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Sommario del 15/07/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa: accoglienza e protezione per minori migranti, serve cultura dell'incontro

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Di fronte al grande fenomeno delle migrazioni, sfida delle società contemporanee, occorre rispondere con la "cultura dell’incontro" e non con il "disinteresse o con la paura". E’ quanto ribadito dal Papa nel messaggio inviato al Seminario sulle migrazioni in corso a Città del Messico, alla presenza anche del cardinale segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin. Forte l’appello di Francesco per la tutela soprattutto dei minori non accompagnati e in fuga. Il servizio di Gabriella Ceraso: 

Nonostante il grande flusso di migranti nel mondo, scrive Francesco, questo fenomeno è visto ancora come un’emergenza, o come fatto circostanziato, mentre è ormai caratteristico e sfida per le nostre società. È un fenomeno che porta con sé grandi promesse, ma anche sofferenze, sottolinea il Papa, “violazioni dei diritti e atteggiamenti razzisti e xenofobi”. Per questo Francesco chiede un ”cambiamento di atteggiamento da parte di tutti”: non più “cultura dello scarto”, fatta di difesa, paura, disinteresse,emarginazione, ma “cultura dell’incontro”. L’unica capace, ribadisce il Pontefice, di “costruire un mondo più giusto e fraterno, un mondo migliore”.

Il pensiero va poi alle decine di migliaia di bambini che, “in condizioni estreme”, scrive il Papa, ”emigrano soli, non accompagnati, per sfuggire alla povertà e alla violenza” dal Centroamerica e dal Messico verso gli Stati Uniti d’America. “Un’emergenza umanitaria”, la definisce Francesco, in aumento costante, che richiede, innanzitutto accoglienza e protezione non senza però, aggiunge, “politiche di informazione circa i pericoli di un tale viaggio” e, soprattutto, “di promozione dello sviluppo nei loro Paesi di origine”. È, infine, necessario, conclude il Pontefice nel suo messaggio,"richiamare l’attenzione di tutta la Comunità Internazionale, affinché possano essere adottate nuove forme di migrazione legale e sicura”.

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Il card. Parolin in Messico: società sia giusta e solidale verso immigrati

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“La soluzione del problema migratorio passa per una conversione culturale e sociale” profonda che permetta di passare “da una ‘cultura della chiusura’ ad una ‘cultura dell’accoglienza e dell’incontro’”. Così, il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, nella prolusione al Seminario sulle migrazioni in Messico. L’incontro si è tenuto ieri a Città del Messico. Il porporato era stato invitato dal presidente Peña Nieto durante la visita ufficiale in Vaticano lo scorso giugno. La visita è particolarmente importante perché coincide con la crisi umanitaria in atto che vede migliaia di bambini emigranti in viaggio da soli verso gli Stati Uniti. Il servizio di Debora Donnini

La promozione dei diritti umani non è stato un compito facile per nessuna società democratica avanzata, nemmeno per il popolo messicano nella storia degli ultimi duecento anni, ma bisogna riconoscere che nei tempi recenti sono stati realizzati “passi importanti”: il lavoro costante per la uguale dignità di tutti ha permesso di migliorare “l’attuale ambito normativo messicano”. E’ quanto rileva il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, al Seminario sulle migrazioni in Messico. Il porporato si sofferma sul ruolo centrale del cristianesimo nel riconoscere la dignità e l’uguaglianza di ogni persona umana, creata a immagine di Dio. E sottolinea che l’unico criterio assolutamente valido per valutare se una comunità politica compie la sua vocazione di servizio al bene comune, è "la qualità del suo servizio alle persone”, in modo speciale “ai più poveri e vulnerabili”.

Quindi, il cardinale Parolin entra nel vivo del tema delle migrazioni e richiama il messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, quando il Pontefice constata che “i flussi migratori contemporanei costituiscono il più vasto movimento di persone” di tutti i tempi. Per il porporato, dunque, quelle società che fanno sforzi per integrare i migranti, danno un messaggio inequivocabile di solidità. “Per questo – afferma – vi invito alla sfida di una società più giusta e solidale, che riconosce il valore della mobilità umana” e che non si chiuda in se stessa ma sia disposta all’accoglienza. Possiamo cambiare il futuro se, prosegue, siamo capaci di “servire le persone concrete”, quelle con cui trattiamo ogni giorno.

Il cardinale Parolin rileva poi che la Chiesa in Messico ha sviluppato molte iniziative concrete per accogliere con ospitalità i migranti e sottolinea che quando un Paese non solo tollera la Chiesa, ma nell’ambito di una sana laicità stabilisce mezzi giuridici per la sua protezione e promuove la sua azione sociale a favore del bene comune, garantisce un elemento chiave per il progresso: “la fiducia”. Il fenomeno delle migrazioni non si può risolvere solo con mezzi legislativi per buoni che siano, e molto meno unicamente con le forze di sicurezza. “La soluzione del problema migratorio - sottolinea il porporato - passa per una conversione culturale e sociale”, profonda che “permetta di passare da una ‘cultura della chiusura’ ad una ‘cultura dell’accoglienza e dell’incontro’”. Indispensabile è, quindi, la cooperazione fra le persone, le organizzazioni della società civile, le istituzioni e i Paesi. “In questo contesto – prosegue – la Chiesa è stata sempre e sarà una leale collaboratrice”. Quindi si fa riferimento agli Stati Uniti che hanno diffuso i dati sui flussi migratori di bambini che passano la frontiera senza essere accompagnati da adulti. Un numero che cresce in modo esponenziale. “E’ urgente – dice il porporato – proteggerli e assisterli” perché sono indifesi. Quindi l’invito forte a rendere possibile quello che sembra impossibile in questo ambito di aiuto ai migranti.

