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Sommario del 16/07/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco in Corea del Sud. P. Hur: pace ed evangelizzazione in Asia

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Manca meno di un mese alla visita di Papa Francesco in Corea del Sud, terzo viaggio internazionale del Pontificato, in programma dal 13 al 18 agosto. Momenti principali della visita, l’incontro con i giovani in occasione della sesta Giornata della gioventù asiatica, la Beatificazione di 124 martiri coreani e la Messa per la pace e la riconciliazione. Su questo importante evento, Davide Dionisi ha intervistato il portavoce dell’Arcidiocesi di Seul, padre Hur Young-yup

R. - The Korean Church is the first Asian Church to welcome Pope Francis…

La Chiesa coreana è la prima Chiesa asiatica ad accogliere Papa Francesco. Attraverso questo evento significativo, la Chiesa coreana diventerà la porta verso l’evangelizzazione in Asia. Il Santo Padre viene come un pastore per incontrare la gente e viene ad incontrare i giovani dell’Asia. Possiamo dire che la Corea è un Paese che simboleggia i bisogni del mondo di pace e riconciliazione. Quindi, la visita del Santo Padre può portare un importante messaggio di speranza e di pace nel nostro Paese.

D. - Che opinione hanno i coreani di Papa Francesco?

R. - Not only the Catholic people, all the Korean people like Pope Francis…
Non solo ai cattolici, ma a tutti i coreani piace Papa Francesco. Apprezziamo i suoi modi alla mano e la sua semplicità; apprezziamo il modo con cui lui si prende cura delle persone povere e degli emarginati. Tutta la popolazione coreana è impaziente di incontrare Papa Francesco.

D. - Come vi state preparando in vista della visita del Papa?

R. - Together with the Korean Church, our government is also giving their full support…
Insieme con la Chiesa coreana, anche il nostro governo sta dando il suo pieno sostegno alla preparazione della visita pastorale del Santo Padre. Quindi, penso che i preparativi interni siano importanti tanto quanto quelli esterni. La visita del Santo Padre non è solo una singola occasione per la Chiesa coreana, ma un’opportunità importante per le riforme interne e l’evangelizzazione esterna.

D. – Nel 1989, 25 anni fa, Giovanni Paolo II compiva la sua seconda visita in Corea. Quali i frutti?

R. - The visit of John Paul II has brought positive effects to the Korean Church…
La visita di Giovanni Paolo II ha portato effetti positivi alla Chiesa coreana. La Chiesa cattolica è diventata più conosciuta nella società e ha ottenuto una buona impressione presso la popolazione.

D. - Il processo di secolarizzazione riguarda la Corea del Sud, così come tutti i Paesi industrializzati. Come risponde la Chiesa coreana?

R. - Nowadays, our country is seriously effected by the ideology of materialism…
Oggi, il nostro Paese è seriamente colpito dall’ideologia del materialismo, dell’individualismo, del secolarismo e dall’apatia religiosa. Lo stesso problema esiste all’interno della Chiesa. Quindi, è importante che la Chiesa trovi nuove strade e nuovi metodi per affrontare tali questioni. Credo che questo sia un compito importante ed un obiettivo per la nuova evangelizzazione.

D. - Sono pronti i fedeli coreani ad affrontare la sfida della nuova evangelizzazione?

R. - The ‘New Evangelization' is a new method to help us renew our faith…
La nuova evangelizzazione è un nuovo metodo per aiutarci a rinnovare la nostra fede in questo mondo in rapido cambiamento. È molto importante che la Chiesa stessa cambi per prima, per “uscire” verso il mondo e diffondere il Vangelo attraverso nuovi mezzi e con nuovi risultati. La Chiesa coreana ha ancora molta strada da fare, ma stiamo facendo del nostro meglio per trasformare l’evangelizzazione in azione. 

D. – Ricordiamo che il Vangelo in Corea è stato diffuso dai laici nel 1700…

R. – Catholicism was brought into our country after the Catholic books were translated to Korean…
Il cattolicesimo è stato portato nel nostro Paese dopo che i libri cattolici vennero tradotti in coreano, e gli alunni coreani lo iniziarono a studiare. Successivamente, hanno formato comunità cattoliche e predicato la loro fede alle altre persone. Quindi, la cosa più singolare della Chiesa coreana è che ha avuto inizio attraverso i laici e non attraverso i missionari. La Chiesa coreana ha subito molte persecuzioni. Tuttavia, i nostri antenati conservarono la loro forte fede e continuarono a diffondere la buona novella di Gesù Cristo.

D. - Quale è l’impegno della Chiesa per la riunificazione del Paese?

R. - It is the mission of the Korean Church to work towards the reconciliation and unification…
Questa è la missione della Chiesa coreana: lavorare per la riconciliazione e l’unificazione del nostro Paese. Credo che il supporto umanitario e i dialoghi sinceri siano la cosa più necessaria. La Chiesa ha continuato a dare supporto umanitario anche quando la relazione tra Nord e Sud era tesa.

D. - E a proposito della riunificazione, quanto è importante il dialogo interreligioso per il raggiungimento di tale obiettivo?

R. - Inter-religions dialogue is an important issue which should not have anything to do…
Il dialogo interreligioso è una questione importante che non dovrebbe aver nulla a che fare con gli obiettivi politici. Penso che sarebbe una bella cosa se persone di religioni differenti si conoscessero le une con le altre e se apprezzassero la bellezza che ogni religione ha portato all’essere umano.

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Il card. Parolin a Guadalupe: i migranti sono il volto sofferente di Cristo

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"Gli immigranti, spesso, sono i volti sofferenti di Cristo" nei nostri giorni. Così il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, nell’omelia della Messa celebrata nel Santuario di Guadalupe. Il cardinale Parolin si è recato in Messico per discutere sui temi legati al fenomeno dell’emigrazione e ieri ha preso parte ad un Seminario su queste realtà.  Il servizio di Debora Donnini: 

“Impariamo dalla Vergine a seguire Gesù, tanto nei momenti sereni come in mezzo alle prove”. E’ l’invito che il cardinale Parolin rivolge nel Santuario di Guadalupe. Al centro la figura di Maria che, premurosa, va a trovare Elisabetta, così come l’indio Juan Diego corse con  premura dal vescovo con il mantello pieno di fiori di Castilla e sulla sua tilma apparve miracolosamente impressa l’immagine della Vergine di Guadalupe. Preghiamo Maria “di regalarci Cristo" e “accettiamo nel nostro cuore la volontà di Dio” esorta il porporato. “La Chiesa ha imparato da Maria che la vera evangelizzazione consiste nel proclamare la grandezza del Signore”. “In lei – prosegue – possiamo vedere la maniera in cui la Chiesa si fa presente, con la luce del Vangelo, nella vita dei popoli, nelle trasformazioni sociali, economiche, politiche”. “Santa Maria di Guadalupe è il modello di una Chiesa pellegrina”, che non cerca se stessa , che cammina con il suo popolo e non vuole rimanere fuori dalle sue sfide e dai suoi progetti, dalle sue sofferenze e speranze.

Quindi il porporato ricorda ai vescovi che l’impegno assunto per rigenerare la convivenza nazionale e il dialogo con i diversi agenti sociali è l’occasione propizia per portare i valori e le radici cristiane per l’edificazione di una società più solidale, basata sulla cultura dell’incontro, l’assoluto rispetto della vita umana, il favorire quello che promuove la reciproca comprensione. E il porporato chiede di rivolgere un'intenzione particolare, nella preghiera, a Maria per gli immigrati. E racconta di aver partecipato al Seminario che si è tenuto su questo aspetto della mobilità umana per progredire nella difesa delle persone che, in cerca di lavoro o di migliori condizioni di vita, sono costrette ad abbandonare le loro case e non poche volte sono vittime di un modello economico escludente, che non mette al centro la persona umana. E afferma: “Mentre da un lato si aprono ogni volta di più le frontiere per il commercio, per il denaro, per le nuove tecnologie, dall’altro lato, le persone subiscono molteplici restrizioni, soprusi e abusi, rimanendo in situazioni di vulnerabilità”. “Gli immigrati – conclude - spesso sono i volti sofferenti di Cristo” nei nostri giorni, che commuovono il cuore di Sua Madre.

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Nomine di Papa Francesco

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Il Papa ha nominato Osservatore Permanente della Santa Sede presso l'Organizzazione degli Stati Americani (O.A.S.) mons. Bernardito C. Auza, arcivescovo titolare di Suacia, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l'Organizzazione delle Nazioni Unite (O.N.U.).

Il Santo Padre ha nominato vescovo ordinario militare per il Perú, mons. Juan Carlos Vera Plasencia, M.S.C., finora vescovo prelato della Prelatura Territoriale di Caravelí.

