – Sì, diciamo che fondamentalmente i due eserciti fanno parte di due tribù differenti, Dinka e Nuer.

D. – L’Onu ha definito la crisi alimentare in corso in Sud Sudan la peggiore al mondo. Qual è la situazione?

R. – Molte zone non hanno accesso a risorse alimentari e non hanno potuto neanche coltivare, da quando è iniziata la stagione delle piogge, in maggio. Si presume, quindi, che i raccolti non siano abbondanti. Inoltre non è stato possibile coltivare perché gli sfollati sono stati costretti ad andare via, abbandonando anche i posti dove potevano coltivare. E ci sono state difficoltà logistiche per la distribuzione di sementi prima e per la distribuzione di aiuti umanitari adesso.

D. – Quando finirà la stagione delle piogge?

R. – Ad ottobre.

D. - E cosa si prevede per allora?

R. – Da un lato, c’è il rischio che gli scontri si intensifichino, perché le strade saranno percorribili e, dall’altro lato, si spera che le condizioni migliorino, soprattutto le condizioni di vita della popolazione.

D. – Com’è impegnata la Chiesa del Sud Sudan accanto alla popolazione?

R. – Tante strutture della Chiesa danno accoglienza a molte persone, a molti sfollati. I gruppi dei catechisti o quelli legati alla Chiesa nelle varie zone sono quelli che aiutano nella distribuzione dei generi alimentari. Caritas South Sudan e varie Caritas internazionali stanno svolgendo questo servizio e quindi c’è un supporto direttamente nei campi dei rifugiati.

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Rimini. Meeting: come l'archeologia in Siria può servire la pace

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“L’archeologia in Siria oggi: un progetto per la pace” è il titolo dell’incontro che si tiene nel pomeriggio al Meeting per l’Amicizia fra i Popoli, in corso a Rimini da domenica. Una tematica al centro delle giornata di oggi alla kermesse riminese e legata anche a una delle mostre principali allestite alla Fiera, dal titolo “Dal profondo del tempo: all’origine della comunicazione e della comunità nell’antica Siria”. A intervenire, e ad aver collaborato alla mostra, è Giorgio Buccellati, professore emerito di Storia e archeologia del Vicino Oriente Antico alla Ucla, negli Usa. Il prof. Buccellati dirige da anni, assieme alla moglie, gli scavi nell’antica città di Urkesh, in Siria. La nostra inviata al Meeting, Debora Donnini gli ha chiesto quale sia stato finora il frutto del suo lavoro in questa località: 

R. – Da un punto di vista archeologico, la città antica è molto importante perché rappresenta una civiltà diversa da quelle già conosciute, che erano soprattutto i sumeri e i babilonesi, e la nostra civiltà è quella degli urriti. Un aspetto che cerchiamo di mettere in luce nella mostra, e che si collega alla situazione attuale, è il coinvolgimento della popolazione locale nella protezione del sito, il che vuol dire spiegare l’importanza dell’archeologia, di un’archeologia che non è sempre spettacolare – come le Piramidi o il Colosseo – ma che è di fondamentale importanza per una comprensione del passato nostro e ancor più loro.

D. – Qual è il messaggio della mostra?

R. – Il messaggio della mostra è proprio che anche l’archeologia che si occupa di un passato remoto – infatti, il titolo è “Dal profondo del tempo” – serve a costituire la nostra identità di oggi. Quindi, c’è un forte elemento e messaggio interpretativo nella mostra, che vuole indicare la continuità dell’esperienza umana: come si fonda sullo sviluppo della comunicazione, quindi per esempio l’inizio del linguaggio e poi soprattutto della scrittura, che inizia proprio in Siro-Mesopotamia, e in base a questo come si è trasformato il senso del vivere insieme. E quindi, questo ci porta al mondo moderno: com’è che viviamo insieme, oggi, nel mezzo della guerra? L’archeologia e i risultati degli scavi archeologici possono aiutare popolazioni di etnie diverse, di sfondi, di “backgrounds” molto diversi, a sentirsi unite.