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Incontro del card. Parolin con il presidente Peña Nieto e i media del Messico

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Il ruolo della Chiesa nella società messicana, la situazione dei poveri e dei migranti e la lotta al narcotraffico. Sono alcuni dei temi principali toccati dal cardinale Pietro Parolin, nei suoi discorsi in occasione dell’incontro con i media messicani e della cena d’onore offerta al Segretario di Stato vaticano da parte del Presidente del Messico, Enrique Peña Nieto. Gli eventi sono avvenuti dopo la prolusione del porporato al Seminario sulle migrazioni, in corso a Città del Messico. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

“La Chiesa appoggerà sempre le politiche che vanno nella direzione del rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali”. E’ quanto sottolineato dal card. Pietro Parolin nel suo discorso alla cena offerta in suo onore dal Presidente messicano Peña Nieto. Il Segretario di Stato vaticano ha rilevato l’importante fase di riforme strutturali e costituzionali che coinvolgono il Paese in questo periodo ed ha manifestato, in particolare, apprezzamento per la riforma dell’immigrazione che favorisce i diritti dei migranti. Proprio su quest’ultimo tema, il card. Parolin ha espresso la gratitudine del Papa e della Santa Sede alla Chiesa messicana per il “servizio” in favore “delle necessità dei migranti” attraverso i suoi “numerosi centri di accoglienza”. Un servizio, ha affermato, che rappresenta “la continuazione dell’azione del Buon Samaritano”.

Anche parlando ai media messicani, il cardinale Parolin è tornato a soffermarsi sul binomio povertà-immigrazione che, ha avvertito, comporta altre sfide. Il Segretario di Stato vaticano ha indicato in particolare “la disgregazione delle famiglie, l’esodo dei bambini che emigrano da soli”. Né ha mancato di menzionare “la piaga della corruzione e il traffico di persone” come anche la violenza “legata al narcotraffico”. Di fronte a tutto questo, il porporato ha ribadito l’appello di Papa Francesco “a non lasciarsi rubare la speranza”. Nel mondo della globalizzazione, ha poi soggiunto, “nessun governo può affrontare con successo da solo queste sfide”. Servono dunque “strategie comuni” nel contesto americano e internazionale, soprattutto, ha concluso, quando “si tratta della promozione della persona e dei suoi diritti”.

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Tweet del Papa per i giovani: “Non cadete nella mediocrità; la vita cristiana è fatta per grandi ideali”

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"Cari giovani, non cadete nella mediocrità; la vita cristiana è fatta per grandi ideali”. E’ il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account in 9 lingue @Pontifex, seguito da oltre 9 milioni di follower in tutto il mondo.

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Il Papa nomina mons. Załuski nunzio in Burundi

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Papa Francesco ha nominato nunzio apostolico in Burundi il mons. Wojciech Załuski, consigliere di Nunziatura, elevandolo in pari tempo alla sede titolare di Diocleziana, con dignità di arcivescovo.

In Italia, Il Papa ha nominato arcivescovo dell’arcidiocesi di Rossano-Cariati mons. Giuseppe Satriano, del clero dell’arcidiocesi di Brindisi-Ostuni, finora vicario generale della medesima arcidiocesi.

In Kazakhstan, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Karaganda, presentata da mons. Janusz Wiesław Kaleta in conformità al can. 401 § 2 del Codice di Diritto Canonico.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Dalla parte dei bambini migranti: messaggio di Papa Francesco ai partecipanti al colloquio Messico-Santa Sede su mobilità umana e sviluppo.

Nessuna tregua fra Israele e Hamas.

Quando le reliquie parlano: Grazia Loparco sul sesto volume dell’Epistolario di don Bosco.

Raccontare lo sconcerto: Giulia Galeotti ricorda la scrittrice sudafricana Nadine Gordimer.

Dietro di me la felicità, davanti a me la gioia: Claudio Toscani sul profeta e il bambino di Kahlil Gibran.

Una candela accesa fra i senzatetto: da Seoul, Cristian Martini Grimaldi sul centro di Kkottongnae.

Fuorilegge per amore: Francesco Scanziani a proposito di una rilettura della figura di Giuseppe, il padre putativo di Gesù.

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Oggi in Primo Piano



Israele ribadisce: senza stop ai razzi nessuna tregua

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Il presidente dell'Anp Abu Mazen (Mahmud Abbas) sara' domani al Cairo per incontrare il capo di Stato egiziano, al-Sisi, per esaminare gli ultimi sviluppi della situazione a Gaza alla luce della proposta egiziana di cessate il fuoco. Israele si è detto pronto ad accettare la tregua ma il premier Netanyahu ribadisce la richiesta di smilitarizzazione della Striscia di Gaza, da dove continuano ad arrivare razzi. Hamas, da parte sua, non accetta la proposta di tregua considerandola una resa. Al momento prosegue l’escalation militare. Raid anche sulle alture del Golan: 4 civili sono stati uccisi nella rappresaglia per il lancio di razzi anche da questo territorio al confine con la Siria. All’ottavo giorno di operazioni, si contano oltre 190 morti e 1400 feriti. Secondo l'associazione umanitaria Oxfam,  oltre il 70% dei decessi riguarda civili, di cui il 30% è rappresentato dai bambini. Inoltre 395mila civili in 18 località della Striscia sono senza acqua e servizi igienico-sanitari. Intanto i responsabili di tutti gli organismi caritativi e umanitari che fanno capo alla Chiesa cattolica si sono riuniti per rispondere all'emergenza. All'agenzia Fides, padre Raed Abusahliah, direttore di Caritas Jerusalem, sottolinea che serviranno progetti di lungo corso, non basteranno anni per risanare tutto quello che è stato distrutto e annichilito, in una situazione dove la vita di tutti era già assillata da mille problemi". "Si pensi - aggiunge - che già prima dei bombardamenti, anche tra i 1300 cristiani presenti a Gaza, il 34% delle famiglie non aveva alcuna fonte di reddito”. Sulla prospettiva di tregua Fausta Speranza ha parlato con Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all'Università del Salento: 

R. – C’è stata innanzitutto una proposta autorevole, seria, da parte del governo egiziano. Noi sappiamo quanto il governo egiziano abbia un ruolo fondamentale nell’area, soprattutto il nuovo governo forte egiziano. Israele ha accettato il cessate-il-fuoco, alle sue condizioni. Quello che invece lascia un po’ perplessi – ma io non avevo dubbi – è il rifiuto da parte di Hamas: Hamas non ha grandi rapporti con l’Egitto. Dobbiamo ricordare come una delle prime cose che ha fatto il nuovo governo egiziano sia stato rendere assolutamente illegale, fuorilegge la formazione di Gaza. Quindi, c’è un passo avanti e un mezzo passo indietro e quindi attendiamo queste ore per vedere soprattutto la risposta di Hamas. Bisogna vedere soprattutto che cosa faranno le brigate Qassam, che cosa faranno sul terreno.

