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Sommario del 12/07/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa per la finale dei Mondiali di Calcio: lo sport favorisca la cultura dell’incontro

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“I Mondiali hanno fatto incontrare persone di diverse nazioni e religioni. Possa lo sport favorire sempre la cultura dell’incontro”. E’ il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account Twitter @Pontifex, alla vigilia dell’attesa finale Argentina-Germania allo stadio Maracanà di Rio de Janeiro. E proprio all’insegna di questo spirito di dialogo e pace, il Pontificio Consiglio della Cultura ha lanciato su Twitter l’hashtag #PAUSEforPeace, “Pausa per la pace”. Su questa originale iniziativa, Fabio Colagrande ha intervistato mons. Melchor Sanchez de Toca y Alameda, sottosegretario del dicastero e capo della sezione Cultura e Sport: 

R. – E’ un’iniziativa nata da diversi amici in occasione della finale del Mondiale. Perché non approfittare di un evento veramente mondiale quando tutto il mondo sarà davanti agli schermi a guardare la partita per dare alla pace un’opportunità?

D. – Gli aderenti alla campagna quale richiesta fanno?

R. – Di osservare un minuto di silenzio prima del calcio di inizio della partita della finale. Ma ovviamente si tratta di far tacere le armi, di far cessare la guerra, non solo durante un minuto ma definitivamente: almeno il gesto di un minuto di silenzio, di preghiera!

D. – Qual è l’idea che sta alla base di questa iniziativa, qualcosa di simile alla tregua olimpica che c’era al tempo dei giochi antichi?

R. – Lo sport è nato legato alle festività religiose. Durante le grandi festività c’erano i giochi e cessavano, almeno per quel momento, le guerre. Questo in parte lo vediamo adesso, quando c’è la finale di un grande campionato, una grande partita di calcio, il mondo si paralizza per guardare, almeno per 90 minuti, una partita. Se potessimo estendere questo alla guerra: se per 90 minuti e oltre le guerre si fermassero daremmo un’opportunità alla pace.

D. - Il cardinale Ravasi presidente del vostro dicastero ha promosso l’iniziativa venerdì 11 luglio con un tweet, citando il primo Libro dei Re: “Ancora una voce di silenzio sottile”. Dunque nel silenzio si può trovare anche Dio oltre alla pace?

R. –Una bellissima immagine legata alla storia del profeta Elia. Dio non era nel frastuono, Dio era presente nel soffio delicato del vento, della brezza e così nel soffio delicato del silenzio possiamo trovare Dio. Perciò noi invitiamo tutti non solo a fare un minuto di silenzio ma una preghiera silenziosa, che è diverso.

D. – Chiedete anche di aderire su Twitter con un hashtag, #PAUSEforPeace, a questa iniziativa ma proprio sul web nei giorni scorsi molti hanno manifestato sconcerto che ci fosse qualcuno che piangeva o gioiva per una partita mentre è in corso un conflitto come quello in Medio Oriente. Sono contrasti che fanno pensare?

R. – E’ l’ambiguità del calcio che fa sognare e piangere, e per alcuni momenti aliena dalla realtà. Questo ha un suo lato positivo perché ci riporta a un mondo che è quello del gioco, il mondo della passione: per un po’ ci allontaniamo dalla fatica dell’esistenza. Però ha anche un lato negativo: rischiamo di dimenticare la sofferenza di molte persone che non possono concedersi una pausa di 90 minuti nella loro sofferenza. Sono le luci e le ombre di una realtà come quella dello sport.

D. - Vi augurate che anche la stessa Fifa organizzi un minuto di silenzio prima dell’inizio del match, domani?

R. – Questo è l’augurio, noi abbiamo lanciato una palla. Speriamo che continui a rotolare e rotolare e a coinvolgere sempre più gente di buona volontà e che finalmente la Fifa se ne prenda carico, in qualche modo ufficializzi questo. Il mondo ha veramente bisogno di pace. In Medio Oriente di nuovo si sentono i tuoni della guerra. Non possiamo permetterci di guastare una festa bella come quella del calcio con il rumore delle bombe e le lacrime delle vedove e degli orfani.

 

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Nomine di Papa Francesco

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Papa Francesco ha nominato il card. Jaime Lucas Ortega y Alamino, arcivescovo di La Habana (Cuba), Suo Inviato Speciale alla celebrazione conclusiva del 350.mo anniversario della fondazione della parrocchia di Notre Dame-de-Québec (Canada), “chiesa-madre di tutte le parrocchie dell’America del Nord”, in programma il 14 settembre 2014.

Il Papa ha nominato nunzio apostolico in Etiopia mons. Luigi Bianco, arcivescovo tit. di Falerone, finora nunzio apostolico in Honduras.

In Italia, il Santo Padre ha nominato vescovo della diocesi di Castellaneta mons. Claudio Maniago, finora vescovo titolare di Satafi e ausiliare di Firenze.

Papa Francesco ha nominato Vicario Giudiziale del Tribunale di Prima Istanza per le cause di nullità di matrimonio della Regione Lazio il rev.do sac. Luca Sansalone, del clero della diocesi di Roma, finora vicario giudiziale aggiunto presso il medesimo Tribunale.

