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Sommario del 17/07/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Veglie di preghiere per la Terra Santa nel mondo dopo l'appello del Papa

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In risposta all’appello lanciato da Papa Francesco all’Angelus di domenica scorsa “a continuare a pregare con insistenza per la pace in Terra Santa”, in Italia, a Gerusalemme, Gaza e in altre parti del mondo, tanti fedeli si riuniscono questa sera in veglie di preghiera per spezzare la spirale della violenza, che non risparmia nemmeno i bambini. E’ una preghiera – come dice il Papa – che “ci aiuta a non lasciarci vincere dal male”, perché l’odio non prenda “il sopravvento sul dialogo e la riconciliazione”. Tra le molte veglie di preghiera, c’è quella organizzata a partire dalle 18.00 nella Basilica romana di Sant’Anastasia. Ascoltiamo il rettore, don Alberto Pacini, al microfono di Sergio Centofanti

R. – Come sempre rispondiamo immediatamente agli inviti che ci fa il Santo Padre, che è il nostro vescovo e che è pastore della Chiesa universale, consapevoli della gravità dell’ora presente, consapevoli dell’efficacia della preghiera: la preghiera di fronte al Signore è certamente un’arma potentissima alla quale noi dobbiamo credere molto di più.

D. – Ma in questo momento il male sembra più potente e la preghiera vana …

R. – Il male sembra sempre più potente perché fa la voce grossa. Ma proprio per questa ragione la nostra risposta deve essere adeguata e commisurata. E il Papa, giustamente, domenica ci ha fatto ben pensare quando ha detto: non crediate che la preghiera che è stata fatta qui in Vaticano sia stata inutile o vanificata. Perché ha portato frutti, frutti che noi non vediamo, frutti che da un’osservazione esteriore sfuggono allo sguardo. E comunque sia, se il male si intensifica, deve intensificarsi l’azione del bene. E quale azione è più efficace se non quella di chiedere a Dio che Lui intervenga? Lui ci dice: pregate, chiedete, bussate, cercate! E questo noi vogliamo fare e a questo noi ci disponiamo.

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Terra Santa. Mons. Miglio: la preghiera non è sconfitta

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Anche la diocesi di Cagliari ha promosso una veglia di preghiera per la Terra Santa per questa sera: si svolgerà sul sagrato della Basilica di Nostra Signora di Bonaria. Ce ne parla l’arcivescovo di Cagliari Arrigo Miglio, al microfono di Sergio Centofanti

R. – E’ una veglia di preghiera nata dal basso, non decisa dai vertici della diocesi. E’ nata proprio dalla comunità palestinese che abbiamo qui e anche dalle altre comunità immigrate che sentono sulla loro pelle il dramma che si vive in questi giorni. E questa iniziativa, venuta da loro, ci ha coinvolti, ci ha fatti anche un po’ arrossire, perché saremmo dovuti arrivare prima noi a proporre un’iniziativa specifica. Dunque, questa sera, davanti al piazzale della Basilica di Nostra Signora di Bonaria ci sarà questa veglia di preghiera e naturalmente il pensiero è andato subito a Papa Francesco e sono stati gli stessi promotori a proporre il piazzale del Santuario di Bonaria, ricordando proprio la visita dello scorso settembre di Papa Francesco. Devo dire anche che sia l’iniziativa, che è partita da un gruppo di immigrati, ma sia anche la risposta della diocesi, che ho visto in pochi giorni, è stata molto partecipata, è stata anche molto sostenuta dall’impressione dell’incontro avvenuto in Vaticano l’8 giugno scorso, con il Papa e i rappresentanti dei due popoli E’ un evento che ha segnato un po’ la coscienza e l’opinione pubblica, per due motivi. Primo, perché è stato un momento davvero inedito; secondo, l’apparente sconfitta della preghiera: questo ci interpella molto. E allora, questa sera sarà l’occasione anche per dire che la preghiera non è sconfitta.

D. – In molti denunciano la sproporzione della risposta israeliana ai razzi di Hamas …

R. – Sì: questo l’abbiamo già visto altre volte. Perché c’è una sproporzione tra le forze, c’è una sproporzione tra i due popoli … Quindi, la sproporzione è davvero grande ed è spietata. Chi sono i più piccoli, chi sono i più poveri, chi sono i più indifesi, lo si vede.

D. – Quali sono le sue speranze?

R. – La speranza è che ci si rimetta intorno ad un tavolo; la speranza è che tutte le istanze internazionali ce la mettano davvero tutta; la speranza è che molti di più capiscano che la pace in Terra Santa significa la pace nel mondo, e quindi la speranza è che ci sia questa consapevolezza e che il gesto del Papa non rimanga isolato. E’ stato un gesto che ha colpito tantissimo, sia perché è partito da lui, sia perché ha incontrato a casa sua i rappresentanti dei due popoli. E’ un filo di speranza che rimane: il gesto del Papa non è finito, non è soffocato. E le parole di pace che sono state dette anche dalle due parti, rimangono vere, sono un seme che abbiamo bisogno di coltivare.

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Il Papa a Caserta il 26 e 28 luglio. Il vescovo: dono grande

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Sabato 26 luglio, nel pomeriggio, Papa Francesco si recherà a Caserta: qui incontrerà il clero e poi, alle 18.00, celebrerà la Messa sul piazzale antistante la Reggia, nel giorno della Festa di Sant’Anna, patrona della cittadina campana. Il lunedì seguente, il 28 luglio, il  Santo Padre tornerà a Caserta in forma strettamente privata per visitare il pastore evangelico Giovanni Traettino, suo amico. Questo il commento del vescovo della diocesi, mons. Giovanni D’Alise, al microfono di Marina Tomarro: 

R. – Nove giorni sono pochini per poter preparare bene questa visita, però è un dono che viene dal Papa, è un dono grande. Noi lo accogliamo così, non tanto pensando alla preparazione esterna, ma cercando soprattutto di ricevere il Papa con l’affetto di figli perché è la visita di un padre che va a visitare i propri figli, nel giorno in cui sono in festa. E questo ci ha ricolmato veramente di gioia.

