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Sommario del 22/07/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Cristiani in Iraq. Mons Nona: basta parole occorre solidarietà concreta

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Sempre più drammatica la situazione dei cristiani in Iraq, costretti alla fuga dall’avanzata violenta dello Stato islamico: un esodo di tremila persone, secondo l’Unicef. Particolarmente grave la situazione a Mosul dove gli jiihadisti hanno occupato chiese e conventi, bruciato l’arcivescovato siro-cattolico e imposto ai cristiani o la protezione o la conversione. Papa Francesco continua a far sentire la sua vicinanza, come conferma la telefonata di domenica al patriarca di Antiochia dei siro cattolici, Ignatius Youssef III Younan, e l’udienza di oggi al nunzio apostolico in Iraq e in Giordania, mons. Giorgio Lingua. “Ora abbiamo bisogno di solidarietà concreta e coraggiosa da parte di tutti”, fanno sapere oggi i vescovi iracheni riuniti a Baghdad. L’appello riecheggia nelle parole di mons. Amel Shamon Nona, arcivescovo caldeo di Mosul, intervistato da Gabriella Ceraso: 

R. - Abbiamo fatto un appello a tutto il mondo spiegando quello che è successo ai cristiani di Mosul: un crimine contro l’umanità. Abbiamo chiesto inoltre tre cose molto importanti: la protezione per noi e tutte le altre minoranze, poi di supportare le famiglie fuggite dalla città di Mosul e di trovare case e scuole per queste famiglie che hanno lasciato tutto.

D. - Quindi, un appello alla comunità internazionale e alla comunità locale…

R. - A tutti gli uomini dell’Iraq e di tutto il mondo di trovare una via d’uscita e soprattutto per la città di Mosul, dove c’è un patrimonio di Chiese e manoscritti importantissimi per la nostra storia, patrimonio di tutta l’umanità.

D. - E’ di qualche ora fa la notizia che il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha condannato le persecuzioni. Forse questo aiuterà?

R. - Sicuramente ci aiuterà, ma abbiamo bisogno di cose reali. Abbiamo sentito tante dichiarazioni, tanti appelli ma la nostra gente ha bisogno di sicurezza perché i cristiani di tutto l’Iraq hanno molta paura.

D. - Abbiamo notizia, le chiedo di confermarla, di tanti gesti di solidarietà dei musulmani nei confronti dei cristiani, sotto forma di accoglienza, sotto forma addirittura di manifestazioni pubbliche, in particolare a Baghdad. Domenica scorsa, alcuni musulmani si sono presentati con la lettera “N” sui loro vestiti, quella stessa lettera che era stata simbolo da parte dei jihadisti di persecuzione…

R. - A Baghdad erano presenti circa 100 persone che hanno dimostrato la loro solidarietà verso tutti i cristiani. Ci sono stati anche altri gesti nella città di Mosul: alcuni musulmani hanno accompagnato dei cristiani fuori dalla città con le loro macchine. Sì, ci sono gesti di solidarietà ma non così tanti.

D. - Secondo lei, a cosa stiamo assistendo? Ci sono alcuni giornalisti che addirittura parlano di “pulizia religiosa”…

R. - Sì, è vero. È un termine brutto ma è reale, è quello che è successo e sta succedendo. È proprio così.

D. - Nella riunione che avete compiuto con il Patriarca le parole del Papa vi hanno accompagnato, sono state ribadite?

R. - Le parole del Papa ci danno una grande forza. Aspettiamo che anche tutti gli altri cristiani mostrino solidarietà con azioni concrete. Ci sono anche altre Chiese che hanno cominciato a dimostrare solidarietà ma vogliamo di più: che tutti i cristiani in tutto il mondo mostrino questa solidarietà, senza aver paura di parlare di questa tragedia.

D. - Cosa dirà alla comunità che segue dopo questo incontro?

R. - Non portiamo le parole ma portiamo le azioni, le parole non fanno niente oggi. L’importante sono le nostre reazioni contro quello che è successo.

D. - C’è più paura o più coraggio in questo momento tra voi?

R. - Ci sono entrambe le cose. Non da parte nostra, ma c’è comunque un po’ di disperazione da parte dei nostri fedeli perché, dal 2003 fino ad oggi, c’è questa situazione terribile di persecuzione. Per questo ci sono sia paura che coraggio. Non dobbiamo negare che tantissime famiglie cristiane e sacerdoti hanno lavorato in modo molto coraggioso nell’accogliere le famiglie e aiutarle a vedere il futuro in un modo migliore.

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Papa nomina nuovi membri al dicastero per l'Unità dei cristiani

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Papa Francesco ha ricevuto in udienza nel pomeriggio di ieri mons. Nunzio Galantino, vescovo di Cassano all'Ionio e segretario generale della Conferenza episcopale italiana.

Il Papa ha nominato membri del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani i monsignori: Carlos José Ñáñez, Arcivescovo di Córdoba (Argentina); Rodolfo Valenzuela Núñez, Vescovo di Vera Paz e Presidente della Conferenza Episcopale (Guatemala); Gerhard Feige, Vescovo di Magdeburg (Rep. Federale di Germania).

Il Pontefice ha inoltre nominato consultori del medesimo dicastero i rev.di: Cristiano Bettega, Direttore dell'Ufficio Nazionale per l'Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso della Conferenza Episcopale Italiana; Hector Sherri, Presidente della Commissione Teologica di Malta e della Commissione Ecumenica Diocesana (Malta); Michael Joeng‑Hun Shin, Incaricato per l'Ecumenismo nella Conferenza Episcopale Coreana; Fernando Rodríguez Garrapucho, Direttore del Centro di Studi Orientali ed Ecumenici Juan XXIII presso la Pontificia Università di Salamanca (Spagna); il Rev.do Fratello Enzo Bianchi, Priore del Monastero di Bose (Italia); i Rev.di Padri: Franck Lemaitre, O.P., Direttore del Servizio Nazionale per l'Unità dei Cristiani della Conferenza Episcopale Francese; John Crossins, O.S.F.S., Direttore Esecutivo del Segretariato per le questioni ecumeniche e interreligiose della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti d'America; Jorge A. Scampini, O.P., Professore di Ecumenismo presso la Facoltà di Teologia della Pontificia Università Cattolica di Buenos Aires (Argentina); Milan Žust, S.I. (Slovenia), Docente presso la Facoltà di Missiologia della Pontificia Università Gregoriana in Roma; la Rev.da Suor Maria Ha Fong Ko, F.M.A. (Macau), Docente di Esegesi Neotestamentaria presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell'Educazione Auxilium in Roma e presso l'Holy Spirit Seminary di Hong Kong.

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Papa, tweet: rischio di oggi è la tristezza che nasce da cuore avaro

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “Il grande rischio del mondo attuale è la tristezza individualista che scaturisce dal cuore avaro”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, Gualtiero Bassetti sulla cultura dell’apparenza nel malessere diffuso della società.

Per fare un vescovo: intervista di Nicola Gori al cardinale Marc Ouellet.

