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Sommario del 21/07/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Cristiani perseguitati in Iraq. Mons. Syroub: occupati anche monasteri

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Fratelli e sorelle “perseguitati”, “cacciati via” dalle loro case, “spogliati di tutto”. Sono i cristiani di Mossul, e in generale dell’Iraq, nelle parole del Papa, in occasione dell’Angelus domenicale. Il Pontefice ha pregato ancora una volta per la riconciliazione e la pace nel Paese in preda alle violenze e agli attacchi dei miliziani jihadisti dello Stato islamico. Il servizio di Giada Aquilino

"Un crimine contro l'umanità". Sulle persecuzioni dei cristiani di Mossul per mano dei miliziani jihadisti dell’Isil e dei gruppi armati ad esso legati interviene anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Dopo che nella seconda città d’Iraq è stato bruciato il palazzo episcopale dei siro-cattolici, nelle ultime ore gli estremisti dell’auto-proclamato ‘Califfato islamico’ si sono impossessati dell’antico monastero di Mar Behnam, vicino Qaraqosh, fino ad ora affidato ai monaci siro cattolici. Lo ha confermato l’arcivescovo siro cattolico di Mossul, Yohanna Petros Moshe, all’agenzia Fides. Sull’emergenza dei cristiani di Mossul, oggi è in programma ad Ankawa, vicino Erbil, nel Kurdistan iracheno, una riunione dei vescovi locali con diplomatici stranieri e politici del Paese. Mentre in tutto l’Iraq continuano le violenze e gli attacchi, con 16 vittime solo stanotte a Mahmoudiya e ad Abu Ghraib, sobborgo occidentale di Baghdad, la comunità cristiana d’Iraq appare sempre più a rischio sopravvivenza. Anche il primo ministro iracheno, Nuri al Maliki, ha rivolto un appello a tutti i Paesi del mondo perché "reagiscano uniti contro l'ultimo crimine dello Stato islamico, che ha espulso con la forza i cristiani da Mossul". E "immenso dolore per la sorte disperata di tante persone innocenti" è stato espresso dal cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, alla Messa celebrata ieri a Los Angeles in occasione della festa maronita di San Charbel e di Sant'Elia. Il porporato, che ha ricordato pure le sofferenze dei cristiani di Siria e di tutto il Medio Oriente, ha ricordato le parole di Papa Francesco subito dopo l’Angelus di domenica. “La violenza si vince con la pace”, aveva ribadito il Pontefice. Sulla preghiera del Santo Padre per i cristiani d’Iraq, la testimonianza di mons. Saad Syroub, vescovo ausiliare caldeo di Baghdad, che nei giorni scorsi aveva lanciato un vibrante appello di pace anche attraverso Aiuto alla chiesa che soffre:

R. - L’appello del Papa è venuto proprio nel momento giusto, perché sono davvero perseguitati: sono stati cacciati dalle loro case, dal loro territorio, dalla loro città solo perché sono cristiani! Una persona viene quindi maltratta e perseguitata per la sua religione, per la sua confessione.

D. - Queste famiglie cristiane adesso dove si trovano?

R. - Alcune sono andate verso nord, verso il Kurdistan; altre verso Erbil; altre ancora nei villaggi cristiani che si trovano nella piana di Ninive. Dunque sono vari i posti in cui queste famiglie si trovano oggi. Sono in una situazione molto difficile, perché non hanno niente: sono state derubate della loro macchina, dei loro soldi, della loro casa, del loro lavoro. E non possono tornare. Quindi la situazione è molto critica; c’è bisogno di un intervento urgente per aiutare tali famiglie a superare questa tragedia, questa sofferenza.

D. - Hanno saputo delle parole del Papa?

R. - La sofferenza è così grande nel loro cuore, nelle loro case oggi, che a volte non ascoltano tutte le notizie…

D. - Quindi attraverso di voi riceveranno questo pensiero del Papa…

R. – Certamente. La nostra è una responsabilità come preti, vescovi, autorità. Il nostro patriarca ha fatto più di un appello per calmare la situazione, che però è molto critica.

D. - Negli ultimi giorni è stato bruciato il palazzo episcopale dei siro-cattolici a Mossul. Anche a Qaraqosh il monastero - fino a ieri affidato ai monaci siro cattolici - è stato occupato dai jihadisti…

R. - Più di un monastero è stato derubato da questi gruppi, che hanno cacciato via i monaci. Hanno preso il monastero di San Giorgio, la Casa delle suore del Sacro Cuore, il monastero dei domenicani, il monastero dei siro-cattolici, che si trovano tutti a Mossul.

D. - Si può dire che la comunità cristiana è a rischio sopravvivenza?

R. - È a rischio sopravvivenza a Mossul, perché ormai nessun cristiano si trova lì, le poche famiglie che sono rimaste forse si trovano nei villaggi al confine con la città.

D. - I vostri appelli hanno avuto un riscontro presso le autorità? Ci sono contatti per permettere, in futuro, un ritorno di questa gente?

R. - La situazione politica è molto complicata. Il disaccordo che c’è tra i partiti politici rende difficile arrivare ad una soluzione per tutto il Paese, perché la soluzione per queste famiglie dipende - in qualche modo - anche dalla situazione politica in generale. Gli appelli non hanno ancora giovato in questo senso. Speriamo che le personalità politiche, anche ragionevoli, possano arrivare ad un accordo per mettere fine a questa tragedia. Tante famiglie hanno perso la speranza; sono disperate per il futuro e forse sceglieranno anche di non rimanere. Questo è il grande pericolo che noi affrontiamo oggi: la migrazione di questa comunità, o di ciò che rimane di questa comunità.

D. - “La violenza si vince con la pace”, ha detto il Pontefice. Come risuonano quindi queste parole in Iraq?

R. - Noi portiamo con responsabilità le parole del nostro Papa, perché sono le parole del Vangelo. Noi tutti siamo portatori e fattori di pace; vogliamo lavorare e vivere in pace con tutti i nostri concittadini. Però, purtroppo, questo fanatismo che è cresciuto nel nostro Paese rende difficile la convivenza pacifica tra le genti e noi vogliamo lavorare in questo senso. Abbiamo fatto tanti appelli. Ieri c’è stato un incontro a Baghdad tra musulmani e cristiani; abbiamo sempre questi contatti con la comunità moderata. Abbiamo rapporti, abbiamo amici che sanno che tutto ciò è sbagliato. Certamente noi coltiviamo questi rapporti pacifici, per costruire una convivenza sociale più giusta per tutti.

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Gaza. La strage continua: colpito ospedale. Il nunzio: fermare violenza

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In missione oggi al Cairo il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon, e il segretario di Stato Usa, Jonh Kerry, in cerca di un accordo per un cessate il fuoco a Gaza. Intanto è stata convocata per mercoledì una riunione straordinaria del Consiglio Onu per i diritti  umani dedicata alla crisi. E all’indomani della giornata più sanguinosa dall’inizio dell’operazione israeliana, il bilancio delle vittime è salito a 509 morti e oltre 3000 feriti sul fronte palestinese e a 20 morti, fra cui 18 soldati, in campo israeliano. Oggi è stato centrato dai bombardamenti anche un ospedale a Gaza: almeno 5 i morti. Il premier israeliano Netanyahu ha affermato con decisione: "continueremo fino alla fine". Il servizio di Marco Guerra: 

Mediare con la diplomazia egiziana e degli altri Paesi della regione interessati a fermare l’escalation delle violenze a Gaza. È quanto cercheranno di fare al Cairo il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon, e il segretario di Stato Usa, Jonh Kerry, con quest’ultimo che, in un fuori onda  televisivo, ha mostrato molta irritazione per i bombardamenti israeliani. E dal dipartimento di Stato Usa non nascondono infatti la preoccupazione per un'ulteriore recrudescenza del conflitto:  “Riteniamo debba esserci un cessate il fuoco il prima possibile, che ripristini l'accordo del novembre 2012”, ha insistito un portavoce di Washington. L’Egitto dal canto suo ha chiesto e ottenuto, per conto del Gruppo dei Paesi arabi, che mercoledì si riunisca il Consiglio dei diritti umani dell’Onu sulla situazione a Gaza. Intanto sul terreno proseguono le operazioni militari israeliane all’indomani del giorno più violento del conflitto, che ha visto 130 morti palestinesi e 13 israeliani. Non cessa anche il lancio di missili dalla Striscia su Israele: due quelli intercettati dal sistema di difesa dello Stato ebraico. E il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha garantito il sostegno del gruppo sciita libanese alla lotta di Hamas contro Israele.