D. – Il 26 sarà la visita pubblica, mentre il 28 sarà quella privata. Per il 26 avete già fatto un programma?

R. – Il Papa arriverà davanti al Palazzo Reale, dove ci sarà la celebrazione. Prima ancora di celebrare, il Papa avrà un incontro di 45 minuti con i sacerdoti.

D. – Il Papa incontrerà anche i malati?

R. – Nella Messa riserveremo un settore proprio per tutti gli ammalati che potranno essere presenti.

D. – In che modo la città di Caserta si sta preparando ad accoglierlo?

R. –  ... io ho appena dato la notizia! Ma già era nell’aria la richiesta che il Papa venisse...

D. – Quali sono i frutti che lei si augura che questa visita di Papa Francesco porti a tutto il territorio casertano?

R. – Tutti sanno che quando parliamo di Caserta e della provincia e della diocesi, noi ci incontriamo con un fatto molto forte, e cioè che questa terra che vuole rimanere terra di lavoro, è anche la Terra dei Fuochi, la terra dove sono state sepolte tante cose. Ma questo non vuole polarizzare tutta la visita. La visita è alla diocesi, nella quale ci sono anche questi problemi. Io sono sicuro che il Papa, nell’omelia, toccherà anche questi punti, ma visti con l’occhio di chi celebra e partendo dalla festa che vivremo insieme.

D. – Invece, la seconda visita, quella del 28, è una visita privata, fatta ad un suo amico …

R. – Io ho raccomandato di aiutare il Papa a vivere questo momento di completa amicizia, cioè senza affaticarlo e senza ripetere lo stress di una seconda visita.

D. – Lei ha avuto occasione di poter parlare con il pastore che sarà visitato dal Papa?

R. – Ci siamo già sentiti, e c’è l’accordo che il Papa lo visiterà il giorno 28 ma sarà una visita al pastore, al reverendo Traettino.

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Tweet del Papa: la Chiesa è per sua natura missionaria

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Il Papa ha lanciato un nuovo tweet sull’account @Pontifex in nove lingue: “La Chiesa – scrive - è per sua natura missionaria: esiste perché ogni uomo e donna possa incontrare Gesù”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Tregue a tempo: in prima pagina, la crisi a Gaza e le trattative tra Israele e Hamas per un cessate il fuoco.

Il chiodo fisso: nel cinquantesimo della "Ecclesiam suam" di Paolo VI il commento di Daniel Rops pubblicato sull'Osservatore Romano del 13 settembre 1964 (ora riproposto, in occasione dell'anniversario dell'enciclica, nel volume di monsignor Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della Casa Pontificia).

Per una nuova cultura di cooperazione: intervento della Santa Sede a Ginevra.

In ascolto del soffio: Cristiana Dobner su un progetto coordinato dalla teologa argentina Azcuy.

Sull'autobus con Clive S. Lewis: Ferdinando Castelli spiega come si parla del Paradiso nella letteratura moderna.

La prima guerra mondiale nell'arte britannica, in una mostra a Londra.

Molto peso e poca luce: Timothy Verdon sulle nuove chiese del XII e del XIII secolo.

Per la prima volta il Praemium Imperiale a un africano: la consegna a Tokyo.

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Oggi in Primo Piano



Gaza. Tregua umanitaria violata, nessun accordo sul cessate il fuoco

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Conferme e smentite si alternano in queste ore sul futuro della pace in Medio Oriente che la comunità internazionale continua a sollecitare. Fonti israeliane annunciano un cessate il fuoco per la Striscia di Gaza con effetto da domani alle 6 ore locali, le 5 italiane, ma Hamas nega e parla solo di progressi. Tutto questo al termine di una mattinata di tensione per la tregua umanitaria violata dopo poche ore e dopo una lunga trattativa in corso al Cairo. Finora oltre 220 i morti a Gaza. Il servizio di Gabriella Ceraso: 

Tre proiettili di mortaio sono stati lanciati da Gaza sulla regione di Eshkol, che confina con il settore meridionale della Striscia. Così si è violata, ma senza vittime, la tregua umanitaria proposta dall’Onu a partire dalle 9 di stamane e accettata nella notte anche dal movimento radicale di Hamas. Fiato sospeso dunque, finché, a livello internazionale fonti israeliane diffondono la notizia di un accordo di cessate il fuoco raggiunto al Cairo tra le due delegazioni al lavoro in un albergo della città. La mediazione sarebbe quella egiziana in stretto contatto con gli Stati Uniti, come confermerebbe una telefonata tar il ministro degli Esteri egiziano, Shukri, e il segretario di Stato Usa Kerry. Ma la doccia fredda arriva pochi minuti dopo con l’annuncio di  Hamas che da Gaza nega tutto e poi corregge il tiro parlando di progressi e modifiche da apportare. Unico dato certo, per ora, sono 10 giorni di vioenze e oltre 220 morti a Gaza, gli ultimi i 4 bambini di ieri per i quali il presidente uscente isareliano Peres ha chiesto perdono pubblicamente.

 

Paura e sofferenza segnano in queste ore dunque la Terrasanta, ma la preghiera comune non si ferma, come testimonia al microfono di Gabriella Ceraso, Edoardo Stupino della comunità del Movimento dei Focolari a Gerusalemme di cui fanno parte israeliani e palestinesi: 

R. - Da parte palestinese - soprattutto coloro che abitano a Gaza  con cui siamo in contatto telefonico perché non si può né entrare né uscire - mancano tante cose e ci sono tante perdite umane. Quindi, non si vede una via d’uscita attualmente.

D. - Nessuno è andato via, è riuscito ad allontanarsi o ha voluto lasciare le proprie case?

R. - No. Dei nostri sono rimasti tutti, abitano lì, hanno famiglia da tanti anni.

D. - Le loro esperienze, su come riuscire a far in modo che l’odio non prevalga, le state raccogliendo?

R. - Sì. Loro cercano di non perdere lo spirito cristiano, malgrado la sofferenza e le paure, cercando di aiutare e di mettere in comune quel poco che possono avere, con le altre famiglie anche se sono musulmane.