In Medio oriente i cristiani non sono stranieri: il prefetto della Congregazione per le Chiese orientali.

Guerra crudele: oltre 570 morti e tremila feriti dopo quattordici giorni di duri combattimenti che non risparmiano i civili.

A tredici anni dalla prima uscita, viene ripubblicato in edizione ampliata il volume “Paolo VI nella sua parola”: in cultura, l’introduzione dell'autore, Pasquale Macchi (che fu suo segretario e poi arcivescovo prelato di Loreto), la presentazione del cardinale Martini e la nuova postfazione del cardinale Capovilla.

Un articolo di Cristian Martini Grimaldi dal titolo “In Oriente con fede e scienza”: da Matteo Ricci ai primi contatti con la Corea.

Tutti pazzi per il Greco: Sandro Barbagallo recensisce una mostra, al Prado, che svela la sua influenza sulla storia dell’arte.

Un nuovo fronte per la difesa della libertà religiosa: l’episcopato statunitense su orientamento sessuale e discriminazioni.

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Oggi in Primo Piano



Medio Oriente: Kerry al Cairo per trovare una tregua. Continuano gli attacchi

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Continua la crisi in Medio Oriente, nel giorno degli incontri al Cairo tra il segretario di Stato americano, John Kerry, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, e il presidente egiziano, Sisi, per cercare di fermare gli attacchi. Kerry ha incontrato anche il segretario della Lega Araba, che ha espresso la “speranza” che si possa giungere “molto presto” a un cessate il fuoco.Intanto, nuovi bombardamenti israeliani su Gaza mentre Hamas lancia razzi su Tel Aviv. Il servizio di Michele Raviart:

 

Sono sforzi “appropriati e legittimi” quelli di Israele di difendersi, ma c’è "inquietudine" per la sorte dei civili a Gaza. Così in sintesi il segretario di Stato americano, John Kerry, che ha prolungato di un giorno la sua visita al Cairo e per trovare soluzioni alla crisi. Intanto, nella notte, gli Stati Uniti hanno deciso di stanziare 47 milioni di dollari di aiuti a Gaza, 15 all’agenzia Onu per i rifugiati e 32 all’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale. Mentre non parte la tregua umanitaria proposta dall’Onu, continuano i raid su Gaza. Sette palestinesi sono stati uccisi in una serie di bombardamenti al sud e al centro della Striscia, mentre migliaia di persone stanno fuggendo dai quartieri nord di Sheikh Zajed e Tel Zaatar. Suonano intanto le sirene d’allarme a Tel Aviv, dove un razzo di Hamas è stato intercettato dal sistema antimissile "Iron Dome" mentre raggiungeva l’area metropolitana della città. Sette invece i razzi intercettati diretti ad Ashdod. Con la conferma della morte di un soldato rapito da Hamas, il bilancio, al sedicesimo giorno di conflitto, è di 28 militari israeliani uccisi, mentre le vittime palestinesi sono 605.

 

Meri Calvelli è una cooperante italiana, da anni vive a Gaza. Ha vissuto altre operazioni israeliane contro Gaza, compresa quella finora più drammatica, tra il 2008 e il 2009, denominata "Piombo Fuso". Ciò che sta accadendo in questi giorni però, spiega al microfono di Francesca Sabatinelli, è completamente diverso. Ascoltiamola: 

R. – Ci sono delle grosse differenze. In genere, gli attacchi militari sono sempre stati una punizione collettiva su questa popolazione. A oggi, la popolazione di Gaza è arrivata ad un punto di non più accettazione della situazione attuale, quindi dopo anni e anni di embargo, di chiusura delle frontiere, di prigione nella quale è costretta a vivere, a far nascere e, purtroppo, far morire i propri bambini, non è più disposta ad accettarlo. Quindi, questa operazione militare è iniziata in un modo e invece sta andando avanti in un altro, sta diventando un vero e proprio confronto, anche sul terreno, anche a livello di guerra, anche se le forze militari sono completamente diverse. Però, la differenza è che c’è una risposta dall’interno, a livello militare, che nel passato non si era mai verificata così forte. Quello che vedo è che sì, è vero, loro stanno facendo un confronto militare, però la gente tutta ti dice: morivamo. Stavamo morendo, dentro Gaza! Non avevamo prospettive, non avevamo futuro davanti a noi. Quindi, se moriamo stando qui, chiusi qui dentro come topi, o se moriamo in guerra, a noi non cambia niente: sempre morte è. Di fatto, la realtà è che sono stati uccisi soltanto civili, colpite strutture che sono civili. Da quando, poi, è iniziata l’operazione di terra, hanno incominciato anche dal confine, con i cannoni, con l’artiglieria, a non smettere mai di sparare. Lungo tutti i confini della Striscia di Gaza. E chiaramente, davanti ai confini ci sono le case.

D. – Questo è quello che è accaduto domenica scorsa a Shejaiya, dove ci sono state oltre 90 vittime civili…

R. – Shejaiya sì, che è stata la prima parte a nordest, la prima parte a essere attaccata dall’artiglieria, dai cannoni, dalle forze di terra, è stato il primo massacro grosso. A distanza di due giorni, si scava nelle macerie ma non si riesce nemmeno a scavare, perché continuano i bombardamenti e quindi non viene data la tregua per andare lì. Se ti avvicini a quel sito ti sparano, immediatamente: continua a sparare l’artiglieria, continuano a bombardare da sopra. Si sente una puzza di morte incredibile, oltre alle 90 persone, ai loro corpi tirati fuori dalle macerie, purtroppo ce ne saranno anche chissà quanti altri.

D. – Ci sono persone che non hanno voluto abbandonare le case, ma ce ne sono tanti che stanno cercando riparo…

R. – Certo, certo. Se all’inizio sono rimasti e sono morti, purtroppo, lì dentro, come è successo a Shejaiya, altri, nelle notti seguenti, quando hanno continuato pesantemente dopo l’esempio di Shejaiya, hanno chiaramente cominciato a scappare dalle case. Ormai, si parla di 150 mila sfollati lungo tutto il confine. Tra l’altro, per fare un esempio, la gente sta dentro le strutture dell’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency, agenzia dell’Onu per il soccorso ai profughi) però non ha i materassi per dormire, non ha dove dormire, quindi sta lì, in piedi o sui seggiolini o per terra magari con una coperta che sono riusciti a portarsi dietro.

D. – Dal punto di vista strettamente medico-sanitario, manca tutto, però Israele ha appena rifiutato una tregua umanitaria…

R. – Sì, sì, questa mattina, appunto, avrebbe dovuto esserci questa tregua di cinque ore – se ne parlava da ieri sera – ma all’ultimo momento Israele l’ha rifiutata. I medicinali, certo, gli ospedali li richiedono dall’inizio dell’operazione, perché i feriti sono stati subito moltissimi. Quindi, certo, c’è tutta la questione sanitaria. Ma anche la questione igienico-sanitaria è un altro dei problemi grossi, la mancanza dell’acqua. Oltretutto, è un’operazione militare che ha messo in pericolo non poco anche la stessa popolazione di Israele, l’esacerbarsi di questa situazione, come si vede, ha creato questo braccio di ferro fortissimo tra le due autorità e adesso nessuno vuole cedere, anche perché – ripeto – qua la gente non vuole più tornare indietro, ormai ha pagato talmente alto il prezzo, purtroppo è quello che ti dice, che vuole andare avanti affinché la situazione cambi realmente, perché Gaza dev’essere aperta.

