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Sommario del 28/08/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Iraq, card. Vegliò dal Papa: comunità internazionale fa poco

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Papa Francesco ha ricevuto stamani a Santa Marta il cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti: al centro del colloquio, in particolare, il dramma della popolazione irachena che fugge per le violenze dei jihadisti del cosiddetto Stato Islamico. Per il Papa la Chiesa deve essere in prima linea nella difesa dei più deboli. Ascoltiamo il cardinale Vegliò al microfono di Sergio Centofanti

R. – La Chiesa deve aiutare proprio quelli che hanno più bisogno, perché i loro diritti sono conculcati. Quindi, la Chiesa che è per i poveri e per quelli che non hanno voce, deve essere presente e non dobbiamo mai stancarci di dire queste cose sia nelle omelie, sia nei discorsi, sia anche come influsso, eventualmente, in situazioni politiche.

D. – Adesso c’è il nuovo dramma degli sfollati in Iraq: sono veramente tantissimi …

R. – Io li chiamo sfollati e rifugiati, perché scappano via, perché se rimangono nei loro luoghi di origine vengono uccisi. Ora, di fronte ai drammi di queste persone non riesco a capire come si possa dire – come è stato detto: “Rimandiamoli nel loro Paese”. Ma, dico, il cervello che ragiona, può dire a uno che è scappato da un Paese nel quale l’avrebbero ammazzato, “Torna al Paese tuo?”. Io credo manchi non solo l’umanità, ma anche l’intelligenza: mi dispiace dover dire questo … E poi, è gente che soffre: lascia tutto, scappa via … E non solo in Iraq, lei lo sa bene. Adesso l’Iraq è la punta dell’iceberg, perché vi è la situazione più spaventosa: ci sono uccisioni, stragi con le maniere barbare che sappiamo, che abbiamo visto … Ora, questa gente ha bisogno non solo delle preghiere: la preghiera è importante, ma non basta; ha bisogno di aiuti, ha bisogno che la comunità internazionale se ne prenda in carico. Come? Ha detto bene il Papa in aereo, mentre tornava dalla Corea: “Bisogna fermare questa gente”. E come? Appunto: è la comunità internazionale che deve valutare i mezzi. Ma non può far finta di niente. Ora, giustamente il Papa ha detto: “Noi non possiamo chiudere gli occhi, non possiamo far finta che non succeda nulla”, perché sarebbe la stessa cosa di quanto Hitler ammazzava gli ebrei e dopo molti hanno detto: “Ah, no, no: noi non sapevamo nulla!”: tutta ipocrisia! Bisogna fare qualche cosa!

D. – La comunità internazionale, in questo senso, sta facendo ancora molto poco …

R. – La comunità internazionale fa molto poco: cioè l’Onu e anche un po’ l’Europa che è più vicina, anche geograficamente parlando, a questi Paesi. Secondo me, l’Europa dovrebbe avere un po’ più di sensibilità. Purtroppo, in Europa abbiamo tanti di quei problemi, per cui egoisticamente parlando uno pensa a se stesso e pensa poco agli altri. Però, se pensiamo ai problemi nostri – ‘nostri’ dico come italiani – che sono gravi, per carità, perché l’economia non va bene, il lavoro in molti non ce l’hanno, però sono sempre problemi relativamente più piccoli di quelli che ha questo povero popolo iracheno che scappa per non essere sgozzato …

D. – Quali sono le speranze della Chiesa per questi rifugiati iracheni?

R. – Io mi auguro che l’Europa – qualche Paese ha già incominciato a farlo – sia sensibile, dia loro possibilità di essere accolti nei propri Paesi – Germania, Francia, Inghilterra, Italia, Spagna: tutti Paesi ricchi rispetto a questi poveracci! – io mi auguro che lo facciano anche dietro la spinta della Chiesa. E quando parliamo della Chiesa, non pensiamo mica solo al Vaticano o alla Curia! La Chiesa è una realtà presente ovunque, e la Chiesa ha la sensibilità di aiutare questi poveri, questi emigrati, questi rifugiati, questi sfollati. Ora, questo dramma non si può pensare che un Paese possa risolverlo tutto da solo: veda ad esempio l’Italia. E sono contento che anche in Europa sia stato un po’ recepito il problema italiano con la questione del “Mare Nostrum”, del “Frontex plus” … Ora, ecco: noi lavoriamo dove possiamo lavorare, sperando che anche la gente sia sensibile a questi problemi.

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Pubblicato il programma del viaggio del Papa a Redipuglia

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La Sala Stampa vaticana ha pubblicato il programma ufficiale della visita di Papa Francesco a Redipuglia, in provincia di Gorizia, il 13 settembre prossimo, nel centenario dell'inizio della Prima Guerra Mondiale.

Il Papa, alle 7.30, si trasferirà in auto dal Vaticano all’aeroporto di Ciampino. Alle 8.00, la partenza per l’aeroporto di Ronchi dei Legionari, dove l’atterraggio è previsto 50 minuti dopo. Alle 9.15, il Pontefice si recherà al cimitero austro-ungarico di Fogliano di Redipuglia, dove sosterà davanti al monumento centrale per una preghiera e un omaggio floreale. Poi, alle 10.00, celebrerà la Messa al Sacrario militare di Redipuglia. Al termine verrà recitata una preghiera per i caduti e le vittime di tutte le guerre. Francesco consegnerà agli ordinari militari e ai vescovi presenti una lampada che verrà accesa nelle rispettive diocesi nel corso delle celebrazioni di commemorazione della Prima Guerra mondiale. Alle 12.00, la partenza per Roma, alle 12.50 l’arrivo all’aeroporto di Ciampino e il trasferimento in auto in Vaticano.

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Papa Francesco riceve il card. Sandri e mons. Fisichella

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Papa Francesco ha ricevuto nel corso della mattinata, in successive udienze, l’arcivescovo Salvatore Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione, e il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali.

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Il Papa nomina arcivescovo di Madrid mons. Carlos Osoro Sierra

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Papa Francesco ha nominato nuovo arcivescovo di Madrid mons. Carlos Osoro Sierra, trasferendolo dalla sede arcidiocesana di Valencia. Succede al cardinale Antonio María Rouco Varela, che lascia per raggiunti limiti di età.

Mons. Carlos Osoro Sierra è nato a Castañeda, provincia e diocesi di Santander, il 16 maggio 1945. Dopo aver studiato Magistero presso la "Escuela Normal" ed aver esercitato la docenza per un anno a Santander, è entrato nel seminario per le vocazioni adulte "Colegio Mayor El Salvador" di Salamanca, ove ha frequentato i corsi di Filosofia e Teologia presso la Pontificia Università di quella città, ottenendo la Licenza nelle due discipline. Ha pure conseguito la Licenza in Scienze Esatte dell’Università Complutense di Madrid e in Pedagogia dell’Università di Salamanca. Ha, inoltre, ottenuto, sempre presso l'Università Complutense, il Diploma in "Enseñanza de Adultos".

È stato ordinato presbitero il 29 luglio 1973 in Santander, rimanendo incardinato in tale diocesi. Dopo l’ordinazione presbiterale è stato membro dell’équipe sacerdotale nella Parrocchia dell’Assunzione a Torrelavega per la pastorale giovanile, direttore della "Casa de los muchachos" e professore della "Escuela Universitaria de Formación del Profesorado ‘Sagrados Corazones’" (1973-1975); segretario generale per la Pastorale della diocesi, delegato episcopale per le vocazioni e Seminari e per l’apostolato dei laici e vicario per la Pastorale (1975-1996); vicario generale della Diocesi (1976-1994); rettore del Seminario Diocesano (1977-1996); presidente del Capitolo della Cattedrale (1994-1996), direttore del "Centro Asociado del Instituto Internacional de Teología a Distancia" e direttore dell' "Instituto Superior de Ciencias Religiosas San Agustín" (1996).