D. – Lei ha visto quindi che l’archeologia unisce persone diverse e quindi può portare un messaggio di pace?

R. – Decisamente. Io sono un archeologo e quindi non ho nessuna competenza di carattere politico. Però, guardando alla situazione in questi anni, abbiamo visto due cose. Una a livello piccolo, nostro: la gente con la quale noi siamo in contatto quasi giornaliero, senz’altro settimanale, la gente del posto che lavora per noi, ha sempre un fortissimo senso di responsabilità e non ho mai notato un senso di fatica o di disperazione. Questo mi ha colpito molto, e vuol dire appunto che c’è una forte vitalità nel popolo siriano. Io conosco solo questo piccolo frammento del popolo siriano, ma certo è impressionante come si siano identificati con quello che c’è di positivo che noi abbiamo cercato di mettere in luce, ma che loro hanno colto. Il secondo aspetto è invece a livello più ampio, nazionale in effetti. È l’impegno del Direttorato generale delle antichità e dei musei, che è l’equivalente della nostra Sovrintendenza. Si sono impegnati in un modo veramente esemplare. Infatti, a me viene in mente spesso quello che si legge a proposito della Seconda Guerra mondiale e dell’Italia, dove la Sovrintendenza ha avuto un ruolo importantissimo, in parte dovuto alle iniziative personali dei diversi singoli sovrintendenti. Ed è quello che vediamo anche in Siria: c’è un fortissimo impegno personale, anche a scapito della carriera personale… E la mostra vuole anche lanciare proprio questo messaggio: è un tributo al contributo degli archeologi siriani, che si stanno dedicando in maniera veramente, assolutamente esemplare alla protezione della loro eredità culturale.

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L'Uciim boccia la "rivoluzione-scuola" del governo Renzi

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L’Uciim, Unione cattolica di docenti dirigenti e formatori, boccia la “rivoluzione” della scuola annunciata ieri dal governo e le cui linee guida saranno venerdì sul tavolo del Consiglio dei  ministri. L’eliminazione dei supplenti così come la progressione in carriera dei docenti in base al merito sono provvedimenti che non convincono la presidente Uciim Rosalba Candela, secondo la quale inoltre il vero problema delle scuole paritarie non è legato a pregiudizi, come affermato dal ministro Giannini, ma a questioni di natura economica. Paolo Ondarza l’ha intervistata: 

R. – Il governo avrebbe dovuto avere la sensibilità di chiedere alle associazioni professionali, quali fossero le priorità della scuola. Invece sono state determinate – le priorità per la scuola – da commissioni fatte dal ministro, nelle quali però la "scuola militante" non c’è. La scuola è quella che vive tra i banchi, in mezzo ai ragazzi. Consultiamo le parti sociali – questa è la nostra idea: famiglie, alunni, associazioni dei docenti e dei dirigenti; ascoltiamoli, ma ascoltiamoli veramente, e quindi riformiamo la scuola.

D. – Cioè, questa “rivoluzione” che è stata preannunciata è lontana dall’essere tradotta in fatti, secondo voi?

R. – Sì, secondo noi, sì. Dire che verranno eliminati i supplenti, è uno spot: non è possibile. Il supplente in sé non può essere eliminato, nella scuola …

D. – Si parla di un grande piano in arrivo per l’assorbimento dei precari …

R. – Sì, ma questo non dice che la supplenza in sé venga eliminata. Il piano di assorbimento dei precari è un dovere per lo Stato! I concorsi, per esempio, devono tornare ad essere regolari e ordinari … Ma eliminare la precarietà è diverso dall’eliminare la supplenza.

D. – Capitolo stipendi. Il ministro ha detto: “Vanno agganciati non tanti all’anzianità, quanto al merito” …

R. – Il merito docenti, come andiamo a configurarlo? A livello economico, il merito deve essere riconosciuto al di là della carriera docenti, deve essere un extra. Non è possibile che la carriera-docente sia agganciata esclusivamente al merito: il criterio di valutazione del merito dev’essere scientificamente fondato!