In Brasile, il Papa ha nominato vescovo coadiutore della diocesi di Santos, mons. Tarcísio Scaramussa, S.D.B., finora vescovo titolare di Segia ed Ausiliare di São Paulo.

Papa Francesco ha nominato, per un quinquennio, Consultori della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica gli Eccellentissimi Monsignori: Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti‑Vasto (Italia); Angelo Vincenzo Zani, Arcivescovo tit. di Volturno, Segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica; i Reverendi: Suor Marcella Farina, F.M.A., Docente Ordinario di Teologia Fondamentale e Sistematica nella Pontificia Facoltà di Scienze dell'Educazione «Auxilium», Roma; P. José Cristo Rey García Paredes, C.M.F., Vice Direttore dell'Istituto Teologico di Vita Religiosa di Madrid (Spagna); P. Robert J. Geisinger, S.I., Docente di Diritto Canonico presso la Pontificia Università Gregoriana, Procuratore Generale della Compagnia di Gesù, Roma; P. Loïc‑Marie Le Bot, O.P., Decano della Facoltà di Diritto Canonico dell'Istituto Cattolico di Toulouse (Francia); Suor Maria Domenica Melone, S.F.A., Rettore Magnifico della Pontificia Università «Antonianum», Roma; P. Pier Luigi Nava, S.M.M., Docente di formazione alla vita consacrata nella Pontificia Facoltà di Scienze dell'Educazione «Auxilium», Roma; Sac. Jesu Maria James Pudumai Doss, S.D.B., Docente straordinario nella Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Salesiana, Roma; P. Bruno Secondin, O.Carm., Docente ordinario emerito di Spiritualità moderna e Fondamenti di vita spirituale presso la Pontificia Università Gregoriana, Roma; P. Yuji Sugawara, S.I., Decano della Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Gregoriana, Roma; le Illustrissime Signorine: Dott.ssa Elena Lucia Bolchi, consacrata nell'Ordo Virginum dell'Arcidiocesi di Milano, Patrono stabile del Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo, Milano (Italia); Dott.ssa Lourdes Grosso García, M. Id., Direttrice del Segretariato della Commissione Episcopale per la Vita Consacrata della Conferenza Episcopale Spagnola, Madrid (Spagna).

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Conferenza mondiale Aids. Caritas: “Promuovere rapporti stabili”

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La 20.ma Conferenza mondiale sull’Aids, che si terrà dal 20 al 25 luglio a Melbourne, sarà preceduta, sempre nella città australiana, da due incontri preparatori - uno a livello interreligioso e uno in ambito cattolico - delle organizzazioni religiose impegnate nell’assistenza dei malati e nel contrasto alla diffusione dell’Hiv. Ai lavori delle pre-conferenze di venerdì e sabato prossimi parteciperà anche don Robert Vitillo, rappresentante speciale della Caritas Internationalis per la questione dell'Aids. Sentiamolo al microfono di Marco Guerra: 

R. – Ogni due anni, la Caritas Internationalis – insieme ad altre organizzazioni cattoliche che sono impegnate in risposta all’Hiv-Aids – organizza questa pre-conferenza, prima che inizi la Conferenza mondiale. Il punto è avere un luogo dove le persone che stanno lavorando in programmi cattolici possano scambiare le loro esperienze, imparare l’uno dall’altro e specialmente le cose che veramente fanno parte della nostra identità come organizzazioni cattoliche. Il fatto è che noi rispondiamo a tutta la persona che vive con Hiv-Aids: non prendiamo queste misure a breve termine, che forse avranno anche qualche effetto, ma che non rispondono ai bisogni di tutta la persona.

D. – Ma voi, come Caritas, che cosa state osservando sul terreno in questi anni? Quali sono le sfide ed anche i risultati?

R. – Abbiamo molti programmi patrocinati dalla Caritas locale, il trattamento di appoggio economico ed anche l’organizzazione – insieme alle persone che vivono la malattia – di programmi di auto-aiuto per superare i problemi che devono affrontare a causa della loro malattia.

D. – C’è una presa di coscienza del fatto che sia necessaria anche un’educazione integrale dell’individuo che porti al contrasto del contagio?

R. – Con alcuni governi ed anche alcuni medici c’è una presa di coscienza al riguardo perché la semplice promozione del preservativo non è stata efficace per bloccare la trasmissione dell’Hiv-Aids. Sicuramente da parte della Chiesa locale facciamo molto: organizziamo programmi di educazione, specialmente per i giovani, per aiutarli a sviluppare rapporti interpersonali ma anche ad avere saggezza e maturare la consapevolezza per avere rapporti e aspettare fino al matrimonio per iniziare un’attività sessuale.

D. – Quindi un rapporto stabile continua ad essere la soluzione migliore, perché poi dove è stato diffuso solo il preservativo i risultati sono quelli che sono…

R. – E’ molto interessante perché io lavoro in questo campo da più di 25 anni. All’inizio quando parlavo - specialmente con esperti delle Nazioni Unite - di fedeltà nel matrimonio loro mi hanno risposto: “Questo non è scientifico”. Io ho risposto che in realtà è molto scientifico: se due sposi sono fedeli l’uno all’altro non c’è possibilità di trasmettere il virus. E’ vero che adesso, poco a poco, anche i governi lo sanno ed includono messaggi di astinenza e fedeltà nel matrimonio nei loro messaggi di prevenzione. Infatti, nell’ultima riunione del comitato governativo delle Nazioni Unite sull’Aids - all’inizio del mese di luglio – c’era una dichiarazione da parte dei governi africani che parlava della necessità di accompagnare i giovani per sviluppare in loro i valori culturali ma anche religiosi; inoltre, di non incoraggiare un’attività sessuale prematura per i giovani. In alcuni Paesi dell’Africa – per esempio Uganda e Kenya – già c’era questo tipo di educazione, ma c’era anche insistenza da parte dei governi del Nord - vincolata specialmente al finanziamento dei programmi di assistenza - di cambiare questo approccio. Adesso i Paesi africani stanno reagendo e dicono che devono conservare le loro culture ed anche la fede dei loro popoli.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Il volto di Cristo oggi: nel santuario di Guadalupe il segretario di Stato prega per le sofferenze dei migranti.

Colui che nella debolezza mostra la sua forza: in prima pagina, Manuel Nin riguardo all'omelia di Severo d'Antiochia sul Trisaghion.

Energia, centro nevralgico di tante sfide attuali: intervento della Santa Sede a New York.

E lo chiamavano Papa di provincia: Alejandro Mario Dieguez a proposito della monografia di Gianpaolo Romanato in cui si recupera il vero Pio X fuori dalle ideologie.

Quanta Torino c'è a Cordoba: Albina Malerba e Giovanni Tesio su Nino costa, il poeta piemontese caro a Bergoglio.

Progetto estetico inciso nel marmo: Antonio Paolucci sull'epigrafe che apre Villa Borghese.

Un articolo di Oliviero Beha dal titolo "La sfida più difficile? Con la banda Carità: cent'anni fa, il 18 luglio 1914, nasceva Gino Bartali.

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Oggi in Primo Piano



Gaza, ancora raid. Oxfam: i palestinesi sono allo stremo

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A Gaza l’artiglieria israeliana sta colpendo  le zone di cui la notte scorsa era stato ordinato lo sgombero. Ad oggi si contano oltre 200 morti e 1.500 feriti. E la situazione umanitaria è disastrosa. Servizio di Francesca Sabatinelli: 

L’artiglieria israeliana ha colpito Beit Lahya, nel nord della Striscia e alcune zone a est di Gaza City, luoghi da dove, secondo Israele, sarebbero stati sparati diversi razzi. Nella notte si sono susseguiti gli inviti dell’esercito diretti a circa centomila palestinesi ad abbandonare le loro case, avvertimenti che avevano seguito di poche ore  le parole inequivocabili del premier israeliano Netanyahu, che ieri sera aveva annunciato che Hamas avrebbe pagato il prezzo del non aver accettato la tregua proposta dall’Egitto. A nove giorni dall’inizio dell’operazione israeliana sono finora 205 i morti e 1.500 i feriti. Tra le vittime soprattutto civili, tra loro molti bambini. L’emergenza è totale, i raid aerei hanno distrutto le strutture idriche e sanitarie di Gaza. Le forniture di cibo da parte delle agenzie e organizzazioni umanitarie sono drasticamente diminuite, la popolazione è sempre più povera e vulnerabile. Ingenti danni si contano anche nel settore agricolo indispensabile per la sopravvivenza delle persone e già pesantemente penalizzato dal blocco imposto da Israele. E’ ciò  che testimonia Marco Tinchelli, di Oxfam Italia, in questi giorni a Betlemme e Hebron:

R. - Ci sono tre sotto settori all’interno del settore agricolo: il primo è quello della pesca. Ora i pescatori di Gaza non possono andare in mare, non possono pescare, hanno subito danni alle imbarcazioni, alle attrezzature. Inoltre l’area di pesca, che solitamente è ridotta a sei miglia, è stata ulteriormente ridotta a tre miglia, e comunque - come dicevo – in questi giorni nessuno può uscire in mare. Questo avrà un impatto molto negativo per loro. Il secondo settore è quello dell’agricoltura, anche gli agricoltori stanno subendo dei grossi danni: non c’è accesso ai terreni e le serre e i campi coltivati sono stati gravemente danneggiati. Il protrarsi della crisi porterà molto probabilmente alla perdita dei raccolti, con un grave danno per l’economia di Gaza. Il terzo settore è quello dell’allevamento che riguarda anche i beduini di Gaza. È un settore pesantemente colpito, inoltre siamo nella stagione riproduttiva e lo stress subito dagli animali porterà alla perdita anche di questa. Sono danni molto gravi e l’economia di Gaza ne uscirà davvero a pezzi.