Il 27 dicembre 1996 è stato nominato vescovo di Orense ed ha ricevuto l’ordinazione episcopale il 22 febbraio successivo. Il 7 gennaio 2002 è stato promosso alla sede Metropolitana di Oviedo. L'8 gennaio 2009 è stato trasferito alla sede Metropolitana di Valencia. È stato, inoltre, amministratore apostolico della diocesi di Santander dal settembre 2006 al settembre 2007. In seno alla Conferenza Episcopale Spagnola è stato presidente della Commissione per il Clero (1999-2005) e membro del Comitato Esecutivo (2005-2011). Attualmente ne è il vicepresidente.

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Il card. Cañizares Llovera è il nuovo arcivescovo di Valencia

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Il Papa ha nominato nuovo arcivescovo di Valencia il Papa ha il cardinale Antonio Cañizares Llovera, finora prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

Il cardinale Antonio Cañizares Llovera è nato a Utiel, arcidiocesi di Valencia (Spagna), il 15 ottobre 1945. Ha seguito gli studi ecclesiastici prima nei seminari minore e maggiore di Valencia, poi presso la Pontificia Università di Salamanca, ove ha ottenuto il dottorato in Teologia con specializzazione in catechesi. Ordinato presbitero il 21 giugno 1970 per l'arcidiocesi di Valencia, è stato viceparroco e delegato per la catechesi, professore di Teologia Catechetica all’Università di Salamanca, docente di Teologia Fondamentale nel seminario di Madrid, direttore e professore dell’Istituto di Scienze Religiose e Catechesi "San Dámaso" di Madrid, responsabile della direzione degli studi del seminario di Madrid, membro di varie Commissioni e Segretariati della Conferenza Episcopale Spagnola, promotore della "Asociación Española de Catequetas", direttore del Segretariato della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede.

Nominato vescovo di Ávila il 6 marzo 1992, ha ricevuto l'ordinazione episcopale il 25 aprile successivo; il 10 dicembre 1996 è stato promosso alla sede Metropolitana di Granada e il 24 ottobre 2002 trasferito alla sede Metropolitana di Toledo. In seno alla Conferenza Episcopale è stato presidente della Sottocommissione Episcopale per l'Università (1996-1999), presidente della Commissione per l’Insegnamento e la Catechesi (1999-2005), membro della Commissione Permanente (1999-2008), vicepresidente (2005-2008), membro del Comitato Esecutivo (2005-2008).

Creato cardinale nel Concistoro del 24 marzo 2006, gli è stato assegnato il Titolo di San Pancrazio. Il 9 dicembre 2008 è stato nominato prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

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Papa, tweet: Gesù sulla croce ci insegna ad amare chi non ci ama

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex. Questo il testo: “Cristo sulla croce ci insegna ad amare anche quelli che non ci amano”.

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Vaticano. Benedetta statua della "Virgen del Cobre" Patrona di Cuba

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Il cardinale Tarcisio Bertone ha presieduto questa mattina nei Giardini Vaticani la preghiera di benedizione della Statua che ritrae la “Virgen de la Caridad del Cobre”, antica effigie mariana nella quale i cubani venerano la Madonna come loro Patrona. A donarla a Papa Francesco sono stati i vescovi dell’Isola caraibica, una delegazione dei quali ha presenziato alla cerimonia. Il servizio di Alessandro De Carolis

La cosa biancastra che galleggia sull’acqua da lontano sembra il cadavere di un uccello, ma ciò di cui si tratta realmente sorprende i tre schiavi sulla canoa che si avvicinano. Sull’acqua della grande Baia di Nipe, a Cuba, dondola sopra una tavoletta una immagine della Madonna con sotto la scritta: “Io sono la Virgen de la Caridad”. È un giorno del 1612 e i tre giovani – Juan Morteno, ragazzino africano di dieci anni, e due fratelli indios, Rodrigo e Juan de Hoyos – che erano partiti per le saline girano la prua della canoa verso casa e portano la statuetta nella loro chiesa, tra lo stupore della gente. Nel 1628, l’immagine viene portata nel centro minerario di “El Cobre”, dove più tardi sorgerà un Santuario.

Sotto il manto giallo oro che la riveste, generazioni di cubani hanno affidato alla Madonna la loro anima e la loro isola. A ricordarlo è stato anzitutto il cardinale camerlengo, Tarcisio Bertone, che ha presieduto la cerimonia nei Giardini Vaticani di benedizione di una riproduzione della Virgen del Cobre, ricordando la visita di Benedetto XVI a Cuba del 2012.

“El pueblo cubano venera Maria...
Il popolo cubano venera Maria come la Vergine e Nostra Signora della Carità del Cobre, la considera come sua patrona e la chiama semplicemente, con affetto e delicatezza, 'Cachita', sperimentando sempre i benefici della sua materna protezione. Lo affermava Giovanni Paolo II, quando diceva che la storia cubana è piena di meravigliose dimostrazioni di amore alla sua Patrona”.

Al cardinale Bertone ha fatto ecco l’arcivescovo di Santiago de Cuba, Dionisio Guillermo García Ibáñez:

“La devoción se ha manifestado...
La devozione si è manifestata prima di tutto nelle case, nei cuori, nelle cappelle, lì dove vivono. I cubani se ne sono andati in molti Paesi del mondo e anche la Vergine è andata con loro. Abbiamo passato tutto assieme a Lei e Lei assieme a noi. Questa piccola immagine di bronzo che è qui è copia di un’immagine che stava nella Baia di Nipe, e in questa copia è come se fosse riassunta la storia del popolo cubano”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Per un’Europa orientata al futuro: Mario Benotti sull’Ue chiamata a scelte politiche per favorire la crescita.

Storia non è nostalgia: Grazia Loparco sulle congregazioni religiose e lo studio delle proprie radici.

Come si cambia: Oddone Camerana in riferimento a parole, luoghi e significati.

Famiglie a bassa intensità: Roberto Volpi a proposito di individualismo e società post-moderna.

Facce di bronzo: Simona Verrazzo sull’uomo e i metalli.

Lo stile del cristiano: Piero Coda su spirito contemplativo e mistica della fraternità nel magistero di Papa Francesco.

Educazione in digitale: intervista di Nicola Gori a Roberto Dabusti, incaricato della comunicazione della Scholas occurrentes.

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Oggi in Primo Piano



Centro Astalli: speranze e dubbi per "Frontex Plus"

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L’Europa cerca vie per fronteggiare l’emergenza migratoria, dopo l’invito dell’Onu a non lasciare sola l’Italia. Nelle ultime ore circa 700 persone sono arrivate sulle coste della Sicilia. Da Bruxelles, ieri sera, il ministro dell’Interno Alfano e il commissario europeo Malmstrom, hanno preannunciato che l’operazione Frontex Plus sostituirà, forse già a novembre, la missione di salvataggio, tutta italiana, “Mare Nostrum”. Massimiliano Menichetti ne ha parlato con Bernardino Guarino, responsabile progetti del Centro Astalli: 

R. – Certamente, va compresa la posizione del governo italiano che cerca una soluzione europea più condivisa, come è nell’auspicio anche delle Nazioni Unite. Però, la paura c’è perché ci sembra di capire che si chiederà in maniera volontaria agli Stati di dare una mano all’Italia. Quindi, questo vuol dire tutto e il contrario di tutto.

D. – “Frontex” è stato sempre percepito come un pattugliamento che tende a impedire a chi cerca salvezza nel Mediterraneo approdi nei Paesi di confine, “Mare nostrum” invece come una realtà tesa a salvare le persone. “Frontex plus” che volto avrà?

R. – Tutto dipenderà dal mandato politico che riceverà, perciò torniamo sempre al punto nodale: cosa vuole fare l’Europa. Perché, in realtà anche “Frontex” ha tra i suoi compiti quello di salvare le vite, solo che l’input che aveva ricevuto era fondamentalmente di impedire l’accesso. Quindi, non ha mai fatto recupero di persone che erano in mare, nonostante anche questo fosse tra i propri compiti. Il problema però di “Frontex” è che ha un numero molto esiguo di navi, per cui se “Frontex plus” diventa qualcosa di simile a “Mare nostrum” può avere un senso. Altrimenti, sarà solo una maniera per l’Italia di uscire in maniera onorevole da una situazione che adesso economicamente comincia a diventare pesante. Però, il costo umano sarà altissimo.