D. – Come state vivendo, voi?

R. – Ci sono i droni che ronzano tutto il giorno, ci sono i passaggi aerei, c’è la marina che spara a seconda dei momenti... Ecco, adesso questo non so se lo sentite, è il drone: sta qua sopra. Ora tra un po’ gira che ti rigira, poi sgancia da qualche parte.  Poi, è chiaro, ci sono zone più colpite e altre che sono meno colpite. Quando vai in giro, eh, vai a tuo rischio e pericolo. In questo momento in particolare, poi, nonostante all’inizio abbiano detto: “Ah, ma noi staremo attenti ai civili, staremo attenti alle agenzie che si muovono, staremo attenti ai giornalisti”, solo parole! Bisogna assolutamente far pressione sui nostri governi e i nostri governi devono fare pressione, assolutamente devono far pressione su Israele, per fermare il massacro dei civili.

 

John Kerry torna quindi in Medio Oriente, dopo il fallimento, quest’anno, dell’iniziativa diplomatica di pace tra Israele e Autorità palestinese. Ma cosa può fare la comunità internazionale per questa crisi? Lo abbiamo chiesto a Ianiki Cingoli, direttore del Centro italiano per la pace in Medio Oriente: 

R. – C’è una situazione di vuoto diplomatico internazionale, entro cui si inserisce questa crisi. Probabilmente, sarebbe utile l’iniziativa dell’Unione Europea, una volta che si è assestata la sua politica estera, che come sappiamo è un po’ travagliata, per ripartire da dove John Kerry si era fermato: da quella proposta di accordo quadro, che però non aveva avuto l’assenso delle parti. Ripartire da lì, da un’intesa con gli Stati Uniti, non in antitesi a loro, e avanzare una proposta anche in sede di Consiglio di sicurezza dell’Onu.

D. – L’incontro tra Kerry e la Lega Araba, in questo senso, che significato può avere?

R. – La Lega Araba in questo momento è controllata dall’asse Egitto-Arabia Saudita, che è un'asse certamente non molto favorevole ad Hamas. Infatti, quello che è abbastanza significativo è il silenzio di tutti questi Paesi, rispetto a quello che sta succedendo. Al di là di qualche dichiarazione formale.

D. – Qual è oggi il rapporto di Hamas con il mondo arabo?

R. – Hamas è in crisi perché gli è venuto a mancare l’appoggio egiziano, con la caduta di Morsi e la venuta al governo del presidente Sisi, che ha messo fuorilegge i Fratelli musulmani, di cui Hamas è una costola. L’Egitto resta comunque un Paese chiave, perché controlla i valichi e ha un peso rispetto a Gaza. Non ha più rapporti positivi con l’Iran. Gli resta un po’ di appoggio del Qatar e della Turchia, ma non è che sia sufficiente. Così come l’Egitto non è ben visto da Hamas, Qatar e Turchia non sono però ben visti da Israele. L’elemento possibile di sblocco potrebbe essere proprio il presidente palestinese, Mahmud Abbas.

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Ucraina: Poroshenko mobilita uomini nell'est. Rivelazioni sulla sciagura aerea

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Ancora tensioni sull’Ucraina. Il presidente russo Vladimir Putin, in una riunione del Consiglio di sicurezza della Federazione, ha avvertito che Mosca reagirà in modo proporzionato a un “rafforzamento” delle truppe Nato alle proprie frontiere. Sul terreno, i ribelli filorussi hanno consegnato agli esperti di Kuala Lumpur le due scatole nere dell’aereo malaysiano caduto nell’est dell’Ucraina. Il disastro, stando alle rivelazioni del “Corriere della Sera”, sarebbe da ricondurre proprio ai filorussi. Il treno con i corpi dei 298 passeggeri del volo abbattuto è intanto partito alla volta di Kharkiv e, poi, dell’Olanda. In questo quadro, il Parlamento di Kiev ha approvato il decreto firmato dal presidente Petro Poroshenko per una parziale mobilitazione nella parte orientale del Paese: saranno richiamati i riservisti e convocati gli uomini sotto i 50 anni. Paolo Giacosa ha chiesto quale sia la portata di questa mossa a Danilo Elia dell’Osservatorio Balcani e Caucaso: 

R. – La tensione era già alta prima. Io non darei grandissimo peso a questo decreto presidenziale. In realtà, era già da tempo che si parlava di una mobilitazione delle forze riserviste ucraine. E’ probabile anche che sia una mossa propagandistica, per far vedere semplicemente che il governo di Kiev è intenzionato a chiudere la faccenda con i separatisti in tempi brevi. Le forze messe in campo da Kiev già avevano ieri, prima di questo decreto, il potenziale per sopraffare i separatisti. Resta il fatto che i separatisti ora si sono arroccati in città grandi: Donetsk, ad esempio, è una città di più di un milione di abitanti ed è molto difficile che l’esercito possa entrare in azione in un contesto abitato da un milione di persone.

D. – Quanto inciderà sul quadro degli scontri la dichiarazione della milizia filorussa riportata dal “Corriere della Sera”, secondo cui le responsabilità della sciagura aerea sarebbero da ricondurre ai ribelli?

R. – Seguendo attentamente i segnali che si erano avuti fino ad oggi, c’erano ben pochi dubbi su quali potessero essere le responsabilità dell’abbattimento del volo della Malaysia Airlines. Già prima, gli stessi miliziani avevano dato delle involontarie ammissioni. Mi riferisco in particolare alle intercettazioni fatte dai servizi di sicurezza di Kiev, in cui alcuni capi separatisti, in particolare Besler, parlavano dell’aereo abbattuto, riferendo che si era trattato per errore di un aereo civile. Dopo qualche giorno lo stesso Besler ha ammesso che quelle intercettazioni erano reali. Aveva detto che erano state manipolate, ma che si trattava comunque di un’ammissione di responsabilità. Dopo queste ultime rivelazioni, sarà davvero difficile negare un coinvolgimento diretto delle forze filorusse nell’abbattimento dell’aereo civile.

D. – L’attenzione dei media è incentrata sulla questione dell’aereo, ma nella zona continuano gli scontri: qual è la situazione del conflitto?

R. – I rapporti con la Russia da parte di Kiev sono sempre stati conflittuali. Kiev non ha mai smesso di accusare la Russia di telecomandare a distanza una guerra nel proprio territorio. L’opinione pubblica internazionale è stata catalizzata giustamente, comprensibilmente, da questo tragico evento dell’aereo civile e dei suoi quasi 300 morti, ma c’è una situazione di guerra e di conflitto che continua. Noi abbiamo registrato circa una decina di morti civili negli ultimi giorni nelle città di Lugansk e Donetsk, a causa di colpi di artiglieria. In questo caso, ancora una volta, le due parti si accusano vicendevolmente. Quindi continua questo doppio piano in cui c’è uno scontro armato, reale, ogni giorno e uno scontro anche verbale, diplomatico.