D. - Invece, a Gerusalemme l’opinione, il clima che si respira, qual è?

R. - La paura degli ebrei è di avere un contesto intorno a loro che sia ostile. C’è tanta tensione, più del solito, che si riflette anche in una diminuzione, per esempio, dei pellegrini. Quindi, anche qui ci sono delle ripercussioni, anche se in un modo molto diverso.

D. - Il Papa ha chiesto in Italia, ma anche a Gerusalemme, di pregare per la pace. State organizzando o sono previste iniziative a riguardo?

R. - Ci sono iniziative, magari anche piccole. Ci sono, per esempio, incontri di preghiera comune tra le tre religioni; ci sono anche visite a livello personale per sostenersi e pregare insieme.

D. - In generale, qual è il vostro atteggiamento in questo momento? Qual è il vostro sentire ed il vostro auspicio?

R. - Sentiamo che il nostro aiuto deve essere soprattutto un sostegno morale e spirituale, in particolare per i giovani e per i bambini che non vedono vie d’uscita in questo momento.

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Iraq: jihadisti segnano le case dei cristiani. Preoccupazione del nunzio

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In Iraq è sempre più drammatica la situazione per cristiani, sciiti e curdi rimasti nelle aree del nord occupate dai jihadisti sunniti dell’Isis. La Chiesa irachena conferma che a Mosul i cristiani subiscono l’occupazione delle loro case e la sospensione di aiuti di prima necessità. Intanto le forze governative vengono respinte nel tentativo di riconquistare Tikrit, mentre il nuovo presidente del parlamento il sunnita Salim Jabouri ha annunciato che si recherà in visita a Teheran per colloqui con le autorità locali. Nel frattempo una delegazione iraniana si è recata ad Erbil per mediare un riavvicinamento tra il governo di Baghdad e la regione del Kurdistan. Ma sulla situazione dei cristiani a Mosul nel nord del Paese, sentiamo, al microfono di Marco Guerra, il nunzio in Iraq e Giordania, mons. Giorgio Lingua: 

R. – Qui la situazione è molto grave; appunto ai cristiani è stato chiesto di convertirsi all’Islam o di pagare la tassa per la religione imposta ai non musulmani oppure di lasciare la città. I vescovi – sia il vescovo caldeo, sia quello siro-cattolico sia quello siro-ortodosso – hanno chiesto ai fedeli di lasciare quanto prima la città.

D. – Ma i cristiani, a sentire quello che era stato detto precedentemente, erano tutti fuggiti nella Piana di Ninive. Quindi, invece, qualcuno era rimasto in città?

R. – Qualcuno era rimasto, quelli che non sapevano dove andare o gli anziani … Adesso, qualcuno in più sta uscendo, ma quei pochi che ancora non sanno dove andare rimangono. E infatti le loro case sono già state segnate con la scritta “proprietà dello Stato islamico”.

D. – Nella Piana di Ninive e nei villaggi che nel Kurdistan iracheno hanno accolto i cristiani, qual è la condizione sanitaria e anche umanitaria?

R. – La situazione è preoccupante perché le temperature sono molto elevate – sopra i 40° - in questo periodo, ed essendoci scarsità di acqua e soprattutto anche di elettricità, le condizioni sono veramente difficili. Per questo è necessario almeno scavare dei pozzi per trovare acqua potabile: la Caritas si è subito data da fare. Si è recata sul posto e ha fatto un’analisi della situazione, ora sta realizzando dei progetti e ha già iniziato a scavare dei pozzi.

D. – C’è ancora qualche chiesa o qualche esponente del clero che riferisce qualcosa dai territori occupati dall’Isil?

R. – Sì: ci sono ancora alcune famiglie di cristiani con cui si è in contatto. E ci sono ancora anche due monaci e un fratello, monaco anche lui, della Comunità di Sant’Efrem: sono nel monastero di Mar Behnam, che è a una trentina di chilometri da Mosul, però in territorio occupato dall’Isil. Dicono di stare bene in questo momento, hanno il permesso di uscire ed entrare però non so come si comporteranno adesso, con queste nuove disposizioni.

D. – Voi che cosa chiedete al governo? Quali saranno i prossimi passi?

R. – Al governo si chiede di far fonte all’emergenza umanitaria che si sta creando per la gente che lascia le case e deve lasciare tutto, senza prendere nulla con sé. Questo infatti è stato quello che hanno imposto: di partire immediatamente senza prendere niente perché tutto è di proprietà dello Stato islamico. Quindi, si chiede al governo di intervenire anche con aiuti umanitari.

D. – Temete una divisione dell’Iraq?

R. – Due giorni fa c’è stata l’elezione del nuovo presidente del Parlamento. Adesso si aspettano le elezioni del presidente della Repubblica, del nuovo governo … Se si optasse per la scelta inclusiva, si potrebbe evitare una tragedia; se ci sarà un governo inclusivo, quelli che hanno aperto le porte all’Isil, perché erano insoddisfatti della politica del governo centrale, potrebbero loro stessi reagire e non accettare questa imposizione che, sono certo, non piacerà a molti, anche tra quelli che sono in quel territorio.

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Sentenza Srebrenica, una sopravvissuta: ricordiamo i nostri morti

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Un tribunale di primo grado dell’Aja ha sentenziato che l’Olanda è “civilmente responsabile” della morte di circa 300 uomini e ragazzi di Srebrenica, l’enclave musulmana della Bosnia orientale dove quasi vent’anni fa i soldati serbo bosniaci uccisero almeno 8mila persone. I 300 uomini cercarono rifugio nella base dei caschi blu olandesi di Potocari, a 6 km da Srebrenica, ma il 13 luglio 1995 furono espulsi, trovando poi la morte per mano dei soldati serbi agli ordini di Ratko Mladic.