D. – La mediazione diplomatica  è sostenuta soprattutto da Stati Uniti e Lega Araba. Quali possibilità di azione?

R. – Io sono più per una soluzione interna all’area: ecco perché ritengo la mossa degli egiziani assolutamente fondamentale. E poi, c’è un’altra questione da tener presente, ed è che praticamente c’è un quasi totale silenzio da parte di al Fatah. E’ vero che Abu Mazen ha chiesto un intervento internazionale, ma lo ha fatto in maniera assolutamente blanda perché in un modo o nell’altro, Israele continua a fare il 'lavoro sporco' per al Fatah.

D. – La sproporzione di forze: abbiamo un ferito con 22 razzi lanciati da Gaza nelle ultime ore, e il numero di morti che sale drammaticamente a 200. Che dire?

R. – Bè, sì, la sproporzione di forze è assolutamente e visivamente codificabile. Certo, c’è stata un’azione che, come al solito, si pensava sarebbe stata solamente un’operazione di polizia ma il governo israeliano evidentemente è stato sottoposto ad una serie di pressioni, anche interne, e ha deciso per un’azione più su larga scala. C’è totale assenza di un intervento verso la Cisgiordania. Quindi, vuol dire che gli interlocutori con cui parlare senza spararsi, ci sono. I rapporti tra Hamas e Israele rimarranno tesissimi. Per trovare una soluzione definitiva Israele dovrebbe imbarcarsi in un’azione di terra estremamente pericolosa. Quindi, vediamo quanto potrà durare quest’azione.

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Iraq. Liberate due suore a Mosul: la gioia del patriarca Sako

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Sono state liberate e stanno bene suor Atur e suor Miskinta, le religiose caldee della Congregazione delle figlie di Maria Immacolata, rapite lo scorso 28 giugno in Iraq dai miliziani dello Stato Islamico. Con loro anche il rilascio di tre ragazzi orfani cristiani della Casa famiglia  che le suore gestivano a Mosul. La conferma è arrivata dal patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphael I Sako. Intanto sul terreno l’esercito regolare ha lanciato un’offensiva per riprendere la città di Tikrit in mano ai ribelli da oltre un mese, mentre una serie di attentati ha scosso Baghdad. Al microfono di Cecilia Seppia, ascoltiamo sua Beatitudine Sako: 

R. - Ci sono state delle discussioni con gli jihadisti, quasi un’inchiesta… Comunque li hanno trattati molto bene e - grazie a Dio! - sono state rispettate: non è stato fatto niente contro di loro; né fisicamente, né moralmente. Grazie anche ad alcuni mediatori - io e l’arcivescovo di Mosul - li abbiamo contattati, abbiamo chiesto anche ad alcuni imam e al Gran Muftì… E sono stati liberati e per noi è una grande gioia!

D. - Nel Paese è iniziata - lo scorso giugno - questa offensiva islamista: è stato creato un Califfato tra Siria ed Iraq. Come leggere politicamente anche quello che sta accadendo in questi giorni?

R. - Secondo me, c’è un problema nell’Islam politico. Il progetto di una nazione araba unita è fallito; anche l’Islam politico dei Fratelli Musulmani è fallito…. Questi jihadisti pensano che loro possano essere l’alternativa ad uno Stato musulmano, con un califfato, come era nel VII secolo. Ma penso che questo non sia in grado di rivivere; eppure loro stanno provando a farlo, ma oggi non è facile… Nessuno accetta una cosa simile oggi! Anche i musulmani, fra di loro, come molti sunniti, pensano che questo sia possibile. Ci vuole un Islam aperto, altrimenti non avranno futuro.

D. - Ci sono assalti e attacchi continui: l’ultimo in queste ore proprio a Tikrit, dove l’esercito sembra che sia riuscito a riprendere alcuni edifici governativi…

R. – No, il governo non controlla più questo triangolo sunnita (Tikrit, Mosul, Kirkuk). Talvolta bombarda e attacca qui o lì, perché gli jihadisti hanno una presenza forte. Sì, questa gente ha un’ideologia molto forte e dunque sono pronti a tutto. Invece l’esercito non è professionista e quindi non è stato ben preparato… Ma comunque sta facendo uno sforzo per cercare di recuperare tutta questa zona, però penso che sia un po’ tardi.

D. - Ieri un documento di Amnesty International ha denunciato omicidi, rapimenti, torture ad opera dei miliziani dello Stato Islamico. Certamente qui c’è da esprimere una dura condanna…

R. - Sì! Un atteggiamento così forte di condanna è un bene, ma penso che bisognerebbe fare un po’ di più! La formazione di un governo iracheno di unità nazionale è una soluzione. E’ necessario trovare una soluzione anche politica e dunque la riconciliazione è molto importante. Questa mattina c’era la seduta del Parlamento, la terza Sezione, ed io ho indirizzato a tutti una lettera per dire: “Basta! Salvate l’Iraq! Potete salvare l’Iraq solo se siete uniti, l’unità può creare pace e stabilità!”.

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Parlamento Ue vota Juncker nuovo presidente della Commissione

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La plenaria del Parlamento europeo ha approvato la nomina di Jean-Claude Juncker a nuovo presidente della Commissione europea con 422 voti a favore, e 250 contrari. Il candidato del Ppe, sostenuto da Socialisti e Liberali, ha ottenuto dunque ben piu' della maggioranza assoluta prevista di 376 voti. "Il giorno che viviamo oggi si scrive in modo storico nel libro della storia della Ue", ha commentato il presidente del Parlamento Martin Schulz. Nel suo discorso programmatico Juncker si è soffermato sopprattutto sui temi economici a partire da un pacchetto di investimenti da 300 mld in tre anni per contrastare la disoccupazione; da un progetto di un’Europa più sociale e unita di fronte al problema dell’immigrazione con la nomina di un Commissario apposito. Per un commento anche sulle prospettive che da questo piano di lavoro deriveranno Gabriella Ceraso ha parlato con l’economista Francesco Carlà: 

R. – Tutto dipenderà da che cosa si intende per 300 miliardi, da come verranno erogati questi finanziamenti e in quali tempi e in quali modi, per quali Paesi, quale sarà la parte del co-finanziamento … Insomma, così è una dichiarazione importante ma generica, perché anche il dato sulla disoccupazione in Europa non è affatto omogeneo.