D. – Quali sono le posizioni internazionali di Mosca e Kiev, anche alla luce delle vicende internazionali, come quelle mediorientali?

R. – Il governo di Kiev e il presidente Poroshenko continuano a chiedere un forte coinvolgimento della comunità internazionale, in particolare dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Dall’altro lato, il Cremlino continua a mantenere questa sua linea di chiusura nei confronti delle forze occidentali, mantenendo invece diplomaticamente una possibilità di collaborazione. Lo stiamo vedendo appunto anche in questi giorni nei riguardi dell’aereo.

D. – Quindi l’Ucraina cerca l’appoggio internazionale, anche se storicamente la Russia ha sempre avuto un ruolo di influenza sui Paesi di quella zona...

R. – Questo è verissimo, però attenzione: se oggi noi parliamo di governo di Kiev, ci riferiamo al governo che è nato dopo la rivoluzione di Maidan, un governo fortemente filoccidentale, filoeuropeo. Quindi potremmo anche assistere ad una scissione, alla nascita di due Ucraine, e continuare a vedere un’Ucraina di Kiev sempre più filooccidentale e queste province, che oggi sono belligeranti, di Lugansk e Donetsk che potrebbero, però, seguire un’altra strada.

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Libia: annunciati i risultati delle elezioni, ancora scontri

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In Libia sono stati annunciati i risultati delle elezioni del 25 giugno scorso: si profila una vittoria dei candidati liberali sugli islamisti. Continuano intanto gli scontri a Bengasi, dove 16 persone sono morte, e a Tripoli, dove le vittime dei combattimenti tra milizie rivali sono 47. Gli aggiornamenti nel servizio di Davide Maggiore

Dopo vari rinvii, è arrivato l’annuncio dell’alta commissione elettorale libica sui risultati del voto: assegnati 188 seggi parlamentari, mentre per altri 12 sono state registrate irregolarità. Difficile prevedere quali saranno gli equilibri del nuovo parlamento, poiché erano ammesse solo candidature individuali, senza liste di partito. Secondo alcuni osservatori e deputati neoleletti, però, i candidati definiti laici e liberali – una cinquantina - sarebbero in maggioranza rispetto agli islamisti, fermi a 30 seggi. Una valutazione definitiva sarà però possibile solo dopo la formazione dei gruppi parlamentari. Intanto, parte dell’aeroporto di Tripoli è stata distrutta durante gli scontri tra le milizie di Zintan, che controllano al momento lo scalo e quelle di Misurata che, insieme a forze d’ispirazione islamista, cercano di conquistarlo partendo dalle aree della capitale già sotto il loro controllo. Enormi i danni economici, stimati in un miliardo di dollari, e materiali: quasi tutti gli aerei sono ormai inutilizzabili. A Bengasi si scontrano invece l’esercito libico e una coalizione di milizie jihadiste e islamiste, che hanno preso d’assalto una caserma: proprio i soldati costituiscono la maggioranza delle vittime registrate nella principale città della Cirenaica.

 

Per una testimonianza riguardo la situazione sul terreno, Davide Maggiore ha raggiunto telefonicamente nella capitale libica un religioso cattolico, al quale garantiamo l’anonimato per motivi di sicurezza: 

R. – Diciamo che è una situazione un po’ caotica. Le notizie qui non sono chiare, ma c’è una guerra tra le milizie, attorno all’aeroporto. La popolazione ne è toccata dal punto di vista pratico più che altro: c’è poca benzina, manca il gas… Purtroppo, in questi ultimi giorni ci sono stati degli scontri anche nell’abitato: uno scontro tra milizie. C’è la milizia di Zintan, un po’ più liberale, e poi ce ne sono alcune – la più grande è quella di Misurata – filo islamiste. Penso che lo scontro sia questo, più che altro.

D. – Per quanto riguarda lo stato d’animo della popolazione, come sta vivendo queste ore e questi giorni?

R. – La popolazione sta cercando di vivere religiosamente il Ramadan, ma è rattristata perché non c’è un governo forte, un’armata o polizia che possano controllare questi scontri. C’è questo senso di smarrimento e penso che questo sia lo stato d’animo, almeno della gente di Tripoli e forse anche di Bengasi, che stanno vivendo questi momenti da mesi, non da giorni, come noi a Tripoli.

D. – Voi come religiosi, in particolare, come vi comportate? Ci sono precauzioni particolari che dovete osservare, sia voi sia la comunità cristiana?

R. – Beh, prudenza come sempre. Purtroppo, dopo la rivoluzione c’è poco di sicuro e, allora, siamo tutti un po’ più prudenti del solito: stiamo attenti a dove andare e a stare in casa, quando ci sono questi scontri.

D. – Abbiamo accennato alla situazione di Bengasi, voi siete in contatto con Bengasi?

R. – Abbiamo il nostro vescovo lì e i nostri confratelli, anche tre comunità di suore. Stiamo sempre in contatto. Purtroppo la situazione a Bengasi è peggiore, perché come dicevo prima, è da mesi che soffrono questa insicurezza e questi scontri. Si va avanti, però, e si chiede al Signore il coraggio di andare avanti, nonostante tutto. In seguito al fatto di alcuni giorni fa, però, - l’uccisione di un operaio filippino, che è stato purtroppo decapitato vicino a Bengasi – l’Ambasciata filippina sta cercando di evacuare i filippini. Ma questo non so quanto sarà possibile, perché tutti gli ospedali qui in Libia dipendono molto dagli infermieri filippini.

D. – In questi giorni sono stati resi pubblici i primi risultati delle elezioni, che si sono appena svolte. La popolazione guarda a queste elezioni con speranza?

R. – Sì, un po’ di speranza c’è, anche se l’afflusso alle urne non è stato un gran che. Si spera tanto in un governo che abbia un po’ di forza, perché purtroppo i governi degli ultimi tre anni sono stati un po’ deboli. La gente cerca di avere istituzioni “a posto”, ma è una cosa che avviene veramente poco a poco, con tanti sforzi, e non sempre con successo, purtroppo. Le milizie, infatti, ancora sono forti, sono armate, e chi ha le armi sembra comandare, se non ufficialmente, di fatto.

D. – C’è un appello particolare che lei vuole rivolgere a quanti ci ascoltano attraverso la Radio Vaticana?

R. – Preghiamo per questo Paese così bello, con una popolazione così religiosa. Noi abbiamo speranza. Anche se non si tratta della democrazia occidentale, loro hanno tutte le possibilità di riconciliarsi, di andare avanti e di dialogare. Preghiamo che abbiano la forza di andare avanti e portare avanti questo Paese, la Libia.