Ora Amsterdam, ha decretato la Corte, dovrà risarcire i parenti delle 300 vittime, perché i propri militari, “agendo in modo contrario alla legge” e pur consapevoli “della possibilità che quegli uomini avrebbero potuto essere vittime di un genocidio”, cooperarono nella loro “deportazione”. In carcere, intanto, rimangono sia Mladic, sia Radovan Karadzic, allora presidente della Repubblica serba di Bosnia. Nell’odierna Giornata mondiale della Giustizia penale internazionale, com’è stata accolta la sentenza dell’Aja? Risponde Mubina Civic, sopravvissuta di Srebrenica, che da anni vive in Italia. L’intervista è di Giada Aquilino: 

R. - Penso come tutte le vittime. Noi siamo vittime anche se siamo sopravvissuti. Con un po’ rabbia, con un po’ di tristezza. Non conosco il numero esatto delle vittime - 300 più o meno - però so che erano tantissime persone, perché come loro anche io sono stata in quella base degli olandesi. Penso – e i giudici si sono pronunciati in questo senso – che loro siano responsabili, però questa condanna non farà ritornare in vita quelli che non ci sono più.

D. - Cosa successe quel 13 luglio ’95? Come agirono le milizie agli ordini di Mladic?

R. - Sono stati divisi tutti i maschi e i bambini, dai 12 fino agli 80 anni, tutti civili. Sono stati separati da noi: da una parte gli uomini e dall’altra le donne e i bambini. Sono stati anche maltrattati davanti alle famiglie, poi sono stati uccisi dietro le fabbriche: sono stati accoltellati, abbiamo sentito tutti il rumore degli spari, il sangue scorreva come un fiume a Potocari. Lì adesso c’è un cimitero per le vittime.

R. - Le madri di Srebrenica si sono dette profondamente deluse da questo pronunciamento che c’è stato all’Aja. Perché?

R. - Perché sicuramente si aspettavano di più. Forse indirettamente quei militari olandesi sono colpevoli della morte di altre ottomila persone, perché è vero che non sono stati fisicamente lì, però potevano fare qualcosa, mettersi d’accordo prima che Srebrenica cadesse nelle mani dei serbi. Noi eravamo tutti disarmati.

D. - Il pensiero va quindi alle oltre ottomila vittime che ci sono state. Lei ha perso dei parenti...

R. - Ho perso tantissimi parenti. I miei sono stati uccisi, io avevo solo 13 anni e mezzo. Mio padre è stato ucciso nel bosco (nelle vicinanze di Srebrenica, ndr): è stato sepolto dopo 10 anni. Ho perso tantissimi cugini, zii... Mio fratello, che allora era un neonato, non aveva neanche un anno, nemmeno si ricorda di mio padre. Nella nostra famiglia siamo rimaste solo noi donne.

D. - In questi anni ci sono stati tanti pronunciamenti: il Tribunale penale internazionale dell’Aja, la magistratura olandese, la Corte dei diritti umani di Strasburgo. Sulla gente di Srebrenica che effetto hanno avuto?

R. – Tutto quanto possiamo chiedere, non potremo comunque riavere ciò che è nostro…

D. - Cosa spinge lei, la sua famiglia, i suoi connazionali ad andare avanti, oltre quella tragedia?

R. - Penso che ognuno di noi abbia voglia di vivere, di ricordare le persone care. Si vive, non si può per forza morire, però si può ricordare e si può chiedere di fare quello che non è stato fatto in quel periodo.

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Somalia: allarme carestia, 50 mila bambini in pericolo di vita

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Appello internazionale per la Somalia, dove si prospetta una grave carestia. L’Onu ha già chiesto un miliardo di dollari per soccorrere 850 mila somali affamati, 2 milioni di malnutriti e 50 mila bambini a rischio della vita. Ma dalla comunità internazionale sono arrivati solo 150 milioni di dollari. A lanciare un grido d’allarme è l’Associazione Migrare che stamane ha convocato i giornalisti nella sede della Federazione nazionale della Stampa italiana, a Roma. Roberta Gisotti ha intervistato la portavoce Shukri Said, giornalista somala: 

La Somalia non ancora pacificata, un Paese instabile e insicuro, percorso dal terrorismo del gruppo qaedista Al Shabab, dove le istituzioni statali sono fragili e il governo fatica ad affermarsi. Shukri Said:

R. – La situazione è davvero drammatica, perché c’è questo Stato che praticamente non c’è, e la popolazione che è da 22-23 anni in balia della sopravvivenza … In questo momento c’è una forte carestia, non meno grave di quella del 2011, ma che non viene denunciata con forza. L’Onu recentemente ha denunciato, ma non ha avuto eco, perché né la comunità internazionale né – forse – i governanti di questo esecutivo fragile, sorretto ed aiutato dalla comunità internazionale, vogliono mettersi in cattiva luce. Nel frattempo, la popolazione vive in condizioni drammatiche!

D. – Chi opera in campo umanitario, in questo momento, in Somalia?

R. – In realtà, dovrebbero operare quasi tutte le organizzazioni internazionali, comprese quelle delle Nazioni Unite, appunto, perché in Somalia ci sono istituzioni fragili, federali, non più transitorie, sorrette ed aiutate dalla comunità internazionale, in primis anche dall’Onu. Quindi, la comunità internazionale è consapevole del problema che sta attraversando la Somalia, però i media non danno sufficiente risalto a questo dramma umanitario: lo mettono in secondo piano. E quando le notizie non appaiono sui giornali e sui telegiornali, non sono considerate emergenze. Invece l’emergenza c’è, eccome!

D. – In realtà, la Somalia è un Paese in guerra: sappiamo della presenza del gruppo terrorista qaedista di Al Shabaab, che anche negli ultimi giorni sta facendo sentire le sue armi …

R. – La Somalia è un Paese in guerra: è in guerra con i terroristi affiliati ad Al Qaeda, che stanno insidiando la Somalia, stanno distruggendo il popolo somalo e impediscono sia agli aiuti umanitari di arrivare in determinate zone, dove si trovano loro, sia di giungere al governo: il governo, con le forze dell’Amisom, è in guerra con gli Al Shabaab. Però, mentre si fanno la guerra tra di loro, chi ci va di mezzo è la popolazione civile!