D. – L’auspicio della Malmström nel ribadire “più Paesi devono darsi da fare per accogliere i rifugiati” potrebbe rimanere lettera morta?

R. – La Malmström può fare poco se i governi europei, soprattutto quelli più importanti, non si impegneranno. Ancora l’altro giorno, la Germania accusava l’Italia di far passare troppi rifugiati verso i Paesi del nord. Quindi, è una partita tutta politica in cui dipenderà molto da cosa l’Europa vuole essere: se vuole essere un Paese che effettivamente mette le persone al centro, in maniera democratica, accoglie chi scappa dalle guerre e dà protezione, o se semplicemente vuole essere un continente preoccupato di chiudere i propri confini.

D. – A Bruxelles, si è parlato anche della distruzione delle barche dei trafficanti. Però, non si parla dei presidi nei Paesi di confine per poter già vagliare le persone che hanno diritto allo status di rifugiato. Perché non si affronta questo punto?

D. – Perché non c’è un accordo politico e perché la situazione nei Paesi terzi, soprattutto la Libia, è molto complicata. Però, l’Europa non risolverà mai questa questione mettendo in sicurezza le persone, se non risponderà alla domanda: una persona che oggi scappa dall’Iraq, dalla Somalia, dall’Eritrea, come fa ad arrivare in maniera legale in Europa? E’ questa la domanda a cui i governi non vogliono dare una risposta.

D. – Perché non c’è questa risposta? Pesa economicamente perché ci sono problemi di relazione tra gli Stati?

R. – No, perché gli Stati non si mettono d’accordo tra loro e ciascuno non si fida dell’altro e quindi pensa che l’altro in qualche modo gli voglia dare un peso maggiore di quello che attualmente sostiene. Per cui, ciascuno prova a giocare in difesa ma, alla fine, questo vuol dire emergenza, vuol dire non saper governare i flussi… E tutti, paradossalmente, ci vanno di mezzo economicamente.

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Kiev chiede nuove sanzioni finanziarie contro Mosca

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Riunione speciale, a Vienna, dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) sulle "violazioni russe in Ucraina", Ogni giorno nell’est dell’Ucraina si continua a morire: almeno 11 civili hanno perso la vita nelle ultime ore a Donetsk, mentre, secondo fonti di Kiev, è stata presa dalle truppe russe la città di Novoazovsk, sulla costa del mare di Azov, dove è stato aperto un terzo fronte di guerra. Dalla metà di aprile ci sono stati 2.220 morti, di cui 1.200 solo nell'ultimo mese. Il primo ministro ucraino Iatseniuk chiede una seduta straordinaria del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, di cui peraltro fa parte anche la Russia. Inoltre Kiev chiede ai Paesi occidentali nuove sanzioni, in particolare di congelare i conti russi fino a quando Mosca non ritirerà le sue truppe dall'Ucraina. Degli effetti delle sanzioni già entrate in vigore per i Paesi occidentali oltre che per la Russia, Fausta Speranza ha parlato con Matteo Caroli, docente di Economia e gestione delle imprese all’Università Luiss: 

R. - Per la Russia il problema immediato è, tutto sommato, relativo perché, ovviamente, questo significa semplicemente avere a disposizione meno prodotti provenienti dall’estero ma, anzi questo può favorire, in qualche modo, le imprese locali. La vera questione che la Russia teme sono le sanzioni al sistema delle banche russe; in particolare, le sanzioni che riducono, o addirittura impediscono l’accesso delle banche russe al credito internazionale. Questo rappresenterebbe un problema - anche nei prossimi mesi - molto importante perché, evidentemente, riduce la capacità delle banche russe di raccogliere capitali e quindi di investire a favore proprio delle imprese della Russia. Ricordiamo che, in questo momento, il costo dei capitali in Russia è molto alto - circa il 10% - quindi le imprese russe devono pagare già molto per finanziarsi; un aumento del costo per le banche di raccogliere capitali anche a livello internazionale aumenterebbe ulteriormente il costo per le imprese russe e quindi ridurrebbe la loro possibilità di investire e di creare occupazione e sviluppo. Forse potrebbero non essere sostenibili già nel breve termine.

D. - Che dire degli effetti in Europa?

R. – Per l’Italia, ci sono delle stime della Sace - l’Agenzia di assicurazione del credito all’esportazione - che valutano, per il biennio 2014/2015, una possibile riduzione dell’export di prodotti italiani in Russia, tra un miliardo e due miliardi e mezzo, a seconda dei diversi scenari. Quindi, è sostanzialmente una riduzione del mercato, quello della Russia - un mercato importante - sia per le imprese italiane. Poi, c’è un altro impatto, sempre sulle esportazioni di medio termine: perché queste sanzioni potranno ridurre la capacità di crescita della Russia, quindi la domanda interna che viene dai russi, e anche appunto la domanda verso prodotti italiani.

D. - Che dire, per esempio, della chiusura in Russia di cinque McDonald’s ...

R. - Questo è l’altro modo tipico con cui un Paese sanzionato reagisce: colpisce le aziende internazionali nel suo Paese. In realtà, formalmente, le autorità russe hanno semplicemente controllato la qualità, l’igiene, nei negozi McDonald’s e hanno verificato una non ottemperanza alla normativa. È chiaro che vengono messe sotto la lente di ingrandimento aziende importanti, straniere, in Russia e questo potrebbe anche accadere alle nostre imprese.

D. - Un Paese “guida” in Europa è la Germania. Ha attraversato la crisi ben diversamente da tutti gli altri, però le sanzioni alla Russia si sono sentite anche in Germania. Significativamente?

R. - Sì, questo problema dell’impatto sulle esportazioni riguarda qualunque Paese e riguarda, in particolare, anche la Germania perché è il primo esportatore europeo in Russia. D’altro canto, non si può immaginare che si applichino sanzioni ad un Paese senza pensare che poi questo non comporti dei costi per le economie nazionali.

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Alture del Golan: nuovo fronte di tensione in Medio Oriente

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Sono le alture del Golan, al confine tra Siria e Israele, un nuovo fronte di tensione in Medio Oriente. Dopo intensi combattimenti tra esercito siriano e ribelli, costati la vita ad almeno 20 persone, lo strategico valico di frontiera di Quneitra è ora controllato dal Fronte Al Nusra, gruppo legato ad Al Qaeda. Intanto la tv panaraba al Arabiya rende noto che almeno 40 caschi blu filippini sono stati presi in ostaggio da miliziani di Al Nusra sulle alture del Golan. Il servizio di Amedeo Lomonaco

Dopo la tregua tra Israele e Hamas a Gaza, sono le alture del Golan ad infiammare la regione con incidenti di frontiera e intensi combattimenti. All’esplosione di colpi di mortaio nel territorio controllato da Israele e al ferimento di un soldato dello Stato ebraico, è seguita la risposta dell’artiglieria israeliana contro postazioni dell’esercito siriano. Nella stessa zona, dopo violenti scontri tra militari siriani e ribelli, il valico di frontiera di Quneitra, che collega la parte siriana del Golan a quella israeliana, è ora sotto il controllo, secondo fonti locali, dei miliziani del Fronte Al Nusra, legati ad Al Qaeda. Sul significato di questi ultimi sviluppi, si sofferma Lorenzo Cremonesi, inviato del Corriere della Sera ed esperto di Medio Oriente:

R. – Nonostante l’intervento americano in Iraq – e nonostante il governo di Bashar al Assad sembrasse aver conquistato diverse posizioni tra i gruppi ribelli in generale – questi sono ancora capaci di sferrare offensive importanti. Adesso, il gruppo Al Nusra che non è lo Stato islamico – a volte combatte contro i suoi miliziani, comunque fa parte del fronte anti-Assad – arriva su confine con il Golan. Per Israele, Al Nusra è una minaccia sul fronte nord, tenendo presente che la tregua di Gaza con Hamas è molto fragile e potrebbe interrompersi da un momento all’altro.