Nel pieno delle violenze, ieri ha avuto vasta eco l’appello alla pace e al dialogo lanciato dal Papa all’Angelus. Parole commentate ai nostri microfoni dal nunzio in Israele e delegato apostolico in Gerusalemme e Palestina, mons. Giuseppe Lazzarotto: 

R. - Le parole del Santo Padre hanno avuto una grande eco qui e sono state riprese da tutti i mezzi di comunicazione ufficiali, sia la carta stampata come anche le radio e le varie emittenti. Tutti hanno rilanciato l’appello del Santo Padre. E’ quello che qui tutti ci auguriamo perché la situazione sta diventando veramente tragica: c’è una perdita di vite umane che non è accettabile, bisogna metter fine alla violenza perché così si creano altre situazioni di conflitto, si aprono nuove ferite che produrranno ancora morte. È urgente che quei responsabili capiscano che non c’è altra strada che quella del dialogo e del negoziato; le parti in causa devono essere aiutate e devono essere portate ad un tavolo di negoziato.

D. - La preghiera in Vaticano con Peres e Abbas e i vari appelli: il Papa sta ponendo la massima attenzione sulla situazione in Medio Oriente…

R. - La preghiera in Vaticano, il gesto del Santo Padre di invitare i due presidenti e la sua telefonata proprio a loro di qualche giorno fa, vanno tutte verso la stessa direzione che è quella di seminare. Quella che il Santo Padre ha fatto è una semina. Adesso, bisogna circondare questo seme di attenzioni, farlo crescere e far riprodurre i frutti che dovrebbe dare; capire il senso del gesto del Papa e tradurlo in azioni concrete come il Santo Padre sta chiedendo continuamente. Ci vogliono gesti concreti e coraggiosi, il Papa l’ha sottolineato tante volte: la pace ha bisogno di gesti coraggiosi. È ora che i responsabili politici di tutte le parti lo capiscano e si muovano in questa direzione.

D. - Come stanno vivendo israeliani e palestinesi… Qual è la sensazione, dopo molti giorni di escalation militare?

R. - Le persone sono stanche perché è una situazione che dura da troppo tempo. Questi fenomeni ricorrenti di conflitto creano naturalmente altra frustrazione, ma la maggior parte delle persone vuole la pace.

D. - La Chiesa di Terra Santa può giocare un ruolo decisivo per riavvicinare le parti?

R. - La Chiesa in Terra Santa fa tutto quello che è possibile fare: ci si muove con i mezzi che abbiamo a disposizione; adesso, si sta pensando anche a qualche iniziativa della Caritas per portare un aiuto immediato a queste popolazioni che sono direttamente colpite; si sta pensando a gesti concreti. Io vorrei cogliere qui l’occasione per accennare anche al fatto che molti pellegrini hanno cancellato il loro viaggio, il loro pellegrinaggio: però dico che venire in Terra Santa è anche un bel gesto di solidarietà. Aiuta sapere che altri cristiani - nonostante tutto - vengono qui.

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Pubblicato il programma della visita del Papa a Caserta

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Durerà poco più di cinque ore la visita che Papa Francesco compirà a Caserta sabato prossimo 26 luglio. La partenza dal Vaticano in elicottero - secondo il programma pubblicato dalla Sala Stampa vaticana - è prevista verso le 15.00. Tre quarti d’ora dopo, l’atterraggio nell'eliporto della Scuola Sottufficiali dell'Aeronautica Militare, presso la Reggia di Caserta. Alle 16.00 il Papa incontrerà i sacerdoti della Diocesi nel Circolo Ufficiali dell'Aeronautica, sempre nella Reggia. Alle 18.00 la Messa sulla piazza antistante la Reggia in occasione della festa di Sant’Anna patrona della città campana. Alle 19.30 la partenza. Il rientro in Vaticano è previsto alle 20.15.                                                                                                                                                                    

Due giorni dopo, lunedì 28, Papa Francesco tornerà a Caserta in visita strettamente privata per incontrare il pastore evangelico Giovanni Traettino, suo amico dai tempi di Buenos Aires.

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Rinuncia e successione in Brasile

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Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’Eparchia di Nossa Senhora do Paraíso em São Paulo (Brasile), presentata da S.E. Mons. Farès Maakaroun, M.S.P., in conformità al can. 210 § 1 del CCEO. Gli subentra nel governo pastorale dell'Eparchia S.E. Mons. Joseph Gébara, finora Coadiutore della stessa circoscrizione ecclesiastica.

S.E. Mons. Joseph Gebara è nato ad Amatour (Chouf) il 10 giugno 1965. Dopo gli studi istituzionali ha conseguito una licenza in filosofia all’Istituto Teologico Saint Paul di Harissa (1995) ed un master in teologia all’Institut Catholique di Parigi (1998), un diploma di studi approfonditi (DEA) in patristica (2000) ed un dottorato in storia delle religioni ed antropologia religiosa (2003) all’Università Sorbonne di Parigi.

È stato ordinato sacerdote per l’Arcieparchia di Beirut e Jbeil dei Greco-Melkiti il 10 luglio 1993. Dopo aver svolto il servizio pastorale nella chiesa Saint Elie di Dekwaneh (1993-1995), durante gli studi di specializzazione a Parigi ha collaborato nelle parrocchie di Saint-Julien-le-Pauvre (1996-1998) e Notre-Dame des Champs a Montparnasse (1998-2003). Ritornato in Libano nel 2003, è stato nominato parroco della chiesa Notre-Dame de la Délivrance di Hadath. E’ stato Decano della III circoscrizione dell’Arcieparchia di Beirut (2006-2011).

È stato docente in varie Istituzioni accademiche (Istituto Teologico Saint Paul di Harissa, Università Saint Joseph di Beirut, Università Saint Esprit di Kaslik, Università Antonina" di Baabda, Direttore dell’Istituto di studi islamo-cristiani dell’Università Saint Joseph). Nominato Vescovo Coadiutore dell'Eparchia di il 31 ottobre 2013, è stato consacrato il 21 dicembre successivo. Parla l’arabo e il francese e conosce le lingue classiche.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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La violenza si vince con la pace: per il Medio Oriente e l'Ucraina nuovo appello di Papa Francesco che esprime vicinanza ai cristiani iracheni costretti a lasciare le loro case.

Il problema del male nel mondo: all'Angelus il Papa spiega la parabola del buon grano e della zizzania.

"Scolpito nella pietra": Emilio Ranzato su "Il Vangelo secondo Matteo" di Pier Paolo Pasolini (usciva cinquant'anni fa) e  Lucetta Scaraffia su San Paolo a New York (scritto nel 1968 il film non fu mai girato).

L'Europa chiede accesso al sito del disastro aereo: Germania, Gran Bretagna e Francia auspicano la collaborazione di Mosca.

La luce dimorò in lei come in un occhio: Manuel Nin ed Emidio Vergani su Maria nelle pagine di Efrem il Siro e Severo di Antiochia.

Eco dell'armonia di Dio: Sergio Militello sulla Madre di Dio nell'innografia orientale.