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Oim: aprire canali umanitari per chi cerca protezione in Europa

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Con l'accusa di omicidio plurimo aggravato, la Squadra mobile di Messina ha arrestato cinque extracomunitari ritenuti responsabili della morte di decine di profughi che viaggiavano sul barcone intercettato sabato scorso a sud di Lampedusa e nella cui stiva sono stati trovati 29 cadaveri. I sopravvissuti raccontano che alcuni dei fermati avrebbero accoltellato e gettato in mare diversi migranti e non avrebbero permesso a uomini e donne che erano nella stiva di uscire sul ponte. Di fronte alle ricorrenti tragedie del mare, appare dunque sempre più urgente trovare soluzioni di prevenzione. Un’ipotesi è quella di realizzare centri di raccolta nei Paesi di provenienza degli immigrati stessi, nei quali prendersi carico delle persone e della loro richiesta di accoglienza in Europa. Adriana Masotti ne ha parlato con Flavio Di Giacomo, portavoce per l’Italia dell’Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni: 

D. - Più che nei Paesi di origine dei migranti, direi nei Paesi di primo asilo e di transito, perché i flussi dei migranti che abbiamo registrato quest’anno sono composti soprattutto da persone che fuggono dai loro Paesi perché ci sono guerre, o persecuzioni. Quindi, questo tipo di supporto sicuramente si può dare nei Paesi di transito - dove passano i migranti che poi cercano di arrivare via mare in Italia - sicuramente attraverso i centri per migranti o altre soluzioni che la comunità internazionale può trovare. La cosa importante è creare canali umanitari e procedure di entrata legale in Europa per tutti coloro che hanno diritto ad accedere in Europa, a una qualche forma di protezione, e sono molte le persone che hanno questo diritto. Bisogna offrire loro alternative al prendere il mare e a rischiare la vita nel Mediterraneo.

D. - Le faccio un’obiezione da parte di chi si sente “invaso”: tutta questa azione non potrebbe favorire ancora di più gli arrivi degli immigrati?

R. - Innanzitutto, stiamo parlando di persone che hanno diritto ad accedere alla protezione internazionale, quindi sono persone che l’Europa ha il dovere di accogliere e proteggere secondo quelli che sono i dettami internazionali. Poi, bisogna anche fare una verifica quando parliamo di invasione. Cosa vuol dire? In Italia quest’anno sono arrivate 80 mila persone: è una cifra sicuramente rilevante ma è anche vero che se facciamo un paragone con quanto accade in Paesi come la Germania, dove ci sono state 126 mila richieste d’asilo. Oppure, se guardiamo al di fuori dell’Europa, come in Libano dove a fronte di un Paese con quattro milioni di abitanti abbiamo un milione di rifugiati siriani… Ottantamila persone in un Paese come l’Italia di 60 milioni di abitanti è sicuramente una cifra in fin dei conti residuale. Stiamo parlando di un flusso molto importante che però non rappresenta in nessun modo, in termini numerici, un’invasione. Quindi, quello che è veramente importante è dare la possibilità a queste persone di arrivare con sicurezza nel nostro Paese e in Europa e di non morire in alto mare. È un’emergenza umanitaria. Le persone stanno morendo.

D. - Si parla da tempo di questo fenomeno dell’immigrazione e si è fatto poco. A chi vi rivolgete voi?

R. - E’ un problema che deve essere affrontato sia dagli stati membri dell’Unione Europea, perché è un’emergenza che riguarda il Mediterraneo, ma allo stesso tempo è un’emergenza che deve essere condivisa e discussa anche con i Paesi di transito. Quindi, bisogna che tutti questi attori coinvolti nella questione si parlino e riescano a trovare una soluzione condivisa che possa portare poi allo stabilimento di questi canali umanitari.

D. - C’è chi vorrebbe una sorta di “sbarramento” nel mare per non far arrivare questi rifugiati, o potenziali rifugiati in Europa. Cosa dire di questo?

R. - Questo è qualcosa di assolutamente non “procedibile” e sicuramente anche contrario a quello che è il principio di "non-refoulement", il quale prevede che le persone che hanno bisogno di protezione non possono essere mandate indietro in Paesi in cui la loro incolumità può essere messa a rischio. È il caso della Libia: sappiamo che la Libia è un Paese estremamente pericoloso ed è il motivo per cui questi flussi sono aumentati, perché le situazioni di sicurezza in Libia sono completamente venute a mancare e i migranti ci raccontano che in Libia temevano per la loro vita. Quindi, non è assolutamente possibile, per il rispetto dei diritti umani, mandare indietro persone che sono in stato di necessità. Questa è una cosa che l’Europa non può fare e l’Italia non può fare e che chiaramente non farà.

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Bioetica. L'ovulo e il rischio brevetto a fini commerciali

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L'ovulo umano non fecondato, sviluppato in laboratorio senza diventare embrione umano, potrebbe essere brevettato da aziende del settore per scopi commerciali. Se invece lo stesso ovulo si sviluppasse in embrione umano con il ricorso alle biotecnologie, allora va protetto. E' il parere giuridico dell'avvocato generale della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, Cruz Villalòn, per il quale "per impedirne il commercio l'ovulo deve essere in grado di svilupparsi in essere umano". Non si tratta di una sentenza, l'Europa infatti vieta il commercio di embrioni, ma di un contributo per futuri interventi in materia della Corte europea. Luca Collodi ne ha parlato con Antonio Spagnolo, direttore del Centro di Bioetica dell'Università Cattolica-Policlinico Gemelli di Roma: 

R. – L’ovulo contiene un patrimonio genetico che è la metà di quello dell’essere umano, per cui ha bisogno dell’altra metà, costituita dallo spermatozoo, per poter costituire poi un individuo e quindi un embrione. Se parliamo esplicitamente di “ovulo”, stiamo parlando quindi di una cellula che dev’essere fecondata per diventare un embrione umano.

D. – L’ovulo è presente in natura, ma si può anche ricreare in laboratorio…

R. – Ecco, potrebbe essere creato in laboratorio con diverse tecniche, però finché rimane con le caratteristiche genetiche dell’ovulo – e cioè di avere una metà del numero dei cromosomi propri della specie umana – rimane “ovulo” e quindi in qualche modo ha le caratteristiche di una cellula e non di un individuo, non di un embrione.

D. – Se l’ovulo resta tale, e cioè non ha elementi che possano farlo diventare umano,  può essere brevettato per scopi commerciali?

R. – Non siamo ancora di fronte a una sentenza. Si tratta di un argomentazione che l’avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Ue sta preparando per una possibile e futura sentenza. Il parere giuridico entra in un terreno che è già stato esplorato dalla Corte europea di Giustizia che, con la sentenza dell’ottobre 2011, aveva affermato che l’embrione umano non può essere brevettato. Ecco, allora, il punto nodale: nella sentenza del 2011, già si pensava al fatto che non l’embrione tipico, cioè quello fecondato ovocita-spermatozoo, ma anche gli altri embrioni ottenuti con modalità diverse, rientrassero nella categoria della protezione. Partire dall’idea dell’ovulo umano non fecondato e brevettabile potrebbe esserlo soltanto nel momento in cui io sto brevettando la tecnica che mi porti a costituirlo come tale, per esempio da una cellula staminale: differenziarla in modo che diventi un ovocita. Ma da questo momento in poi, si apre tutta una possibilità tecnica e biologica per cui da questo embrione, ottenuto con queste modalità, io posso poi dargli quelle caratteristiche che la sentenza precedente della Corte europea di Giustizia aveva stabilito e che lo facciano rientrare nella categoria dell’embrione. Quindi, di fatto sarebbe una pericolosa autorizzazione, quella di permettere il brevetto, se da questa possibilità poi derivasse quella di poter utilizzare l’ovulo per arrivare a costruire l’embrione.