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S. Camillo de Lellis: celebrazioni per il 400.mo della morte

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Al via oggi le celebrazioni di chiusura dell’anno giubilare camilliano, iniziate lo scorso 5 luglio, per commemorare il 400.mo della morte di San Camillo de Lellis, avvenuta il 14 luglio del 1614.  Questa sera nella chiesa di Santa Maria Maddalena a Roma ci sarà una solenne celebrazione eucaristica, presieduta da mons. Andrea Manto, direttore del Centro per la Pastorale sanitaria diocesana e al termine della Messa sarà inaugurata la mostra “Il gigante della carità, San Camillo de Lellis”, in esposizione nella Casa generalizia dei Camilliani.  Domani mattina, invece, la grande famiglia di San Camillo parteciperà all’Angelus di Papa Francesco in Piazza San Pietro. La testimonianza di fratel Carlo Mangioni coordinatore delle iniziative centrali per il IV centenario, al microfono di Monia Parente: 

R. – E’ stato un anno ricco di iniziative, ma soprattutto ricco di grazia perché tutte le comunità camilliane - presenti in 40 Paesi - del mondo hanno realizzato delle celebrazioni proprio per ricordare questo gigante della carità.

D. – Quale modello di santità rappresenta oggi per noi?

R. – San Camillo è un santo io dico della "speranza", perché fino a 25 anni - come sappiamo - ha vissuto una vita molto travagliata, una vita nel peccato. Dopo si è ritrovato in ospedale, qui a Roma, prima al San Giacomo e poi al Santo Spirito: lì ha esercitato un carisma di attenzione ai malati, ai poveri, ai piccoli. San Camillo diventa un potente intercessore presso Dio per gli ammalati e anche un esempio splendido per gli operatori sanitari.

D. – Il 14 luglio 1614, alle 21.30, San Camillo de Lellis tornava alla casa del Padre. Voi ricorderete lunedì prossimo, proprio a 400 anni di distanza da quel momento, il transito di San Camillo…

R. – Sì, sì. Il transito che è poi un po’ il racconto degli ultimi giorni di Camillo. Camillo muore a Roma nella casa madre dell’Ordine, alla Maddalena, e lì è custodito ancora il suo corpo. Celebrare il transito in tutte le comunità dell’ordine, sia maschili che femminili, significa vivere un forte momento di comunione attorno a questo evento e soprattutto attorno a questa persona, che è il padre di tutti gli elementi di solidarietà e di vicinanza ai poveri e agli ammalati.

D. – Fratel Carlo, un augurio per la nuova pagina della storia dei religiosi camilliani che è iniziata da poche settimane…

R. – E’ un momento di grande entusiasmo, di grande gioia. Si riparte proprio nella speranza di scrivere sempre pagine luminose di carità, così come in questi 400 anni l’Ordine ha cercato di fare. 

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Un potente motore di sviluppo: messaggio per la giornata mondiale del turismo.

Alla vigilia della finale mondiale di calcio tra Argentina e Brasile, tweet del Papa sullo sport chiamato a favorire la cultura dell'incontro, e un articolo di Damiano Tommasi sulla partitissima.

Bambini senza tetto: se il Congresso non approva il finanziamento chiesto da Obama per l'immigrazione.

Pianto e Speranza fianco a fianco: Inos Biffi illustra il pensiero imprescindibile del Serafico.

I Tutankhamon della Cina: Rossella Fabiani sulle tombe di Mawangdui a Palazzo Venezia.

Un articolo di Magdalena Arqueros Valer dal titolo "Il passaporto di Enrico": dietro la foto di quel bambino ebreo che riuscì a salvarsi dalla persecuzione nazista.

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Oggi in Primo Piano



Colpito un orfanotrofio a Gaza: uccise 3 piccole disabili

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Ancora scene di orrore a Beit Lahya, a nord di Gaza, dopo che l'aviazione israeliana ha centrato un orfanotrofio, provocando la morte di tre piccole disabili. Sono 118 i morti al quinto giorno di offensiva militare israeliana su Gaza. 282 case sono state rase al suolo. Dunque si vive nel terrore dei bombardamenti in queste ore nella Striscia. Antonella Palermo ha parlato con il parroco di Gaza, padre Jorge Hernandez: 

R. – Questa notte i bombardamenti non si sono fermati nemmeno un minuto e ora si continua. C’è il pericolo imminente di un’invasione terrestre. Parte dell’esercito di Hamas è in attesa di questo ingresso, sarà una cosa bruttissima.

D. – Voi come vi state comportando in questi giorni?

R. – Da parte dei cristiani va vissuta, da un canto, come qualsiasi altro palestinese di Gaza che si trova sotto le bombe, in pericolo; d’altro canto, c’è la paura che ci sia all’interno qualche reazione contro i cristiani. Finora, grazie al Cielo, non hanno subito nessuna di queste cose, però vedendo un po’ il modus operandi di altre parti si può pensare a questo tipo di cose. Non possiamo uscire, ovviamente, io mi tengo in contatto con i parrocchiani esclusivamente attraverso il telefono. Siamo fedeli all'apostolato della presenza, ci rendiamo conto che ha un valore enorme, anche solo restare. Tante persone ci hanno chiesto di non andare via, e noi non andiamo via, tanto più di questo non si può fare. Intuivamo che la situazione sarebbe degenerata fino a questo punto, e non credo che finirà presto, qui nessuno purtroppo lo crede.