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Oggi in Primo Piano



Ucraina: Kiev impone il cessate il fuoco nel luogo della sciagura aerea

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In Ucraina, sono 272 i corpi recuperati sul luogo dove la scorsa settimana è precipitato il Boeing-777 della Malaysia Airlines. Alcuni si trovano in vagoni ferroviari refrigerati alla stazione ferroviaria di Torez. Nel pomeriggio, all’Onu si discuterà di una risoluzione per un libero accesso all’area dopo le difficoltà dei giorni scorsi. Alcuni inquirenti olandesi, secondo fonti di stampa, sarebbero sul luogo della sciagura. Stamani, nell’area si sono verificati degli scontri tra i filorussi e l’esercito ucraino con quattro vittime. Il presidente Poroshenko ha ordinato lo stop delle operazioni nel raggio di 40 km dalla tragedia, mentre quello russo Putin ha invocato una soluzione negoziale. Al microfono di Benedetta Capelli, la giornalista Olga Tokariut della tv ucraina Hromadesk, raggiunta telefonicamente a Kiev: 

R. – Nonostante l’attenzione di tutto il mondo sia adesso concentrata sulla caduta dell’aereo, anche nei dintorni continuano i combattimenti tra le forze ribelli filorusse e le forze dell’esercito ucraino. Oggi, abbiamo sentito molte notizie secondo le quali a Donetsk, la città più grande di quella regione al momento occupata da separatisti, ci sono degli spari. Poi, anche un’altra città molto grande è Lugansk, che conta mezzo milione di abitanti, praticamente al confine con la Russia. Anche a Lugansk da giorni si continua a combattere e l’amministrazione della città dice alla gente di restare nelle case e di non uscire neanche in strada. Tantissima gente è già andata via da quella città, è scappata, perché si corre un grande rischio per la vita. Intanto, il governo e l’esercito ucraino dicono che i ribelli al momento si trovano in queste città. Dall’altra parte, i ribelli rispondono che è l’esercito ucraino che sta bombardando quei luoghi… Quello che voglio dire è che in realtà è difficilissimo capire che cosa succede, perché i giornalisti non possono lavorare liberamente, lì, perché rischiano di essere presi in ostaggio.

D. – Per quanto riguarda il Boeing, si parla molto di questa inchiesta: il premier ucraino Yatsenyuk ha detto che l’Ucraina è disposta a cedere il controllo dell’indagine anche all’Olanda…

R. – L’apertura del governo ucraino c’era dall’inizio. Il problema finora era che i ribelli non consentivano l’accesso agli esperti internazionali nella zona dov’è caduto l’aereo. Il territorio della catastrofe è molto esteso: pezzi dell’aereo e i corpi delle persone sono caduti in un raggio abbastanza ampio. Ci sono poi comunque molti timori che già il luogo della caduta sia contaminato, perché starebbero togliendo dall’area della catastrofe oggetti personali, pezzi dell’aereo… Sicuramente, sarà difficile per la comunità internazionale contare su un’inchiesta indipendente.

D. – Questa vicenda può isolare ancora di più Putin, che comunque è al centro delle critiche per quanto accaduto in Ucraina?

R. – C’è la percezione, certo, che Putin sia sempre più isolato. D’altro canto, non dobbiamo dimenticare che anche all’interno dell’Unione Europea ci sono voci più o meno discordanti nei confronti della Russia. Interessante sarà questo vertice di domani dell’Unione Europea: vedremo quale sarà il risultato e se ci sarà una decisione in merito all’imposizione di nuove sanzioni alla Russia.

D. – La vicenda del Boeing anche in Ucraina ha toccato molto la popolazione…

R. – Sicuramente. Per molti ucraini, nonostante negli ultimi mesi si stia vivendo una situazione di guerra – una guerra non dichiarata – è stato uno shock quello che è successo al Boeing, con la morte di 80 bambini innocenti, di tutti questi passeggeri che avevano nulla a che fare con questo conflitto. Anche i cittadini di Kiev e di molte altre città ucraine hanno espresso la loro solidarietà e il loro lutto: sono andati a mettere fiori all’ambasciata d’Olanda a Kiev, all’ambasciata della Malesia, all’ambasciata australiana… In molte città, si sono svolte preghiere per le vittime di questa tragedia. Per gli ucraini è stato uno shock come per tutto il resto del mondo. Circola un’opinione condivisa: che forse questa tragedia farà sì che il mondo sia più attento a quello che accade in Ucraina, delle minacce alla sicurezza non solo dell’Ucraina, ma a quella europea e mondiale.

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Immigrati. P. La Manna: se non li salva l'Europa è "barbara"

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Ennesime tragedie dell’immigrazione: alle 29 persone morte sabato scorso per asfissia sul barconeche trasportava 400 immigrati, soccorsi nel Canale di Sicilia, si aggiungono oggi i corpi senza vita di cinque migranti rinvenuti da mezzi della Marina militare nello stesso tratto di mare. Si devono prendere i migranti direttamente nei campi profughi nei vari Paesi dell’Africa e prevedere programmi di re-insediamento nel territorio dell’unione Europea: è quanto sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco, il presidente del Centro Astalli, padre Giovanni La Manna: 

R. – Noi non possiamo rassegnarci: queste situazioni ci obbligano a sperare sempre che l’Italia e l’Europa agiscano subito con dignità e, soprattutto, con giustizia. Queste morti pesano sulle coscienze di tutti, soprattutto di quanti hanno la responsabilità di governare i nostri Paesi e sono chiamati a tenere fede e a preoccuparsi di quelle Convenzioni che hanno firmato. Noi dobbiamo sperare che le coscienze di quanti rappresentano l’Europa – e mi riferisco a quelli che sono stati eletti, a quelli che ora discutono delle poltrone da dividersi – di ricordarsi anche che hanno una responsabilità nei confronti di tutti i cittadini europei. Agiscano subito per salvare chi sta scappando dalla guerra. Stiamo parlando di un gran numero di siriani che scappano da oltre tre anni di guerra: cosa ci impedisce di reagire, come Unione Europea, stabilendo dei canali umanitari sicuri? L’Europa, se non si sveglia, passerà alla storia come una civiltà barbara, capace di rimanere indifferente di fronte alla morte di donne e di bambini che scappano da una guerra.

D. – Facciamo proprio una sorta di radiografia di questa indifferenza, di questi impedimenti che non portano a trovare delle soluzioni. E’ colpa della politica? E’ colpa in parte anche degli europei? Quali sono le cause di queste mancate soluzioni?

R. – La fotografia esatta di quello che stiamo vivendo l’ha fatta un anno fa Papa Francesco, andando a Lampedusa. Globalizzazione dell’indifferenza, incapacità di piangere le morti di queste persone dicono la nostra povertà culturale e umana non solo come italiani, ma come cittadini europei. Questo è il nostro peccato: il nostro peccato vivere con indifferenza e vivere una povertà culturale e umana. Se fossimo veramente una realtà civile, ci preoccuperemmo di superare tutte quelle situazioni che impediscono di pensare, come prima cosa, a salvare la vita di queste persone. La distrazione, l’indifferenza di chi in campagna elettorale ci ha promesso un’Europa diversa non ha giustificazioni, non ha alibi.

D. – Ricordiamo in concreto le misure che sarebbero adeguate proprio per trovare delle soluzioni. Queste morti – come oggi purtroppo accade – continuano ad essere invisibili…

R. – Noi abbiamo fatto un mezzo passo: "Mare Nostrum" ancora una volta ci dimostra che è uno strumento che salva delle vite umane, ma non salva tutti. Sappiamo dove sono. Sappiamo anche che hanno un’autonomia di poche ore sui barconi. Sappiamo da dove partono. Cosa ci impedisce di andarli a prendere? Noi siamo complici dei trafficanti se consentiamo che queste situazioni ancora si verifichino.