D. - Questa drammatica situazione si inserisce in un contesto che era già fortemente debilitato dal blocco …

R. - Esatto, il blocco imposto da Israele sulla Striscia di Gaza aveva già fatto sì che la situazione economica all’interno della Striscia fosse drammatica per le limitazioni imposte. Ad esempio, come dicevo prima, questa riduzione a sei miglia del limite consentito ai pescatori per pescare; la creazione di una Buffer Zone al confine con Israele che ha portato via terreni produttivi agli agricoltori palestinesi; e poi il blocco dell’ingresso di merci, materiali, anche da costruzione, che danneggia gravemente l’economia della Striscia. Questo avrà un impatto nel momento della ricostruzione, si prevedono tempi molto lunghi per riabilitare le strutture danneggiate perché, appunto, la presenza e l’implementazione del blocco limiterà l’ingresso di materiali per ricostruire e riabilitare le strutture danneggiate.

D. - Tra le strutture danneggiate - lo riportate anche voi nei vostri comunicati - ci sono le strutture idriche. E’ sempre stato problematico arrivare all’acqua per gli abitanti di Gaza. Oggi si parla di impossibilità e soprattutto di contaminazione dell’acqua ...

R. - La questione acqua a Gaza è molto critica e lo era anche negli anni passati per via del fatto che c’è un sovrasfruttamento della falda acquifera che è tagliata fuori dal resto di Israele. Per cui l’incremento continuo della popolazione e il fatto che gli abitanti siano chiusi nella Striscia senza possibilità di uscire e di collegarsi a reti esterne, ha fatto sì – appunto - che la falda si impoverisse sempre di più. Poi, specialmente nella fascia costiera, l’acqua del mare ha iniziato a penetrare, quindi l’acqua dell’acquedotto è molto salata. Viene inoltre fatto un abbondante uso di pesticidi, per  cui ci sono molte sostanze che filtrano e percolano nel terreno che poi vanno ad inquinare la falda. Con i danni di questi giorni la situazione si è ulteriormente aggravata: ci sono intere aree della Striscia che non hanno accesso all’acqua corrente. Questo potrebbe portare anche a problemi igienico sanitari, già lo sta facendo.

D. - Tu ti dividi tra Gerusalemme, Betlemme ed Hebron, quali reazioni vedi a ciò che sta succedendo a poca distanza da questi luoghi?

R. - La popolazione locale è abbastanza scoraggiata, purtroppo il conflitto in questa area del mondo si protrae da decenni. Per cui da una parte c’è paura e preoccupazione, ma anche una certa forma di rassegnazione. A Gerusalemme che è divisa in parte  Est, palestinese, e parte Ovest, ebraica, le reazioni sono diverse. C’è soprattutto paura ad Ovest, mentre ad Est anche quando suonano le sirene la gente non si preoccupa più di tanto, anzi abbiamo visto anche episodi di festeggiamento. Come Oxfam chiediamo un immediato cessate il fuoco per porre fine alle violenze sulla popolazione civile. Deve essere però trovata una soluzione che vada in direzione di una ricerca di stabilità a lungo termine, per cui riteniamo fondamentale l’eliminazione del blocco, la cancellazione della Buffer zone, e delle limitazioni imposte ai pescatori di Gaza.

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Siria. Assad giura per il terzo mandato: il terrorismo è sconfitto

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Il presidente siriano Bashar al-Assad ha prestato giuramento a Damasco per il nuovo incarico ad un terzo mandato di 7 anni, davanti ai rappresentanti politici e religiosi del Paese, annunciando la vittoria sul terrorismo e promettendo ai Paesi che l'hanno sostenuto che la pagheranno. Riconfermato dal voto di giugno,” una farsa”, per le opposizioni, Assad si ritrova in una Siria tuttora in guerra - nonostante l’attenzione internazionale sia distolta dal conflitto in Terrasanta - e minacciata dall’avanzata del cosiddetto Stato islamico dell' Isis, circostanza quest’ultima che potrebbe giocare anche a suo favore come testimonia il suo discorso di insediamento di oggi. Gabriella Ceraso ne ha parato con Andrea Plebani ricercatore dell’ISPI - Istituto Studi di politica internazionale - e docente all'Università Cattolica di Brescia: 

R. - In realtà già dal 2012 il fattore estremismo islamico ha giocato un ruolo chiave per la tenuta del regime e per mostrare al mondo intero che i protestanti in realtà non erano dei manifestanti pacifici, ma erano dei terroristi provenienti in gran parte – tra l’altro - dall’estero. In questo modo Bashar al-Assad può giocare su più tavoli: internamente, presentandosi come l’ultimo bastione per la difesa dello Stato siriano nei confronti della sua comunità chiave - quella alawita - ma anche delle minoranze e di quelle fasce di popolazione sunnita che sono fortemente deluse dall’incapacità dell’opposizione; esternamente presentandosi come l’unica opzione, perché l’ascesa di una forza – quella appunto dello Stato islamico – minaccia l’intera regione.

D. - Questa paura dello Jihadismo guiderà anche l’offensiva futura di Assad, che peraltro non si è mai fermata anche se non se ne parla più...

R. - L’offensiva non si è mai fermata, e questo è corretto, ma il presidente siriano ha sempre usato una tattica precisa, concentrando i suoi attacchi contro le forze dell’insurrezione non in quota Isis, utili avversari che, frammentando l’opposizione e combattendo all’interno di essa, gli facilitano il compito.

D. - Le zone orientali della Siria in mano all’Isis, l’asse Nord-Sud gestito da Assad, i ribelli sparsi nel resto del territorio: è questa la futura configurazione della Siria?

R. - Spero fortemente di no. Nessuno, purtroppo, può fare previsioni in questo momento. Quello a cui stiamo assistendo è un rafforzamento dello Stato islamico e dei suoi clientes locali nell’Est della Siria e nel Nord-Ovest dell’Iraq. Ma nessuno in questo momento può dire quanto sia reale il controllo che c’è stato della formazione guidato dal nuovo califfo; quello che è certo è che sempre più formazioni dell’insurrezione siriana, supportata a livello locale, stanno abbandonando le armi perché circondate su due fronti in un certo senso, rafforzando – di fatto - indirettamente il controllo dello Stato islamico.

D. - Comunque sia, nonostante non si parli più né della cacciata di Assad né della cosiddetta liberazione da parte del fronte ribelle del Paese, la Siria potrà mai tornare alla situazione addirittura precedente alla ribellione di tre anni fa?

R. - No, ci sono stati troppi morti: 170 mila vittime, un milione di sfollati, persone che hanno dovuto abbandonare le loro case, spostarsi dal Paese o abbandonare addirittura il Paese stesso. C’è una verità che non potrà essere cancellata mai, soprattutto in un sistema, come quello sorto nella Siria orientale, così segnato dalla presenza di gruppi tribali, che sono degli attori che potremmo dire “si legano al dito” questo tipo di sfide, minacce, e di offese. Quindi la Siria è destinata in un caso o nell’altro ad un profondo cambiamento. Quale sarà il tipo di cambiamento nessuno può saperlo: sarà una suddivisione in un sistema federale ... In questo momento il confine tra Siria e Iraq è messo fortemente in dubbio. Purtroppo il cambiamento è in atto e non sembra essere favorevole alle istanze di democratizzazione e di sviluppo dell’area. Bashar al-Assad manerrà una base di potere comunque importante, ma non potrà riestendere o riacquisire il controllo ottenuto all’indomani della sua presa di potere.