D. - Da più parti si invoca un intervento delle Nazioni Unite...

R. - Io vivo qui, conosco le persone, posso dire francamente che, per quanto ci si possa appellare ad un intervento delle Nazioni Unite, per la gente questo ora non ha nessuna importanza. E' un conflitto troppo antico che non ha nessun presupposto di conclusione, e l'aggravante ora è che Hamas è molto molto forte, ciò è preoccupante. 

D. - Dove è la soluzione?

R. - La soluzione per vivere in pace suppone la giustizia. C'è mancanza di volontà politica di dare a ciascuna parte il suo. In questo stato di cose non si può pensare la pace. 

D. - Di cosa avete bisogno con più urgenza?

R. - Abbiamo bisogno soprattutto di preghiere, qui l'unica speranza della gente è riposta in Dio, in un miracolo. Mi raccomando, chiedo a tutti di pregare per noi. 

Nella sua veste di inviato speciale del Quartetto (Stati Uniti, Russia, Ue e Onu) in Medio Oriente, Tony Blair e' giunto oggi al Cairo per una breve visita in cui discutera' con la dirigenza egiziana della situazione nei Territori palestinesi e degli sforzi dell'Egitto per giungere ad un cessate il fuoco a Gaza. Lo si e' appreso da fonti aeroportuali. Intanto Israele fa sapere che nei bombardamenti sono stati centrati 84 obiettivi, che considerano affiliati al terrorismo. Tra le vittime, molti civili ma anche esponenti di Hamas. Ai funerali di questi ultimi sembra sia comparsa la bandiera del gruppo Isil, il cosiddetto Stato islamico dell’Iraq e del Levante. Si tratta dei miliziani che hanno promosso in Iraq il 'califfato' islamico e che hanno un peso nel conflitto in Siria. Per capire le dinamiche regionali del fenomeno Fausta Speranza ha intervistato Germano Dottori, docente di Studi strategici all’Università Luiss: 

R. – Credo che questo sia un fenomeno molto importante, che si lega alla grande campagna che è stata alimentata dall’Arabia Saudita contro la primavera araba e la crescita del fenomeno politico della Fratellanza musulmana nel mondo arabo. Per contrastare la Fratellanza musulmana, i sauditi non hanno in alcun modo badato a lesinare gli sforzi. Hanno scommesso tanto sulle forze laiche quanto sulle forze jihadiste e più radicali. Il fatto che si vedano le bandiere dell’Isis a Gaza, non mi stupisce, perché è una delle forze che possono essere utilizzate contro Hamas, anche se in questo momento Hamas, verosimilmente, verrà soprattutto attaccata, compressa, e magari anche liquidata dallo Stato ebraico. Sembra una cosa paradossale ma, in realtà, in questo momento, Israele e le sue forze armate stanno agendo da strumento della politica saudita in Medio Oriente.

D. - Dunque un fenomeno di regionalizzazione in qualche modo di questo progetto di califfato islamico?

R. – Da un lato, è stato un progetto regionale, quello della Fratellanza musulmana, ed è un progetto regionale quello pilotato dall’Arabia Saudita per portare la Fratellanza musulmana alla disfatta. In Egitto abbiamo avuto il colpo di Stato militare, visto con soddisfazione da Ryad, ed è culminato in un’elezione relativamente di successo; c’è un certo dissenso ancora in Egitto, ma l’ordine politico in Egitto è cambiato. Hamas è una costola della Fratellanza musulmana e non sono affatto stupito che si trovi in questo momento addosso lo stesso raggruppamento di forze che è stato scatenato sia contro la Fratellanza musulmana egiziana e siriana, sia, a latere, anche contro il progetto americano di procedere alla riconciliazione storica con l’Iran. Frenare questo processo e liquidare la Fratellanza musulmana sono due interessi fondamentali dell’Arabia Saudita che anche Israele condivide.

D. – I razzi che sono continuati a partire da Gaza verso Israele nonostante i moniti di Israele, partivano da frange estremiste: Hamas è nel governo insieme ad Abu Mazen e prometteva un impegno di pace in questa fase. E poi anche quanti hanno ucciso i tre giovani ebrei e quanti hanno trucidato il giovane palestinese. I raid rispondono a queste frange ma che altro cosa provocheranno?

R. – Io credo che siano cose diverse. L’assassinio dei tre coloni adolescenti in Cisgiordania è stato sicuramente concepito da elementi esterni ad Hamas che intendevano mettere in moto questa spirale di azioni e rappresaglie che stiamo vedendo svilupparsi in questi giorni. Una volta che la prima rappresaglia ha avuto luogo, per quanto molto circoscritta, ha permesso facilmente anche ad elementi interni ad Hamas di prendere il sopravvento. E’ chiaro che in questo momento è sotto scacco chi in Hamas aveva cercato la strada della riconciliazione con Fatah. Mi pare piuttosto evidente che Hamas si trovi in una condizione di straordinaria debolezza e, personalmente, non scommetterei molto sulla sua sopravvivenza politica al momento.