D. – Quindi, andare a prendere i migranti e poi avere anche un progetto per il loro futuro…

R. – Andarli a prendere: l’Europa già prevede dei programmi che si chiamano di re-insediamento. Andare nei campi profughi, lì dove le persone si sono rifugiate in un primo momento, e portarle nei Paesi europei. L’Unione Europea stabilisca che tutti i Paesi devono preoccuparsi di questo. E allora si andrà nei campi, dove sono raccolte le persone, le si prende e in maniera progettuale le si distribuisce sul territorio europeo. E lo dobbiamo fare tutti insieme. L’Italia non deve più lamentarsi dicendo che l’Europa l’ha abbandonata, perché l’Italia è parte dell’Europa: noi italiani siamo Europa. Facciamo sì che l’Europa completi il mezzo passo di "Mare Nostrum": andiamo a prenderli! Finché manteniamo questa situazione, siamo incivili, siamo ingiusti e siamo complici di coloro che vendono i posti nei barconi anche nel vano motore, dove le persone possono morire asfissiate. E a morire sono donne e anche bambini.

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Sydney. Trapianto di midollo guarisce due uomini da Hiv

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A quattro giorni dalla morte di Joep Lange e di altri studiosi e attivisti nel campo della lotta all’Aids – uccisi assieme ad altre 298 persone sul volo abbattuto da un missile in Ucraina – dall’Australia, dove gli esperti erano diretti per partecipare alla Conferenza internazionale su questa patologia, è stata diffusa la notizia di due pazienti sieropositivi che, dopo aver ricevuto un trapianto di midollo, si sono ritrovati liberi anche dall’Hiv. Il servizio di Alessandro De Carolis

La notizia della speranza prende il posto di quella dello sconforto pochi giorni dopo e proprio dal continente dove uno dei giganti della lotta all’Aids, Joep Lange, era atteso ed è invece stato ricordato con un minuto di silenzio assieme agli altri colleghi scomparsi. A poche ore dall’apertura, ieri sera a Melbourne, della Conferenza internazionale sull’Aids – evento da 12 mila delegati di 200 Paesi – da Sydney è arrivato un annuncio di grande rilievo medico e clinico. Due australiani, affetti da Hiv e malati di cancro, dopo un trapianto del midollo spinale ricevuto all'ospedale St. Vincent's hanno visto scomparire dal proprio organismo anche il virus col quale lottavano da molti anni.

Uno dei due pazienti, colpito dal linfoma di Hodgkin, ha ricevuto il trapianto di midollo nel 2010 da un donatore che aveva due copie possibili di un gene che offre protezione contro l'Hiv. Il secondo paziente, che aveva ricevuto un normale midollo per trattare una leucemia mieloide acuta nel 2011, si è liberato anch’egli del virus, pur non avendo alcuna immunità genetica conosciuta.

I due pazienti – di cui non sono state rese note ancora le generalità – pur restando per cautela in terapia retrovirale risultano essere la seconda e terza persona al mondo ad aver sconfitto l'Hiv, dopo il caso dell’americano trattato con successo a Berlino tra il 2007 e il 2008.

Secondo i ricercatori dell’ospedale di Sydney dove i pazienti sono stati curati, i trapianti di cellule staminali adulte avranno un ruolo crescente nel trattamento dell'Hiv. Il loro direttore, Sam Milliken, ha sottolineato che “in questa fase”, tale forma di cura è ancora “troppo pericolosa per trattare pazienti di solo Hiv”. Tuttavia, ha ammesso, “vi è un potenziale per usare i trapianti con modalità efficace contro l'Hiv nel futuro”.

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45 anni fa lo sbarco sulla Luna. Battiston: Marte è la nuova frontiera

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“Ciascuno vi pensi a suo modo, purché vi pensi”, così Paolo VI all’indomani dello sbarco sulla Luna, avvenuto nella notte tra il 20 e il 21 luglio 1969. Parlando nell’udienza generale due giorni dopo la storica sorprendente impresa spaziale, Papa Montini rifletteva sui progressi scientifici che arrivano “a modificare la mentalità umanistica tradizionale”, quindi la nostra vita. Roberta Gisotti ha intervistato Roberto Battiston, presidente dell’Asi-Agenzia spaziale italiana, ordinario di Fisica sperimentale all’Università di Trento: 

D. - Prof. Battiston, lo sbarco sulla Luna ha risposto alle attese della comunità scientifica? Dopo 45 anni quale bilancio delle applicazioni che hanno contribuito al progresso dell’umanità?

R. – Di certo ha rappresentato un passo avanti importantissimo. Le tecnologie che sono state sviluppate in quegli anni hanno portato letteralmente una rivoluzione industriale; pensiamo solo ai microcomputer, agli orologi di precisione, e a tutto quello che oggi sembra banale nei nostri telefonini e che 45 anni fa non esisteva assolutamente. Questo sforzo industriale e tecnologico ha portato ad un progresso così grande che oggi è talmente presente che non ce ne rendiamo conto.

D. - Lo sbarco sulla Luna ha significato anche una rivoluzione nel modo di rapportare l’uomo allo spazio. Lei allora era un bambino. Quali ricordi ha di quella notte e delle sue emozioni?

R. - Chiaramente mi ricordo – come tutti gli italiani – la parole di Tito Stagno quando è atterrato il lander e quando Neil Armstrong ha messo per la prima volta piede sulla Luna. Quell’immagine ha riempito l’immaginazione e la fantasia di un numero grandissimo di persone, di bambini di allora, alcuni dei quali si sono dedicati a continuare questo sogno nello sviluppo delle attività  spaziali. Oggi lo spazio coinvolge a livello mondiale centinaia di migliaia di persone e rilevanti interessi: attività legate alle telecomunicazioni, all’osservazione alla Terra, allo studio dell’Universo e all’esplorazione planetaria, impensabili 45 anni fa. Questo è il progresso: ci si pone degli obiettivi ambiziosi ed una volta raggiunti ci si accorge di avere scatenato una serie di fattori positivi che portano l’intera umanità a fare dei passi avanti davvero rilevanti.

D. - Dopo la Luna oggi si guarda a Marte, ma non si prevede lo sbarco dell’uomo ...

R. - In realtà questo sarebbe il grande sogno. Le difficoltà che ci aspettano sono molto grandi. Lo spazio non è un ambiente favorevole all’uomo: l’uomo vive benissimo sul pianeta Terra, la sua grande astronave. Ma, se vuole staccarsene per andare ad esplorare altri satelliti o pianeti deve armarsi di tutta la sua capacità tecnologica per proteggersi. Marte richiede un viaggio tra andare e tornare più un periodo di esplorazione del pianeta che probabilmente raggiunge e supera i due anni. Non abbiamo esperienza di periodi così lunghi nello spazio. L’affidabilità, la complessità dei sistemi e il grado di sicurezza che dobbiamo assicurare agli astronauti che facessero una missione del genere richiedono ancora molta ricerca e molto sviluppo. Ecco perché Marte è sempre a 30 anni da oggi, dove il tempo passa, ma Marte è sempre lontano. Bisogna però riconoscere che si stanno mettendo in moto degli interessi e delle capacità tecnologiche esecutive straordinarie, che probabilmente potrebbero ridurre questi tempi. Ci sono Paesi come la Cina, che ha un piano spaziale molto ambizioso, ma anche nuovi Paesi come gli Emirati Arabi, per non parlare dell’India o del Giappone che stanno spingendo molto nella direzione dell’esplorazione planetaria del sistema solare. Potrebbero questi nuovi soggetti – se coordinati opportunamente – portare ad una riduzione dei tempi per poter fare un viaggio sul Pianeta rosso. Certamente è la nostra nuova frontiera. L’uomo non smetterà mai di sognare e Marte è il sogno di oggi.