D. – Ma se non si possono toccare, appunto, i parametri – come ha ribadito Juncker – come si fa a crescere?

R. – Nella dichiarazione di Juncker ci sono altri capitoli che mi sembrano interessanti, come quelli sulla lotta alla burocrazia, soprattutto per le piccole e medie imprese; ma poi, il passaggio più sottolineato mi è sembrato quello a proposito delle riforme, profonde ed indispensabili – dice Juncker – che spaventano molti cittadini, ma se non si fanno queste riforme, i problemi possono essere ancora più gravi. E’ chiaro che l’altro passaggio molto, molto sottolineato è “non si fanno investimenti con i debiti”.

D. – Vede in questo piano una discontinuità con il passato?

R. – Così, a breve, non sembrerebbe. Vedremo un po’, poi, strada facendo, perché poi molto dipenderà da come andrà la ripresa economica nei vari Paesi e da come andranno le riforme nei Paesi che negli anni scorsi sono stati sottoposti al maggiore rigore, e cioè Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna.

D. – Non c’è spazio per il termine flessibilità, nel discorso di Juncker?

R. – Mi sembra evidente che non ci sia un’allusione specifica.

D. – Questo significa che l’austerità prevale e che se andrà bene, saranno comunque le persone a pagare mentre i sistemi andranno avanti?

R. – Qui c’è un capitolo in cui dice che il mercato non deve prevalere rispetto ai popoli e alle società: vedremo se poi questo succederà nella realtà.

D. – Parliamo di politica monetaria. Che cosa si profila con questo “no” ad un accordo di libero scambio anche con gli Stati Uniti ad ogni costo, e questo riferimento alla Troika che va ripensata …

R. – Per sistema monetario si intende il rapporto con l’euro, mi sembra un lungo capitolo che un po’ si è stabilizzato, direi molto più grazie alla politica di Draghi e della Bce che non a quella dei Paesi membri o della Commissione europea. Per quanto riguarda il capitolo dell’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, lì mi sembra che ci siano ancora molte divergenze, anche notevoli. Quindi, sarà probabilmente un argomento di cui si parlerà parecchio a livello negoziale nei prossimi mesi.

D. – In ultima analisi, con questi anni di lavoro di Juncker, che tipo di Europa dovremmo aspettarci?

R. – Io credo un’Europa sempre in equilibrio tra i Paesi a cui questi ultimi dieci anni hanno portato riforme e qualità nell’occupazione, nell’economia, cioè parlo della Germania in particolare, e di altri Paesi del Nord Europa, e altri Paesi in cui invece non si sono verificate condizioni altrettanto positive. Quindi, un dibattito sempre abbastanza serrato in cui però chi è in una posizione contrattualmente più forte probabilmente continuerà a farsi valere.

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Libia nel caos: scontri a Tripoli e Bengasi

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La Libia ripiomba nel caos, dopo 24 ore di combattimenti tra fazioni rivali, milizie jihadiste ed esercito nelle due principali città del Paese: Bengasi e Tripoli, dove è stato attaccato anche l’aeroporto internazionale. Il bilancio delle violenze è di 15 morti e 49 feriti. Intanto, le Nazioni Unite hanno ritirato tutto lo staff per ragioni di sicurezza, mentre il governo libico sta valutando la possibilità di richiedere l’intervento di forze internazionali. Per un’analisi della situazione, Marco Guerra ha sentito Bernard Selwan Elkounì, direttore di Cosmonitor, centro di monitoraggio strategico orientale: 

R. – In realtà quello che sta succedendo ha avuto inizio durante la rivoluzione contro il regime di Gheddafi. La differenza è che negli ultimi mesi lo scontro tra i diversi attori si è acuito perché maggiore è diventato il flusso di armi che è circolato nel Paese. Due mesi fa, ricordiamolo, ha avuto inizio una vera e propria guerra, soprattutto nella Cirenaica, tra le forze militari, paramilitari, del generale in pensione libico Khalifa Haftar e, principalmente, tutte le altre milizie libiche di carattere islamista, in particolare jihadista. In questi giorni c’è stata un’escalation grave che, però, in diverse occasioni le forze del generale Haftar avevano annunciato, affermando che si sarebbero dirette anche a Tripoli, dove ci sono numerose milizie, proprio con l’obiettivo di sgomberare anche questa città dopo la campagna iniziata a Bengasi, nella Cirenaica.

D. – Caduto Gheddafi si è detto che in Libia andava completamente ricostruito un apparato governativo, a che punto è questo percorso? Esiste uno Stato?

R. - Di fatto, la Libia è caratterizzata da un grave vuoto di potere, oltre che di sicurezza. Fino allo scorso mese avevamo addirittura due governi e questo è emblematico per comprendere la complessità della situazione politica e istituzionale nel Paese. Di fatto, oggi, permane il governo di al-Thani ma non ha alcun potere sul territorio e non è in grado soprattutto di controllare questo vasto territorio che invece è in mano alle diverse milizie, diversi gruppi armati ed alcune tribù. A questo bisogna aggiungere un’ondata di radicalizzazione che ha caratterizzato tutta l’area del Nord Africa e del Medio Oriente. E, per ultimo, questo annuncio del califfato rischia veramente di portare alla nascita o meglio all’estensione di questo califfato nel Nord Africa e avere proprio in Libia la sua base principale. Quindi, la mancanza di istituzioni, di un esercito centrale e di apparati di sicurezza in grado di garantire la stabilità nel Paese, è il punto più debole sul quale bisogna lavorare con maggiore insistenza per potere ripristinare la stabilità e la sicurezza nel Paese.

D. – Il debole governo libico sta valutando di richiedere un intervento di forze internazionali sul terreno ma dopo i bombardamenti della Nato è immaginabile davvero un interevento di forze straniere?

R. - Su questo punto i libici sono sempre stati molto chiari fin dall’inizio della rivoluzione contro Gehddafi. La maggior parte della popolazione si era subito schierata, allora, con le forze della Nato, ma anche con le forze arabe, principalmente quelle qatariote, in quanto l’obiettivo era quello di far cadere il regime. Una volta terminata questa missione, i libici in più di un’occasione hanno detto chiaramente: noi siamo capaci, dobbiamo fare da soli. Ovviamente, quello che sta succedendo in questi giorni rimette in gioco tutto. Io non ritengo che sia una soluzione plausibile, soprattutto perché il Paese è veramente in preda al caos: intervenire oggi non sarebbe come intervenire due anni fa, in quanto c’è una proliferazione di armi molto pericolosa, ma soprattutto c’è una presenza qaedista e jihadista, e quindi una capacità offensiva soprattutto contro le forze occidentali, che due anni fa non c’era.