D. – Quanto il fine commerciale può ribaltare la verità scientifica su questo fronte?

R. – Tanto. Nel senso che bisogna stare attenti proprio a questioni che, a un certo punto, quasi dimenticano l’aspetto ideologico per affermare l’aspetto economico. Forse, se la cosa rimanesse sul piano del dibattito filosofico, potrebbe rimanere lì. Purtroppo, quando dietro non c’è solo l’ideologia ma la stessa viene utilizzata per l’aspetto economico, allora l’ideologia per arrivare ad ottenere benefici economici non ha nessun ritegno a mascherare e a cambiare la realtà biologica che, invece, i biologi conoscono bene.

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Matera. Mostra sui 50 anni del "Vangelo secondo Matteo"

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Il mondo del cinema ricorda quest’anno i 50 anni dall’uscita in Italia de “Il Vangelo secondo Matteo”, capolavoro di Pier Paolo Pasolini che narra la vita Gesù. La città di Matera – tra i cui celebri “Sassi” il regista ambientò le sue scene – ha inaugurato ieri una mostra celebrativa, curata da Marta Ragozzino, che descrive la genesi dell’opera pasoliniana. Uno dei collaboratori della Mostra, Ermanno Taviani, docente di Storia contemporanea all’Università di Catania, riflette sulla figura del regista e sulla sorpresa che il suo film generò all’uscita nelle sale. L'intervista è di Mara Miceli

R. – Quello che colpisce è la sua capacità di rovesciare anche l’immagine di sé attraverso le sue opere. Dopo la “Ricotta” – per cui viene condannato in primo grado a un anno di reclusione per vilipendio della religione – tutti si aspettavano uno scandalo dal “Vangelo secondo Matteo”, dal regista che era dichiaratamente ateo, marxista, omosessuale. Invece, fa un film che piace enormemente a una parte del mondo cattolico, anche quello un mondo in una fase importante, di transizione, con il Concilio Vaticano II e Papa Giovanni, ancora vivo quando viene progettato il film, che muore nel corso della sua realizzazione e a cui è dedicato. Quindi, in quel senso, è molto bella la testimonianza di padre Fantuzzi – critico per un trentennio della Civiltà Cattolica – che dice di essere andato a vedere il film molto prevenuto perché Pasolini a Venezia disse: “Ho fatto un film dove c’è la Resurrezione ma io non ci credo. Penso che Cristo sia stato solo un uomo e non il Figlio di Dio”. Lui resta così sconvolto da questo film per la bellezza, la fedeltà anche al testo evangelico, che va a trovare Pasolini e diventa poi un suo grande amico per il resto degli anni.

D. – Qual è il preconcetto cucito addosso a Pasolini più difficile da scardinare ma anche il più insidioso?

R. – Sono tanti e anche tante le leggende. Forse, il preconcetto è quello di un’artista che voleva essere a tutti i costi provocatorio. Sicuramente lo voleva essere, ma sicuramente Pasolini voleva anche essere un poeta e nel far questo teneva un registro poetico sia nel fare i film, sia nello scrivere poesie o romanzi. Però, voleva raccontare storie: voleva esprimere un mondo interiore, un suo universo che era estremamente sfaccettato e complesso e lo testimonia appunto la sua produzione ma anche il suo archivio in cui si vede questo suo carattere onnivoro delle conoscenze e delle letture. In questo senso, alla fine Pasolini si trovava a suo agio con alcuni intellettuali suoi amici ma non tantissimi e con – notoriamente li mise nei suoi film – le persone del popolo.

D. – Uno dei momenti di questa pellicola che per te è tra i più geniali e profetici?

R. – A me piace molto la parte in cui Gesù sceglie gli Apostoli: quando li chiama, corrono sulla spiaggia… La trovo molto più astratta rispetto al realismo del film e molto poetica. Devo dire che, come lettore laico del Vangelo – anche se cinematograficamente non è la sequenza migliore – la parte sul discorso della montagna continua a colpire, perché continua a colpire con le parole al di là di qualsiasi considerazione di tipo religioso.

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Nella Chiesa e nel mondo



Organizzazione dei Paesi Islamici difende i cristiani di Mosul

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“Lo spostamento forzato dei cristiani di Mosul è un crimine intollerabile. Le atrocità commesse e le pratiche in atto non hanno nulla a che vedere con l’Islam, con i suoi principi di tolleranza e convivenza”: l’Organizzazione della Cooperazione Islamica (Oci) denuncia con forza le violenze degli insorti sunniti dello Stato islamico, che hanno preso il controllo della seconda città irachena il mese scorso.

Nel comunicato diffuso dal gruppo di 57 Paesi musulmani, ripreso dall'agenzia Misna, il segretario generale dell’Organizzazione, il saudita Iyad Madani, ha dato la disponibilità dell’Oci a “fornire l’assistenza umanitaria necessaria alle persone sfollate, in attesa che possano rientrare a casa”.

Da settimane il gruppo radicale dello Stato islamico – che ha creato un califfato a cavallo tra il nord dell’Iraq e l’est della confinante Siria – ha avvertito che gli abitanti cristiani di Mosul “devono convertirsi all’Islam e pagare un tassa speciale”, nel caso contrario rischiano “la pena capitale” e “devono lasciare” il capoluogo della provincia di Ninive.

Secondo l’ultimo bilancio diffuso dall’Onu, dall’inizio dell’offensiva dei combattenti sunniti, partita da Fallujah (ovest) lo scorso gennaio, in Iraq almeno 5576 civili sono stati uccisi, di cui 2400 nel solo mese di giugno, e altri 11.662 sono rimasti feriti. (R.P.)

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Consiglio delle Chiese: allarme per esodo dei cristiani da Mosul

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Il Consiglio Ecumenico delle Chiese (Wcc) si unisce all’allarme del Patriarca caldeo Louis Sako per l’esodo di cristiani da Mosul, dopo l'ultimatum lanciato venerdì dai jihadisti dell’auto-proclamato Stato islamico di Iraq e Siria (Isis), che hanno conquistato la città irachena il mese scorso.

In una dichiarazione diffusa, ieri il Segretario generale del Wcc, il pastore Olav Tveit, definisce gli ultimi sviluppi “tragici” e “inquietanti”, chiedendo solidarietà e “preghiere per tutto il popolo iracheno e in particolare per le minoranze cristiane e musulmane costrette a lasciare le loro case”.