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"Campioni d'Italia", storie e difficoltà di atleti immigrati

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E’ in libreria il libro “Campioni d’Italia? Le seconde generazioni e lo sport”, scritto da Mohamed Abdalla Tailmoun, Mauro Valeri, Isaac Tesfaye per le edizioni Sinnos. Un volume affronta il tema della cittadinanza attraverso le storie di 100 campioni nati in Italia o arrivati da piccoli nel Paese e costretti a vivere sulla loro pelle molte difficoltà. Benedetta Capelli ne ha parlato con uno degli autori, Isaac Tesfaye

R. – "Campioni d’Italia" è un libro che racconta la storia di una grande ingiustizia che sta vivendo una parte importante di giovani del nostro Paese, ovvero le seconde generazioni. Parliamo di tutti quei ragazzi figli di immigrati che sono nati in Italia, che hanno frequentato le nostre scuole e che nella maggior parte dei casi non conoscono neanche la lingua dei propri genitori. Eppure, sono costretti a girare con il permesso di soggiorno almeno fino all’età di 18 anni. Poi, per loro si apre una piccola finestra di un anno – che va dai 18 ai 19 anni – che loro devono riuscire a cogliere, altrimenti sarà tutto molto complicato.

D. – Sono esattamente 100 storie di campioni. Ce n'è qualcuna in particolare che vuoi segnalare, che ti ha colpito e che è forse anche emblematica della sofferenza che questi campioni vivono?

R. – Si tratta di atleti che sono più o meno celebri, a partire da un atleta simbolo delle secondo generazioni ovvero Mario Balotelli. Senza dimenticare che Balotelli ha avuto, però, le sue enormi difficoltà, almeno fino all’età di 18 anni. Accanto a un atleta come Balotelli, mettiamo anche tante altre storie. Una particolare è quella del mezzofondista Marco Najibe Salami: nato nel Mantovano, a 18 anni non è riuscito ad avere la cittadinanza per problemi burocratici. Avendo lasciato gli studi per la carriera di atleta, si è trovato costretto a passare l’estate a lavorare in campagna, perché altrimenti sarebbe finito tra gli irregolari. C’è poi una storia incredibile di un canoista, Jirivalske, che arriva in Italia subito dopo la caduta del Muro di Berlino e che per problemi identitari e una cittadinanza che non arriva intraprende un viaggio incredibile in motorino per ritornare nella sua patria – lui veniva dall’ex Cecoslovacchia. Accanto a questi, anche le storie di chi invece la cittadinanza la sta ancora aspettando, come Yasser Rashid, nato a Casablanca negli anni Novanta e in Italia dal 2004: lui è uno dei migliori mezzofondisti che ci sono in Europa e che vengono tentati ogni giorno da Paesi che magari danno il passaporto con maggiore facilità.

D. – Questi ragazzi come raccontano la sofferenza vissuta? In che termini?

R. – Quello che ci dicono è di sentirsi leoni in gabbia, perché tutto questo è paradossale: possono correre e gareggiare, però poi alla fine quando si tratta dei risultati vengono comunque esclusi, perché gareggiano anche nei campionati italiani in quanto stranieri.

D. – Tendenzialmente di quante persone stiamo parlando, almeno per quanto riguarda l’ambito sportivo?

R. – Per quelli che riguardano le seconde generazioni, noi abbiamo in questa situazione oltre 600 mila ragazzi in Italia – nati in Italia da genitori stranieri e senza cittadinanza – almeno secondo l’ultimo censimento fatto dall’Istat. In ambito sportivo, invece, sono sicuramente migliaia… Dal punto di vista delle Federazioni, c’è l’interesse a lavorare caso per caso: abbiamo un fenomeno, ce lo teniamo. Per tutti gli altri, se non trovi una società alle spalle che ti supporta, le famiglie molto spesso non ce la fanno. E’ ovvio che sei poi costretto a lasciare e noi perdiamo un grandissimo bacino di ragazzi potenzialmente validi. Se noi pensiamo anche al discorso che facciamo oggi ad esempio nel calcio, della crisi che c’è stata dopo l’eliminazione dai Mondiali, e ci chiediamo da dove ripartire, un modo importante potrebbe essere proprio quello di aprire alle seconde generazioni e a questi ragazzi. Non dimentichiamoci che la Germania lo ha fatto nel 2000 con una legge che dà la cittadinanza ai ragazzi nati da un genitore che risiede in Germania da almeno otto anni: la Germania, da quel momento in poi, ha avuto una crescita esponenziale negli ultimi anni di presenza di seconde generazioni all’interno della loro nazionale. Non vogliono sentir parlare di naturalizzati! Dirigenti federali, come Oliver Bierhoff, che dicono: “Noi non abbiamo quelli che voi definite gli oriundi, noi abbiamo tedeschi, veri e proprio tedeschi di seconda generazione”.

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Oratori e "Grest": l'estate con un'anima di molti ragazzi italiani

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Il progetto “Cre grest” delle diocesi lombarde consiste in un sussidio fornito alle parrocchie per organizzare le attività estive: un tema di fondo lega giochi, canti, balli e anche riflessioni. Quest’anno l’attenzione va sul tema dell’abitare, declinato in più sfumature: dall’accoglienza del diverso alla custodia di quanto già presente in uno spazio. Un’iniziativa attiva già da anni che, nata come aiuto per la pastorale, è diventata punto di riferimento per le famiglie nell’assistenza dei ragazzi nei tre mesi di vacanza. Paolo Giacosa ne ha chiesto i particolari a Gabriele Bazzoli, referente “Cre Grest” per la Diocesi di Brescia: 

R. – Il progetto “CreGrest” è un’occasione delle diocesi lombarde per lavorare insieme e per costruire l’estate dei ragazzi, soprattutto dei bambini delle elementari ed i ragazzi delle medie, con gli adolescenti che sono un focus importante del nostro progetto: in gran parte delle nostre parrocchie fanno gli animatori, cioè aiutano i bambini ed i ragazzi a vivere bene l’estate in oratorio. Le diocesi lombarde sono abbastanza simili rispetto al Grest: in quasi tutte le parrocchie ed oratori d’estate viene offerta questa opportunità, che dura normalmente dalle tre alle cinque settimane ed è un momento in cui i bambini possono giocare, vivere insieme i momenti di preghiera e di animazione legati da un tema particolare. Lo svolgimento del progetto, infatti, prevede un sussidio piuttosto ampio: la storia del Grest, alcune attività, giochi ed una parte tematica sviluppata per integrare il progetto; inoltre, ovviamente, i canti ed i balli che fanno parte del colore che assume ogni estate. Quest’anno abbiamo scelto come tema “Piano terra: il tema dell’abitare, dello stare insieme in un luogo”, tema che va a concludere una trilogia de “l’incarnazione”: abbiamo fatto il percorso dell’inizio del Vangelo di Giovanni. “In principio era il Verbo”, il primo anno di questa trilogia è stato dedicato al tema della parola – “Il Verbo si è fatto carne” – quindi l’anno scorso il tema del Grest è stato il corpo. Poi, “è venuto ad abitare in mezzo a noi”, infatti, quest’anno il tema è l’abitare. Tema molto bello anche perché oggi l’abitare parla dell’inclusione sociale, della presenza di tante persone anche di estrazioni e di provenienze diverse nella stessa terra, nello stesso mondo, nello stesso oratorio. Scopriamo le dimensioni di questo abitare che in primo luogo, senz’altro, significa l’imparare ad entrare: entrare è bello o brutto a seconda di come siamo accolti, di come siamo attesi e di cosa c’è pronto per noi . Poi hanno vissuto i due temi paralleli del custodire e del costruire e, infine, il tema conclusivo dell’ultima settimana di Grest è quello dell’imparare a uscire, cioè lo scoprire che ogni luogo che abitiamo non è fatto per noi per sempre ma è una tappa del nostro viaggio.