D. - C’è stata quindi un’infiltrazione qaedista e jihadista nelle milizie anche locali e tribali della Libia?

R. – Questa radicalizzazione in Libia è un processo non isolato ed è stato una conseguenza di un processo che si è diffuso in tutta l’area del Nord Africa, del Maghreb e Medi Oriente, e ha avuto, come abbiamo visto negli ultimi giorni, il suo epilogo con l’annuncio del califfato islamico. C’è una parte della Libia, che è quella della Cirenaica, in particolare Derna, che è sempre stata caratterizzata da un’importante presenza tradizionalista, dal punto di vista religioso, il che favorisce sempre la diffusione di elementi salafiti e jihadisti.

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Nuovi pozzi d'acqua per il Congo: l'impegno del "Progetto Marco"

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Nei Paesi dell’Africa più povera, semplici malattie che l’Occidente ha ormai debellato da anni sono ancora un problema e i bambini si ammalano anche di infezioni agli occhi. Congo, Malawi e Ghana sono alcuni dei Paesi dove opera "Progetto Marco", la Ong che - dal 2000 - cerca di rendere autonoma la popolazione dal bisogno. Tra pochi giorni partirà un'iniziativa per la Repubblica Democratica del Congo. Maria Cristina Montagnaro ha chiesto a Salvatore Spinosa, presidente dell’associazione, di parlare della missione: 

R. – Proprio in questi giorni siamo in partenza per la Repubblica Democratica del Congo: insieme a dei volontari, fra cui alcuni professionisti della medicina - abbiamo un professore di oculistica, che farà circa un migliaio di visite oculistiche - cercheremo di fare operazioni alla cataratta nei 15 giorni che saremo lì presenti. Abbiamo spedito – e sono già arrivati – i macchinari: molta gente aspetta noi e sappiamo che già c’è una fila enorme di anziani, giovani e meno giovani che vogliono farsi visitare da noi.

D. – Può fare il punto sulle ultime iniziative?

R. – Tra i progetti di quest’anno, 15 pozzi a pompa manuale, a sorgente; ma anche mulini… Documenteremo tutto come è nostro solito fare, con le nostre immagini, sul nostro sito www.progettomarco.it. Siamo tornati lo scorso maggio dal Malawi, dove abbiamo rimesso a nuovo 36 pozzi, più una scuola…

D. – I Paesi dell’Africa sono ricchi di materie prime, ma non riescono a decollare: voi come li aiutate?

R. – L’Europa e gli Stati Uniti si nutrono delle materie prime dell’Africa. L’Africa è ricchissima! Cerchiamo di dare loro la possibilità di fare da soli: in questi ultimi anni stiamo assistendo a troppe tragedie nello Stretto di Sicilia… Ma perché quella gente scappa? Scappa perché non ha alternative! Ecco noi siamo lì per dare loro i mezzi per ripartire con le loro possibilità.

D. – In che modo?

R. – Questo famoso progetto agricolo, che teniamo ormai da tempo a portare avanti, finalmente è partito in Congo. In Congo ci hanno creduto e ci hanno messo a disposizione 34 ettari e sta già dando buoni frutti.

D. – Quante famiglia riuscite a sfamare?

R. – Noi abbiamo fatto un calcolo che circa 15 mila famiglie possono garantirsi il cibo giorno per giorno. E non è poco! Quello cui miriamo di più è riuscire a dare un esempio a tutta la zona, sia del Congo che di altri Paesi, per riuscire a far capire che loro possono fare! Noi siamo lì per dare l’esca e l’amo, ma a pensare devono essere loro! Quando torneremo, con tutta la documentazione, faremo vedere cose veramente bellissime: zone aride, zone abbandonate che sono tornate a produrre cibo. E questo grazie anche – e ci teniamo a dirlo – al contributo, all’enorme contributo della Cei!

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Castel Volturno, i comboniani: italiani e migranti siano una comunità

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Torna a salire la tensione a Castel Volturno, dopo l’uccisione nel 2008 di 6 immigrati africani in seguito ad un agguato di matrice camorrista e la successiva rivolta popolare di gran parte della comunità africana locale. La violenza è riesplosa domenica scorsa, quando due immigrati sono stati feriti con colpi di arma da fuoco da due italiani, arrestati per tentato omicidio. L’episodio ha innescato una violenta reazione da parte di alcuni immigrati. Sulla situazione nel comune campano, Amedeo Lomonaco ha intervistato padre Antonio Bonato, missionario comboniano a Castel Volturno: 

R. - Al momento, la situazione è tranquilla. Ieri è stato un po’ “il giorno della rabbia”: un gruppo di italiani ed un gruppo di immigrati si sono radunati in strada - in posti diversi naturalmente - ed hanno manifestato il loro disagio. Dopo una mediazione, si è arrivati alla sospensione dell’occupazione delle strade, però è difficile mettere insieme queste due realtà, farle parlare, metterle in relazione; purtroppo, è questo il grande problema. La gente lo sa, tutti lo sanno ... Viviamo su una pentola a pressione. E’ vero che tutti dicono: “Io non sono razzista, gli voglio bene”, però la convivenza è difficile.

D. - Diversi giornali parlano di odio crescente tra la comunità bianca e nera di Castel Volturno; parlano anche del rischio di una guerra razziale, alimentata proprio dal degrado e dalla mancanza di adeguati controlli da parte delle forze dell’ordine. Si lamenta anche questo: la mancanza dello Stato ...