D. – Sono equilibri precari, fragili, facilmente mutabili. I ribelli di Al Nusra non sono i combattenti dello Stati islamico, anzi volte queste due realtà sono in conflitto. Ma è anche ipotizzabile uno scenario in cui questi due gruppi – Al Nusra e i miliziani dello Stati islamico – siano insieme contro Israele o contro la Siria?

R. – Sì. Anche se Al Nusra ha una dimensione più locale. Al Nusra opera in Siria: è un gruppo siriano, di fondamentalisti siriani, anche se condizionato da al Qaeda. Non ha una dimensione panislamica, cosa che invece ha il "Califfato": lo Stato islamico opera in Iraq, ha contatti con le milizie jihadiste in Libia... Ha un’internazionale jihadista che Al Nusra non ha. E’ una minaccia sia per Israele sia per il regime di Bashar al Assad, che pure è nemico di Israele. E certamente per Israele, Bashar al Assad almeno è un nemico conosciuto con cui ha anche raggiunto degli accordi: le alture del Golan e l’area comunque confinante con la Siria sono sempre state le zone più pacifiche, storicamente, dal 1967 ad oggi. Ma la presenza di queste forze che invece non sono così credibili, che sono molto più volatili, molto più imprevedibili, rivela un grosso problema.

D. – La tregua a Gaza si può leggere anche come la decisione, da parte di Israele, di avere un fronte sicuro, anche se con molte incertezze ancora, di fronte appunto a uno scenario ancora così instabile come quello siriano?

R. – Non credo. Israele ha un problema con Gaza, ha un problema con Hamas ed è indipendente da quello che succede in Siria. Certamente, non ha concluso la tregua perché vedeva il crescere della destabilizzazione al nord. Aspetto, questo, che comunque per Israele è un tema ancora estremamente secondario, rispetto a quello con Hamas. 

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La presenza dell'ideologia jihadista in Italia

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“Nell’Unione Europea, sono migliaia i jihadisti e preoccupano anche l’intelligence italiana”. Lo ha affermato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai Servizi segreti, Marco Minniti, dopo l’apertura di due inchieste, a Venezia e a Milano, sul reclutamento dall’Italia di combattenti alla volta di Siria e Iraq. Secondo stime approssimative, in Italia sarebbero 50 i jihadisti già partiti, 300  invece le persone interessate principalmente via web all’attività dello Stato islamico. Lorenzo Vidino, esperto di terrorismo al Politecnico di Zurigo e ricercatore associato Ispi, al microfono di Paolo Ondarza delinea il fenomeno del jihadismo italiano: 

R. – E’ un fenomeno molto eterogeneo in cui troviamo soggetti di prima generazione, marocchini, algerini, nordafricani, etc.., ma troviamo anche un jihadismo nuovo, più autoctono, composto da soggetti nati o perlomeno cresciuti in Italia, immigrati musulmani di seconda generazione e  un numero sempre crescente di convertiti: questo nuovo mondo è meno legato al giro delle moschee, è più presente su Internet.

D. – Quindi, italiani convertiti all’islam?

R.– Sì, sì.

D. – In che termini possiamo quantificare questo fenomeno dei convertiti all’ideologia jihadista?

R. – Parliamo di numeri molto piccoli. Chiaramente, ci sono molti convertiti in Italia, decine di migliaia. Ma il fenomeno di convertiti radicali è statisticamente insignificante: qualche dozzina di soggetti.

D. – Colpisce in particolare a questo proposito un video di reclutamento tradotto anche in italiano che lo Stato islamico ha diffuso nelle ultime ore. Dà l’idea dell’attenzione che si ha da parte di questa realtà nei confronti dell’Italia…

R. – Sì è indubbiamente crescente. Cominciamo a vedere da tre-quattro anni questa scena italiana, autoctona. E’ presente in forma numericamente più consistente anche in Germania, in Olanda, in Inghilterra da 10-15 anni. Ora, sta arrivando anche in Italia. E’ una questione di demografia, di flussi migratori. L’immigrazione di massa in Italia inizia con gli anni Novanta, ora vediamo una seconda generazione di musulmani. In questa seconda generazione, un numero molto ridotto adotta questa ideologia jihadista.

D. – Dove è localizzato prevalentemente in Italia il numero più cospicuo di persone che aderiscono alla jihad?

R. – Sono, in realtà, sparsi per il Paese. Diciamo che una concentrazione numericamente più grande è al Nord.

D. – Sono già una cinquantina le persone partite dall’Italia che hanno aderito allo Stato islamico in Iraq e Siria…

R. – Queste sono le stime ufficiali. Tra questi 50, c’è un numero abbastanza importante di siriani che sono andati a combattere più che altro per difendere il proprio villaggio, la propria famiglia, per motivi più nazionalisti. Un buon numero però, invece, ha questa visione utopistica, abbraccia l’ideologia jihadista e vuole la costruzione dello Stato islamico.

D. – L’adesione ad una visione così intransigente dell’islam da cosa è motivata?

R. – Non si può dare una spiegazione. E’ chiaro che vanno escluse un paio di cose. Prima di tutto, va escluso il caso del lavaggio del cervello. Qui parliamo di soggetti che hanno una buona cultura, vivono in Occidente, hanno studiato nelle nostre scuole e hanno una capacità di prendere decisioni in maniera autonoma e informata. Al tempo stesso, non presentano particolari problematiche di esclusione sociale o di mancanza di educazione o di povertà. Parliamo di soggetti che informati compiono determinate scelte. C’è chi è alla ricerca di un senso di identità e lo trova in questa ideologia estrema, la ricerca di un senso dell’avventura, la ricerca del branco, della comunità… Questi soggetti rifuggono la società di tipo occidentale con le sue libertà e con i suoi costumi, con i suoi eccessi: sia con le cose che anche noi potremmo considerare negative come la droga, la prostituzione, ma condannano anche la libertà, la libertà di culto, la libertà di espressione… Tutto ciò che non fa parte di una visione estremista dell’islam viene da loro fuggito. Quindi, la cosa migliore per loro è scappare dall’Occidente e aiutare la costruzione di questo Stato utopistico.

D. – Uno Stato islamico che vuol dire uno Stato in espansione. Alcune settimane fa, aveva conquistato molta rilevanza sui giornali quell’annuncio dato dal capo dei jihadisti dell’Is: “Dopo l’Iraq toccherà a Roma”. Quanto c’è da prendere sul serio queste minacce?

R. – Senza esagerare. E’ chiaro che la visione di uno Stato islamico, di un gruppo armato che conquista Roma, è qualcosa che al momento è ridicola. Però, che ci sia un’ambizione a compiere attentati in Occidente per dimostrare la propria potenza, queste dinamiche non sono da escludere.

D. – Il fenomeno in Italia comunque è monitorato, è sotto controllo?

R. – Sì, in Italia il livello di attenzione è alto, il lavoro è meno importante che in altri Paesi. Quindi, non parliamo dei 500-600 jihadisti dell’Inghilterra della Francia ma parliamo di numeri molto più ridotti, quindi facilmente monitorabili. Chiaramente, nessun sistema di antiterrorismo è perfetto, però diciamo che il livello di attenzione è consono.