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Tifone nelle Filippine: oltre 30 morti, milioni di persone senza acqua e luce

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È di oltre 30 morti il bilancio del passaggio di un tifone nelle Filippine, che ha colpito la capitale Manila e altre zone al nord del Paese, mentre milioni di persone sono da due giorni senza corrente elettrica e acqua. Le autorità hanno iniziato le operazioni di rimozione dei detriti e di ricostruzione delle case danneggiate. Intanto, altre otto persone risultano tuttora disperse e diminuiscono col passare delle ore le possibilità di ritrovarle in vita. Dopo aver attraversato l'isola di Luzon, ora il tifone ha abbandonato l'arcipelago filippino e punta verso la Cina. Ma sulle attuali situazioni del Paese, Marina Tomarro ha intervistato padre Sebastiano D’Ambra, missionario del Pime, da 35 anni nelle Filippine del Sud: 

R. - Questo tifone nelle Filippine si chiama Glenda e ha colpito la parte nord del Paese e quindi la zona di Luzon, compresa Manila. La gente si è purtroppo abituata anche a queste cose. Quello che posso dire è che il governo si sta preparando sempre più a venire incontro a questi disagi: ci sono state diverse attività in quella zona perché avevano anticipato questo disastro e diverse città si sono organizzate. Quando il tifone è arrivato ha comunque provocato danni. La gente nei giorni precedenti non voleva lasciare le case, ma c’è stata pressione anche da parte del governo e questo è stato provvidenziale perché migliaia di persone sono state forzate ad uscire da certe zone. In questo modo i morti sono stati limitati.

D. - In questo momento come sta la popolazione che ha subito questo terribile tifone?

R. - Il popolo filippino è abituato a questi disastri e c’è un certo senso di fatalismo. Logicamente, in questo caso, i più colpiti sono stati i poveri. La popolazione reagisce ed abbiamo anche segni di solidarietà: è nello spirito e nella cultura dei filippini aiutarsi l’un l’altro, ma in questa situazione è molto più visibile. Questa è un’occasione per noi, ma anche per la Chiesa e per i gruppi di solidarietà, di sviluppare di più il senso di aiuto vicendevole. Anche il governo sta facendo sforzi maggiori a livello nazionale, spendendo capitale, formando la gente per essere un po’ più pronti. In questa particolare situazione ho sentito alcuni commenti tristi, perché il tifone è pur sempre una calamità, però anche commenti positivi e grazie a Dio con la precedente preparazione sono stati ridotti i disagi ed i problemi.

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Rom: il cardinale Vallini, superare la logica dei campi

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“Cercate di volervi bene innanzitutto tra voi, come il Signore fa con i suoi figli. Qui siete cattolici, ortodossi, musulmani: siate capaci di pregare l’uno per l’altro, riconoscendo Dio come nostro unico padre”. Ad affermarlo è stato ieri pomeriggio il cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, incontrando gli abitanti del campo rom “La Barbuta”, vicino l’aeroporto di Ciampino. Fabio Colagrande gli ha chiesto come sia stato accolto: 

R. – Come in tutti i campi che visito, dove sono questi fratelli e sorelle poveri ed emarginati, devo dire molto bene: con molto piacere, con molta gratitudine per questa visita e insieme anche con il desiderio di avere qualcuno che si interessi di loro, al di là di quella opportunità che viene offerta dalle istituzioni di avere un campo che di per sé sarebbe anche abbastanza dignitoso. E’ l’idea stessa di campo che andrebbe superata… Comunque, quello è uno dei migliori campi: ci sono delle casette attrezzate anche se purtroppo ormai comincia il degrado pure lì, perché non c’è il ritiro dei rifiuti, non c’è più la vigilanza…

D. – La logica dei campi, purtroppo, è quella della segregazione, dell’emarginazione: è questo ciò che va superato?

R. – Io non uso questi termini così forti di segregazione voluta; però, certo, si sentono degli emarginati, si sentono abbandonati. Le istituzioni, in particolare il Comune, spendono tanti soldi per accogliere queste persone nei campi, che esistono nelle categorie di vigilati, tollerati e abusivi. Questo era uno dei vigilati, però adesso non c’è più la vigilanza. E questo comporta certamente che mettere insieme tante etnie, anche tra loro in lotta nei Paesi di origine, fa sì che le relazioni non siano semplici. Bisognerebbe superare la logica dei campi, cioè pian piano inserire queste persone con una inclusione sociale che parta dal lavoro, relativo alla regolarizzazione del loro permesso di soggiorno. E poi pian piano entrare, come tutti, nelle graduatorie di chi ha diritto, secondo il rispetto delle norme, ad avere anche – un domani – la possibilità di una casa e forse anche di essere inseriti in altre attività lavorative. Noi, come diocesi, ci abbiamo provato con qualcosa di molto piccolo, simbolico, ma efficace: da tre anni abbiamo dato vita ad un Atelier Rom – così si chiama – in cui insegnamo l’arte della sartoria a delle mamme, le quali incominciano a fare qualche attività redditizia e remunerativa. E’ chiaro che è un’attività molto piccola però, per noi, rappresenta almeno un segno.

D. – E’ vero che queste persone hanno difficoltà a trovare lavoro a causa dello stigma che grava su di loro?

R. – E’ vero. Ho incontrato persone che hanno detto: “Io lavoravo; avendo saputo che ero uno zingaro – questo è il termine che hanno usato: a me non piace, questa espressione – mi hanno mandato via”. Non so se poi nei fatti corrisponda a verità, però a me è stato detto questo. E’ anche vero che questi fratelli e sorelle rom che girano per la città talvolta non si fanno accogliere per i loro comportamenti abusivi, di piccoli furti, eccetera. Tutto questo non aiuta. Però, c’è una cultura che non incoraggia l’inclusione sociale. Ed è quello che dobbiamo cercar di far superare: la comunità ecclesiale di Roma si impegna abbastanza, a questo riguardo.

D. – Come è stato l’incontro dal punto di vista umano? Quali parole ha rivolto loro?

R. – Molto cordiale, molto affettuoso: tutti ti vogliono offrire il caffè, i pasticcini… e sono felici di farlo, naturalmente! Poi, capita sempre che a qualcuno si cerchi di dare una mano com’è possibile. Quindi, molto molto buono.