D. – E’ stato poi ribadito il principio della scuola pubblica che è tale sia essa pubblica in senso stretto, o privata, e il ministro dice che la parità effettiva a volte è ostacolata più da una questione di pregiudizi che di fondi …

R. – Ma guardi, io credo che il problema della scuola pubblica, o paritaria che sia è un problema economico – perché non è stato stanziato quanto spettava alle scuole paritarie … Bisogna far camminare bene la macchina amministrativa perchè zoppica. 

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Nella Chiesa e nel mondo



Appello dei vescovi tedeschi: fermare il terrore in Iraq

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“Il terrore in Iraq deve essere fermato e agli sfollati deve essere data la possibilità di rientrare al più presto nelle loro case”. E’ quanto si legge una dichiarazione del Consiglio permanente della Conferenza episcopale tedesca che, facendo eco alle parole del Papa e agli appelli dei vescovi iracheni, interviene così nel dibattito in corso in Germania circa la fornitura di armi ai peshmerga curdi per contrastare l’avanzata dei jihadisti dell’Isis.

Se un’azione militare, compresa la fornitura di armi non è automaticamente un mezzo per garantire la pace e la sicurezza - afferma la nota - in alcune circostanze, quando sono in gioco “lo sterminio di interi gruppi etnici e gravi violazioni dei diritti umani” la comunità internazionale ha il dovere di fermare in qualche modo l’aggressore ingiusto “per scongiurare crimini peggiori”, come del resto afferma la dottrina cattolica sulla pace giusta.

La nota si rivolge quindi ai musulmani. I vescovi tedeschi respingono con fermezza le tesi circa la natura intrinsecamente violenta dell’islam: “L’Isis e l’islam non sono la stessa cosa”. Ma allo stesso tempo chiedono una chiara presa di posizione dei leader religiosi islamici: “I musulmani che amano la pace e che sono la stragrande maggioranza – scrive il Consiglio permanente - devono chiedersi quali fattori hanno permesso questi sviluppi preoccupanti nella loro comunità religiosa”.

Infine, l’appello a pregare e a fornire aiuti umanitari urgenti alle vittime delle persecuzioni in Medio Oriente: “Questo - affermano i vescovi tedeschi - non è solo una responsabilità degli Stati della regione. Tutti possono contribuire, anche offrendo disponibilità ad accogliere i rifugiati”. (A cura di Lisa Zengarini)

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Ebola: in Africa duramente colpito il personale medico

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Oltre 240 membri del personale medico mobilitato per fare fronte all’epidemia di Ebola in Africa Occidentale sono stati infettati e almeno la metà sono morti, incluso il medico liberiano Abraham Borbor, curato con il farmaco sperimentale Zmapp: sono i numeri forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms/Who) che parla di cifre “senza precedenti” per i medici impegnati nella lotta contro la febbre emorragica.

Il pesante bilancio - riporta l'agenzia Misna - viene spiegato con diversi motivi: la mancanza di equipaggiamento adeguato per la protezione o il suo utilizzo errato, ma anche la mancanza di personale qualificato per un’emergenza di questa portata e la spinta emotiva e solidale che ha portato medici e infermieri in diversi casi a lavorare nei Centri di isolamento degli infettati a rischio della vita.

Secondo l’agenzia dell’Onu, inoltre, la propagazione del virus nei centri urbani ha aumentato il rischio di contatti involontari fra personale medico e casi non ancora diagnosticati. Né i medici né l’opinione pubblica avevano familiarità con Ebola e la sua evoluzione – dice l’Oms/Who – e a fronte della presenza di malattie infettive con sintomi simili (come malaria o tifo) non ci si attendeva di dover affrontare il temuto virus. Le gravi perdite per il personale medico si riflettono sui quattro Paesi della regione interessati dall’epidemia, Guinea, Liberia, Sierra Leone, Nigeria.

“Lo sforzo per combattere Ebola non è una battaglia ma una guerra che richiede la collaborazione di tutti per lavorare insieme duramente ed efficacemente” ha detto ieri l’inviato dell’Onu David Nabarro, ipotizzando ancora sei mesi di impegno per sconfiggere il virus che ha infettato più di 2600 persone uccidendone 1427 dall’inizio dell’anno.