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GB: abusi taciuti per anni, troppi alibi per coprire i colpevoli

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La Gran Bretagna è scossa da un nuovo gravissimo scandalo di abusi sessuali, che ha coinvolto almeno 1400 minori tra gli 11 e i 16 anni, nella sola citta di Rotherham nel nord dell’Inghilterra. I fatti, documentati da un rapporto pubblicato ieri, sono avvenuti dal 1997 a oggi, per mano in massima parte di soggetti musulmani originari di Paesi asiatici. Roberta Gisotti ha intervistato Raffaela Milano, direttore del programma Italia-Europa dell’Associazione Save the Children: 

Dopo il caso del noto conduttore della BBC Jimmy Savile, che aveva goduto di coperture nelle istituzioni pubbliche e private, anche questa volta la rete di violenze è stata ignorata e sottaciuta da forze dell’ordine, scuole, servizi sociali – si è detto in questo caso – per non sollevare ondate di razzismo. Perché questo reato, il più odioso, a danni di minori trova sovente alibi per non essere denunciato con la giusta tempestività e perseguito con il dovuto rigore? Raffaela Milano:

R. – C’è ancora una forte sottovalutazione di questo fenomeno diffuso, che riguarda davvero moltissimi minori, moltissime vittime, molte delle quali restano ignote, quindi non emergono nei dati ufficiali. Questa sottovalutazione è anche frutto di un mancato ascolto dei bambini e degli adolescenti e della mancanza, anche, di procedure di tutela che invece dovrebbero essere obbligatorie in tutti i luoghi dove i minori trascorrono gran parte della loro vita quotidiana: quindi, dalle scuole ai centri sportivi, agli oratori... Tutti luoghi in cui i ragazzi e i bambini dovrebbero trovare canali di ascolto per poter far sentire la propria voce.

D. – In questo caso particolare dell’Inghilterra, le denunce – formali e informali – c’erano state. Quindi, forse bisognerà pensare a qualcosa di particolare per questo tipo di denunce, che continuano poi a trovare appunto coperture?

R. – Certamente, laddove esistono delle denunce queste vanno seguite e prese in considerazione. Devo dire che, da questo punto di vista, in Italia ci sono stati passi avanti anche con l’attuazione di alcune normative europee che oggi hanno definito un percorso di maggiore tutela per le vittime di questi reati. Però, certamente il rafforzare anche da un lato il circuito della giustizia e dall’altro quello di sostegno e di recupero delle vittime di questi abusi è fondamentale, anche per incoraggiare l’uscita dal silenzio. Altrimenti, un iter giudiziario lungo rischia di veder ripetuto l’abuso anche nel continuo confronto prima con le Forze dell’ordine e poi nelle aule giudiziarie, e questo può anche indurre a coprire, a sottacere, a mettere nell’ombra situazioni gravissime, che vanno invece rese note e denunciate e perseguite con assoluta severità.

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Etiopia: storia e fede, in mostra al Meeting di Rimini

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Il Meeting di Rimini ospita una suggestiva mostra sull’Etiopia intitolata: “Dalle periferie della cristianità l’Etiopia alzerà le sue mani a Dio”. Un modo per conoscere più da vicino questo Paese ricco di storia e arte cristiana. Proposte al visitatore, le icone dai colori forti con la Vergine e il Bambino e di San Giorgio del 1.500 e del 1.600, le croci finemente lavorate, le immagini delle chiese monolitiche costruite nel tufo. La nostra inviata al Meeting, Debora Donnini, ha intervistato il curatore della mostra, Giuseppe Barbieri, docente di storia dell’arte moderna all’università Ca’ Foscari di Venezia: 

R. – L’Etiopia è uno dei primi Stati cristiani della storia. La monetazione etiopica presenta già monete con il sigillo della Croce, un secolo prima della monetazione romana: attorno al 330-340 d.C. compaiono le prime monete etiopiche che portano il segno della Croce. E poi noi sappiamo che, nel giro di qualche secolo, l’Etiopia diventa una sorta di enclave, circondata da Stati e popolazioni musulmane, che la isolano, ma questo ha anche consentito di conservare una tradizione che, in qualche modo, risale direttamente alla Chiesa delle origini.

D. - Il cristianesimo arriva in Etiopia già nel IV secolo con Frumenzio, ma legato già al giudaismo c’era la tradizione, nell’immaginario, della Regina di Saba che incontra il Re Salomone…

R. – Noi sappiamo che dall’Etiopia è iniziata l’umanità, che il percorso che le primissime famiglie umane hanno fatto è stato attraversare il golfo di Aden, arrivare fino nel Medio Oriente e da lì spargersi un po’ a destra e un po’ a sinistra. I nostri progenitori assoluti vengono da lì. Il legame è quello, non si sono sparsi verso l’Africa occidentale o verso l’Africa meridionale. Sono andati verso il Medio Oriente. La Regina di Saba è certamente una figura con tutte le componenti del mito ma anche con tracce di una tradizione storica precisa che lega in qualche modo il Corno d’Africa al Medio Oriente.

D. – Nella mostra vengono esposte icone dove compare soprattutto la Vergine con il Bambino in braccio e San Giorgio e il Drago: perché questa predilezione?

R. – Allora, l’Etiopia viene chiamata da molti secoli a questa parte il feudo di Maria in Africa e quindi il legame con la Vergine è sempre stato costante e fa parte della radice della tradizione religiosa della Chiesa cristiana di Etiopia. La forma che questa Vergine, anche figurativamente, assume dalla seconda metà del XVI secolo in avanti è l’icona bizantina miracolosa, la “Salus populi romani” di Santa Maria Maggiore, che i Gesuiti importano in Etiopia e che diventa uno standard raffigurativo. La figura di San Giorgio è un altro perno della tradizione religiosa e artistica etiopica anche per un legame con la Vergine: al giorno in cui viene ricordata l’Annunciazione corrisponderebbe la traslazione del corpo di San Giorgio che dall’Armenia viene sepolto accanto a Gerusalemme e corrisponde a questo impegno che Gesù Cristo prende con Giorgio, per cui chi si rivolgerà a Lui troverà ascolto presso il Cristo. Quindi questo determina la grande figura dell’intercessore: San Giorgio come intercessore del quasi 99 per cento delle preghiere etiopiche e di conseguenza una percentuale altrettanto grande di raffigurazione in rapporto con la Vergine, proprio perché nella tradizione religiosa etiopica c’è la percezione di questo legame, non solo tra Giorgio e il Cristo, ma anche tra Giorgio e la Vergine.

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Mons. Nicolli: Chiesa si chini sempre più su famiglie in crisi

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"Custodire l'umano. Il bene della famiglia”: è il tema del Convegno di tre giorni, promosso della Cooperativa Frate Jacopa a Bellamonte in Val di Fiemme. Ad inaugurare l'evento (il 27 agosto), mons. Mario Toso, segretario del dicastero vaticano “Giustizia e Pace”. Al convegno interviene anche mons. Sergio Nicolli, parroco a Rovereto e già direttore dell’ufficio Cei per la famiglia, sul tema “La fragilità della famiglia, luogo di grazia”. Al microfono di Alessandro Gisotti, mons. Nicolli illustra i punti salienti del suo intervento: 

R. – Molti, oggi, che falliscono un progetto di matrimonio cristiano hanno proprio la sensazione di non contare più nulla per la Chiesa, quasi di essere soltanto degli avanzi di un bel progetto andato a male, quasi i cocci di un vaso rotto, insomma, mentre credo sia importante mantenere alta la proposta. Per le famiglie sicuramente è un progetto di santità, ma nello stesso tempo credo che il compito della Chiesa sia quello di affiancarsi alle famiglie che vivono delle difficoltà, perché sono in crisi, oppure delle persone che hanno fallito questo progetto di matrimonio e aiutarle a ritrovare, all’interno di una situazione cambiata, la presenza di un Dio che si fa tenerezza, che accompagna le sensazioni di sofferenza, che non lascia perdere nessuno; dare l’immagine di una Chiesa che non si occupa soltanto dei “perfetti”, ma di una Chiesa che accompagna i deboli e i "falliti" della vita. Questo su cui insiste in maniera molto bella, splendida Papa Francesco.

D. – Lei ha un’esperienza concreta di accompagnamento di un gruppo di separati. Questo aspetto della misericordia così fortemente e convintamente ripetuto da Papa Francesco, come viene colto da queste persone che hanno alle spalle una sofferenza molto profonda?