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Iraq: eletto il presidente del Parlamento. Soddisfazione del Patriarca Sako

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In Iraq, il parlamento ha eletto il suo nuovo presidente. Si tratta del sunnita moderato Salim Al Jubouri.  Soddisfazione dalla Casa Bianca: il vicepresidente Joe Biden ha parlato di primo passo verso il governo di unità nazionale. Soddisfatto anche il patriarca di Babilonia dei Caldei, mons. Louis Sako, che aveva sollecitato i deputati con una lettera appello, e ora auspica un rinnovato sforzo per completare le nomine. Intanto, l’esercito da ieri cerca di riprendere la città di Tikrit, mentre il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon pensa a nuove sanzioni soprattutto in termini monetari e di embargo sulle armi, per i miliziani dello Stato Islamico che ora conta tra le sue fila oltre ai siriani, anche 3 mila marocchini. Su questa nomina - al microfono di Cecilia Seppia - il commento di Alessandro Politi, analista politico e strategico: 

R. - È un primo passo, però è chiaro che Noury Al Maliki non se ne vuole andare; questo è un problema, però è un primo passo. Al Juburi fa parte di una delle grandi famiglie sunnite irachene e quindi in realtà è un elemento di continuità tra prima della guerra e il post guerra. La sua è una famiglia molto importante e in vista; inoltre il posto tradizionalmente è riservato ad un sunnita, quindi una divisione delle alte cariche molto simile a quella libanese, però il cammino è ancora difficile, tanto più che Maliki ha lanciato una serie di accuse all’amministrazione curda regionale del Nord, che ha reagito in modo molto duro dicendo che l’Iraq per colpa di Maliki è uno "Stato fallito" e che quindi è il momento di pensare alla propria indipendenza. Questa non è una vuota minaccia, ma è una verità visto che i curdi si stanno preparando da molto tempo a questo passo a meno che - speriamo di non essere arrivati ad un punto di non ritorno - lo Stato centrale di Baghdad capisca di dover assumere davvero uno spirito ed una pratica federale. D’altro canto, l’appello dell’Isis è molto seducente, non tanto per la religione o per le esecuzioni che terrorizzano, quanto per il fatto che offre ai sunniti iracheni la possibilità di sentirsi finalmente comunità e cittadini, sia pure di un governo dispotico.

D. - I miliziani dell’Isis sicuramente hanno un’ideologia molto forte, anche la creazione di questo califfato lo dimostra. Che cosa sta facendo Al Maliki in questo momento per essere un’alternativa credibile?

R. - Lui punta sul successo militare, è molto chiaro. Secondo il suo ragionamento con un successo militare lui riprende in mano la situazione, almeno a breve. In realtà le sue controparti negoziali - quindi tanto i curdi quanto i sunniti anche una buona fetta di sciiti  - sanno che anche se c’è una vittoria puramente tattica, le logiche politiche di Al Maliki sono esattamente le stesse. E questo credo che si sia capito molto bene anche in Iran, dove l’elezione di questo nuovo presidente della Camera è stata salutata come un successo contro i terroristi.

D. - Ecco, l’esercito sta cercando di recuperare quello che viene definito come il “triangolo sunnita”, ovvero parliamo di Mosul, Kirkuk e in queste ore, da un paio di giorni, Tikrit dove si concentra l’offensiva e dove i miliziani hanno preso particolarmente piede. È inevitabile che questi “ribelli” abbiano appoggi fortissimi, basti pensare al Qatar, all’Arabia Saudita che sicuramente - quanto meno - gli hanno fornito le armi ...

R. - Gli appoggi ci sono, ma è stata soprattutto la capacità di sfruttare il malcontento – quindi di inserire un cuneo politico – che ha premesso all’Isis di sviluppare una rete di città occupate o contestate che vanno da Aleppo fino alle porte di Baghdad. È importante anche capire che da subito questo governo ribelle, di fatto, ha impostato però ai cittadini anche delle regole, quindi sta cercando di sviluppare, nonostante la durezza dell’occupazione, una serie di regole amministrative. Quindi il califfato in larghe parti del Medio Oriente viene deriso come l’ennesima avventura effimera di un gruppo di esaltati, però Al Baghdadi, leader dell’Isis, sta cercando di fare di tutto per creare invece una presenza costante.

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Nasce la Banca di sviluppo dei Brics: avrà sede in Cina

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I Brics avranno una 'Banca di sviluppo' da 100 miliardi di dollari. L’annuncio è giunto nella prima giornata di vertice, a Fortaleza in Brasile, tra i leader di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. La nuova Banca di sviluppo avrà sede a Shangai, in Cina, e il primo presidente di turno sarà un indiano. Gli analisti parlano di un’iniziativa che si contrappone a istituzioni internazionali come la Banca mondiale e il Fondo monetario, dove le cinque principali economie emergenti si sentono poco e male rappresentate. Fausta Speranza ha chiesto una valutazione a Franco Bruni, docente di Politiche monetarie all’università Bocconi: 

R. - Può darsi che ci sia anche un problema del genere, anche se la Banca Mondiale non è in contraddizione con iniziative di questo genere. La stessa è articolata in modo abbastanza complesso in giro per il mondo; però, indubbiamente, c’è un problema a Washington: i Paesi emergenti, le economie emergenti non hanno sufficiente potere nel Fondo monetario e nella Banca Mondiale.

D. - Quindi quale dovrebbe essere la funzione di questa Banca di Sviluppo da quello che riusciamo a capire?

R. - Questi Paesi hanno problemi strutturali. Si sono accorti che non si può crescere senza infrastrutture, lo sviluppo deve essere più equilibrato e deve quindi coinvolgere anche tutta una serie di iniziative che erano state trascurate e che oggi finiscono per costituire un collo di bottiglia per la loro crescita: dalle infrastrutture del trasporto, a quelle della comunicazione… Coordinando tra di loro le idee e i progetti ed aiutandosi vicendevolmente possono cogliere fondi a livello mondiale dato che hanno capitalizzato adeguatamente questa istituzione e probabilmente possono aiutare a finanziare queste grandi opere.

D. - I Brics hanno rappresentato i Paesi emergenti degli ultimi anni con sviluppi a grandi passi, poi però tutta la congiuntura negativa internazionale ha colpito anche loro. A questo punto cosa dobbiamo dire dell’economia di questi Paesi?

R. - In parte il loro sviluppo è stato squilibrato. In alcuni casi, oltretutto, non si rendono conto che gli aspetti politici devono seguire una modernizzazione politica che deve essere accelerata. L’India, per esempio, lo sta scoprendo adesso ed è molto molto indietro. Quindi, che ci sia un collo di bottiglia nel loro sviluppo è indubbio; poi, effettivamente hanno sofferto anche della crisi internazionale e ad un certo punto sembrava che fossero loro a dover tirare la carretta dell’economia mondiale, poi si è capito però che anche loro hanno problemi. Penso che sarà da lì che verranno le opportunità di crescita dell’economia mondiale futura, non c’è dubbio; verrà da loro e dai rapporti che sapremo stabilire con loro. Se le economie sviluppate invece si chiudono con un atteggiamento difensivo nei confronti di questi Paesi, perderanno la partita. La partita la perderà un po’ tutto il mondo.

D. - La Banca di Sviluppo avrà sede in Cina e sarà guidata inizialmente da un indiano. È per così dire, il sintomo di un’alleanza particolare che prende il via tra Cina ed India?

R. - Fino a poco tempo fa era l’opposto: tra Cina ed India i rapporti erano tutt’alto che buoni e da un certo punto di vista il problema esiste ancora. Diciamo che è il segno che quando si tratta di collaborare per crescere, far crescere le economie e puntare a maggior benessere si riescono a metter da parte anche una serie di problemi che nascono su fronti non economici. L’economia in sostanza può diventare uno strumento di pace invece che di ostilità.

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Nigeria: salta incontro tra presidente e madri delle ragazze rapite

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Si torna a parlare delle oltre 200 ragazze sequestrate in Nigeria dai miliziani di Boko Haram nell’aprile scorso. Finora solo alcune di loro sono riuscite a fuggire. A riportare l’attenzione sulla vicenda è Malala Yousafzai, la 17.enne attivista pakistana che nei giorni scorsi ha incontrato ad Abuja il presidente nigeriano Goodluck Jonathan per chiedergli di incontrare i genitori delle studentesse sequestrate. L'incontro è saltato dopo che il presidente ha accusato gli attivisti che hanno lanciato la Campagna internazionale di liberazione delle ragazze #BringBackOurGirls e che nella capitale nigeriana continuano a manifestare, di fare politica. Per un aggiornamento sulla situazione Adriana Masotti ha sentito Riccardo Noury, portavoce e direttore della comunicazione per l’Italia di Amnesty International che sostiene la Campagna: 

R. – Intanto, questa ragazza – Malala – che ha festeggiato in Nigeria il suo 17.mo compleanno in questa maniera così coraggiosa ed eroica, merita tutta la riconoscenza del mondo. Ha fatto una richiesta precisa al presidente Jonathan Goodluck: di smetterla di tergiversare, di dare informazioni incomplete e a volte inattendibili. Ci avviamo ai 100 giorni dal rapimento delle ragazze ed è stucchevole vedere come non sia stato possibile avere informazioni certe o avere una strategia che porti al loro rilascio. E quindi, la situazione è grossomodo quella che Amnesty International denunciava all’inizio: una complicità e una connivenza che è qualcosa di un po’ più grave dell’impreparazione o della negligenza da parte delle forze di sicurezza locali; una catena di comando che non ha funzionato e oggi ancora un’incapacità da parte del governo nigeriano di prendere delle misure concrete che garantiscano il ritorno a casa in incolumità e sicurezza delle ragazze.