Intanto nelle ultime ore la Costa d’Avorio ha chiuso la frontiera con Guinea e Liberia, come aveva già fatto nei giorni scorsi il Senegal, mentre il Sudafrica ha vietato l’ingresso agli stranieri provenienti dall’area colpita. Anche in Botswana è alta tensione, dopo la recente conferma di due casi di Ebola nella Repubblica Democratica del Congo. (R.P.)

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Usa: la Chiesa celebra il 50.mo del Movimento per i diritti civili

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Il Movimento per i diritti civili negli Stati Uniti compie 50 anni. La Conferenza episcopale (Usccb) celebra l’anniversario con 12 mesi di iniziative promosse dal suo Comitato per gli affari afroamericani, per raccontare i successi raggiunti in questo mezzo secolo di battaglie civili e il ruolo svolto dalla Chiesa. Una battaglia non ancora vinta, come testimonia quanto accaduto in queste settimane nello Stato del Missouri.

In particolare saranno pubblicati alcuni lavori sulla cosiddetta “Estate di liberazione nel Mississipi" del 1964 e sul Civil Rights Act, la storica legge che nello stesso anno dichiarò illegale la segregazione razziale negli Stati Uniti.

"L‘epoca dei diritti civili è stata una tappa importante nella storia del nostro Paese. Molti sacerdoti, tante suore, religiosi e laici sono stati coinvolti nella battaglia per i diritti civili”, spiega Shelton Fabre, vescovo di Houma-Thibodaux e presidente del Comitato. “Ricordare la partecipazione della Chiesa cattolica in un momento storico così importante invita i fedeli a lavorare in modo costruttivo per promuovere il bene comune delle persone di tutte le etnie".

L’anniversario sarà anche un’occasione per approfondire la dottrina sociale della Chiesa: “Riflettere su questi insegnamenti nella prospettiva della storia dei diritti civili - spiega ancora mons. Fabre - offrirà l’opportunità per diventare discepoli più fedeli di Cristo condividendoli con gli altri”.

Il materiale preparato dal Comitato per gli affari afroamericani comprende sussidi informativi sulla storia del movimento per i diritti cicli; blog appositi, videoclip e un calendario di eventi e proposte di iniziative per le parrocchie e le scuole. (L.Z.)

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Filippine: l'aiuto della Chiesa per gli sfollati del tifone Haiyan

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ReachPhilippines, la campagna di aiuti e solidarietà alle vittime del tifone Haiyan promossa dalla Caritas filippina e dall'organismo della Conferenza episcopale che si occupa di attività sociali e caritative (Cbcp-Nassa), ha raccolto sinora oltre 12 milioni di dollari. Per Josephine Ignacio-Labonte, capo dell'unità di coordinamento per gli aiuti umanitari di Caritas Filippine, conferma all'agenzia AsiaNews che è "il più vasto progetto di recupero post disastro" dell'ente caritativo cattolico nel Paese.

Un successo "non solo in termini di denaro raccolto", aggiunge l'attivista, ma soprattuto per il numero di "comunità (diocesi) coperte in contemporanea" e per il "numero di progetti" messi in campo. Soddisfazione viene espressa da padre Edwin Gariguez, segretario esecutivo Caritas Filippine, secondo cui il popolo "non perde la speranza, anche di fronte a gravi calamità naturali".

Questi i numeri della raccolta fondi lanciata dalla leadership cattolica filippina: oltre 12,8 milioni di dollari raccolti (circa 565 milioni di pesos), più di 141mila persone che ne beneficeranno sparse in 118 comunità, 35 municipalità e nove diocesi. Quello che differenzia il progetto messo in campo da Nassa e Caritas, la stretta collaborazione con gli abitanti delle zone colpite nell'individuazione delle urgenze e dei programmi di ricostruzione.