D. – Molti oratori organizzano nel periodo estivo campeggi ed animazione in parrocchia. Un grande aiuto offerto alle famiglie per l’assistenza dei ragazzi…

R. – Senz’altro. Se la nascita del Grest era stata un’occasione un po’ pionieristica di sperimentazione pastorale; oggi, i Grest e i campi, sono occasioni di risposta ad un bisogno sociale. Ci si accorge che le famiglie non hanno opportunità di avere occasioni per i propri figli nei tre mesi estivi. Quindi, le quattro settimane di Grest e le due settimane di campo estivo spesso diventano davvero un aiuto grande per le famiglie. Certo, il rischio è di ridursi solo al servizio sociale di risposta al bisogno. Invece, l’idea di aver costruito una progettazione piuttosto ampia vuole rende questo tempo non un tempo da riempire ma un’occasione per scoprire dei valori e per fare nuove amicizie.

D. – I vostri sussidi suggeriscono giochi e balli, ma il tema di fondo è sempre molto importante. E’ difficile coniugare il divertimento con la trasmissione di valori, anche cristiani?

R. – Credo proprio di no. Partiamo da un primo riferimento: ciò che è cristiano è specificamente qualcosa che è umano e, se vogliamo, ciò che è umano è qualcosa che si deve sperimentare e il primo modo che l’uomo ha per imparare a conoscersi è proprio il gioco. Ci piace raccontare agli animatori che il modo con cui i bambini diventano grandi è giocando: io scopro di essere più veloce o più lento di un altro, più intelligente o meno intelligente, più o meno bravo a fare gruppo… Questa è la prima base per provare a capire chi sono io. Il Grest ha come caratteristica quella di dare tante opportunità diverse, tanti giochi diversi e lo scoprirsi bravo in qualcosa è una prima grande occasione perché uno possa dire: “Allora valgo, sono importante”. Secondo quella che è stata l’intuizione originaria di don Bosco: “Anche il più piccolo dei talenti che tu hai è importante per me perché è un dono di Dio”.

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"Finis Terrae": il dramma dei migranti alla Festa del teatro di San Miniato

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Repliche fino al 23 luglio per il dramma popolare: “Finis Terrae”, nell'ambito della Festa del Teatro di San Miniato, in Toscana, quest'anno alla sua 68.esima edizione. Il testo dedicato al tema attualissimo dell'immigrazione in Italia via mare e scritto da Gianni Clementi con la regia di Antonio Calenda, è interpretato da attori noti come Nicola Pistoia e Paolo Triestino e da 9 giovani africani, alcuni dei quali musicisti. In scena parola e suono coinvolgente di tamburi si alternano per dare conto della sofferenza e della speranza di quanti cercano una vita più degna. L'opera è frutto della coproduzione tra Fondazione Istituto Dramma popolare di San Miniato e il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia. A sostenere l'intera iniziativa, patrocinata dal Pontificio Consiglio della cultura, è la Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato. Il servizio di Adriana Masotti:

La scena è una spiaggia in una notte invernale spazzata dal vento. Tra cielo e mare, il dialogo tra due contrabbandieri in attesa di un'imbarcazione. Dal mare arriveranno invece le storie cariche di dolore, rabbia e speranza di un gruppo di clandestini africani. C'è anche una donna incinta che racconta le violenze subite. E' il volto della nuova schiavitù di cui sono vittime i popoli di nazioni povere o in guerra. A dare voce alla donna è Ashai Lombardo Arop, attrice di origini sudanesi:

R. – Sicuramente è un grande compito, ed è anche un compito difficile. Anche perché noi tutti viviamo questa cosa in modo profondo, molti di noi… La mia famiglia – io sono italiana e sono nata qua – da parte di padre ha vissuto queste cose, perché il Sud Sudan è un Paese in guerra da 30 anni e quindi la maggior parte di loro ha vissuto fughe terrificanti, per anni, in cui sono stati maltrattati… Per cui, è come se io avessi avuto il compito di raccontare la storia della mia famiglia; però, nello stesso tempo sono felicissima di poter portare questa storia, che è una storia vera.

D. – Fa impressione che in mezzo, o dopo, tanti drammi a vincere sia sempre la vita, perché in scena nasce un bambino, e quindi anche la speranza nel futuro…

R. – Questa è la grandezza del testo. La vita vince sempre e lo vediamo anche tra noi, perché l’Africa è un Continente meraviglioso! Io vorrei portare, cerchiamo sempre di portare la bellezza dell’Africa. Questi ragazzi portano in scena un dramma, ma mettendoci dentro anche tutta la bellezza del loro Paese. E quindi dietro le quinte ci si diverte, si ride, si canta, si suona, continuamente… Hanno un modo di trattare gli stress dello spettacolo in maniera completamente diversa dagli occidentali: loro sono sempre calmi, non si stressano mai, hanno una concezione diversa del tempo. Quindi, ti possono insegnare veramente cosa significa la positività. E allora, è quello il messaggio che deve passare al di là di tutte le tragedie, secondo me.

D. – E i due attori italiani mi sembra che interpretino un po’ l’uomo comune che un po’ sa, un po’ non sa, un po’ è egoista e qualche volta però si lascia anche prendere dalla commozione…

R. – Sì: infatti, è proprio quello che devono interpretare. Quindi, non c’è neanche tanto lo stereotipo, non c’è il razzista reale: c’è l’uomo semplice, che giustamente non ha mai visto una cosa completamente diversa da lui e si stupisce. E’ infatti quello che ognuno di noi pensa: pure gli africani sono razzisti... E’ un po’ nella natura umana diffidare del diverso: lo facciamo tutti. Poi, è l’intelligenza che deve cambiare questa natura umana, e allora è lì che poi c’è la differenza.

“Finis Terrae”, un testo scritto appositamente per la Festa del Teatro di San Miniato, è ricco di simboli e di metafore, il linguaggio è poetico. La parola scuote e apre alla scoperta dell'altro: il regista Antonio Calenda:

R. – Io sono sempre stato attratto dal tema delle migrazioni, perché trovo che sia una delle tragedie della specie umana. Io credo che l’emigrazione sia proprio un dato antropologico della nostra specie, ed è una delle rappresentazioni visibili dello sradicamento, quindi del dolore. E credo che il teatro debba in qualche modo occuparsene. Come? Con il teatro, che è la "specula" magica attraverso cui l’uomo riflette su se stesso e sulla società, che è il momento della liturgia relativa al senso di quello che noi siamo, di quello che viviamo. Ma soprattutto è la liturgia del percepire che c’è l’"alter", l’alterità, il senso dialettico del prossimo. Allora, il teatro, che è il luogo proprio della necessità della relazione, credo che dovesse porsi questo problema. E il teatro è il luogo dove la metafora trova la sua sede naturale, e allora noi abbiamo inventato una storia di due poveri disgraziati i quali, nottetempo, in una notte di Natale, vivono come in un sogno un arrivo, un arrivo di altri. Questo apparente arbitrio di mettere in scena il sogno, ci permette poi di poter dire, attraverso l’irrompere della realtà... diventa prepotente, diventa non-retorica. L’Istat ha detto che tra 30 anni l’Italia sarà per metà nera, e noi dobbiamo prepararci con il massimo dell’apertura, con il massimo dell’accoglienza, tenendo presente il concetto di caritas che riconosce l’altro, il prossimo: come ha detto Papa Francesco. E io credo che il teatro debba far percepire, in assoluto, che l’uomo ha bisogno dell’altro uomo. Non a caso, il teatro è fondato sull’uso della parola, che diventa sacra, perché nel momento in cui la parola in teatro viene detta, è un inizio. Ma l’inizio di che cosa? Del riconoscimento che c’è un altro a cui io rivolgo la mia parola. Non c’è un’arte che sia così assoluta nel riconoscimento dell’uomo come il suo prossimo, perché senza il prossimo non è dato teatro. “Drama” in greco significa contrasto, ma anche relazione. Quindi, io mi lego ad un’altra persona attraverso la parola.