D. – Un campo come “La Barbuta” rappresenta una di quelle periferie di cui parla spesso il Papa?

R. – Certamente. E’ una delle periferie; non è la peggiore, perché è un campo nel quale vivono 800 persone. Abbiamo campi più grandi. Certo, è una periferia e noi a settembre incominceremo un lavoro pastorale più diretto; la presenza della Chiesa lì è molto apprezzata.

D. – Come facilitare, dunque, l’inclusione di rom e sinti nella capitale? Quale atteggiamento deve avere nei loro confronti la popolazione della città e quale atteggiamento dovrebbero avere queste etnie, per facilitare l’incontro?

R. – Innanzitutto, bisognerebbe incominciare a livello di istituzioni a favorire la legalità e quindi a favorire, per esempio, la regolarizzazione dei permessi di soggiorno. E poi, ripeto, con iniziative anche piccole per favorire una cultura dell’accoglienza: per esempio, la scolarizzazione dei figli, incoraggiarla in ogni modo e offrire anche occasioni di piccole iniziative lavorative. E’ un lavoro che dovremmo fare un po’ tutti. Noi, come comunità cristiana, ci impegnamo. Lo stiamo facendo ancora poco, faremo ancora di più. Speriamo che anche tutte le altre istituzioni possano fare la loro parte.

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Italia: quasi 30mila i minorenni allontanati dalle famiglie

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Le esperienze e le storie dei minorenni allontanati in Italia dalle loro famiglie sono stati oggi al centro di un incontro con la stampa, svoltosi presso la Camera dei deputati e promosso da varie associazioni. Nell’occasione è stato illustrato il manifesto “#5 buone ragioni per accogliere i bambini e i ragazzi che vanno protetti”. Sui dati che riguardano i minorenni allontanati, Amedeo Lomonaco ha intervistato Liviana Marelli, del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca): 

R. – I minorenni fuori famiglia sono 29.388, di cui più o meno la metà, 14.991 sono in comunità, comunità educative o in comunità familiari; il restante, quindi 14.396, sono in affido familiare. La metà, esattamente 6.986, sono in affido a nuclei di parenti. Questi sono i numeri.

D. – Da questi numeri emerge anche che l’Italia è uno dei Paesi, in Europa, che meno ricorre all’allontanamento…

R. – Esatto. Il dire che in Italia si allontana troppo è una cosa statisticamente non vera. Questo non vuol dire che va bene allontanare. Bisogna sostenere la famiglie. Se stiamo sui dati, gli altri Paesi europei, simili all’Italia, ovviamente, quindi la Francia, la Germania, il Regno Unito e la Spagna, allontanano in ordine con questa percentuale: la Francia il 9 per mille, la Germania l’8 per mille, il Regno Unito il 6 per mille, la Spagna il 4 per mille, l’Italia il 3 per mille. Non è neanche vero che si allontana di più negli anni. Dal 2007 ad oggi, il numero dei minorenni è grossomodo questo, quindi non c’è un’impennata come a volte si dice. Dico solo che negli anni 60 i bambini nei cosiddetti orfanotrofi erano 250 mila. Quindi, non possiamo neanche dire che non si è fatto nulla per evitare l’allontanamento. Questi sono i dati. Peraltro, quando parliamo di ragazzi in comunità, dobbiamo anche ricordare che fra gli oltre 14 mila in comunità, 1.926 sono ragazzi in comunità ma con un procedimento penale, in quanto autori di reato. Allora andare dentro i numeri, secondo me, ci permette di capire e di stare in maniera più adulta su queste questioni, evitando ideologie o stereotipi.

D. – Che tipo di famiglie sono quelle coinvolte negli allontanamenti?

R. – Il primo dato che mi sembra importante sapere è che il 26%, e quindi uno su quattro dei minorenni allontanati, è allontanato d’urgenza, ma dalle forze dell’ordine, non dal servizio sociale o altro. Uno su quattro vuol dire che esce dalla propria famiglia perché è in conclamata situazione di maltrattamento, di incuria, di disagio. Poi, c’è quella che viene definita l’inadeguatezza genitoriale: si parla di grave trascuratezza, di grave negligenza, non è la normale fatica del vivere. Poi, ci sono abuso e il maltrattamento e il dato della povertà non è mai un elemento a sé stante: è spesso uno degli elementi che accompagna abuso e maltrattamenti, trascuratezza, grave negligenza, grave situazione di abbandono morale e materiale. Peraltro, l’abbandono morale e materiale è l’unico presupposto per la dichiarazione di adottabilità.

D. – Al fianco dei numeri ci sono anche le proposte: quali quelle principali in favore dei diritti dei minorenni?

R. – La prima proposta è proprio di costruire, finalmente, le linee guida per l’allontanamento ma anche per l’inserimento in comunità o in famiglia affidataria. Quindi linee guida: perché si allontana, quando si allontana, quando si deve fare, come si sceglie la risposta. E’ il tema dell’appropriatezza. Peraltro l’Onu ce lo chiede. Il secondo passaggio è: investiamo sull’infanzia, sosteniamo la famiglia. Oggi noi abbiamo un sistema di welfare assolutamente carente. Gli interventi a sostegno delle famiglie fragili sono sempre meno e poi ci meravigliamo se queste, alla fine, non ce la fanno più a crescere i propri figli. L’altro punto è che il piano nazionale infanzia sia finanziato, non sia il libro delle buone intenzioni. Sono un po’ queste le richieste.