D. – Anche il vescovo di Maiduguri, la diocesi di cui fa parte il villaggio delle ragazze rapite, ha denunciato più volte interessi di gruppi di potere che regnano in Nigeria, la corruzione ecc… Ha detto: c’è qualcuno che appoggia queste milizie nell’esercito e nel governo …

R. – Sì: non meraviglia il contenuto di questa denuncia, perché se dall’inizio dell’anno Boko Haram è riuscito a fare terra bruciata in maniera indisturbata nel Nordest del Paese e ormai i morti sono alcune migliaia; se riesce a fare decine e decine di chilometri in carovana senza che nessuno lo fermi, entrare in un villaggio, prendere le ragazze e portarle via e rifare la stessa strada senza che nessuno lo ostacoli, è evidente che non agisce da solo. Certamente, la vita di 200 e più ragazze vale poco, così come vale poco la vita dei cristiani: ci sono persone che, a causa della loro fede, del loro genere, della loro voglia di studiare, sono al centro di questa offensiva spietata che non si riesce a fermare.

D. – Quale vita possiamo immaginare per queste ragazze, in questo periodo?

R. – E’ difficile poterlo dire… i resoconti che arrivano da parte delle ragazze fuggite, ricordiamo che si tratta, ovviamente, di ragazze traumatizzate, persone impaurite … però, da quello che si sa, i racconti sono di un misto di indottrinamento e di brutalità, con dichiarazioni di vendita delle ragazze, come se si fosse ad una fiera campionaria, come spose … Non sappiamo se sia andata così, non sappiamo quante siano andate fuori confine, acquistate come spose o come schiave. Tutto è nell’incertezza. L’unica cosa certa è che il governo della Nigeria dovrebbe fare molto di più e l’unica cosa certa è che le organizzazioni per i diritti umani non cesseranno di accompagnare la lotta delle madri delle ragazze ancora ostaggio.

D. – In Nigeria si fanno ancora manifestazioni. La Campagna internazionale #BringBackOurGirls cioè “portiamo indietro le nostre ragazze”, sembra invece un po’ caduta nell’oblio. Ma c’è, ad esempio, un appello on-line che si può ancora firmare, sul vostro sito …

R. – Sì: noi abbiamo già consegnato migliaia di firme a Roma, all’ambasciata della Nigeria, ma continuiamo a raccoglierle nella sezione “appelli” del sito amnesty.it. Per quanto riguarda il resto del mondo, quell’hashtag BringBackOurGirls era un hashtag molto emotivo. E’ stato bello vedere tanta gente che si è mobilitata. Poi, per una legge quasi inesorabile, l’attenzione cala, con il tempo, ci sono altre emergenze … E’ anche vero che le persone non possono essere attente a tutto, 24 ore al giorno; i governi invece dovrebbero esserlo: quello nigeriano così come quelli della comunità internazionale.

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Camera approva mozione per adozioni internazionali

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Le adozioni internazionali sono in calo generalizzato in tutto il mondo, a causa della crisi economica e non solo. La diminuzione più consistente degli ultimi anni si è registrata nel 2012, quando 3.016 bambini sono stati adottati rispetto ai 4.022 dell’anno precedente. Nel 2013 le adozioni andate a buon fine sono state 2.825. Negli ultimi tempi, inoltre, si sono ridotti anche i decreti di idoneità emessi per le coppie. In Italia, sulla scia del "caso Congo", la Camera nelle ultime ore ha trovato un accordo su una mozione condivisa che impegna il governo a un’attenzione più profonda sul tema, per avere un adeguamento delle risorse da destinare alla Commissione adozioni internazionali (Cai) e uno snellimento delle pratiche burocratiche per i genitori, come agevolazioni per i congedi parentali o facilitazioni fiscali per le famiglie che concludono il percorso adottivo. Secondo la deputata dell'Udc, Paola Binetti, con l’intesa “il Parlamento coglie in pieno la necessità di riconoscere il diritto di tutti i bambini ad avere una famiglia. Noi - aggiunge - difenderemo fino all'ultimo il loro diritto affinché la famiglia adottiva sia costituita da una sola mamma e un solo papà”. Giada Aquilino ha intervistato Paola Crestani, presidente del Ciai, Centro italiano aiuti all’infanzia, che dal 1968 si occupa di adozioni internazionali: 

R. – Negli ultimi anni c’è stato un calo considerevole delle adozioni. E alcuni dati che sono stati illustrati proprio l’altro giorno in Parlamento dicono che c’è un ulteriore calo anche quest’anno. Sicuramente è un trend che c’è da qualche anno e non solo a livello italiano, ma anche a livello internazionale: anzi, diciamo che questo calo è iniziato prima negli altri Paesi di accoglienza - così si chiamano - dei bambini adottati e poi ha interessato anche l’Italia.

D. – Quali sono le ragioni?

R. – Sicuramente ci sono delle ragioni positive e cioè una maggiore attenzione da parte dei Paesi di origine dei bambini alla situazione dei piccoli che vivono in questi Stati e anche una maggiore sensibilità rispetto all’adozione nazionale o comunque a trovare delle soluzioni nella terra d’origine; si tratta di soluzioni che sicuramente sono meno traumatiche dell’adozione, che - noi ricordiamo - deve essere l’ultima possibilità da prendere in considerazione per un bambino che si trova in stato di abbandono. Poi ci sono anche altri motivi, che magari sono meno positivi, come il fatto che ci sia una situazione anche nei Paesi di accoglienza che rallenta un po’ la disponibilità da parte delle famiglie ad accogliere bambini che, sempre più in questi ultimi tempi, sono bambini “con bisogni speciali”: cioè che hanno una età sempre più alta - mediamente in Italia l’età dei bambini adottati è di circa 6 anni - o che hanno problemi di salute o che arrivano in gruppi di tre o più fratelli… Bambini per i quali servono delle risorse particolari e quindi non sempre le famiglie sono disponibili o ce la fanno ad accogliere bambini con queste situazioni.

D. – Quindi ragioni connesse alla crisi economica in corso. Ma ci sono anche motivi che possono essere ricondotti, per esempio, alla messa in discussione del modello stesso della famiglia?

R. – L’Istat ci dice che in questo ultimo anno ci sono state meno nascite, da ricondurre alla crisi economica. Anche per le adozioni questo può essere vero. Sicuramente la famiglia, il modello di famiglia, in Italia sta molto cambiando, mentre non è assolutamente cambiato il modello di famiglia che può aspirare all'adozione: il modello di famiglia che può adottare è una famiglia che sia coniugata e che dimostri una convivenza di almeno tre anni. Queste sono le uniche famiglie in Italia che possono adottare in questo momento.

D. – La Camera ha trovato un accordo che impegna il governo ad un’attenzione più profonda sul tema: si punta a maggiori risorse per la Commissione adozioni internazionali, ma anche agevolazioni burocratiche. Di fatto che accordo è?

R. – E’ un accordo che impegna il governo ad una maggiore attenzione ed è anche significativo di un’attenzione del Parlamento rispetto alle tematiche delle adozioni. Noi siamo convinti che per migliorare tutto il sistema delle adozioni internazionali in Italia la questione delle risorse alla Commissione adozioni sia fondamentale. Essa ha il fondamentale ruolo di regia di tutto il sistema di adozioni internazionali nel Paese. Per quanto riguarda, invece, aspetti più normativi e legislativi, come Ciai noi siamo convinti che la legge attuale sia fondamentalmente una buona legge e che sia ancora valida, nonostante abbia qualche anno: l’ultima modifica è del 2001. Sicuramente c’è bisogno di qualche miglioramento e di qualche aggiornamento, però riteniamo che l’impianto generale della legge sia ancora valido tutt’oggi.