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Congo: tensione nella regione mineraria del Katanga

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Tensione alta in Katanga, provincia mineraria nel Sudest della Repubblica Democratica del Congo: circa 800 miliziani appartenenti al movimento secessionista Mayi Mayi - Bakata Katanga sono stati avvistati nell’area. Si teme per la sicurezza del capoluogo Lubumbashi, dove è stata rafforzata la presenza militare. Le minacce dei Bakata Katanga e del loro capo Gedeon Kyungu arrivano infatti in una data non casuale. Lo ha spiegato a Davide Maggiore la giornalista Veronique Virgilio, dell’agenzia Misna: 

R. - Già da qualche settimana con vari comunicati, avvertimenti, i Mayi Mayi Bakata Katanga avevano detto: “Noi l’11 luglio andremo a Lubumbashi, il capoluogo della regione mineraria del Katanga ed innalzeremo la bandiera per l’indipendenza della provincia” in concomitanza con l’anniversario dell’indipendenza proclamato nel 1960 da Moïse Tshombe. Questa velleità indipendentista fu placata ben presto: il Katanga venne a tutti gli effetti incorporato. Quindi c’è questa ricorrenza, un livello di allerta che rimane molto alto a Lubumbashi e nella zona, con un dispiegamento ulteriore di soldati e pattuglie miste di militari e poliziotti al centro della capitale regionale.

D. - Non è tuttavia la prima volta che i Bakata Katanga e il capo Gédéon Kyungu sono protagonisti delle cronache congolesi. Chi sono e come si inseriscono nel complicato panorama della politica congolese?

R. - Ricordiamo chi è questa figura di Gédéon. Già nel 2008 è stato condannato all’ergastolo, appunto per questo movimento ribelle, che ha sempre avuto queste velleità secessioniste per il Katanga. Nel 2011 è riuscito ad evadere. È stato anche ricercato dalla Corte penale internazionale. Però, tutto sommato, sembra un uomo libero, perché anche il governo di Kinshasa sa benissimo dove si trova, e molti attivisti locali dicono che non abbia mai mosso un dito per fermare Gédéon  e i suoi uomini. Già nel marzo del 2013 gli stessi Mayi Mayi riuscirono a prendere per alcune ore il controllo di Lubumbashi; questo fu un avvertimento al governo provinciale e al governo centrale di Kinshasa. Ma questa vicenda del Katanga si inserisce in un contesto nazionale politico turbato.

D. - Qual è la connessione con la politica nazionale?

R. - Un contesto di tensione tra la maggioranza e l’opposizione. In gioco c’è una possibile revisione della Costituzione che aprirebbe la strada alla nuova candidatura del capo dello Stato Joseph Kabila alle presidenziali del 2016.

D. - Da che parte sta, per così dire, Gédéon Kyungu? Da che parte stanno i Bakata Katanga?

R. - I Bakata Katanga sono e saranno per questa secessione dal resto del Congo, perché dicono di avere delle risorse, non hanno bisogno di Kinshasa e del resto del Paese. Ma sorge un dubbio: come mai le autorità congolesi non intervengono per bloccare questa ribellione? Come mai i Bakata Katanga sono tranquilli? Come mai non vengono arrestati, soprattutto Gédéon che è stato condannato all’ergastolo? Perché c’è questa passività complice di Kinshasa nei confronti di questo movimento.

D. - Abbiamo accennato alle risorse del Katanga. Perché questa regione è così importante nell’economia e nella politica congolese?

R. - Semplicemente perché è la regione più vasta, più estesa ed è quella che ha le maggiori risorse minerarie. Spesso si parla del Kivu, ma nella bilancia dell’economia nazionale, nelle finanze dello Stato, sicuramente gli introiti del Katanga sono superiori, quindi ha un peso economico prevalente sul piano nazionale.

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Siria: la drammatica "guerra dell'acqua" dei bimbi di Aleppo

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L’emergenza umanitaria siriana continua ad essere all’ordine del giorno: oggi l’allarme arriva dalla drammatica storia inviata da “Sos Villaggi” e riguarda la continua lotta alla sopravvivenza di Ahmad, un bambino di 10 anni, in quella che portavoce dell'organizzazione umanitaria, Elena Cranchi ha definito “la guerra dell’acqua”. L’intervista è di Paolo Giacosa

R. – Noi siamo in Siria da più di 30 anni: abbiamo dei "Villaggi Sos" a Damasco e ad Aleppo e programmi di rafforzamento familiare. L’obiettivo e la mission dei Villaggi dei Bambini in Siria – come in tutti gli altri 133 Paesi del mondo, dove siamo presenti – è dare accoglienza ai bambini privi di cure familiari e avviare dei programmi di rafforzamento familiare. La Siria è da anni una terra teatro solo di guerra e di combattimenti. Purtroppo si parla solo degli avvenimenti politici, dimenticando spesso che dietro le strategie alla fine ci sono delle famiglie e dei bambini che soffrono e che hanno visto la loro vita distrutta. Abbiamo inviato la storia di Ahmad, un bambino di 10 anni, che racconta con una lucidità che solo un adulto, in effetti, potrebbe avere, quello che sta vivendo. Un bambino che si alza alle 6.00 del mattino e che torna a casa alle 6.00 di sera, per portare a casa 3 dollari al giorno. Bisogna pensare che c’è un quartiere di Aleppo che venne abbandonato dagli operai tre anni fa quando scoppiò la guerra e molte famiglie – quindi parliamo di sfollati interni, che sono un numero enorme! – si rifugiarono in questi scheletri di cemento: ci sono intere famiglie che vivono sotto terra, dormono sul pavimento, non hanno evidentemente accesso all’acqua, non hanno accesso al cibo… E’ una vera e propria guerra dell’acqua in Siria: ci sono 6 rubinetti in 100 costruzioni. I bambini, con dei raccoglitori, devono fare la coda per riuscire a riempiere i loro raccoglitori di acqua per poi tornare a casa, svuotare l’acqua nei bidoni… In tutta questa odissea – per riuscire semplicemente ad avere dell’acqua da bere, perché il lavarsi è una gestualità che viene confinata ad una volta mese – questo bambino racconta che un signore, avendo perso il proprio raccoglitore, lo ha colpito sulla testa, gli ha rubato i raccoglitori ed è scappato: quindi il bambino racconta la vergogna nel tornare a casa senza portare l’acqua.