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Compiono 20 anni le Suore del Bell'Amore

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Compie 20 anni l’istituto delle Suore del Bell’Amore, fondato nel 1994 a Palermo. In poco tempo si è diffuso in Sicilia, Campania ma anche in Germania. Sono suore infermiere, insegnanti, medici, assistenti sociali. In questo modo, portano la testimonianza della bellezza dell’amore di Dio in ogni ambiente professionale. Un’attenzione particolare è rivolta, poi, ai giovani che vengono aiutati a trovare la loro vocazione. Maria Gabriella Lanza ha intervistato la fondatrice suor Nunziella Scopelliti

R. - Siamo nate 20 anni fa. L’istituto si è diffuso quasi subito ed in questo momento siamo presenti in Italia a Palermo, Catania, Messina, in Campania a San Cipriano d’Aversa; in Germania a Monaco di Baviera. L’istituto non ha opere proprie, si tratta piuttosto di proposte di vita cristiana nell’icona della bellezza della comunione trinitaria, vissuta in comunità - nel caso delle religiose - in famiglia - nel caso degli sposi -  negli ambienti di lavoro, ovunque. Infatti, i tre punti fondamentali della spiritualità sono: la comunione trinitaria fra gruppi, associazioni, popoli di culture differenti nel rispetto delle distinzioni di ciascuno; poi, altro punto specifico è sicuramente la partecipazione alla vita di Maria. Inoltre, un altro aspetto forse molto particolare riguarda il corpo umano, la corporeità, una formazione umana integrale - sia spirituale che umana - che liberi in Dio tutte le potenzialità della persona. In un mondo che fa fatica a riconoscere anche la differenza inscritta nella natura tra uomo e donna, la scoperta del corpo umano nel suo mistero ci aiuta a cogliere molto meglio anche il senso della donna, dell’uomo e dell’amore.

D. – La vostra opera si rivolge soprattutto ai giovani...

R. – Lavoriamo tanto per aiutare le giovani ed i giovani a scoprire la loro vocazione, in qualunque direzione vada. Abbiamo a che fare con giovani di varie nazionalità; noi li aiutiamo a trovare la loro strada in un mondo che a volte snobba l’amore, oppure, lo intende nei modi più svariati... La proposta dell’amore come centro del mistero di Dio e del Vangelo diventa la possibilità di dare un senso alla vita che spesso perde il suo significato.

D. – Una delle vostre caratteristiche è quella di riuscire ad unire il lavoro con l’attività spirituale...

R. – Tra noi ci può essere una suora medico, una suora infermiera, una suora insegnante ... In fondo è una sfida, il tentativo di mettere insieme il lavoro professionale con la professione religiosa e questo ci permette due cose: da un lato ci permette di porci in libertà, nei momenti in cui facciamo la proposta evangelica agli altri noi siamo anche più liberi, perché lavoriamo per vivere; come San Paolo, che diceva che non voleva essere di peso a nessuno. Però, allo stesso tempo - grazie ai contatti personali, alle inevitabili relazioni di amicizia che si creano anche nei vari mondi del lavoro che raggiungiamo - finiamo per toccare situazioni e raggiungere ambienti che in nessun altro modo potrebbero essere raggiunti.

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Nella Chiesa e nel mondo



Terra Santa: tre missili vicino alla parrocchia cattolica a Gaza

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Si preparano a lasciare la Striscia di Gaza le tre suore dell'Istituto del Verbo Incarnato - tutte straniere - che operano presso la parrocchia cattolica dedicata alla Sacra Famiglia. “Nel pomeriggio di ieri, dopo le 17” riferisce all'agenzia Fides la brasiliana suor Laudis, “tre missili hanno distrutto una casa molto vicina alla parrocchia.

Nelle ore precedenti erano arrivate anche a noi telefonate da Israele con l'indicazione di lasciare le nostre dimore. Da alcuni giorni le Suore di Madre Teresa con i 28 bambini disabili e le nove donne anziane da loro accuditi si sono trasferiti nella parrocchia perchè lo ritenevano un posto più sicuro. E tutti loro rimarranno a Gaza, insieme al parroco padre Jorge Hernandez.

Dalle ore 10 - comunicano le fonti del patriarcato latino di Gerusalemme - nella parrocchia è iniziata l'adorazione eucaristica permanente e oggi verrà celebrata la Santa Messa “per implorare per tutti il perdono, la giustizia e la pace”. In brevi messaggi diffusi dall'Istituto del Verbo Incarnato, padre Jorge e suor Gladis descrivono con dettagli commoventi la condizione vissuta dalla piccola comunità cattolica e da tutta la popolazione di Gaza: “La cosa certa” scrive padre Jorge “è che i crimini si moltiplicano. I bambini piccoli che cominciano a ammalarsi per la paura, lo stress, le onde d'urto, il rumore continuo. I genitori fanno davvero salti mortali per distrarli affinchè tanta cruda violenza non li travolga, come giocare e saltare ogni volta che si sente un'esplosione, ballare, o semplicemente abbracciarli tappando loro le orecchie”. (R.P.)

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Centrafrica: dalla società civile le linee per uscire dalla crisi

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Disarmo delle milizie; invio di forze di pace formate da militari non appartenenti agli Stati confinanti; istituzione di un Tribunale Speciale per il Centrafrica; creazione di una Commissione “Verità e Riconciliazione”; rimpasto dell’attuale governo; organizzazione di elezione locali e nazionali. Sono questi i punti dello Schema per far uscire dalla crisi la Repubblica Centrafricana, elaborato dalle associazioni della società civile e dalle “forze vive” della nazione, i cui delegati si erano riuniti a Bangui nei giorni scorsi. Tra questi vi erano anche rappresentanti delle religioni del Paese.

Secondo lo Schema - riferisce l'agenzia Fides - la priorità immediata deve essere il disarmo degli ex ribelli Seleka, delle milizie Anti balaka e di tutti gli altri gruppi armati presenti nel Paese. Un altro punto importante è l’invio di una forza dell’ONU composta da soldati non appartenenti agli eserciti dei Paesi confinanti che attualmente sono presenti in Centrafrica con alcuni contingenti militari. Secondo diversi commentatori centrafricani gli Stati limitrofi agiscono soprattutto per difendere i propri interessi, come proteggere i loro confini con il Centrafrica, e non sempre sono in grado di apportare un contributo decisivo per stabilizzare il Paese.

Lo Schema prevede inoltre di punire i responsabili dei crimini commessi durante la guerra civile, che dovranno essere giudicati da un apposito Tribunale Internazionale che dovrà avere sede in Centrafrica. Ad esso si affiancherà una Commissione “Verità e Riconciliazione” incaricata di riconciliare gli animi della popolazione. Si prevede infine l’istituzione di un fondo per rifondere le vittime delle violenze. (R.P.)