R. - In questo territorio, purtroppo, non sono state investite forze sufficienti per creare condizioni in modo che le comunità italiane e immigrate, si possano incontrare e si possano conoscere. Le uniche realtà che esistono sono le piccole esperienze di associazioni o quelle delle chiese. L’unica risposta che lo Stata dà – quando lo ha fatto – è la forza; un’amministrazione, invece, dovrebbe investire molto di più nei servizi sociali in questo territorio. E soprattutto, deve essere data una visione globale, non solo per gli immigrati o solo per gli italiani: dobbiamo fare in modo che gli interventi tendano a creare una sintesi, una comunione, una comunità. Dei piccoli passi sono stati fatti. Porto l’esempio della parrocchia dove la domenica vado a celebrare la Messa. Siamo partiti con un gruppetto di immigrati. Sono cresciuti, ed ora, ogni tanto, si partecipa insieme alla Messa; tutti rimangono stupiti perché la Messa è bellissima, perché è partecipata ... Parlo degli italiani. Allora questi piccoli passi devono essere fatti anche a livello sociale, creando punti di aggregazione. Si deve investire in servizi sociali per dare legalità, permessi di soggiorno. Uno dei gravi problemi è proprio questo: la mancanza di permessi di soggiorno, anche agli stessi bambini, quelli nati qui. C’è il solito problema della cittadinanza per questi bambini. Penso e ritengo fondamentale, a questo punto, che lo Stato e le istituzioni locali facciano sentire la loro presenza, riconoscendo però a questi ragazzi, ancora una volta, che sono vittime di una mentalità che vorrei definire “camorrista”. Una mentalità secondo cui: “Qui comando io. Tu hai trasgredito ed io mi faccio giustizia da solo”. Io condanno sia chi si fa giustizia da solo, ma logicamente anche chi si vendica. Però, purtroppo, la mentalità è quella. E questi ragazzi, questi immigrati - come gli italiani - sono vittime di questa mentalità. Quello che può aiutare a venirne fuori è creare delle realtà dove le due comunità si possano incontrare, fare in modo che ci siano momenti di conciliazione, vincendo la paura della diversità.

D. – Il territorio di Castel Volturno è anche conosciuto come “Little Africa” in Italia. Per i comboniani cosa significa essere presenti in questa terra di missione?

R. – Vuol dire non fare più distinzione geografica come ci ricorda il Papa. E’ l’universalità, la cattolicità della missione, che non guarda le frontiere geografiche ma quelle umane. Quindi il nostro impegno qui è proprio verso questo: rendere presente questo Regno di Dio. Essere presenti in questa realtà che ha bisogno di un segno di speranza del Regno di Dio.

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Donne migranti al parto: l'esperienza di un ospedale romano

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Dal 2006 l’Ospedale San Giovanni Addolorata di Roma ospita un servizio di accompagnamento al parto per le donne migranti. Molte giungono disperate e decise ad interrompere la gravidanza per la mancanza di opportunità e di futuro. Grazie a questo servizio, tante mamme hanno scelto di proseguire: lo racconta Mariarosa Martellini, infermiera professionale, responsabile del servizio di guida all’assistenza sanitaria per stranieri presso l’ospedale San Giovanni Addolorata. Solo alcune settimane fa le è stato conferito il premio “Il Buon Samaritano”, promosso dalla pastorale sanitaria nella diocesi di Roma. Benedetta Capelli l’ha intervistata: 

R. – In questi ultimi anni è andato rafforzandosi il servizio per le mamme straniere con i bambini che arrivano nel nostro Paese e non hanno un’accoglienza adeguata. Diamo una piccola speranza a queste persone, che arrivano veramente disperate …

D. – Come approccia queste persone? Come approccia la disperazione delle mamme che spesso, proprio perché disperate, proprio perché senza mezzi, senza un futuro – almeno in prospettiva – decidono anche di interrompere la gravidanza?

R. – In questi anni un po’ anche la fiducia, il passaparola di questo servizio … noi un po’ le coccoliamo, le accogliamo, facciamo capire loro che il fatto di avere problemi economici, di non avere una casa non è un buon motivo per "rivolgersi" all’aborto. Quindi, cerchiamo in tutti i modi di recuperarle. Se vedono che qualcuno si interessa a loro, aprono un piccolo spiraglio ed è questo piccolo spiraglio che io cerco di captare. Ma con l’aiuto anche di tutti gli operatori dell’Ospedale San Giovanni, siamo riusciti a creare una bella rete all’interno dell’ospedale: diciamo che se io alzo il telefono, c’è sempre qualcuno pronto ad aiutarmi!

D. – Come riesce lei a spiegare il valore della vita nascente ad una persona che viene da una cultura diversa dalla sua?

R. – Io penso che la donna è mamma ed è mamma in tutto il mondo! Quando la donna si rivolge a noi e chiede di poter ricorrere all’aborto, lo fa con una pugnalata nel cuore. La maggior parte di queste donne hanno bisogno di essere accompagnate, di essere rassicurate, trovare qualcuno che le aiuti a non aprire questa ferita. E questo penso sia molto importante.

D. – Ci racconta – se ci sono stati – momenti particolarmente negativi che lei ricorda in questa sua esperienza, e anche, per contro, ci regala un ricordo positivo che porta nel cuore?

R. – Una donna, un paio di anni fa, arrivata con un barcone, dalla Sicilia è giunta qui, a Roma. Si è accorta di essere incinta di una bambina con una malformazione. Abbiamo accompagnato questa donna fino al parto; purtroppo, lei aveva anche deciso di non vedere la bambina. Ha voluto che io l’accompagnassi in sala parto, e la cosa bella è che insieme al papà, insieme alla mamma alla fine siamo riusciti a far registrare questa bimba; l’ha chiamata Maria! Dopo una decina di giorni la bimba è morta, perché aveva una gravissima malformazione. Ma accompagnare questa mamma dal quinto mese, quella è stata una delle più grandi emozioni che ho avuto. La ricordo sempre con tanta tristezza, ma anche con tanta gioia perché questa mammina è riuscita alla fine ad accettare anche questa bimba, che poi è vissuta per pochi giorni, in quelle condizioni … Voglio dirne un’ultima – bella – che è successa qualche mese fa: si è rivolta al Servizio una ragazza che mi diceva di vivere sotto un ponte, in una piccola baracca, ed era incinta di due gemellini. Era molto disperata, non sapeva come fare, anche per questi bambini … Io ho alzato il telefono, ho chiamato la “Casa di Christian”, che è un centro di accoglienza della Caritas e le operatrici l’hanno subito accolta. Uno di questi due bambini l’ha chiamato con il nome del mio figlio più piccolo, che si chiama Emanuele. Sono nati un mese e mezzo fa: Emanuele e Samuele.