D. – Quali sono i numeri di questa emergenza in Siria?

R. – L’Unicef ha pubblicato i numeri dell’emergenza: si parla di quasi 5 milioni di minorenni coinvolti nel conflitto; sono 3 milioni gli sfollati; sono più di 115 mila le vittime. Il problema è che – come sempre – di Siria si parla a spot, si parla solo in alcuni momenti e poi un’altra emergenza riesce, in qualche modo, a togliere l’attenzione su questa emergenza umanitaria.

D. – In quale modo Sos Villaggi ha aiutato in questi anni le famiglie siriane?

R. – Attraverso dei programmi di rafforzamento familiare. Noi ci occupiamo di accogliere bambini che temporaneamente non possono vivere con le proprie famiglie e, parallelamente, di lavorare con i nuclei di origine in modo che nel minore tempo possibile il bambino possa ritornare a vivere con la propria famiglia: ecco, noi siamo un ponte. Con la guerra, a questo programma, che rappresenta il cuore della nostra attività, si è aggiunto il cosiddetto “Programma di emergenza”, che è quello che noi avviamo, ovviamente, non solo in Siria: è attivo adesso in Ucraina; c’è stato ad Haiti; c’è in Sud Sudan e Repubblica Centrafricana… Abbiamo aiutato più di 90 mila bambini, distribuendo kit scolastici per permettere comunque ai bambini di non perdere la scolarizzazione; abbiamo distribuito dei pacchi alimentari; abbiamo distribuito cappotti invernali, perché c’è stato un inverno terribile… Bisogna pensare che la guerra non è solo il proiettile, ma un qualcosa che distrugge la quotidianità della vita.

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Denuncia Caritas: a Milano torna la tratta delle donne albanesi

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Aumentano le donne albanesi costrette a prostituirsi nelle strade di Milano. Un effetto dell’entrata dell’Albania nella area Schengen. Le ragazze possono, infatti, arrivare in Italia con semplici permessi turistici. In tutto più di 1.500 donne sfruttate dalla criminalità organizzata. Secondo la Caritas locale occorre creare una agenzia nazionale antitratta anche in previsione dell’eventuale entrata di Tirana nell’Unione Europea. Maria Gabriella Lanza ne ha parlato con suor Claudia Biondi della Caritas di Milano: 

R. – Credo che per il fatto che ci sia una maggiore facilità di ingresso in Italia, si torni a ritenere la possibilità di prostituirsi qui come "un’opportunità". In fondo, il giro della criminalità non è mai sceso: è sempre stato molto attivo nel mercato della prostituzione, come nel mercato del traffico di esseri umani, come nel mercato della droga. Per quanto riguarda la prostituzione, in molti casi noi abbiamo riscontrato che i "protettori" sono albanesi e che controllano donne romene. Adesso, con la crisi e la facilitazione a venire, si ritorna ad utilizzare nel mercato anche le donne albanesi, che erano state appunto soppiantate, nel "giro degli albanesi", dalle donne romene, perché potevano entrare ed uscire con più facilità.

D. – Avete riscontrato un aumento del 6 per cento delle donne albanesi in strada...

R. – Ormaii è un trend che si sta verificando da alcuni anni. Le donne sono veramente in una situazione di mobilità, di nomadismo, perché le donne stesse ci raccontano di fare qualche mese qui, di essere poi trasferite in Francia, in Germania, in Spagna, in Olanda. Ecco, c’è anche qualcuna che è stata "in vetrina" sia in Belgio che in Olanda. C’è quindi una dinamicità notevole. Chi gode dell’opportunità di potersi muovere liberamente nell’area Schengen, sinceramente, facilita le reti criminali, che non hanno bisogno di troppe precauzioni per poter sfruttare le donne.

D. – Non solo prostituzione, queste donne sono costrette anche a spacciare droga...

R. – Alcune delle donne fanno uso di sostanze stupefacenti, perché la vita è particolarmente difficile. Qualcuna ci ha detto anche che spaccia.

D. – Ci sono anche ragazzine minorenni?

R. – Ci sono. Sembrano molto giovani. E’ chiaro che noi non possiamo avere la certezza che siano minorenni. Quando abbiamo la certezza che lo siano, facciamo intervenire la polizia.

D. – Qual è il lavoro che svolgete quotidianamente accanto a queste ragazze?

R. – Incontriamo le ragazze in strada. E’ un lavoro, questo, di avvicinamento delle donne, di offerta di relazione, che è sempre accolta a braccia aperte. C’è un bisogno estremo di relazioni. Le operatrici riferiscono che se non fossero loro ad interrompere alcuni colloqui, questi andrebbero avanti anche per lungo tempo. Per loro è anche un modo per riposare. Le donne, infatti, si siedono nella nostra macchina, chiacchierano, bevono qualcosa e in alcuni momenti si addormentano. Dopo di che l’offerta è l’uscita, se vogliono, oppure anche l’offerta di accompagnamenti sanitari. Molto spesso, infatti  sono donne che non hanno la possibilità di curare se stesse. Quindi abbiamo un servizio di ascolto. Le donne che vogliono lasciare la prostituzione o, comunque, vogliono una relazione, un po’ di sostegno, hanno a disposizione questo servizio, che è aperto tutti i giorni, con assistenti sociali che fanno colloqui di accompagnamento, di sostegno e colloqui di filtro per l’ingresso nelle strutture di ospitalità, che sia la nostra struttura o le altre.