R. – Viene raccolto quasi come un’ancora di salvezza. Io ho iniziato circa 15 anni fa con un gruppo di separati a Trento. Adesso, essendo parroco a Rovereto, ho ripreso con un gruppo qui. Io spesso, quando parlo in giro, dico che tra tutti i gruppi che ho seguito, in oltre 40 anni di sacerdozio, il gruppo dei separati è il gruppo in cui ho trovato dei capolavori della grazia di Dio, dove ho visto veramente che lo Spirito è capace di scolpire dei capolavori anche da situazioni che sembravano umanamente fallite. E’ il gruppo da cui ho raccolto una ricchezza umana e spirituale più forte che non in altri gruppi. E per questo mi sono convinto che lì dove c’è la sofferenza, dove c’è anche il fallimento, è possibile ritrovare un disegno di Dio, che valorizzi la sofferenza in maniera positiva.

D. – Lei è stato per anni responsabile dell’Ufficio nazionale della Cei per la famiglia, con quale aspettative, con quali speranze guarda al prossimo Sinodo di ottobre sulla famiglia, quello straordinario, e poi l’anno dopo quello ordinario, ma sempre dedicato alla famiglia, per volere di Francesco?

R. – Io vivo questi due Sinodi con una grande attesa che la Chiesa sia capace di dare un’immagine davvero di un Dio, che si china sui fallimenti umani, che si china sulla sofferenza umana, che non lascia perdere nessuna storia, che non considera fallita nessuna vicenda umana, pur continuando a proporre degli ideali alti, quindi senza abbassare il tenore della proposta, una Chiesa che sia capace di valorizzare anche le situazioni di sofferenza e riuscire a far cantare l’amore pure in queste situazioni.

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Simposi rosminiani: "Uomini, animali o macchine?"

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Quest’anno i Simposi rosminiani, giunti alla 15.ma edizione, iniziano una nuova fase di dialogo con il mondo della scienza, come già si intuisce dal titolo «Uomini, animali o macchine? Scienze, filosofia e teologia per un “nuovo umanesimo”». Fino a sabato, circa 200 tra scienziati, filosofi e teologi saranno a Stresa per affrontare un tema di grande attualità, facendo anche tesoro degli insegnamenti del Beato Rosmini. Paolo Giacosa ha parlato delle novità di quest’anno con padre Umberto Muratore, direttore del Centro Internazionale di Studi rosminiani di Stresa: 

R. – Dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso e fino adesso, ininterrottamente, con questi convegni ci siamo sempre un po’ tenuti sul campo delle cosiddette scienze umane. Con quest’anno vogliamo dare una svolta e cercare di aprirci un po’ più al mondo delle scienze odierne, tipo la biologia, le neuroscienze … Ci sembrava opportuno cercare di creare un dialogo fecondo tra queste scienze, la filosofia e la teologia.

D. – Il rapporto tra uomo e macchine richiede riflessioni profonde. Si può correre, infatti, il rischio della disumanizzazione?

R. – Io direi di sì. Ci sono ovviamente dei neuroscienziati, dei genetisti, così pure dei cosmologi che si sanno aprire anche ad altri valori, ma alcuni potrebbero rischiare di rimanere solo sul loro dato scientifico. Ora, siccome la ricchezza dell’essere è una ricchezza tanto grande per il filosofo - perché comprende sia la realtà materiale sia l’intellettualità, sia la spiritualità, sia l’etica -, se si realizza una concezione solo materialistica di queste scienze, il rischio è che tra l’uomo, l’animale e il robot non ci sia nessuna differenza. E questo costituirebbe un impoverimento grandissimo!

D. – Discipline come la biologia e la neuroscienza portano ad interrogarci sui confini etici. Quale apporto si può fornire al dibattito?

R. – Questa eticità della biologia e delle neuroscienze conosce due campi: uno è quello in cui devono fissarsi delle etiche all’interno della loro scienza, del tipo quando una scoperta può essere considerata ragionevole e valida … C’è poi un’altra etica, cioè sull’applicazione di queste scoperte che si fanno. Infatti, quando si parla di applicazione all’individuo e alla società, allora si tocca un campo che è oltre i confini della scienza. E allora qui bisogna anche chiedersi, con responsabilità, quali effetti benefici o deleteri queste applicazioni avranno. E allora, qui entrano anche l’etica, il diritto, la religione.

D. – Conosciamo sempre più a fondo il funzionamento del nostro organismo ma il rischio sembra quello di perdere la complessità dell’identità umana. Può essere questa la sfida della filosofia e della teologia nei prossimi anni?

R. – Direi di sì. Cioè, si rischia di perdere valori che la scienza non può catturare con i suoi strumenti. C’è una ricchezza dell’essere che è una ricchezza di intelligenza, una ricchezza morale, una ricchezza di affetti, di sentimenti … Questi sono valori che gli strumenti scientifici non riescono a catturare. Non parliamo poi di altri campi come il campo del “bello”, quindi l’estetica, il campo della poesia, della letteratura: tutti valori che devono essere messi in connessione con queste scienze che costituiscono un po’ la base di tutto il sapere, però non possono essere ridotti a questo perché la causa non è nella materia ma sono ricchezze compresenti nel mondo e nell’uomo, ma non l’una che nasca dall’altra.

D. – Il pensiero di Rosmini può essere chiave di lettura per le sfide del post-umano?

R. – Il pensiero di Rosmini, soprattutto nel suo grossissimo libro “La teosofia”, può servire per una lettura dell’Essere, quindi per una ontologia che tenga compresenti quelle che lui chiamava “le forme dell’essere”, che sono poi la forma reale, la forma intellettuale e la forma morale. E allora, una lezione rosminiana può servire non tanto per dare dati nuovi sulle scoperte, ma per sapere che direzione e che senso dare ai singoli dati scientifici. Quindi, per una visione globale, poi, della vita e dell’esistenza.

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La Chiesa ricorda S. Agostino, un uomo alla ricerca della verità

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La Chiesa ricorda oggi Sant’Agostino, uomo inquieto alla ricerca della verità, filosofo e poi vescovo di Ippona. Proprio la sua inquietudine è il tratto che Papa Francesco ha sottolineato lo scorso anno, recandosi nella Basilica romana di Sant’Agostino in Campo Marzio, per presiedere la Messa di apertura del Capitolo generale dell’ordine agostiniano. Questo pomeriggio, alle 18.30, nella stessa Basilica, a celebrare con i religiosi agostiniani la memoria del grande Padre della Chiesa ci sarà il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, che scoprirà anche un marmo a ricordo della visita del Pontefice. Al microfono di Tiziana Campisi, padre Pasquale Cormio, patrologo agostiniano, spiega quali frutti sono maturati dalle parole pronunciate dal Papa un anno fa: 

R. – Il Papa ha lasciato a tutti quanti noi agostiniani un compito, quello di approfondire il tema dell’inquietudine, e lo ha declinato secondo tre modalità: l’inquietudine della ricerca spirituale, l’inquietudine dell’incontro con Dio, l’inquietudine dell’amore. Sono tre aspetti estrapolati dalla vita di Agostino e che sono ancora oggi validi. L’inquietudine esprime il desiderio di felicità che è nel cuore dell’uomo. Ed è Dio stesso che mette l’inquietudine nel cuore dell’uomo, perché lui possa muoversi, col desiderio più che con i piedi, per poter cercare e possedere la verità, vale a dire Gesù Cristo. E come agostiniani noi cerchiamo di muoverci lungo questa linea che è stata tracciata proprio dal nostro Santo Padre: la ricerca della verità è ricerca della felicità e possesso della felicità, ma la felicità noi la possiamo incontrare nella persona di Gesù Cristo.

D. – Papa Francesco vi ha esortato a mantenere viva l’inquietudine dell’amore, l’attenzione all’altro, alla carità dunque…

R. – Certamente, è un tema caratteristico del Pontefice: puoi amare Dio se ami, servi e onori il fratello che il Signore ci ha messo accanto.