D. – Qual è l’esperienza che ha vissuto lei, come persona e come regista con queste persone diverse, con gli attori…

R. – E’ stata una delle più belle avventure della mia vita. Queste persone hanno un forte senso religioso della vita. Loro cantano, ballano perché sentono di rappresentare un’identità che è la loro terra. I tamburi sono strumenti dei padri dei loro padri … Ma la cosa più bella è che loro, quando suonano, sentono di compiere un atto religioso. Sono musulmani e mentre provavamo, loro non potevano essere defraudati del loro momento di raccoglimento e questo era commovente. Ismaila Mbaye, quello che parla di più, in Senegal è una star. E’ venuto qui a fare questo spettacolo perché – mi ha detto – per lui questa è una missione.

Sono ormai 68 le edizioni di questa Festa del Teatro, ma che cosa rappresenta per San Miniato? Sentiamo Marzio Gabbanini, presidente della Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato:

R. – San Miniato è una città d’arte, una città di cultura, una città di teatro. Il nostro è il Teatro dello Spirito e Teatro del cielo. Il nostro teatro è nato nel 1947, sulle rovine della guerra, per ridare nuova speranza a un Paese ormai distrutto e l’obiettivo e il programma che i soci fondatori si dettero era quello di un programma di ispirazione cristiana, che deve sollevare i problemi e le inquietudini dell’uomo moderno. Dunque, credo che quest’anno ci siamo riusciti, perché anche grazie a Papa Francesco, che ha posto e ci dà dei messaggi costanti di attenzione a quelli che lui chiama “gli scarti della terra”, “gli ultimi della terra”, abbiamo creduto di fare scrivere un testo su misura proprio stimolati da questo Papa, per parlare di queste povertà spirituali, materiali e non ultima questa enorme povertà di queste persone che vengono sui barconi della speranza. Vorrei dire questo: che noi siamo abituati a considerare la povertà come una compagna scomoda, che non vogliamo considerare. Però, questa poi ti bussa a quel sentimento di "pietas" che ci deve stimolare, per cui bisogna guardarsi in faccia e dire: io mi devo mescolare con le fragilità degli altri.

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Nella Chiesa e nel mondo



Orp: mons. Andreatta in pellegrinaggio in Terra Santa

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Mons. Liberio Andreatta amministratore delegato dell'Opera Romana Pellegrinaggi (Orp), è da oggi in Terra Santa con 80 pellegrini provenienti da diverse parti d’Italia tra cui Matera e Potenza. Stamane all’Ansa ha rilasciato le seguenti dichiarazione: “Il momento in Terra Santa e' davvero molto difficile ma io sono convinto, come il Papa ha detto all' Angelus, che la forza della preghiera può tutto”.

Mons. Andreatta che non è affatto nuovo a queste delicate situazioni ha continuato: “La mia esperienza di 40 anni, le varie Intifada e guerre non ci hanno mai scoraggiato; ed e' questo il momento di andare, anche perché il circuito del pellegrinaggio e' sicurissimo, tranquillo, e' lontano dal luogo di guerra; quindi si presta molto al dialogo, all' amicizia e ad un incontro con i palestinesi e gli israeliani. Perché i pellegrini sono il terzo popolo di quella terra e non possono, quindi, mancare in un momento come questo momento, in cui i due popoli stanno soffrendo insieme”.

Quanto alla situazione sulla Striscia di Gaza l' amministratore delegato dell'Orp, ha parlato di ”una guerra assurda. Purtroppo ne ho viste tante, come il periodo di Betlemme con l' occupazione e l' assedio della Basilica. Dico basta alla guerra. Sono loro stessi, gli ebrei, gli israeliani, i palestinesi che vogliono la pace; purtroppo, però, ci sono delle logiche di grandi interessi internazionali o di altro genere che fa soffrire chi e' innocente. Noi andiamo lì proprio per la solidarietà con chi ha bisogno in questo momento”.

All’aeroporto di Tel Aviv ad attendere con grande trepidazione mons. Anndreatta, numerose autorità locali, tra cui diversi esponenti del Ministro del Turismo Israeliano, in particolare è in programma l’incontro con il Direttore generale. A seguire, nel pomeriggio, alle ore 17:00, la celebrazione eucaristica per implorare la pace ad Haifa sul Monte Carmelo al santuario di Stella Maris. Mons. Andreatta si dirigerà quindi a Betlemme dove è previsto il suo pernottamento. (T.C.)

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Baghdad: musulmani portano la loro solidarietà ai cristiani

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Un gruppo di musulmani di Baghdad, uomini e donne, si è riunito ieri sera dopo la messa domenicale davanti alla chiesa caldea di San Giorgio per condannare gli attacchi alla comunità cristiana di Mosul portati avanti dallo Stato Islamico del Levante e dell'Iraq (Isis) e per portare la propria solidarietà e vicinanza alla comunità minacciata. Alcuni di loro si sono presentati davanti alla chiesa con un cartello dove c'era scritto: "Sono un cristiano iracheno".

I fedeli caldei che li hanno raggiunti dopo la messa hanno cantato insieme a loro l'inno nazionale; diversi hanno dichiarato: "La mia casa è aperta per il mio fratello cristiano". Sua Beatitudine Louis Mar Sako, patriarca di Baghdad, li ha voluti ringraziare: "Questo raduno porta speranza per un nuovo Iraq. Penso soprattutto ai giovani, che hanno il compito e il dovere di cambiare la situazione".

Secondo il leader caldeo "è una vergogna e un crimine cacciare persone innocenti dalle proprie case e confiscare le loro proprietà perché sono 'diversi', perché sono cristiani. Il mondo intero deve ribellarsi contro queste azioni abominevoli".

Noi cristiani, ha concluso, "amiamo i musulmani e li consideriamo fratelli; essi devono fare lo stesso. Siamo tutti uguali in dignità, tutti cittadini dello stesso Paese. Dobbiamo unirci per creare un nuovo Iraq. Grazie a tutti voi, c'è ancora una speranza". Prima di andare via, i cristiani hanno recitato il Padre Nostro e i musulmani la sura al Fatiha (la prima del Corano, che rappresenta il "sunto" del credo musulmano). (R.P.)

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Sudan: vietata la costruzione di nuove chiese

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Il Ministro sudanese per gli orientamenti e le istituzioni religiose ha annunciato che il governo non rilascerà più autorizzazioni per la costruzione di nuove chiese nel Paese. Immediata la reazione dei leader cristiani. Secondo quanto riportato nel quotidiano El Jareeda di Khartoum, il ministro Shalil Abdallah ha dichiarato che le chiese esistenti sono sufficienti per i cristiani rimasti in Sudan, dopo la secessione del Sud Sudan nel 2011. Ha inoltre sottolineato il fatto che la maggior parte degli abitanti del Sud Sudan sono cristiani, mentre in Sudan sono pochi.

Alla notizia, il rev. Kori El Ramli, segretario generale del Consiglio delle Chiese del Sudan, ha dichiarato alla Radio locale Tamazuj che l’affermazione del ministro contraddice la Sudanese 2005 Interim Constitution. “Certo, siamo una minoranza, ma abbiamo la libertà di culto e di credo proprio come il resto del Sudan, finché siamo cittadini sudanesi come loro,” ha spiegato. Il pastore ha anche criticato la recente demolizione della Sudanese Church of Christ, costruita nel 1983 nell’area di El Izba a nord di Khartoum.

La maggior parte dei membri delle congregazioni religiose di questa chiesa sono Nuba del Kordofan meridionale. In un rapporto reso noto ad aprile 2013, l’ong Christian Solidarity Worldwide aveva evidenziato un notevole aumento, da dicembre 2012, di arresti, detenzioni e deportazioni di cristiani dal Sudan. L’organizzazione ha anche riferito che l’attacco sistematico ai Nuba e agli altri gruppi etnici è indice di rinascita di una politica ufficiale di islamizzazione e arabizzazione. A causa del trattamento riservato ai cristiani, e ad altre violazioni dei diritti umani, nel 1999, il Sudan è stato designato Paese di particolare preoccupazione dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Nel mese di aprile 2013, la Commissione Usa sulla Libertà Religiosa Internazionale ha segnalato che il Paese è ancora in quella lista. (R.P.)