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Ocse: integrazione immigrati in Italia passa per la scuola

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Gli immigrati in Italia lavorano relativamente di più degli italiani, svolgono i lavori più umili e precari, ma subiscono maggiormente gli effetti della disoccupazione. E’ quanto emerge dal rapporto “L’integrazione degli immigrati e dei loro figli in Italia”, redatto dall’Osce con la collaborazione del Cnel e del Ministero del Lavoro e presentato in questi giorni a Roma. C’era per noi Michele Raviart: 

Metà degli uomini lavora nel settore edìle, metà delle donne fa la badante. Sono questi i mestieri degli immigrati in Italia. 4 milioni e mezzo di persone, che rappresentano l’11% della forza lavoro attiva del Paese. Sono lavori poco qualificati, poco attraenti per gli italiani, e penalizzati dall’economia sommersa e dal crollo dei consumi delle famiglie.

La disoccupazione colpisce soprattutto gli stranieri meno istruiti. L’Ocse calcola che la metà di quelli tra i 15 e i 34 anni ha un grado di scolarizzazione paragonabile, nel migliore dei casi, alle scuole medie. Il loro ingresso alle superiori è sempre più difficile. Il commento di Stefano Scarpetta, direttore del dipartimento del lavoro e delle politiche sociali dell’Ocse:

"Quello che vediamo è che in molti di loro si ripetono alcune delle difficoltà dei loro genitori. Molti di loro lasciano il sistema formativo troppo presto, senza aver acquisito delle competenze che poi gli permetteranno l’integrazione nel mercato del lavoro. Bisogna concentrarsi su di loro, aiutarli ad acquisire quelle conoscenze che poi saranno importanti per il loro inserimento, per la loro vera integrazione. Sono una potenzialità nel nostro Paese. Dobbiamo in qualche modo renderla più efficace".

L’Italia è, insieme alla Spagna, il Paese europeo con la più alta crescita annua di immigrati, anche a causa della sua posizione. Per questo, suggerisce Giorgio Alessandrini del Cnel, la risposta al fenomeno deve essere strutturale ed internazionale:

"La prima priorità è sicuramente indurre l’Europa ad un impegno veramente solidale rispetto all’emergenza 'Mare Nostrum'. L’immigrazione deve entrare dentro la politica estera attraverso le politiche di cosviluppo con i Paesi africani, a partire da quelli del Nord Africa. La seconda priorità è quella di affrontare seriamente in Italia le politiche di integrazione con i 4 milioni di immigrati che abbiamo. Non c’è un problema degli immigrati che si affronta da solo. I problemi degli immigrati rispetto al lavoro è il problema degli immigrati e degli italiani".

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Il commento di don Ezechiele Pasotti al Vangelo della Domenica

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Nella 15.ma Domenica del Tempo ordinario la Liturgia ci propone la parabola del seminatore in cui Gesù paragona la Parola di Dio al seme che in parte cade lungo la strada e viene mangiata dagli uccelli, in parte sul terreno sassoso e sui rovi e brucia e viene soffocata. Quindi aggiunge:

“Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti”.  

Su questo brano evangelico ascoltiamo il commento di don Ezechiele Pasotti, prefetto agli studi nel Collegio Diocesano missionario “Redemptoris Mater” di Roma: 

Il Vangelo oggi risponde a due interrogativi che, ieri come oggi, si pongono alla Chiesa: Perché il Regno (la Chiesa) non è accolto da tutti? E Gesù risponde: ”Perché a voi è dato…, ma a loro non è dato”…; e ancora: perché alcuni che hanno accolto il Regno poi lo abbandonano? A questo risponde la parabola del seminatore: ci sono quattro atteggiamenti di fronte alla parola del Signore: la “strada”, chi non vuole ascoltare, e il Maligno, l’avversario, porta via tutto; la “roccia”, il superficiale e l’incostante, che accoglie la parola ma non ha terra dove possa crescere e dare frutto; le “spine”, chi si fa avvolgere dalle preoccupazioni del successo e delle ricchezze, che avvelenano la vita di Dio in noi; e infine il “terreno buono”, il cuore povero, mite, volto verso la parola, che si lascia chiamare a conversione: questi dà frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Tra la parabola e la sua spiegazione, c’è una domanda posta al Signore: “Perché alle folle parli in parabole?”. Una domanda che ci riguarda tutti. Ai discepoli, Dio concede la grazia di una conoscenza profonda del mistero del Regno, ma come ascolti? La parabola è un racconto semplice, che interroga, che obbliga chi ascolta a situarsi in essa. L’ascoltatore superficiale, o incredulo non è interessato: ha altro di più importante a cui pensare – è il peccato grave della insensibilità del cuore. E così con la parabola il Signore “mette a nudo” le disposizioni del cuore di chi ascolta. Oggi: davanti a questa parola dove sta il mio cuore?