D. – Quindi cosa serve al momento, anche dopo il "caso Congo?"

R. – Dopo il "caso Congo", in particolare, il ruolo della Cai si è rivelato fondamentale. Il fatto di poter migliorare i rapporti internazionali e tutti i legami che ci sono con i Paesi di accoglienza dei bambini è determinante, ma questo non lo si può fare senza fondi. Va ricordato sempre, infine, che le adozioni internazionali sono e rimangono una risposta importantissima per i bambini che sono in stato di abbandono.

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Scuola, genitori contestano corsi promossi da associazioni Lgbt

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Preoccupazione e polemiche nella scuola italiana dove le associazioni LGBT (acronimo di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali), premono per attivare corsi di affettività e promuovere iniziative contro le discriminazioni di genere, con il sostegno dell’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, che ha già redatto un opuscolo “Educare alla diversità a scuola”, oggetto di aspre critiche. Roberta Gisotti ha intervistato Fabrizio Azzolini, presidente dell’Age, tra le più longeve associazioni dei genitori: 

Famiglie in allerta sulla cosiddetta questione gender, che sarà al centro di nuove Linee guida, annunciate entro settembre dal ministro dell’Istruzione Giannini, che venerdì scorso ha incontrato le associazioni Lgbt. Dott. Azzolini, che cosa temere in concreto?

R. - Noi dell’Age temiamo che nella scuola a settembre - dove il dirigente accetti questa forma di collaborazione con le associazioni Lgbt – vengano istituiti dei corsi non improntati ad educare i ragazzi alla vera affettività e all’accoglienza della persona ‘diversa’ ma che venga sfruttato questo canale per fare in realtà dei corsi di ‘becera sessualità’.

D. - Le associazioni dei genitori lamentano di non essere state coinvolte abbastanza, anche in passato…

R. - Oggi, la scuola ha preso una piega discutibile, ovvero, di interessare non le associazioni storiche dei genitori ma di rivolgersi alle associazioni Lgbt, che credo non abbiano nulla a che spartire con la scuola, non essendo riconosciute dal Ministero dell’Istruzione come associazioni di genitori.

D. - Ci si chiede pure perché queste associazioni Lgbt vengano coinvolte in ambito educativo non avendo competenze particolari…

R. - Le competenze particolari sono tutte da discutere e comunque non sono state avvalorate da alcuna istituzione scolastica e tantomeno dal Ministero. Ma in nome dell’autonomia della scuola e degli istituti, alcuni dirigenti si sentono autorizzati a fare queste sperimentazioni, ma noi non vogliamo che i nostri figli siano cavie di sperimentazioni che certi dirigenti intendono fare.

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S. Rosalia. Il card. Romeo: fede incompatibile con sistemi mafiosi

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“Registriamo la tristezza di essere troppo spesso cristiani anestetizzati". E’ un passo dell’omelia pronunciata ieri in Cattedrale dall’arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo nel pontificale in onore della patrona della città, Santa Rosalia. “Oggi più che mai non serve a nessuno un cristianesimo ‘annacquato’”, ha aggiunto il cardinale Romeo che ha ribadito l’incompatibilità tra fede e sistemi mafiosi. Il servizio di Alessandra Zaffiro

Con il rientro in cattedrale dell’urna argentea contenente le sacre reliquie di Santa Rosalia si è concluso il 390.mo Festino della patrona che preferì abbracciare la fede invece di sposare un nobile e nel 1624 liberò Palermo dalla peste. E forte riecheggiano le parole del cardinale Paolo Romeo, pronunciate ieri nel solenne pontificale in Cattedrale: “Siamo coscienti che la nostra fede è assolutamente incompatibile con i sistemi criminali e mafiosi che deturpano come pestilenze bubboniche il nostro tessuto sociale, rubando la speranza alle nuove generazioni?”. “Celebrando la nostra Santa Patrona – ha proseguito il porporato - ci chiediamo: abbiamo chiaro che essere cristiani significa essere determinati nella lotta contro il peccato? Sappiamo impegnarci a dire dei “no” alle logiche di sopraffazione, di ingiustizia, di illegalità, di violenza che nella nostra società ci vengono proposte come le uniche vincenti?”. “Abbiamo una patrona, una ‘prima cittadina’ – ha detto il cardinale Romeo - che ha dato priorità all’ascolto di Dio e alla preghiera: impariamo da lei! Mentre nell’essenzialità di Rosalia sentiamo il richiamo del primato assoluto di Dio e la bellezza dei valori autentici della vita che egli ci ha donato, registriamo anche la tristezza di essere troppo spesso 'cristiani anestetizzati', cristiani – come direbbe Papa Francesco – “di buone maniere e di cattive abitudini”. …. Oggi più che mai non serve a nessuno un cristianesimo ‘annacquato’!”.

Come da tradizione, in serata, l’arcivescovo di Palermo ha pronunciato il discorso alla città. Nel sottolineare che “Il compito di costruire il futuro della nostra città appartiene in primo luogo alle amministrazioni locali che hanno assunto l’impegno di guidare questa cittadinanza”, il cardinale Romeo ha ricordato “l’emergenza sempre più complessa e allarmante dei ‘senza casa’”,  “la piaga endemica della disoccupazione, specie quella giovanile, e il fenomeno del precariato che chiude orizzonti di speranza per le famiglie e reca sofferenza al futuro delle nuove generazioni, creando le condizioni per la diffusione della criminalità mafiosa”. “Rosalia – ha proseguito l’alto prelato - non è un talismano! La fede non è un tranquillante per le coscienze! Il Festino, come tutte le feste religiose e popolari, non serve a convincerci di essere a posto con noi stessi. Niente è più pestilenziale che continuare a credere che sia Dio l’unico delegato a risolvere i nostri problemi, e che a noi non sia affidata nessuna parte da compiere”.

L’arcivescovo di Palermo ha poi rinnovato “l’accorato appello alla responsabilità di ognuno. Per scoprire o riscoprire la solidarietà reciproca e il senso della comunione fra tutti i figli di Dio”. “Santa Rosalia - ha concluso il cardinale Romeo - deve implorare da Dio un cuore nuovo per questa Palermo! Un cuore nuovo per i palermitani! Un cuore di carne e non un cuore di pietra!”. Si chiudono così le celebrazioni del Festino in onore di Santa Rosalia che già lunedì sera ha riunito  300 mila persone tra devoti e turisti. Un suggestivo Festino, tutto al femminile, contraddistinto dall’attenzione verso i più bisognosi, nel segno dell’integrazione e del dialogo tra diverse confessioni: Monica Maimone, direttrice artistica e regista ebrea della manifestazione promossa dal Comune, ha scelto l’artista Thouraya Al Hanbale, libanese di religione islamica, per scandire il controcanto in arabo di una sezione dell’allestimento realizzato all’esterno della Cattedrale. Sessanta donne italiane e straniere tra operaie, sindacaliste, consiglieri comunali, imprenditrici e casalinghe, testimoni dell’impegno del loro ruolo nei vari ambiti della vita pubblica e privata, hanno poi trainato il carro della Santuzza lungo le vie del centro storico, fino al lungomare del Foro Italico, dove si è svolto il programma musicale del Festino. Sul palco canzoni, danze e parole di tanti artisti ma, soprattutto, il racconto di una Palermo al centro del Mediterraneo, crocevia di nuovi migranti che offrono alla Santuzza viaggi, futuro, speranza e sogni.

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Nella Chiesa e nel mondo



Mosul. Il califfato islamico nega aiuti a cristiani e sciiti

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I miliziani jihadisti dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante (Isis), che dallo scorso 9 giugno controllano Mosul e hanno proclamato il califfato islamico, hanno ordinato ai funzionari pubblici di sospendere ogni fornitura di aiuti in cibo e bombole del gas agli sciiti, ai curdi e ai pochi cristiani rimasti nella seconda città dell'Iraq. Lo confermano all'agenzia Fides fonti cristiane di Mosul, dopo che la notizia era stata rilanciata dal website arabo www.ankawa.com.

Secondo quanto riferito dal funzionario locale Fadel Younis, i rappresentanti del califfato islamico hanno annunciato che ogni infrazione del divieto verrà punita sulla base di regole attribuite alla Sharia. Nella città dell'Iraq settentrionale – confermano a Fides fonti del patriarcato caldeo – anche le case abbandonate dai battezzati vengono “segnalate” con la lettera iniziale della parola araba Nazarat (cristiano) e in esse si insediano occupanti sunniti fiancheggiatori del califfato. (R.P.)

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Acerac: messaggio dei vescovi in difesa della famiglia africana

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23 risoluzioni: tante sono quelle approvate dalle Conferenze episcopali della regione dell’Africa centrale (Acerac), al termine della decima Plenaria, svoltasi dal 6 al 13 luglio a Brazzaville, in Congo. Incentrata sul tema “La famiglia in Africa oggi”, l’Assemblea ha diffuso un messaggio conclusivo dedicato, appunto, alla difesa ed alla promozione del nucleo familiare, basato sul matrimonio tra uomo e donna e cellula fondamentale della società.