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Libia: ancora scontri all'aeroporto di Tripoli

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Sono almeno 47 le persone uccise e 120 quelle ferite in una settimana di combattimenti fra milizie rivali per il controllo dell’aeroporto di Tripoli, chiuso dal 13 luglio e teatro anche ieri di scontri violenti che hanno causato anche morti fra i civili: questi ultimi - riporta l'agenzia Misna - sono abitanti del quartiere di Qasr Ben Ghachir, nelle vicinanze dello scalo, le cui case sono state colpite da razzi.

Miliziani islamisti e della città di Misurata (200 km a est di Tripoli) combattono per allontanare i miliziani di Zintan (170 km a sud-ovest della capitale) dall’aeroporto che controllano dal 2011, al pari di altri siti militari e civili.

Ieri si è registrato quello che è stato definito l’attacco più massiccio dall’inizio dell’offensiva, condotto con colpi di mortaio, razzi e carri armati. Due aerei appartenenti alle due compagnie di linea nazionali, un Airbus A330 e yb Bombardier CRJ900, sono stati devastati dalle fiamme dopo essere stati colpiti dai razzi, mentre i combattimenti si sono estesi ad altre strutture occupate dai miliziani di Zintan sulla strada per l’aeroporto. Scontri armati si sono registrati anche nella periferia occidentale della capitale.

La delegazione dell’Unione Europea in Libia ha espresso preoccupazione esortando le parti in campo a fermare le armi e intavolare un dialogo. “L’Ue ricorda che gli attacchi contro gli aeroporti civili costituiscono una violazione del diritto internazionale” si legge in una nota. Il timore è che il conflitto si espanda mentre il Paese ancora attende ancora la proclamazione ufficiale dei risultati delle elezioni legislative del 25 giugno.

Travolte dagli eventi e incapaci di rispondervi, le autorità libiche hanno a più riprese annunciato di essere pronte a fare appello a forze internazionali per ristabilire la sicurezza. (R.P.)

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Tunisi: governo chiude moschee e media che incitano alla jihad

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Una serie di misure restrittive, fra cui la chiusura di moschee e mezzi di comunicazione accusati di propaganda al Jihad sono state annunciate dal governo di Tunisi in seguito alla morte di 15 soldati in un attacco armato sul monte Chaambi, dove l’esercirto è impegnato in combattimenti con un gruppo accusato di vicinanza ad al-Qaeda.

In un comunicato, ripreso dall'agenzia Misna, l’esecutivo annuncia la chiusura immediata delle moschee che esulano dalla supervisione del ministero degli Affari religiosi fino alla nomina di nuovi responsabili per gli stessi luoghi di culto e di quelle in cui l’uccisione dei soldati è stata celebrata. Imposta la chiusura anche a radio e televisioni prive di licenza che, secondo le autorità, si sono trasformate in spazi per promuovere il Takfir (atto di dichiarare una persona “infedele”) e l’appello al Jihad. Nella nota, a firma del primo ministro Mehdi Jomaa, si precisa che la sanzione si applica in particolare alla radio religiosa Nour e all’emittente tv al-Insen.

L’esecutivo preannuncia anche misure analoghe a carico delle pagine Internet che incitano al Jihad e al Takfir e ammonisce: chiunque denigrerà le istituzioni di sicurezza e militari sarà perseguito nei termini di legge. (R.P.)

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India: morto a Shillong il teologo don Sebastian Karotemprel

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È morto ieri, per un attacco cardiaco a 83 anni don Sebastian Karotemprel, eminente teologo salesiano indiano, già membro della Pontifica Commissione Teologica. Ne dà notizia il sito di attualità religiosa Matter India. Il sacerdote era ricoverato da tre settimane presso il Woodland Hospital di Shillong per una caduta accidentale il 29 giugno scorso, alla quale sono sopravvenute complicanze.

Con lui viene a mancare una figura di spicco della teologia in Asia. Autore di numerosi libri e conferenziere di fama internazionale, don Karotemprel era stato il primo Rettore del Teologato del Sacro Cuore di Shillong, dove aveva insegnato per 30 anni, ed era professore di Teologia della missione presso la Pontificia Università Urbaniana. Era inoltre stato per due mandati membro della Commissione Teologica internazionale, nonché della Commissione storico-teologica per il Grande Giubileo del 2000.

“Una leggenda dei nostri tempi, un erudito e un collaboratore nell’opera missionaria nell’India nord-orientale”. Così lo ricorda il provinciale di Guawahati, don Thomas Vatthara”, mentre l’arcivescovo salesiano di Shillong, Dominic Jala, ne rammenta il grande “rigore accademico e l’instancabile lavoro”.

I funerali di don Karotemprel si celebreranno mercoledì 23 luglio, nella cattedrale di Maria Aiuto dei Cristiani di Shillong. A celebrarli il fratello minore mons. Gregory Karotemprel, vescovo emerito di Rajkot. (A cura di Lisa Zengarini)

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Sierra Leone: si teme un aumento dell'epidemia di ebola

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Durante le ultime due settimane, nel Centro per il trattamento di Kailahun, in Sierra Leone orientale, l’ong Medici Senza Frontiere (Msf) ha trattato più di 70 pazienti con sintomi simili a quelli dell’ebola e teme un possibile aumento di pazienti nelle prossime settimane. Al di là del trattamento medico, il controllo dell’epidemia richiederà il dispiegamento di molte persone per formare il personale sanitario sulle misure di controllo del contagio, seguire e tracciare i casi e i loro contatti, creare una rete di sorveglianza epidemiologica e promuovere messaggi di salute pubblica.

A causa delle risorse umane limitate, Msf sta concentrando i suoi sforzi sul trattamento dei pazienti e la sensibilizzazione delle comunità rispetto alla malattia, con più di 150 operatori locali e internazionali in azione nel Paese. L’organizzazione è preoccupata per i casi nascosti. Al momento, il Ministero della Salute e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) stanno iniziando a rinforzare le squadre che si occupano di tracciare i contatti. I pazienti devono essere ancora identificati; in un solo villaggio vicino Ngolahun (Provincia Orientale) ne sono stati segnalati quasi 40.

Attraverso la realizzazione di Centri per il trattamento e unità di transito vicino ai villaggi colpiti, Msf può intervenire velocemente e ridurre il rischio di infezione negli ospedali locali e nelle comunità. Nelle unità di transito a Koindu e Daru, i pazienti che mostrano sintomi vengono isolati mentre aspettano i risultati del test.

Il ceppo Zaire di ebola può uccidere fino al 90%, ma se le persone contagiate ricevono il trattamento ai primi segni della malattia hanno più possibilità di sopravvivere. L’ebola crea paura nelle comunità e le persone malate vengono spesso stigmatizzate. Le famiglie possono essere cacciate dai loro villaggi e le persone malate vengono allontanate e muoiono in solitudine.

Per ridurre la paura, le équipe di Msf forniscono supporto psicologico ai pazienti e alle loro famiglie, organizzano attività di promozione della salute coinvolgendo i pazienti guariti, oltre a condurre campagne di sensibilizzazione per informare sulla diffusione del virus. L’epidemia che sta dilagando in Africa Occidentale ha raggiunto una portata senza precedenti in termini di diffusione geografica, numero di casi e numero di vittime. Secondo dati dell’Oms aggiornati al 15 luglio, dall’inizio dell’epidemia, ci sono stati 964 casi e 603 decessi in Guinea, Sierra Leone e Liberia. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 202

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.