D. - Agostino ricorda molto l’inquietudine dell’uomo. Oggi come placare l’inquietudine moderna?

R. – E’ un cammino. L’inquietudine per Agostino è proprio questo: è un andare avanti. E l’inquietudine è qualcosa che ci spinge, perché in un certo senso, interiormente, ci fa sentire sempre inappagati. E’ questo senso di incompletezza che ci permette anche di poter avviare una ricerca. Per Agostino l’inquietudine viene stimolata dalla bellezza della natura, del Creato: sono tracce che Dio lascia nel mondo della sua presenza. Così come anche un’altra forma di inquietudine è proprio quel desiderio, quella ricerca di verità, della felicità, che noi ritroviamo oggi nel cuore delle persone. Forse, molte volte, non sono capaci di trovare quello che è l’oggetto, il significato della felicità. La ricerca di Dio parte sempre dalla ricerca dell’uomo, e l’uomo dentro di sé trova i segni della presenza di Dio. E allora la stessa inquietudine è un dono del Signore, perché l’uomo possa muoversi alla ricerca appunto di Dio. Possiamo così dire: la bellezza della natura da una parte e questo senso di incompletezza o la ricerca della felicità che è nel cuore dell’uomo, possono essere due elementi che ci permettono anche di avvicinare - e molte volte così avviene - tanti giovani che non sempre riescono a trovare un senso nella loro vita e finiscono come l’Agostino dei primi tempi per dissipare i doni che il Signore ci ha dato. Un primo passo per noi è saper riconoscere i doni che il Signore ha messo nella nostra vita e per questo anche lodarlo.

D. - Voi frati agostiniani avete voluto lasciare un segno visibile della visita di Papa Francesco lo scorso anno, il 28 agosto: perché questo segno?

R. – E’ sicuramente anche una modalità di ringraziamento per noi, per l’attenzione e la generosità che Papa Francesco ha avuto nei nostri confronti, perché è stato lui a proporsi di presiedere la celebrazione eucaristica che apriva il 184.mo capitolo generale dell’ordine agostiniano. Quindi, anche per ricordare questa generosità, questa attenzione del Papa verso l’ordine agostiniano, lo abbiamo voluto mettere per iscritto, su una lapide collocata all’ingresso della Cappella di Santa Monica, nella Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio a Roma, proprio per lasciare anche ai nostri posteri questa memoria della presenza del Papa in mezzo a noi.

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Nella Chiesa e nel mondo



Patriarchi delle Chiese Orientali: appello per le violenze anticristiane dell'Is

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In una dichiarazione pubblicata al termine della loro riunione che si è tenuta ieri a Bkerké (località libanese a 25 km a nord di Beirut), i patriarchi e i Capi delle Chiese orientali denunciano “i crimini contro l’umanità” commessi dallo Stato islamico in Iraq (Daech, in arabo) “contro i cristiani, gli yazidi e le altre minoranze”.

I patriarchi - riporta l'agenzia Fides - sottolineano che la presenza cristiana è minacciata in diversi Paesi, in particolare in Egitto, Siria e Iraq. “I cristiani di questi Paesi sono vittime di aggressioni e di crimini odiosi, che li spingono ad emigrare a forza dai loro Paesi, dove sono cittadini originari da più di mille anni. Le società islamiche e arabe sono così private di una ricchezza umana, culturale, scientifica, economica e nazionale importante” afferma il documento..

I patriarchi ricordano la “grande catastrofe che si è abbattuta adesso sui cristiani dell’Iraq, su quelli di Mosul e dei 13 villaggi della piana di Ninive, così come sugli yazidi e sulle altre minoranze”. Dopo aver spinto all’esodo 120.000 persone, il Daech ha violato chiese, moschee e santuari, e ha demolito le abitazioni abbandonate da coloro che sono stati costretti a rifugiarsi nelle aree curde di Erbil (che accoglie 60.000 persone) e di Dohouk (che accoglie circa 50.000 persone).

Nel ringraziare coloro che offrono assistenza umanitaria agli sfollati, i patriarchi chiedono un intervento deciso per fermare le “azioni criminali” del Daech. Si chiede in particolare alle istituzioni islamiche di pronunciarsi contro il Daech e gruppi simili, che con le loro azioni “danneggiano considerevolmente l’immagine dell’Islam nel mondo”.

Al termine della riunione i patriarchi e i Capi delle Chiese orientali hanno incontrato mons. Gabriele Caccia, nunzio apostolico a Beirut, e gli ambasciatori di Stati Uniti, Russia e Gran Bretagna, oltre al rappresentante personale del Segretario generale dell’Onu in Libano, e ai primi Consiglieri dell’ambasciata di Francia e di Cina. (R.P.)

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Messico: vietato a vescovo celebrare Messa per i migranti

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“Avete cinque minuti per andarvene”. Così il vescovo della diocesi di Tabasco, mons. Gerardo Jesús Rivera, si è sentito apostrofare dagli agenti del Servizio della Dogana e dell’Istituto nazionale della Migrazione messicani mentre si apprestava a celebrare una Messa dedicata ai migranti alla frontiera con il Guatemala.

Il presule - riferisce l'agenzia Misna - si trovava insieme a una decina di religiose e religiosi, fra cui frate Fray Tomás González, francescano, direttore della Casa del Migrante “La 72” di Tenosique: intendevano officiare una Messa in memoria del massacro di 72 migranti centro e sudamericani perpetrato nell’agosto 2010 a San Fernando dal cartello della droga degli Zetas, ma sono stati fermati – si legge sulla stampa messicana – per presunto intralcio al traffico.

I religiosi hanno quindi chiesto il permesso di potersi spostare dall’altro lato della frontiera e sono riusciti così a realizzare la celebrazione in Guatemala: il vescovo ha colto l’occasione per sottolineare un avvicinamento fra le diocesi di Tabasco e quella confinante del Petén. “Dal 2009 al 2011 più di 20.000 persone migranti sequestrate, con ricavi annui di 50 miliardi di dollari per il crimine organizzato. Tutto si racchiude in queste parole: abuso di autorità, violazione, estorsione, fame, rapina, furto, morte, mutilazione, dolore. Frenate questo olocausto” si leggeva su uno striscione esposto da un gruppo di migranti. In seguito mons. Rivera ha benedetto la Casa del Migrante “La 72” e centinaia di suoi ospiti.

L’episodio giunge dopo la denuncia del Movimento migrante mesoamericano (Imm) che ha accusato il coordinatore per l’ "Attenzione integrale alla migrazione della Frontiera Sud del Messico", il senatore del Partito Rivoluzionario Istituzionale (Pri) Humberto Mayans Canabal, di aver inasprito la politica migratoria innescando un clima di “terrore” contro i centroamericani privi di permesso, principalmente nella regione di Tenosique e Arriaga, in Chiapas.”Da quando è arrivato Humberto Mayans è esplosa la violenza contro i migranti” ha dichiarato il portavoce del Movimento, Rubén Figueroa.

Secondo quest’ultimo, da quando Mayans Canabal ha inaugurato il suo nuovo incarico, agenti dell’Inm e della polizia federale hanno intensificato le operazioni per impedire che i migranti centroamericani salgano sul treno merci conosciuto come ‘La Bestia’, obbligandoli di fatto a scegliere percorsi alternativi e più a rischio per raggiungere gli Stati Uniti. Frate Tomás ha denunciato che gli stessi agenti federali insultano e percuotono i migranti per impedirgli di prendere il treno; chi ci riesce viene violentemente costretto a scendere. (R.P.)

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Pakistan: per la crisi sociopolitica i cristiani invocano il dialogo

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“L’unica via per affrontare e risolvere l’attuale crisi politica e sociale è il dialogo, nel rispetto dello stato di diritto e della Costituzione, fuori da misure populiste”: lo afferma all’agenzia Fides padre Yousaf Emmanuel, direttore nazionale della Commissione “Giustizia e Pace” dei vescovi pakistani commentando il delicato momento politico che vive la nazione.