Dopo una premessa in cui i vescovi africani constatano la crisi che incontra oggi la famiglia, in particolare quella cristiana, a causa dei “contraccolpi provocati dai cambiamenti socio-culturali” e dal contesto contemporaneo segnato da “individualismo, utilitarismo, cupidigia” – tutti atteggiamenti in contrasto con “i valori familiari tradizionali” che si basano sulla “gratuità dell’amore” -, i presuli suggeriscono, quindi, ventitré risoluzioni.

Le prime dieci, accomunate dalla necessità di una preparazione adeguata al matrimonio ed alla vita familiare, propongono innanzitutto di “ristrutturare la pastorale delle famiglie”, armonizzando le diverse Commissioni diocesane che operano nel settore. L’Acerac punta, quindi, sulla formazione adeguata degli agenti pastorali impegnati in tale ambito, affinché le coppie di coniugi siano costantemente accompagnate dalla Chiesa nel loro percorso matrimoniale. E formazione adeguata viene richiesta anche alle stesse famiglie, perché – notano i presuli – “vivere in famiglia non è facile e non si improvvisa”. 

In ambito formativo, inoltre, la Chiesa dell’Africa centrale lancia un appello per l’educazione dei bambini: “La famiglia – si legge nel documento – è la prima scuola di valori; essa include l’educazione affettiva e sessuale, in cui si apprende la conoscenza ed il rispetto del proprio corpo”. 

Essenziale, poi, sottolinea ancora il messaggio dell’Acerac, la testimonianza delle famiglie, poiché “non c’è vita cristiana senza testimonianza”, e perché è proprio testimoniando la fede che “le famiglie cristiane evangelizzano le altre famiglie”.

La seconda decina di risoluzioni proposte dall’Acerac punta, invece, sulla dimensione spirituale della famiglia e ribadisce l’importanza di “quattro pilastri”: ascolto della Parola di Dio, partecipazione regolare all’Eucaristia, preghiera collettiva e invito alla comunione. Di qui, l’accento posto dai presuli africani sull’importanza di un “dialogo franco e sincero” in famiglia, accompagnato anche da una “auto-valutazione periodica”, durante la quale i componenti del nucleo familiare possano “tracciare un bilancio degli obiettivi raggiunti”, anche alla luce delle difficoltà incontrate. Una “pastorale familiare di conversione, perdono e riconciliazione”, inoltre, potrà fungere da volano per “un impegno alla riconciliazione” in tutto il continente.

Guardando, poi, ad alcuni aspetti tipici della realtà tradizionale africana, l’Acerac suggerisce di “restituire alla dote il suo valore simbolico iniziale”, ovvero “uno scambio di doni e un approfondimento di rapporti tra le famiglie”, affinché non sminuisca più “la dignità della donna, considerata come una merce”. Sullo stesso piano, i presuli pongono la necessità di una “pastorale attiva per i matrimoni misti ed interreligiosi”, che “spesso creano difficoltà alla coesione familiare ed all’educazione dei figli”. Per questo, si legge nel messaggio, è necessario “un discernimento adeguato, in particolare di fronte alla crescita degli estremismi”.

E ancora: in ambito spirituale, i vescovi africani invitano i fedeli a resistere alle sètte e alla stregoneria – fenomeni in crescita a causa della “grande disperazione economica, sociale, sanitaria, politica ed affettiva” - partendo da una formazione spirituale “solida” e da una “pastorale della razionalità”, che contrasti “la lettura fondamentalista della Bibbia”.

Infine, le ultime risoluzioni contenute nel messaggio dell’Acerac chiedono la promozione di una pastorale familiare che guardi alla “solidarietà” per le famiglie “economicamente fragili” a causa della crisi finanziaria. L’ultima risoluzione invita poi ad “iniziare un direttorio sulla catechesi della famiglia”, con percorsi triennali. “La crisi attuale della famiglia – concludono i vescovi africani – non va intesa necessariamente in senso negativo”, bensì come “un appello dello Spirito Santo a lavorare alla promozione ed alla ristrutturazione dei nuclei familiari, nella prospettiva della nuova evangelizzazione”. (A cura di Isabella Piro)

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250 vescovi dell'Africa orientale sulla nuova evangelizzazione

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Si apre oggi, nella capitale del Malawi, Lilongwe, la 18esima Assemblea plenaria dell’Amecea (Associazione dei Membri delle Conferenze Episcopali dell’Africa Orientale). Secondo le informazioni pervenute all’agenzia Fides, all’evento partecipano oltre 250 vescovi provenienti da Eritrea, Etiopia, Kenya, Malawi, Sudan, Tanzania, Uganda e Zambia (Gibuti e Somalia sono membri affiliati all’Amecea), che discutono sul tema “La nuova evangelizzazione attraverso la conversione e la testimonianza della fede cristiana”. Mons. Gabriel Mbilingi, arcivescovo di Luanda (Angola) e presidente del Secam (Simposio delle Conferenze Episcopali di Africa e Madagascar) rivolgerà un indirizzo di saluto ai partecipanti.

L’Assemblea plenaria è stata preceduta da una raccolta fondi organizzata dalla Conferenza episcopale del Malawi che ospita l’evento. I media cattolici locali (Radio Maria Malawi, Radio Alinafe dell’Arcidiocesi di Lilongwe, Radio Tigabane della diocesi di Mzuzu e Luntha TV) seguiranno i lavori dell’Assemblea, in modo da coinvolgere la popolazione del Paese. In particolare, Radio Maria Malawi trasmetterà in diretta streaming la cerimonia di apertura e quella di chiusura e una parte dei lavori assembleari. (R.P.)

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Papa in Sud Corea: on line il sito ufficiale della visita

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È on line http://popekorea.catholic.or.kr/ il sito ufficiale della visita di Papa Francesco in Corea del Sud, in occasione della 6a Giornata della gioventù dell’Asia. Il Santo Padre, dal 14 al 18 agosto, compirà il terzo pellegrinaggio internazionale del pontificato. Per l’occasione è stato allestito il sito web che può essere visitato, finora, in due lingue: inglese e coreano. Le pagine del sito, riferisce l’agenzia Fides, contengono numerose informazioni sulla visita, gli eventi, l‘organizzazione, le preghiere e le celebrazioni liturgiche. (R.P.)

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Vescovi Usa: no alla copertura sanitaria per la contraccezione

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I vescovi degli Stati Uniti esprimono la loro ferma opposizione alla nuova proposta di legge per la “Protezione della salute della donna dalle ingerenze delle aziende”. Il provvedimento, presentato nei giorni scorsi al Senato, risponde alla recente sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti (la Burwell contro Hobby Lobby Stores) che ha dato ragione a chi aveva chiesto di essere esentato per "motivi religiosi " dall'obbligo previsto dalla riforma sanitaria del Presidente Obama di pagare ai propri dipendenti la copertura assicurativa per la contraccezione.

In una lettera al Senato, il cardinale arcivescovo di Boston Sean O’Malley e l’arcivescovo di Baltimora William E. Lori denunciano il carattere liberticida della legge, le cui norme – affermano - potrebbero rimettere in discussione tutte le tutele giuridiche della libertà di coscienza e religiosa previste dall’ordinamento federale in materia di copertura sanitaria.

A cominciare dal Religious Freedom Restoration Act (Rfra), approvato all’unanimità con voto bi-patisan nel 1993. “Il Congresso non ha mai approvato una legge con lo scopo specifico di ridurre la libertà religiosa degli americani e non dovrebbe farlo nemmeno ora”, si legge nella missiva.

Inoltre, secondo i due presuli, essa si applicherebbe non solo ai contraccettivi, ma a tutte le prestazioni sanitarie minime fissate da leggi e regolamenti federali presenti e futuri. Se, ad esempio, l’Esecutivo decidesse in futuro di includere la cosiddetta “pillola del giorno dopo” nella lista dei servizi sanitari di prevenzione, i datori di lavoro non avrebbero alcuna possibilità di avvalersi della Rfra o di altre leggi federali che tutelano la libertà di coscienza. A questo - prosegue la lettera - va aggiunto che la legge si applicherebbe a tutti i datori di lavoro, non solo quindi alle aziende a scopo di profitto, e riguarderebbe anche i dipendenti.

In sostanza, concludono il card. O’Malley e mons. Lori , il provvedimento non può andare bene per una nazione che difende il principio della libertà religiosa. Né aiuterebbe ad estendere a tutti i cittadini la copertura sanitaria, come nelle intenzioni dichiarate della riforma voluta da Obama. Di qui l’appello ai senatori a bocciarlo. (C.G.)