Nelle nove diocesi colpite dal passaggio del tifone le urgenze maggiori hanno riguardato la realizzazione di ripari, la distribuzione di mezzi di sostentamento, acqua, servizi igienico-sanitari ed ecosistemi di recupero, con una mappatura attenta delle aree a rischio e del livello di pericolo. Violeta Alcazaren, cittadina di Iloilo, fra i beneficiari dell'iniziativa, afferma: "Dopo tutto quello che hanno fatto per noi, ora dobbiamo essere in grado di farcela da soli. Voglio una vita migliore, per questo devo fare qualcosa".

Abbattutosi sulle isole Visayas (Filippine centrali) l'8 novembre 2013, Haiyan ha colpito a vario titolo almeno 11 milioni di persone e per un ritorno alla piena normalità saranno necessari otto miliardi di dollari. Ancora oggi vi sarebbero oltre 1.700 dispersi; il numero delle vittime sarebbe superiore a 5mila, anche se il presidente Aquino ha voluto ridimensionare le cifre, sottolineando che le prime stime [superiori a 10mila] erano frutto della reazione emotiva alla tragedia e il numero dei morti non supera i 2.500.

Del resto l'estensione del territorio, la sua frammentazione e la difficoltà nell'accedere in alcune aree hanno rappresentato un serio ostacolo agli interventi. Sono quasi 11 milioni gli abitanti che hanno subito danni o perdite a vario titolo, sparsi in 574 fra municipalità e città diverse. Nelle settimane successive alla tragedia anche il Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) ha lanciato una raccolta fondi per aiutare i sopravvissuti. (R.P.)

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Sri Lanka: è emergenza siccità. Agricoltori in difficoltà

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Il governo di Mahinda Rajapaksha sta lottando per poter alleviare la grave situazione di milioni di agricoltori che in molte aree del Paese, dopo 10 mesi di siccità, non solo non hanno acqua per irrigare, ma stanno lottando per averne a sufficienza da bere.

“E ‘grave. In alcune province del nord, del centro nord e dell’est, i livelli di acqua nei serbatoi di irrigazione saranno sufficienti, forse, solo a scopo potabile e nessun raccolto sarà possibile fino alle prossime piogge” ha detto ai media Lalith Weeratunga, della segreteria della presidenza.

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) - riporta l'agenzia Misna - circa 2 milioni di persone (più del 9% della popolazione dell’isola di circa 20 milioni) patiscono per la siccità. Secondo le statistiche del governo, in otto distretti gravemente colpiti dalla siccità (Anuradhapura, Polonnaruwa, Hambantota, Puttalam, Mannar, Vauniya, Moneragala e Ampara), anche la coltivazione di riso è inferiore del 42% rispetto alla stagione 2013.

Weeratunga e altri funzionari hanno assicurato che il governo ha già messo in atto misure di sostegno, tra cui un piano di “denaro in cambio di lavoro” per 10 milioni di dollari, a favore delle famiglie colpite dalla siccità. “Il piano mira a riparare e rinnovare i bacini di irrigazione e canali utilizzando manodopera proveniente dalle famiglie colpite. Un membro di ogni famiglia potrà usufruire fino a 12 giorni di lavoro al mese” ha detto Punchi Banda Jayasundera, segretario alle Finanze. “La nostra principale preoccupazione resta comunque l’impatto sui mezzi di sussistenza delle persone” ha aggiunto Weeratunga.

Eventi meteorologici estremi non sono una novità per i responsabili politici dello Sri Lanka. Dal 2009, il Paese ha dovuto affrontare almeno sette grandi inondazioni e due grandi periodi di siccità. Per il Paese è giunto il momento di guardare al di là delle misure di emergenza per affrontare calamità naturali come siccità e inondazioni. “Abbiamo bisogno di impostare un valore di risorse come l’acqua, in modo da poterla conservare quando l’abbiamo. Quando non lo facciamo, vediamo i risultati di tale negligenza” ha concluso Weeratunga. (R.P.)

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Indonesia: sì dei vescovi ad una Corte per i diritti umani

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"I cattolici indonesiani accolgono con favore il passo di costituire una apposita Corte per i diritti umani in Indonesia annunciata dal Presidente Widodo”: lo dichiara all’agenzia Fides mons. Johannes Pujasumarta, arcivescovo di Semarang e segretario della Conferenza episcopale dell’Indonesia.