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Nella Chiesa e nel mondo



Appello Onu per i soccorsi a Gaza

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L'Unrwa, Agenzia Onu per l’assistenza ai rifugiati palestinesi, unica tra le organizzazioni internazionali che opera direttamente sul territorio e senza intermediari nella Striscia di Gaza da 64 anni, provvedendo alla protezione e favorendo lo sviluppo umano della popolazione palestinese, continua durante la grave crisi e conflitto di questi giorni a fornire quotidianamente supporto a 1.200.000 rifugiati, attraverso uno staff di 12.500 persone, prevalentemente nazionali.

L’Unrwa, che conta su finanziamenti volontari per realizzare i servizi di assistenza, segnala che l’alluvione dello scorso dicembre 2013 che ha colpito la Striscia, ha consumato molte delle scorte umanitarie a disposizione per le emergenze, servono fondi urgenti per i soccorsi.

Abbiamo già aperto le porte di 20 delle nostre scuole per ospitare le famiglie in emergenza, finora 17.000 sfollati. Siamo in grado di dare un rifugio sicuro nei nostri edifici scolastici fino a 50.000 persone, ma in caso di attacco da terra, la situazione sarebbe catastrofica. Nonostante l’inviolabilità degli edifici Onu, 49 di essi sono stati distrutti in questa settimana di bombardamenti: scuole, ambulatori e magazzini per la distribuzione alimentare. Mancano le risorse necessarie a far fronte a questa tragedia.

Tra le esigenze più immediate, abbiamo bisogno di cibo per sfamare le persone, di acqua potabile, di saponi e altri materiali sanitari per garantire l’igiene e scongiurare la diffusione di malattie infettive, di carburante per far funzionare gli impianti elettrici e idrici e tutti i mezzi di soccorso e di distribuzione degli aiuti, di medicinali per curare i feriti e assistere i malati. Ogni scuola può accogliere circa tre famiglie per classe a cui viene fornito cibo e un kit di aiuti umanitari.

Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti per far fronte a questa emergenza umanitaria. Servono fondi urgenti per fornire assistenza medica, nutrire la popolazione, riparare le case danneggiate, garantire un rifugio sicuro, e molto altro. Ogni donazione, di qualsiasi entità, verrà inviata sul campo affinché si trasformi subito in un sostegno concreto. (R.P.)

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89 morti a Kabul per attacco kamikaze in un mercato

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89 morti, in maggioranza civili, in Afghanistan per l’attacco di un kamikaze in un mercato della provincia orientale di Paktika.  Il ministero della Difesa afghano parla però di bilancio provvisorio e spiega che l'obiettivo dell'attentatore suicida a bordo di un veicolo, sarebbe stata la moschea del Bazaar.

Il Paese vive ancora ore delicate dopo l'accordo raggiunto due giorni, con la mediazione del segretario di Stato americano Kerry, tra  i candidati alle recenti elezioniAbdullah Abdullah e Ashraf Ghani Ahmadzai, in conflitto per il ballottaggio presidenziale.

L'accordo prevede una nuova verifica della validita' degli 8,1 milioni di voti espressi nella consultazione del 14 giugno. Forte la tensione prima dell'accordo: si ipotizzava addirittura la formazione di un governo parallelo a quello ufficiale. (F.S.)

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Appello del patriarca Sako al Parlamento iracheno

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Dal momento che sono andate finora a vuoto le riunioni del Parlamento iracheno convocate per formare un nuovo governo, il patriarca Louis Raphael Sako ha indirizzato a tutti i parlamentari una lettera-appello per chiedere a tutte le forze politiche di prendere atto che il Paese sta scivolando nel caos e non c'è tempo da perdere. Il patriarca – così si legge nell'appello - unisce la sua “umile voce di responsabile cristiano” a quelle dei capi sciiti e sunniti per chiedere di “accelerare le elezioni delle tre presidenze e salvare il Paese dai pericoli dell'anarchia e della disgregazione”.

Il Capo della Chiesa caldea propone ai membri del Parlamento anche il testo di una preghiera, breve e intensa, da leggere all'inizio delle riunioni dell'assemblea parlamentare: “Dio - così recita l'invocazione suggerita dal patriarca - aiutaci affinchè possiamo dialogare tra noi e possiamo comprenderci gli uni gli altri, così da sciogliere gli equivoci tra noi, lontano da ogni restrizione e settarismo. Dio, aiutaci a diffondere la pace e la tranquillità tra il nostro popolo, così che l'Iraq possa uscire vittorioso da tutti i suoi problemi. Amen”. (R.P.)

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Caritas di Roma: preghiera interreligiosa per la pace in Terra Santa

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«Esorto le parti interessate e tutti quanti hanno responsabilità politiche a livello locale e internazionale a non risparmiare la preghiera e a non risparmiare alcuno sforzo per far cessare ogni ostilità e conseguire la pace desiderata per il bene di tutti. E invito tutti voi ad unirvi nella preghiera».

Con queste parole, pronunciate domenica scorsa durante l’Angelus, Papa Francesco ha ricordato l’importanza della preghiera in questa delicata fase.
La Caritas di Roma, sollecitata dalle parole del proprio Vescovo, organizza per questa sera alle ore 19.00, una preghiera interreligiosa per la pace in Terra Santa.

La Veglia avrà luogo in contemporanea presso la chiesa di “Santa Giacinta” alla Cittadella della Carità (Via Casilina Vecchia, 19), la chiesa “San Damiano da Molokai” a nel Parco di Villa Glori (ingresso da Via Venezuela, 19) e in tutti i Centri Caritas aperti a quell’ora: mense, comunità di accoglienza, case famiglia.
La preghiera – promossa in collaborazione con l’Associazione “Don Andrea Santoro” – si svolgerà in concomitanza con l’iniziativa promossa a Tel Aviv e Gerusalemme dal Masorti Congregation NeveZedek e alla quale aderiscono cristiani, musulmani e ebrei in tutto il mondo.

«Si tratta – spiega mons. Enrico Feroci, direttore della Caritas – di stare vicini ai nostri fratelli della Terra Santa per invocare l'Eterno, il Dio unico, affinché ci mandi la Pace. In momenti cosi difficili di violenza e guerra dobbiamo fare sentire la nostra preghiera al Cielo».