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Nella Chiesa e nel mondo



Appello del Wcc per la fine delle violenze a Gaza e Israele

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Una ferma condanna agli attacchi israeliani a Gaza, una eguale condanna dell’offensiva di Gaza verso Israele e una richiesta di intervento alle Nazioni Unite per mettere fine al conflitto. Questo il contenuto della nota rilasciata dal segretario generale del Consiglio Mondiale della Chiese (Wcc), rev. Olav Fykse Tveit.

Il Comitato centrale del Wcc ha più volte chiesto di porre fine all’occupazione illegale e al blocco imposto da Israele alla Striscia di Gaza, inoltre, ha spesso espresso preoccupazione per i crescenti livelli di tensione e violenza nel Paese. Tensioni in aumento, prima in seguito alla morte di giovani israeliani e palestinesi, poi con i bombardamenti israeliani che da lunedì scorso hanno fatto vittime e feriti tra i civili palestinesi, soprattutto anziani, donne e bambini – riporta la nota – sottolineando che “israeliani e palestinesi vogliono benessere e sicurezza, una pace giusta e genuina”.

In questa prospettiva – continua la nota - non aiuta il recente fallimento dei negoziati, che ha portato, da un lato, alla perdita di una comune visione del futuro, della prospettiva della creazione di due Stati, alla fine dell’occupazione. Dall’altro ha accresciuto un nuovo “ciclo insopportabile e infernale della violenza e dell’odio che non si fermerà” – avverte il Wcc – “fintanto che continuerà l’occupazione”. Infatti, “ciò che sta accadendo oggi non è una tragedia isolata ma deve essere vista nel contesto dell’occupazione dei territori palestinesi iniziata nel 1967”, ricorda il documento.

In quest’ottica il rev. Fykse Tveit si appella al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, riunitosi a New York su richiesta dei delegati arabi, e li ha esortati a richiedere alle parti in conflitto di mettere fine a ogni genere di violenza. Si è appellato anche alle Chiese e ai leader religiosi chiedendo loro di “lavorare insieme per trasformare il discorso di odio e vendetta, che si sta diffondendo sempre più, in un discorso che veda gli altri come vicini, fratelli e sorelle nel Signore”.

La nota conclude con parole di fiducia: “In questa tragica situazione vediamo con grande speranza l’iniziativa presa da molti israeliani nell’esprimere le proprie condoglianze e nel far visita alle famiglie palestinesi vittime della violenza”. (A cura di Caterina Gaeta)

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Sant'Egidio: appello all'Ue per creare corridoi umanitari ad Aleppo

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'Save Aleppo'.  Cioè un piano speciale europeo per corridoi umanitari e per fare di Aleppo assediata la prima città aperta del Medio Oriente.E’ l’appello lanciato della comunità di Sant'Egidio, dove viene sottolineato anche l’ interpellanza urgente che Mario Marazziti e Lorenzo Dellai hanno rivolto al governo italiano, perché  "in un quadro di impotenza internazionale e di fronte a un rivolgimento del nord  Mediterraneo, una nuova escalation del conflitto Israelo-palestinese, il cambiamento delle frontiere tra Iraq e Siria e l'islamizzazione  cruenta e forzata di intere aree, proprio da Aleppo possa risorgere la speranza".

E all’Italia nel suo ruolo di guida per l’UE in questo semestre, viene chiesto di favorire una soluzione politica globale, alla luce della fallimentare soluzione militare. Infatti sono già 160 mila  i morti, di cui 12 mila bambini, e 6 milioni i rifugiati interni ed esterni.

E il vice-ministro Pistelli, ha risposto "garantendo un impegno straordinario dell'Italia per avviare nuovi varchi umanitari in dialogo con la Turchia e per sottoporre l'appello  all'intero governo italiano".

In particolare, l'invito al governo italiano è volto a fare sì che sia sottoscritto e portato in Europa l'appello lanciato qualche settimana fa da  Andrea Riccardi, fondatore di Sant'Egidio per salvare la città siriana, e  già raccolto da molti parlamentari e personalità italiane ed internazionali.

"Prendendo atto dell'impegno e dell'attenzione del governo italiano nell'area di crisi siriana -  ha sottolineato Marazziti - ma di fronte alle difficoltà della comunità  internazionale ad individuare una soluzione efficace per questo  conflitto, mentre il rumore della guerra e della sofferenza continua  ad impedire alle richieste di aiuto di arrivare fino a noi, chiedo all'intero governo di sottoscrivere l'appello "Save Aleppo" e di  portarlo in Europa". (MT)

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Cei: un milione di euro per progetti di solidarietà in Siria

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In Siria non si placa il grave conflitto che ha già provocato oltre 160 mila morti e sette milioni di esuli e rifugiati. Accogliendo le numerose richieste di aiuto pervenute da Caritas Siria e dalle altre realtà ecclesiali attive sul territorio nel portare aiuti concreti, la Presidenza della Conferenza episcopale italiana ha stanziato 1 milione di euro, proveniente dai fondi dell'8xmille. La comunicazione in una nota, dove si precisa che la somma "viene affidata a Caritas Italiana perché provveda ad affrontare la prima emergenza ed a sostenere progetti di solidarietà”. 

Intanto anche l' Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) invita i Paesi europei a rafforzare la loro risposta alla crisi siriana. In un nuovo rapporto intitolato "Siriani rifugiati in Europa: che cosa puo' fare l'Europa per garantire protezione e solidarieta'", l' Agenzia Onu esorta gli Stati a garantire l'accesso al territorio e a procedure di asilo eque ed efficaci, a fornire adeguate condizioni di accoglienza e ad adottare altre misure che garantiscano protezione e sicurezza per i rifugiati in fuga dal conflitto. (A.M.)