Secondo il presule, “Widodo può essere un Presidente che mette in pratica principi che appartengono anche alla dottrina sociale della Chiesa come: l’attenzione ai più poveri, la trasparenza, l’armonia interreligiosa, la tutela delle minoranze, il rispetto dei diritti umani, la giustizia sociale. I cristiani indonesiani apprezzano che ‘Jokowi’ (come è chiamato) si sia impegnato solennemente a seguire la Pancasila (i cinque principi alla base della convivenza civile, ndr)”.

“La volontà di istituire una Corte speciale per i diritti umani in Indonesia, annunciata da Widodo – afferma il segretario della Conferenza episcopale – è un ottimo inizio e mostra la buona volontà del Presidente. Vediamo buone speranze per il futuro del Paese: la presidenza inizia sotto i migliori auspici”.

Il nuovo Presidente indonesiano Joko Widodo, eletto il 9 luglio, è stato confermato dopo la sentenza della Corte costituzionale che il 21 agosto ha respinto le accuse di brogli e irregolarità nel voto, denunciate in un ricorso dello sfidante Prabowo Subianto. I giudici hanno confermato la vittoria dell'ex governatore di Jakarta, il 50enne musulmano Widodo, che nel suo programma politico ha inserito e ampiamente usato parole-chiave come rispetto delle minoranze, tolleranza, armonia interreligiosa, lotta al fanatismo, democrazia, lotta alla corruzione. (R.P.)

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Perù: nota dei vescovi in vista delle prossime elezioni

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Lottare contro la corruzione, conoscere i bisogni delle persone, sapere chi è il candidato, valutare il suo piano di governo, fare attenzione alle promesse in campagna elettorale: sono i cinque criteri «per un voto cosciente e responsabile» proposti dai vescovi peruviani nel comunicato intitolato «Servidores del bien común», riflessione pastorale sulle elezioni regionali e municipali in programma il 5 ottobre. Alle consultazioni parteciperanno, per la prima volta, due milioni di giovani.

20 milioni di peruviani eleggeranno, tra più di centomila candidati, circa tredicimila amministratori in tutto il Paese per governare nei prossimi quattro anni distretti, province e regioni. «Questa elezione — scrive l’episcopato — è cruciale e decisiva per il consolidamento delle istituzioni in modo da permettere una democrazia matura e durevole. Tuttavia, vediamo nelle nostre comunità sfiducia e insoddisfazione nei confronti di alcuni politici e della politica in generale».

I presuli si dicono preoccupati per lo scenario elettorale in un contesto sociale con gravi segnali di corruzione, espresso anche dall’alto numero di candidati i cui comportamenti morali hanno dato luogo nel passato a denunce e a condanne penali. «Genera poi ancora maggiore preoccupazione il tentativo di settori connessi al traffico di droga, all’estrazione mineraria illegale, al contrabbando, al traffico di esseri umani e ad altre attività illecite, di collocare persone strettamente legate a essi fra le autorità locali, provinciali e regionali. È inaccettabile — si afferma — essere arrivati all’estremo dell’eliminazione fisica degli avversari politici».

I vescovi peruviani ricordano che solo la politica con senso etico è degna di credito. E citano l’Evangelii gaudium di Francesco, quando chiama i cristiani a prendere sul serio questo servizio: «La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune» (205). Gesù, spiegano, «ci insegna che il servizio agli altri, specialmente ai più deboli e bisognosi, è un dono, al contrario del dominio e dello sfruttamento degli altri per i propri scopi nell’esercizio del potere di governare per la comunità». Per questo il Papa prega il Signore affinché «ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri» (ibidem). E per questo i vescovi vedono nella lotta alla corruzione il primo criterio: «Attraverso il voto dobbiamo esprimere che tipo di rappresentanti vogliamo e punire, negando il nostro voto, chi ha deluso le nostre aspettative, perché non ha fatto quanto promesso, perché si è dimostrato corrotto o perché ha fatto solo i suoi interessi». (A.T.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 238

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.