La scorsa settimana, mons. Feroci ha guidato un pellegrinaggio in Terra Santa di operatori e volontari della Caritas romana. A Gerusalemme, oltre ai luoghi in cui Gesù ha vissuto la passione e si è manifestato ai discepoli dopo la risurrezione, gli operatori Caritas hanno incontrato anche le altre grandi fedi monoteiste in giorni carichi di tensione.

Il gruppo ha visitato a Betania gli istituti delle suore Vincenziane e delle Missionarie Comboniane che vivono sul confine, con il “muro” costruito dagli israeliani che attraversa il loro giardino. Ha poi incontrato gli operatori del Caritas Baby Hospital di Betlemme. Insieme a tutti loro ha pregato per la pace, in processione sotto il muro e recitando il Rosario, fino al murales-icona della “Vergine che abbatte i muri”.

«La preghiera di questa sera - spiega monsignor Feroci – ci unirà a questi nostri fratelli e sorelle che ogni giorno testimoniano la pace con la loro prossimità ai musulmani e agli ebrei della Terra Santa». (R.P.)

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Sì del Sinodo anglicano a donne vescovo. I presuli cattolici: difficoltà per l'ecumenismo

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“La decisione della Chiesa d’Inghilterra di ammettere le donne all’episcopato è un ulteriore ostacolo nel cammino verso l’unità e tuttavia continueremo il nostro impegno per il dialogo ecumenico per cercare una più profonda comprensione reciproca e una collaborazione pratica dove questa sarà possibile”. Così mons. Bernard Langley, presidente del Dipartimento per il Dialogo e l’Unità dei vescovi inglesi e gallesi, commenta in una nota il via libera del Sinodo Generale della Chiesa d’Inghilterra riunito a York alle donne vescovo.

La riforma, da anni al centro di profonde divisioni in seno alla casa madre della Comunione anglicana, è stata approvata con la maggioranza richiesta dei due terzi in ognuna delle tre Camere che compongono il Sinodo (vescovi, clero e laici).

Nella nota, mons. mons. Langley esprime comunque “apprezzamento” per una clausola introdotta nel testo che riconosce le ragioni di chi, nella Chiesa d’Inghilterra, continua a ritenere inammissibile l’ordinazione episcopale femminile, come nelle Chiese cattolica e ortodossa. “In questo difficile momento – aggiunge – riconosciamo ancora una volta i notevoli progressi ecumenici compiuti in questi decenni dopo il Concilio Vaticano II e lo sviluppo di una solida amicizia tra le nostre comunità. Faremo il possibile - conclude quindi l’arcivescovo di Birmingham - per rafforzare questi legami e cercare insieme di testimoniare il Vangelo nella nostra società”.

Il voto favorevole alle donne vescovo è stata salutata invece con soddisfazione dal Segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese (Wcc), il rev. Olav Tveit, il quale ha espresso l’auspicio che la decisione possa essere “una benedizione per la missione della Chiesa d’Inghilterra”.

Donne vescovo anglicane – lo ricordiamo - esistono già in altri Paesi , come negli Stati Uniti e in Australia, ma la Chiesa d'Inghilterra era finora divisa sulla questione, nonostante abbia già ammesso le donne al sacerdozio nel 1994. (A cura di Lisa Zengarini)
 

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Ucraina: appello di pace dei vescovi cattolici

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“Indicibile tristezza” e “ansia” per le operazioni militari in corso nella parte orientale dell’Ucraina, “che portano via altre vite umane, specialmente giovani”. La Conferenza dei vescovi della Chiesa romano-cattolica dell’Ucraina interviene a proposito degli scontri in atto nella parte est del Paese. “A nome del clero e dei laici della Chiesa cattolica in Ucraina esprimiamo le condoglianze ai parenti e agli amici delle vittime” di Zelenopillia e di altre località. 

La situazione - riferisce l'agenzia Sir - è sempre più tesa, scontri tra esercito e forze filorusse proseguono senza sosta. “Nel dolore ci inginocchiamo davanti a coloro che hanno dato la loro vita in difesa della patria”, affermano i vescovi. “Dio anche nelle situazioni più complesse e imprevedibili è in grado di fare il nostro bene”, prosegue il messaggio, che invoca l’intercessione della Madonna. “Preghiamo attraverso la Madre della pace e della riconciliazione per la cessazione delle ostilità in Ucraina” e ovunque “vi siano contese che vengono risolte con mezzi militari”.

I vescovi affermano che pregando per la pace molti fedeli di rito latino “si recano in pellegrinaggio a piedi nei luoghi sacri, ad esempio a Letychev, Berdichev, Bilshivtsi, pregando il Signore per una vita di grazia nella verità, nella pace, nella comprensione e nel perdono per ogni abitante del nostro Paese e per i nostri vicini”. (R.P.)

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Sudafrica: la morte di Nadine Gordimer voce contro l'apartheid

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“Ciò a cui teneva più profondamente era il Sudafrica, la sua cultura, la sua gente e la sua lotta ancora in corso per realizzare la sua nuova democrazia”: è ciò che i familiari scrivono di Nadine Gordimer, 90 anni, Nobel per la Letteratura 1991, attivista politica ed esponente di spicco del movimento anti-apartheid, scomparsa ieri a Johannesburg alla presenza dei suoi figli, Hugo e Oriane.

Gordimer - riferisce l'agenzia Misna - aderì all’African National Congress (Anc) di Nelson Mandela quando era ancora illegale e lottò per decenni contro il regime segregazionista, subendo anche la censura, ospitando nella sua casa, la stessa in cui se n’è andata “serenamente”, i protagonisti della transizione democratica.

Fu una delle prime persone che Mandela volle incontrare al suo rilascio da Robben Island, nel 1990. “Ho letto tutti i romanzi non proibiti di Nadine Gordimer e ho appreso molto sulla sensibilità dei bianchi liberali” scrisse, fra l’altro, Madiba nella sua autobiografia.

Dalla vicinanza all’Anc di Mandela, Gordimer passò a criticare duramente il partito dopo la sua ascesa al potere. “Lo slogan dell’Anc «una vita migliore per tutti» non voleva dire andare sotto terra!” ebbe occasione di dire nel 2012 dopo l’uccisione di 34 minatori che scioperavano a Marikana per mano della polizia.. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 196

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.