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Africa: iniziative per combattere il virus Ebola

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Un fondo di solidarietà per sostenere la lotta al virus dell’Ebola nei tre Paesi più colpiti e per la prevenzione regionale: lo hanno deciso i capi di Stato e di governo della Comunità economica dell’Africa occidentale (Cedeao/Ecowas) durante il vertice che si è tenuto ad Accra.

I primi finanziamenti che confluiranno nella ‘cassa’ regionale - riferisce l'agenzia Misna - saranno quelli sbloccati dal Presidente Goodluck Jonathan, ma in futuro gli altri Paesi della Cedeao saranno chiamata ad alimentarla. Dei tre milioni di dollari promessi dalla Nigeria, un miliardo andrà alla Guinea, epicentro dell’epidemia e Paese più colpito dall’Ebola. Sierra Leone e Liberia si divideranno anche loro un milione di dollari.

Nelle stesse ore a Conakry è stato ufficialmente istituito un Centro regionale di sorveglianza e coordinamento regionale per rafforzare e armonizzare il sostegno tecnico ai Paesi dell’Africa occidentale. Altro compito della piattaforma con sede nella capitale guineana sarà la raccolta di fondi e risorse da destinare alla lotta contro la febbre emorragica.

Intanto il virus sta continuando a causare contagi e vittime con 44 nuovi casi e 21 decessi tra il 6 e l’8 luglio. In base all’ultimo bilancio diffuso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), dallo scorso febbraio si sono registrati 888 casi e 539 morti. (R.P.)

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Venezuela: i vescovi chiedono di ascoltare il popolo

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“Non è possibile trovare soluzioni ai problemi se non si ascolta, se non si risolvono le cause delle proteste” afferma l'Esortazione pastorale "Condividiamo il conforto che riceviamo da Dio", pubblicata al termine dell’Assemblea plenaria della Conferenza episcopale del Venezuela.

Il documento è stato presentato da mons. Manuel Felipe Díaz Sánchez, arcivescovo di Calabozo, che ha ricordato alcuni gravi problemi sociali del Paese.

Una nota inviata all'agenzia Fides riferisce che il documento intende mostrare la preoccupazione della Chiesa per i problemi della popolazione, che coinvolgono direttamente l’azione pastorale della Chiesa.

I vescovi sottolineano infine che “il lavoro dei pastori significa sapere creare ponti per promuovere l'incontro fra avversari e promuovere la riconciliazione del nostro popolo, un popolo fratturato e diviso dalle ideologie" afferma mons. Diaz Sánchez. (R.P.)

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I vescovi di Panama: servono politiche in favore del bene comune

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"Non possiamo lamentarci del male senza agire e lottare contro di esso" affermano i vescovi di Panama nel comunicato pubblicato ieri al termine della loro Assemblea plenaria tenutasi a Clayton alla periferia di Città di Panama.

Secondo una nota inviata all'agenzia Fides mons. Pablo Varela Server, vescovo ausiliare dell'arcidiocesi di Panama, ha letto la dichiarazione in cui si chiede alle autorità del governo, ai politici e alla società civile, di "prendere le misure necessarie per riconquistare la fiducia nelle istituzioni del Paese e quindi generare politiche pubbliche a favore del bene comune, fondate su uno sviluppo solidale in cui la persona umana sia al di sopra degli interessi economici".

Il documento esorta "al rispetto della dignità umana e una democrazia partecipativa, una giustizia equa e adeguata". Nel documento i vescovi esprimono la loro preoccupazione "per il problema dell'insicurezza, che è arrivata perfino dentro le chiese e nelle famiglie, la mancanza di tutela delle risorse naturali come le foreste e l'acqua, l'insicurezza alimentare che colpisce la sopravvivenza del popolo, la scarsa qualità dei servizi sanitari, dell’istruzione e dei trasporti, e il proliferare del business della droga". (R.P.)

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Tanzania: i vescovi chiedono una nuova costituzione

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"Avete il dovere morale di preparare una nuova Costituzione. Non possiamo tornare alla vecchia Costituzione del 1977 perché si rischia di generare tensioni e di mettere a rischio la pace” affermano i vescovi della Tanzania in un messaggio rivolto ai membri dell’Assemblea costituzionale.

Nel messaggio, inviato all’agenzia Fides, i vescovi lamentano che i lavori dell’Assemblea da febbraio ad aprile sono stati caratterizzati da “disunione, aggressività, distruttività, mancanza di rispetto reciproco, attacchi personale ed uso di un linguaggio irrispettoso. Un triste spettacolo da vedere in una così rispettabile aula”.

La nuova Carta costituzionale attualmente in discussione prevede la creazione di uno Stato federale con il ripristino degli Stati federati di Taganyka e di Zanzibar.

“Abbiamo bisogno di una nuova Costituzione che consenta una maggiore partecipazione del popolo nel determinare le priorità e per decidere come il potere sia utilizzato al servizio di tutti e non solo di pochi. Abbiamo bisogno di una nuova Costituzione dove la legge favorisca la giustizia per tutti, promuova il bene comune e il rispetto della dignità di ciascuno. Una Costituzione che prevenga l’abuso di potere e la corruzione” conclude il messaggio. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 193

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.