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Indonesia. Tensione Widodo-Subianto: la Chiesa richiama all’unità

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I leader cristiani indonesiani - cattolici e protestanti - intervengono nella polemica politica innescata dai risultati, finora parziali, delle elezioni presidenziali che si sono tenute il 9 luglio scorso. A sfidarsi il governatore uscente di Jakarta Joko "Jokowi" Widodo, 53 anni, che sarebbe in vantaggio sul proprio rivale, l'ex generale Prabowo Subianto (62), sebbene anche quest'ultimo rivendichi a più riprese la vittoria.

I dati definitivi - riferisce l'agenzia AsiaNews - dovrebbero essere diffusi entro il prossimo 22 luglio e c'è grande attesa sul nome del prossimo capo dello Stato della nazione - e Repubblica - musulmana più popolosa al mondo. I due sfidanti, assieme ai vice Jusuf Kalla e Hatta Radjasa, hanno chiesto ai propri sostenitori ai seggi di controllare con attenzione il conteggio delle schede elettorali estratte dalle urne, per evitare brogli o manomissioni.

In un clima di tensioni, annunci di vittoria e reciproci scambi di accusa fra i due fronti, la Chiesa indonesiana interviene con una lettera ufficiale sottoscritta dalla Conferenza episcopale indonesiana (Kwi) e dal Sinodo delle chiese protestanti indonesiane (Pgi). Primi firmatari il presidente Kwi Ignatius Suharyo, attuale arcivescovo di Jakarta, e l'omologo Pgi, il pastore Andreas Yewangoe. I leader cristiani sono preoccupati per una possibile escalation di tensione e per un potenziale conflitto sociale tra la gente.

Per questo i vertici cattolici e protestanti lanciano un appello congiunto, in cui invitano la popolazione a "rimanere calma" e a non farsi prendere "dall'euforia" per possibili annunci di "vittoria" seguiti da "celebrazioni di piazza". Al momento, ricordano, "non vi è ancora un candidato vincitore" e non è tempo di festeggiamenti, perché bisogna aspettare "i risultati ufficiali della Commissione elettorale"; al contempo essi invitano i "fratelli cristiani e cattolici" di entrambi gli schieramenti a non cadere nelle provocazioni o rendersi responsabili di violenze.

Vescovi e pastori invitano la comunità a "preservare i valori dell'amore e della democrazia", evitando di scambiarli per interessi politici o per mero tornaconto personale. Da ultimo, essi rinnovano l'appello a scongiurare brogli e manomissioni ai seggi, perché il prossimo presidente e il suo vice possano davvero essere frutto del volere espresso dal popolo. (R.P.)

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Filippine: i vescovi sulla legge sulla salute riproduttiva

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Una “Guida pastorale” dettagliata per aiutare i cattolici a comprendere l’applicazione della legge sulla salute riproduttiva: a diffonderla sono i vescovi filippini, che proprio in questi giorni hanno tenuto la loro Assemblea Plenaria. Il documento arriva dopo che, l’8 aprile scorso, la Corte Suprema del Paese ha confermato la costituzionalità della normativa (Reproductive Health Law, Rh Law): fortemente osteggiata dalla Chiesa cattolica, con un dibattito durato ben sedici anni, la legge introduce metodi di pianificazioni familiare anche artificiali, come la contraccezione, nell’assistenza sanitaria pubblica, con l’obiettivo di fermare la sovrappopolazione.

Tuttavia, ad aprile la Corte suprema ha sì accettato l’impianto complessivo della legge, ma ha riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza da parte di singoli medici o di strutture sanitarie private.

Ora, dunque, i vescovi sentono di avere il  “dovere pastorale di offrire istruzioni a quanti operano in strutture sanitarie, pubbliche o private, in modo che possano conoscere le loro prerogative”, considerato la lunghezza della sentenza della Corte (ben 104 pagine) ed il linguaggio tecnico-giuridico in essa contenuto. Innanzitutto, la Chiesa di Manila sottolinea quanto evidenziato dalla Corte: l’aborto ed i farmaci abortivi sono proibiti dalla Rh Law. “Il diritto alla vita – spiegano i presuli – è basato sulla legge naturale, precede e trascende ogni autorità o legge umana”.

Quanto agli operatori sanitari che fanno obiezione di coscienza, la Chiesa filippina si appella al principio della “inviolabilità della coscienza umana” e sottolinea che un obiettore “non è obbligato e può rifiutarsi di informare un paziente sui luoghi in cui si possono ricevere i contraccettivi”. Tanto più che la sentenza della Corte afferma: se un obiettore dovesse fornire tali informazioni, “sarebbe complice di un azione per lui moralmente ripugnante ed offensiva”.

Altro punto essenziale del verdetto emesso dalla Corte Suprema riguarda la tutela degli obiettori impiegati in posti governativi: definendo “discriminatorio” l’articolo della Rh Law che obbliga i dipendenti dello Stato a non praticare l’obiezione di coscienza, la Corte ora permette loro tale opzione. “Naturalmente – aggiungono i vescovi – i cattolici non dovrebbero, in base all’etica, cercare lavoro in quelle agenzie governative che promuovono la contraccezione artificiale”. 

I vescovi, poi, ricordano quanto stabilito dalla Corte riguardo alle forme irreversibili di contraccezione, come la vasectomia o la chiusura delle tube: ora viene richiesto il consenso di entrambi i coniugi, contrariamente alla Rh Law che permetteva la scelta del singolo coniuge, “erodendo quella coesione familiare che lo Stato è obbligato, secondo la Costituzione, a tutelare e promuovere”. 

E ancora: in riferimento alle istituzioni educative private, i vescovi evidenziano che “la Corte riconosce il diritto di tali enti di esseri esclusi dall’applicazione della Rh Law, in base al riconoscimento della libertà accademica di educazione, specialmente riguardo all’ambito religioso”. Per questo, i vescovi sottolineano che “le scuole cattoliche non sono obbligate a diffondere la Rh Law”, ma devono “preparare i giovani ad essere genitori responsabili, sulla base della dottrina della Chiesa”.

Infine, la Chiesa di Manila invita le diocesi del Paese ad organizzare “seminari e simposi” per aiutare gli operatori sanitari cattolici a comprendere “l’importanza della sentenza della Corte” per l’attuazione della Rh Law. (I.P.)

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Cambogia: preghiera del vicario apostolico per la pace nel Paese

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È una preghiera particolarmente sentita quella innalzata da mons. Olivier Schmitthaeusler, Vicario apostolico di Phnom Penh, in Cambogia: nella newsletter del mese di luglio, che riporta le principali attività della Chiesa locale, il presule si rivolge al Signore e gli chiede di rivolgere il suo sguardo amorevole a “tutte le persone infelici, espulse dalla Thailandia e che vagano per le strade della Cambogia” e a “tutti i bambini costretti a mendicare”. Per loro, il presule chiede al Signore la gioia. Pace, invece, chiede “per le famiglie lacerate dai conflitti e dall’odio, per quei giovani che non trovano un senso nella loro vita e che corrono verso il guadagno effimero, la droga, l’alcool, la menzogna che distrugge la pace interiore”.

Un’altra parola invocata dal vicario apostolico è “verità”: “Guarda alla nostra società, Signore – scrive il presule – che non vede la miseria, né l’ingiustizia, che non si accorge di coloro che piangono e che hanno perso la loro dignità”. La preghiera, allora, è che la verità di Dio “illumini e risvegli i cuori addormentati”. Infine, mons. Schmitthaeusler invoca la misericordia del Padre per “tutti quelli che hanno perso il senso morale, il senso di Dio, e che vivono nelle tenebre del peccato”.

In Cambogia, la Chiesa rappresenta l’1% della popolazione, a fronte del 96% di buddisti. Superati gli anni della dittatura dei Khmer Rossi di Pol Pot, oggi la Chiesa cambogiana registra segnali positivi: a gennaio 2013, ad esempio, il Catechismo della Chiesa cattolica è stato tradotto in lingua cambogiana, divenendo un valido strumento, per tutte le comunità e associazioni di fedeli, per approfondire i contenuti del ‘Credo’ e della dottrina cattolica.

L’iniziativa si è tenuta in occasione dell’Anno della fede, che aveva visto anche la realizzazione del Congresso “Il Concilio Vaticano II e la Chiesa”, organizzato dal vicariato apostolico di Phnom Penh. Ai partecipanti era giunto anche un videomessaggio dell’allora Papa Benedetto XVI, il quale esortava i fedeli cambogiani ad essere “lievito nella massa della società, testimoniando la carità di Cristo verso tutti, intessendo legami di fraternità con i membri delle altre tradizioni religiose e camminando lungo le vie della giustizia e della misericordia”. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 197

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