La capitale Islamabad infatti è bloccata da oltre 20mila manifestanti di due partiti politici di opposizione: il Pakistan Tehrik-i-Insaaf (Movimento pakistano per la giustizia), guidato dall’ ex-campione di cricket Imran Khan, e il Pakistan Awami Tehreek (Movimento del popolo pakistano), con a capo il predicatore islamico Tahir ul-Qadri. I due chiedono le dimissioni del Premier Nawaz Sharif, che respinge l’ipotesi, e lo scioglimento del Parlamento. Nawaz Sharif, inoltre, è accusato formalmente da un tribunale di omicidio, dopo il raid della polizia che ha ucciso 14 persone e fatto 100 feriti tra i membri del movimento di Qadri, il 17 giugno scorso a Lahore.

Padre Emmanuel spiega a Fides: “Alcuni leader politici hanno proposto una soluzione, finora senza successo. Bisogna sostenere la via del dialogo, fuori dal populismo e abbandonando posizioni radicali. Le dimissioni del Primo Ministro, secondo la nostra Carta costituzionale, possono avvenire solo con la sfiducia del Parlamento, non certo per l’invocazione della piazza”. Per ora la protesta è pacifica ma, nota il direttore della Commissione, “proclami come quello del ‘giorno della rivoluzione’, annunciato da Qadri, sono pericolosi. Potrebbero generare violenza e conseguenze gravi, fino al golpe militare. Il Pakistan ha imboccato da pochi anni la strada della democrazia, che è ancora fragile. Bisogna tutelarla. L’esercito ha preso il potere già quattro volte nella nostra storia nazionale, non vorremmo avvenisse la quinta volta”.

Il sacerdote di Lahore conclude: “E’ vero che alcune istanze della protesta sono giuste, come la lotta alla povertà e alla corruzione o l’urgenza di fornire energia elettrica a tutta la popolazione. Fanno parte delle legittime esigenze di giustizia che tocca al governo affrontare. Ma la giustizia non si può mai disconnettere dalla pace: la via da percorrere è sempre la rivendicazione pacifica, nel rispetto dei diritti di tutti e della democrazia”. (R.P.)

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India. Uttar Pradesh: radicali indù "riconvertono" dei cristiani

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Lo scorso 26 agosto, alcuni gruppi fondamentalisti indù hanno "riconvertito" una comunità  della chiesa avventista di Asroi, villaggio a circa 30 chilometri da Aligarh, composta da più di 70 tribali valmiki, battezzati nel 1995, e hanno trasformato la loro chiesa in un tempio dedicato a Shiva. Inoltre, hanno effettuato alcuni "sacrifici di purificazione" sempre nel luogo di culto, in cui hanno installato un grande ritratto del dio indù, e hanno abbattuto la croce sul tetto.

Il card. Gracias all'agenzia AsiaNews esprime "dolore per l'accaduto", mentre per il presidente del Global Council of Indian Christians: "Aumenta l'intolleranza religiosa, nel silenzio delle autorità".

Nonostante l'India abbia severe leggi contro le conversioni, e gli stessi radicali indù usino questo argomento per limitare le attività delle chiese cristiane, quando a convertirsi sono dei cristiani, nessuno scatena polemiche. Secondo Khem Chandra, leader indù della zona, questo si spiega "perché non è una conversione ma una 'ghar wapasi', un ritorno a casa. Hanno fatto una scelta sbagliata tanti anni fa e ora l'hanno capita. Sono tornati e noi li abbiamo accolti con amore". L'uomo non nasconde di aver incontrato nel corso del tempo "in diverse occasioni" i convertiti per convincerli a rinunciare al cristianesimo.

Parlando con AsiaNews, l'arcivescovo di Mumbai card. Oswald Gracias esprime "dolore" per quanto avvenuto, ma sottolinea: "La Chiesa cattolica è sempre stata, per centinaia di anni, al servizio dei poveri e degli emarginati. La nostra prima missione è quella di garantire la crescita sociale di chi vive ai margini, dei più poveri fra i poveri. La Chiesa comprende le realtà e le sofferenze dei settori più deboli. Siamo stati e continuiamo a essere in prima linea in questa missione, seguendo le orme di Gesù".

Secondo Sajan K George, presidente del Global Council of Indian Christians, quella in corso in Uttar Pradesh è una "violenza continua. Cresce l'odio contro la piccola comunità cristiana, l'intolleranza e la violenza sono ormai a livelli d'allarme. Solo per parlare di luglio, abbiamo registrato due violenti attacchi contro i cristiani portati avanti dai leader locali del fondamentalismo indù. E la polizia, invece di proteggere i cristiani e i loro diritti, li ritiene sempre colpevoli". (R.P.)

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Vietnam: anche il Partito rende omaggio al "vescovo dei poveri"

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Un pastore fedele alla missione e al servizio della comunità, attento ai poveri, agli ammalati, ai bambini più sfortunati che, nel corso della sua missione, ha fondato orfanotrofi, scuole per studenti e progetti di aiuto e finanziamento agli agricoltori. Così i fedeli della diocesi di Phan Thiết, nella provincia di Binh Thuan, nel sud del Vietnam, ricordano il loro vescovo emerito mons. Paul Nguyễn Thanh Hoan, scomparso lo scorso 18 agosto a 74 anni di età. Il prelato - riferisce l'agenzia AsiaNews - ha promosso negli anni i valori di "unità, amore reciproco, attenzione ai poveri" non solo a parole, ma valorizzando le "opere concrete" e mettendo in pratica gli insegnamenti ricevuti.

 La sua opera gli è valsa il riconoscimento anche delle autorità comuniste locali e dei vertici del Partito, che il giorno dopo la morte, hanno reso omaggio alla sua salma, accedendo l'incenso e recitando alcune "preghiere", e partecipando al lutto della famiglia e di tutta la comunità cristiana. 

Ultimo di tanti esempi concreti della sua opera nel sociale, la Comunità per la carità e i servizi sociali (Ccss) di Phan Thiết: si tratta di un "Centro sociale" che, in collaborazione con le autorità cittadine, aiuta 239 famiglie povere fornendo loro - fra gli altri - piccole somme di denaro. Il capitale viene investito in progetti di piccola imprenditoria locale, fra cui la coltivazione di piante utilizzate nella medicina tradizionale, piccoli allevamenti di maiali, micro-imprese che forniscono lavoro e sostentamento per più di 150mila persone.

Nel 1968, con l'intensificarsi del conflitto, egli fonda un orfanotrofio ribattezzato "Famiglia della colomba bianca" in segno di pace e di speranza per un futuro di unità e riconciliazione nel Paese; nell'estate del 1972 la struttura arriva ad accogliere fino a 345 orfani. Con il precipitare degli eventi, egli si incarica di guidare bambini, studenti e famiglie - oltre 300mila fedeli - fino a Bình Tuy, nella provincia di Binh Thuan, in cerca di un riparo sicuro.

All'indomani della riunificazione del Vietnam nel 1975 e l'ascesa al potere dei comunisti, ormai padroni anche del sud del Paese, egli viene espropriato dell'orfanotrofio e della scuola; tuttavia, con lo spirito del buon pastore non si perde d'animo e decide di dar vita a una parrocchia che, fedele alla sua missione, chiama "Parrocchia della colomba bianca".

Negli anni fra il 1978 e il 1987, caratterizzati dall'embargo degli Stati Uniti e la conseguente crisi economica, oltre che il conflitto con la Cina, il futuro vescovo spende tutte le risorse fisiche e materiali per aiutare i fedeli, in particolare i più poveri. Egli dà vita a progetti di sviluppo, contribuisce al miglioramento delle tecniche di coltivazione in molte aree arretrate, mette a disposizione piccole somme di denaro per gli agricoltori. Infine, la nascita della Comunità per la carità e i servizi sociali (Ccss), per assistere uomini e donne, religiosi e non, a nutrire la spiritualità e conoscere a fondo l'amore di Gesù. Nel 2001 la nomina a coadiutore di Phan Thiết, di cui sarà vescovo dall'aprile 2005 al luglio 2009. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 240

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.