Venerdì, il patriarca caldeo Louis Sako aveva detto alla France Presse che le famiglie cristiane stanno raggiungendo il Kurdistan, sottolineando come "per la prima volta nella storia dell'Iraq, Mosul è ora senza cristiani". Secondo il patriarca, fino a giovedì scorso erano ancora 25.000 i cristiani presenti nella città; poi, l'ultimatum trasmesso di venerdì dagli altoparlanti delle moschee ha scatenato una fuga di massa. Ma già nei giorni precedenti le case dei cristiani sono state segnate con la lettera N, per "Nassarah" (nazzareno), termine con cui nel Corano si fa riferimento ai cristiani.

“E’ triste vedere la fine della presenza secolare cristiana a Mosul”, ha commentato il rev.do Tveit che ha ribadito l’impegno di tutte le Chiese per il dialogo con le altre comunità etniche e religiose per proteggere il pluralistico” della società irachena. (A cura di Lisa Zengarini)

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Centrafrica. Forum di pace a Brazzaville: posizioni distanti

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Una gestione “consensuale ed inclusiva” della transizione che terrà conto di “tutte le sensibilità geografiche, politiche, comunitarie e sociali del Paese”: è l’impegno preso dalla presidente ad interim del Centrafrica, Catherine Samba Panza, durante il primo giorno del Forum per la riconciliazione nazionale e il dialogo politico, che prosegue fino a domani a Brazzaville.

Dal canto suo il mediatore, il presidente congolese Denis Sassou Nguesso, ha auspicato da parte delle Nazioni Unite - riferisce l'agenzia Misna - un “dispiegamento più veloce” dei Caschi blu, che sulla carta dovrebbe avere inizio il 15 settembre.

Contrastanti invece le dichiarazioni rilasciate da alcuni partecipanti, soprattutto tra i due gruppi armati rivali, l’ex ribellione Seleka e le milizie di autodifesa Anti-Balaka, allontanando la speranza di raggiungere un cessate il fuoco nella capitale della Repubblica del Congo.

I rappresentanti della Seleka hanno sostenuto di non aver preso visione del documento stilato a Bangui per formalizzare una tregua. Poi il numero tre della ribellione nonché capo della delegazione, Mohamed-Moussa Dhaffane, ha posto la “divisione del Centrafrica” – per consentire ai musulmani di stabilirsi al nord – come condizione preliminare al negoziato.

Più morbida la posizione dei rivali Anti-Balaka, espressa dal capo delegazione Patrice Edouard Ngaissona, pronti a firmare un accordo di cessazione delle ostilità, “ma non a qualunque prezzo”, per “ridare speranza e vita al popolo centrafricano che ha sofferto fin troppo”.

A Brazzaville non è presente parte della società civile e nemmeno i leader religiosi che hanno espresso dubbi per la mancanza di un’agenda chiara dei lavori e per la scelta di tenere l’incontro fuori dal Centrafrica.

Intanto a Bangui un esponente della Seleka è stato assassinato da un gruppo di Anti-Balaka per vendicare la morte di un collega, facendo nuovamente salire la tensione nella capitale, nonostante la presenza di truppe francesi e africane. (R.P.)

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Sierra Leone: leader religiosi preoccupati per il diffondersi di ebola

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Cresce l’allarme in Sierra Leone per l’inarrestabile diffondersi dell’epidemia di ebola che da febbraio scorso ha provocato almeno 200 vittime. A lanciare un ulteriore segnale d’allarme è stato nelle ultime ore il vescovo metodista John Yambasu, a capo di una coalizione di leader religiosi molto attiva nel Paese africano sin dai tempi della guerra civile terminata nel 2002. Yambasu ha criticato il governo per avere sottovalutato la virulenza dell’epidemia, diffusasi anche in Liberia e Guinea, uccidendo almeno 600 persone. Il vescovo Yambasu ha denunciato alla stampa internazionale il ritardo del governo nel dichiarare lo stato di emergenza sanitario e nel fornire le necessarie risorse economiche per la lotta al virus.

Tra le principali cause di diffusione dell’infezione i leader religiosi ritengono via sia proprio la mancanza di adeguate informazioni sanitarie su come evitare il contagio. La maggior parte delle vittime, infatti, si infetta durante i riti tradizionali di sepoltura, che vengono celebrati senza le necessarie precauzioni. Infine, in molti casi le persone malate vengono stigmatizzate e allontanate dai villaggi contribuendo così al diffondersi della malattia.

Secondo quanto riportato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità il virus dell’ebola si diffonde sia attraverso il contatto fisico, sia attraverso il sangue e le deiezioni corporee, uccidendo il 90% delle persone infette. Nonostante il gran numero di morti il ministero della sanità della Sierra Leone nega che l’epidemia abbia raggiunto livelli di emergenza, pur definendo la situazione molto seria.

Il gruppo interreligioso guidato dal vescovo Yambasu ha invitato gli appartenenti alle diverse religioni del paese a pregare nei rispettivi luoghi sacri affinché l’esecutivo possa trovare il modo più adeguato per contrastare il diffondersi dell’infezione. (C.G)
 

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Vescovi del Cile: no ad aborto e matrimoni gay

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“La vita e la famiglia sono doni di Dio per ciascuno di noi”: si apre così la nota che il Comitato permanente della Conferenza episcopale del Cile (Cech) ha diffuso ieri. Nel documento, a firma del presidente, il card. Ricardo Ezzati Andrello, i presuli intervengono su due temi ‘caldi’ dell’attualità cilena: la proposta normativa sui matrimoni tra persone della stesso sesso ed il progetto di legge per la depenalizzazione dell’aborto terapeutico, così da renderlo possibile nei casi di stupro, di rischio per la vita della madre e di impossibilità di sopravvivenza del feto; in tutti gli altri casi, invece, l’aborto resterebbe proibito.

Di fronte “al cambiamento epocale” che vive oggi l’umanità, la Cech vuole dire “una parola evangelica” e vuole farlo “con chiarezza, fermezza e profondo rispetto, per il bene della famiglia e del Cile”, guardando con timore “all’ideologia e ad un certo populismo” che condiziona la riflessione su tali questioni. In primo luogo, dunque, i presuli ribadiscono il rifiuto dell’aborto e “la convinzione assoluta che il diritto alla vita umana è il primo dei diritti umani che deve essere rispettato e difeso sempre, dal concepimento e fino alla morte naturale”.

Di qui, il richiamo alla “solidarietà nei confronti delle tante donne sottoposte a pressioni per evitare la nascita del figlio” e la sottolineatura che “la soppressione di un bambino non desiderato è un’ingiustizia ed implica un trauma che può segnare per tutta la vita”. “Una mamma che, disgraziatamente, abortisce – continuano i presuli – deve portare un peso enorme per il resto della vita” ed è per questo che “invece di condannarla, bisogna aiutarla, sostenerla, come fa la Chiesa attraverso programmi di supporto per le madri adolescenti o fondazioni che si occupano delle adozioni dei neonati”. “Invece di discutere su una legge per porre fine ad un essere umano concepito – scrive quindi la Cech – possiamo discutere su come lo Stato può farsi carico di sostenere e finanziare iniziative in favore della vita”. “Una legge che depenalizzi l’aborto non serve”, affermano i vescovi.