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Camerun: Giornata di preghiera per la pace nel Nord

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Una Giornata di preghiera per la pace in Camerun e in tutti i Paesi in guerra. È l’iniziativa promossa questo sabato, 19 luglio, dall’arcivescovo di Douala, mons. Samuel Kleda, presidente dei vescovi camerunesi, per sensibilizzare i fedeli e la popolazione sulla crescente insicurezza nel Nord del Paese, dove dalla confinante Nigeria incombe la minaccia della setta islamista Boko Haram.

In tutte le parrocchie della capitale economica del Camerun – riporta il sito www.camer.be - si celebreranno speciali messe e processioni per invocare la protezione Dio contro le azioni del movimento terrorista, che continua a colpire in Nigeria, uccidendo alla cieca e sequestrando bambine e bambini, e dall’anno scorso ha iniziato a compiere incursioni e rapimenti anche nel Camerun settentrionale.

Tra le vittime - come si ricorderà - il sacerdote Fidei Donum francese Georges Vandenbeusch, rapito nel novembre 2013 e liberato a Capodanno, e i due missionari italiani don Gianantonio Allegri e don Giampaolo Marta, sequestrati lo scorso aprile, insieme alla suora canadese Gilberte Bissiere, e anch’essi rilasciati.

Una escalation che desta crescenti preoccupazioni tra i vescovi del Paese, in cui la convivenza tra cristiani (circa metà della popolazione) e musulmani (20-22%) e i rapporti interreligiosi sono in genere buoni e improntati alla collaborazione. In questo quadro si inserisce l’iniziativa di pace dell’arcidiocesi di Douala: “Vogliamo affidare il Camerun e tutti i Paesi in conflitto al Signore”, spiega una nota della Chiesa locale. “L’insicurezza che affligge le frontiere del Camerun, in particolare quelle con la Nigeria, sta creando una certa psicosi nella popolazione. In questa situazione la cosa migliore è affidarsi alle mani di Dio”. (L.Z.)

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Inghilterra: leader religiosi contro legge sul suicidio assistito

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“Una legge che consentirebbe a individui di partecipare attivamente a mettere fine alla vita di altri rafforzandone l’idea che non hanno più nessun valore. Questa non è la via da seguire per una società che vuole essere compassionevole e premurosa”. In un comunicato i più importanti leader religiosi della Gran Bretagna hanno lanciato un appello contro la legge sul suicidio assistito in discussione domani alla Camera dei Lords.

La legge Falconer, dal nome del promotore, permetterebbe ai medici di somministrare una dose letale di farmaci ai malati terminali con meno di sei mesi di vita e capaci di intendere e di volere. Le condizioni del paziente devono essere confermate da due medici. I contrari alla legge sottolineano come essa possa diventare il primo passo verso un allargamento del suicidio assistito anche a disabili e anziani senza che siano malati terminali.

Tra i 24 leader religiosi che chiedono ai loro fedeli di mobilitarsi contro il suicidio assistito anche il Primate cattolico, l’arcivescovo Vincent Nichols, l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, il rabbino capo delle congregazioni del Commonwealth Rabbi Ephraim Mirvis e i rappresentanti di tutte le religioni del Regno Unito. In questo momento, in Gran Bretagna, il suicidio assistito è vietato dalla legge ma non vengono incriminati i parenti che aiutano malati terminali a morire nella clinica Dignitas in Svizzera. (R.P.)

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Canada: Messaggio vescovi nel 50° dell’Unitatis Redintegratio

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Era il 21 novembre 1964 quando Paolo VI promulgava l’Unitatis Redintegratio, il decreto sull’ecumenismo frutto del Concilio Vaticano II. In vista del 50.mo anniversario di tale avvenimento, la Conferenza episcopale canadese ha diffuso un messaggio in cui si sottolinea che “a distanza di mezzo secolo, l’unità cristiana resta una priorità urgente”. “La preghiera del Signore per l’unità – si legge nel testo, a firma di mons. Paul-André Durocher, presidente dei vescovi canadesi – oggi non sempre viene esaudita; tuttavia, abbiamo compiuti passi promettenti sulla strada inaugurata dal Concilio”. In particolare, continua il messaggio, “negli ultimi cinquant’anni, sono stati compiuti progressi sostanziali sul piano della comprensione reciproca e della testimonianza comune”.

Quindi, mons. Durocher ricorda che nel 1965, appena un anno dopo la promulgazione dell’Unitatis Redintegratio, la Chiesa del Canada istituì quella che oggi è la “Commissione episcopale per l’unità cristiana, i rapporti con gli ebrei ed il dialogo interreligioso”. Tre gli obiettivi di tale organismo: “Stabilire rapporti con le altre Chiese e comunità ecclesiali del Paese; essere un punto di riferimento per l’attività ecumenica in Canada; sostenere l’ecumenismo a livello nazionale”. Non solo: nel 1998, la Conferenza episcopale canadese è stata la prima, al mondo, ad entrare a pieno titolo in un Consiglio ecumenico, come quello delle Chiese canadesi.

“L’ultimo mezzo secolo – continua il messaggio dei presuli – ha visto grandi cambiamenti nei rapporti tra i cattolici ed i ‘fratelli separati’ e questi sforzi ecumenici, fondati sulla preghiera di Cristo per l’unità, testimoniano una risposta generosa al decreto conciliare”. Di qui, l’auspicio che l’anniversario dell’Unitatis Redintegratio possa essere “l’occasione per rinnovare la determinazione dei cristiani ad essere uno in Cristo”, seminando nei cuori di ciascun credente “fiducia, umiltà, pazienza, pentimento e perdono”, per “guarire le ferite della divisione”.

Ricordando, infine, la preghiera ecumenica di Papa Francesco e del Patriarca Bartolomeo, celebrata nel maggio scorso nella Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, la Conferenza episcopale del Canada incoraggia ogni fedele ad “approfondire l’impegno personale e comunitario per l’unità”, sia “in famiglia che nelle parrocchie e nella collettività”. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 198

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.