Poi, la Chiesa del Cile sottolinea l’importanza della famiglia, “vero valore fondante della comunità umana, più dell’organizzazione politica e sociale, più delle leggi e della Costituzione”. E di fronte alle coppie separate, i vescovi ricordano che “la Chiesa non condanna e non scomunica, come invece si crede normalmente”, però “promuove la stabilità matrimoniale” e chiede “leggi a servizio della famiglia”. Quanto alle unioni di fatto eterosessuali, la Chiesa auspica che “lo Stato vigili sull’applicazione delle leggi già esistenti che determinano i diritti ed i doveri di queste unioni e dei loro figli”; allo stesso tempo, tuttavia, la Chiesa ricorda che “le unioni di fatto non si possono equiparare giuridicamente all’unione stabile ed indissolubile di un uomo ed una donna per formare una famiglia, cellula basilare della società”.

Riguardo, invece, alle unioni omosessuali, i vescovi affermano: “È superficiale parlare di ‘matrimonio paritario’, semplicemente perché non lo è”. “Non è un’unione tra un uomo ed una donna – spiegano i presuli – e non ha la stabilità propria del matrimonio, vocato alla procreazione”. Se, dunque, due persone dello stesso sesso desiderano “convivere e condividere i loro beni”, aggiungono i presuli, “potranno farlo senza nuove leggi”. Al contrario, eventuali nuove normative dovrebbero far sì che tali persone “siano rispettate e non discriminate”, perché “chi è omosessuale non è un castigo di Dio, come molti erroneamente pensano”. “La Chiesa non condanna gli omosessuali – ribadisce ancora la Cech – e ritiene che ogni progetto di vita umana debba accordarsi alla volontà di Dio, espressa dai suoi comandamenti, così da essere retto e santo”.

Infine, a proposito della famiglia, i vescovi cileni sottolineano che “non esiste la famiglia perfetta, proposta dalla propaganda consumistica, in cui non passano gli anni, non esiste la malattia, il dolore o la morte”. Al contrario, il punto di riferimento è quello della Sacra Famiglia, nucleo “solidale” che “affronta numerosi drammi”, ma che è “testimone della risurrezione del Figli di Dio”. Di qui, l’appello dei presuli affinché si rispetti “il diritto ed il dovere dei genitori di scegliere il tipo di educazione da impartire ai figli, in base alle loro convinzioni”. La nota episcopale si conclude, poi, con l’invito a promuovere la tutela gli anziani, un settore importante per l’azione di “Stato, Chiesa, istituzioni e volontariato”, per riflettere sulla famiglia, “patrimonio vivo del’umanità”. (A cura di Isabella Piro)

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Bangladesh: cattolici protestano per attacco alla chiesa di Boldipukur

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Circa 2.500 cattolici, incluso il vescovo di Dinajpur Sebastian Tudu e più di 100 tra sacerdoti e suore, hanno protestato ieri per l'attacco contro la chiesa cattolica di Boldipukur, avvenuto il 6 luglio scorso. La manifestazione si è svolta di fronte all'ufficio dell'upazila (sotto-distretto) di Mithapukur, nel distretto di Rongpur. È la prima volta che un vescovo in Bangladesh prende parte a una dimostrazione.

All'agenzia AsiaNews mons. Tudu, vescovo della diocesi in cui è avvenuto l'attacco, spiega il motivo del raduno: "Vogliamo un'indagine appropriata e una punizione esemplare per chi ha colpito sacerdoti e suore. Credo che questo tipo di aggressione sia un attacco che colpisce i sentimenti religiosi".

Sempre ieri a Dhaka circa 600 cattolici - inclusi 30 tra sacerdoti e suore - hanno formato una catena umana per dimostrare contro l'attacco di Boldipukur. La manifestazione è stata organizzata dalla Commissione episcopale per la giustizia e la pace e dalla Bangladesh Christian Association (Bca), davanti al National Press Club.

"Noi cristiani siamo pacifici - ha dichiarato padre Albert Rozario, segretario della Commissione episcopale -, non vogliamo alcun conflitto. Vogliamo solo pace e armonia religiosa, ma spesso diventiamo vittime". Il sacerdote, che è anche parroco di Tejgaon, porta l'esempio degli espropri terrieri compiuti dai settlers bengalesi ai danni dei tribali.

"Anche noi - ha sottolineato Nirmol Rozario, segretario generale della Bca - siamo membri di questa nazione. I cristiani hanno combattuto per l'indipendenza del Paese. Vogliamo pace e giustizia. Vogliamo sicurezza per i sacerdoti. (R.P.) 

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Vietnam: visita del relatore speciale Onu sulla libertà religiosa

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Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di religione, Heiner Bielefeldt, in visita in Vietnam dal 21 al 31 luglio, “abbia accesso completo a tutte le parti del Paese e incontri tutte le comunità religiose”: è quanto chiedono Ong e associazioni e attivisti per i diritti umani come “Christian Solidarity Worldwide” (Csw). In una nota inviata a Fides, l’Ong ricorda critiche e preoccupazioni sollevate dal nuovo decreto che disciplina gli affari religiosi, il cosiddetto “Decreto 92”, che lascia poteri piuttosto arbitrari ai funzionari governativi.

Il Relatore speciale visita un Paese per conoscere meglio la situazione locale, riguardo alla promozione e tutela della libertà di religione, agli ostacoli al godimento di tale diritto. La visita di Bielefeldt prevede incontri con vari funzionari del governo e delle autorità locali, nonché con rappresentanti delle comunità religiose e organizzazioni della società civile. Al termine della visita, Bielefeldt terrà una conferenza pubblica ad Hanoi, il 31 luglio, e presenterà una relazione contenente le sue conclusioni e raccomandazioni al Consiglio Onu per i diritti umani nel 2015.

Secondo una ricerca compiuta da Csw, nel 2013 e nel 2014 le violazioni della libertà religiosa e gli abusi sulle comunità religiose in Vietnam includono molestie, intimidazioni e monitoraggio intrusivo, arresti, torture e uccisioni extragiudiziali. Le vittime sono sia i “neo convertiti”, sia membri di comunità religiose di antica tradizione, come protestanti, cattolici, buddisti Hoa Hao, musulmani, altri buddisti, seguaci del Cao.

Csw condivide le preoccupazioni espresse dai leader religiosi sul Decreto 92 sulle attività, “che contiene una terminologia vaga e ambigua, e pone le basi per l'introduzione di nuovi ostacoli burocratici alle attività pacifiche e legali dei credenti”. Ricorda poi le notizie di gravi violazioni delle libertà sulle comunità cristiane protestanti negli altopiani centrali e del nord-ovest, e sulle comunità cattoliche in varie parti del paese. Incoraggia, dunque, il Relatore speciale a incontrare queste comunità. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 203

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.