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Sommario del 23/07/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa alla Chiesa britannica: difendete la vita da ogni fragilità

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Difendere la vita contro “la cultura della morte” e portare l’amore di Cristo nei luoghi dove si manifestano “nuove forme di povertà e fragilità”. Lo scrive Papa Francesco nel messaggio – a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin – indirizzato ai cattolici di Regno Unito e Irlanda che il 27 luglio celebreranno l’annuale Giornata per la vita. Il servizio di Alessandro De Carolis

Non serve voltare le spalle, perché la “carne di Cristo”, quella che soffre, non sparisce. Senza tetto, tossicodipendenti, rifugiati, migranti, anziani: l’identikit della povertà ha cento facce e tutte interrogano la coscienza cristiana. Papa Francesco lo scrive a chiare lettere nella Evangelii gaudium, al numero 210, quando invita la Chiesa a essere “senza frontiere” e “madre di tutti”.

Un’eco chiara di questo pensiero si trova nel Messaggio scritto dal Papa per l’imminente Giornata per la vita che domenica prossima coinvolgerà anzitutto le Chiese di Inghilterra, Irlanda, Scozia e Galles, col titolo “# livelife proteggi e ama la vita dal suo inizio alla sua fine naturale”.

Papa Francesco riprende un passaggio della sua Esortazione apostolica rivolgendosi in particolare ai giovani. La Giornata dedicata a riflettere sulla “santità del dono della vita” che viene da Dio vi ispiri, scrive, “a combattere la cultura della morte, non solo lavorando per garantire un'adeguata tutela legale per il diritto umano fondamentale alla vita, ma anche cercando di portare l'amore misericordioso di Cristo come un balsamo che dà vita a quelle preoccupanti ‘nuove forme di povertà e fragilità’, sempre più evidenti nella società contemporanea”.

I proventi della prossima Giornata per la raccolta Vita nel Regno Unito e in Irlanda saranno devoluti a sostegno delle strutture della Chiesa locale che si occupano della promozione e della difesa della vita.

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I cristiani di Caserta al Papa: Santità ci ridia la speranza

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Caserta è una terra di nessuno, nella quale la persona si perde, dove sono particolarmente gravi degrado ambientale e paesaggistico, arretratezza sociale e sottosviluppo culturale. Questo è quanto scrivevano in una lettera del 1992 i cristiani di Caserta a Giovanni Paolo II. A 22 anni di distanza, le realtà cristiane della zona si rivolgono con una nuova lettera a Papa Francesco, nell’imminenza della sua visita, denunciando l’aggravamento della situazione in quella che ormai è la città dei diritti negati, “condannata dalla feudalità politica locale e dal potere economico, al ruolo inequivocabile di un grande dormitorio di Napoli”. “La nostra città – si legge – lasciata da sempre senza programmazione, diventa così il luogo dove tutto precipita, che mortifica le istanze dei meno abbienti, che emargina i piccoli, gli offesi, i più deboli”. Nella loro missiva, le Acli locali, Casa Rut delle Suore orsoline, Casa Zaccheo dei Padri sacramentini, e il Comitato Caserta Città di Pace, ripongono quindi speranza nella visita di Francesco e garantiscono il loro impegno affinché a prevalere siano giustizia e fraternità. Don Domenico Dragone, rettore del Santuario di Nostra Signora di Fatima, a Marcianise, farà parte del gruppo di sacerdoti che incontrerà il Papa, sabato 26. Francesca Sabatinelli gli ha chiesto se in tutti questi anni davvero nulla è cambiato a Caserta e provincia: 

R. – Dal punto di vista pratico, è quella che era, però nella capillarità tante cose vengono fatte e non vengono messe in luce. Per esempio, in ogni parrocchia abbiamo i cosiddetti centri di ascolto ai quali si rivolgono i fedeli che non hanno possibilità economiche e qui trovano, ad esempio, un medico per curare il proprio figlio: il centro di ascolto si offre, attraverso questi medici di buona volontà, di curare questi figli. Nel centro di ascolto va chi ha una difficoltà di abitabilità della casa e dalla parrocchia si manda qualcuno. Ecco, c’è questa catena di solidarietà talmente capillare che non emerge. Quindi, c’è tanto bene e c’è altrettanto male.

D. – Bene e male in un luogo che, nel ’92, i i cristiani casertani definirono “terra di nessuno”…

R. – Io direi che sotto questo aspetto c’è qualcosa di peggio. Oggi, le persone scappano via da città come Caserta, Capua, Marcianise, Maddaloni, perché c’è una tale aria mefitica a dir poco velenosa. Per cui, c’è gente che si arrangia come può, scappando in montagna per respirare un po’ di aria pura. Questa aria è la stessa che viene respirata dagli amministratori, dai politici che hanno figli, nipoti e discendenti. I nostri amministratori non hanno ancora capito che se l’ambiente va sempre più degradandosi, anche loro subiscono i mali, tanto che il sacerdote don Patriciello disse ad uno di questi camorristi: “Ma come, sei così sciocco da esserti portato il veleno in casa! Muori tu e anche i tuoi figli”. Ecco, da noi stanno morendo di cancro tanti bambini, tanti uomini, tante donne, per quest’aria così degradata.

D. – “Terra dei tumori” è uno dei nomi dati alla vostra zona, così come “Terra di Gomorra”, “Terra dei fuochi"…

R. – Io sono parroco a Marcianise, qui negli ultimi giorni ci sono stati un’infinità di arresti e di sequestri per milioni e milioni di beni tolti alla malavita, a coloro che le sono vicini, che sono affiliati. Si va all’arrembaggio della ricchezza facile del disonesto e non a quel tanto necessario che giorno per giorno onestamente serve e possiamo usare. C’è una mentalità talmente sbagliata che anche se vai dal parroco per chiedere un attestato di Battesimo ti occorre raccomandazione! È la cosa che dà più fastidio.

D. – Lei è a contatto stretto con i giovani: vede una consapevolezza diversa in questi ragazzi?

R. – In minima parte. La maggioranza è allo sbando perché oggi i giovani trovano difficoltà a fermarsi e a riflettere. Quando studiavo, uno dei doni più belli che ci veniva dato nei Seminari era il dono del silenzio per poter riflettere. Manca il tempo per poter riflettere, per capire dove siamo, chi siamo e dove stiamo andando.

D. – C’è anche la responsabilità delle famiglie, della scuola…  

R. – No, devo dire che dalle nostre parti – e io conosco presidi, docenti – si fa del tutto per tenere vicino questi giovani, per farli studiare. Ma molto spesso manca la coscienza nei papà e nelle mamme, che vogliono che il figlio venga sì promosso, ma non che sia preparato. Manca la crescita!

D. –  E ora sta arrivando Papa Francesco. Lei pensa che questa visita, la Messa che celebrerà davanti alla Reggia, in qualche modo darà respiro ai fedeli?

R. – Il Papa a Caserta ci dirà probabilmente cose che sono state già dette, però dette da lui, dette in questa determinata circostanza, possono entrare in qualche cuore e trasformarlo. I miracoli si fanno lentamente. Quando Papa Giovanni XXIII iniziò il Concilio Vaticano II disse: “Non è la pioggia torrenziale che fertilizza la campagna: è la pioggerella lenta e sottile”. Per cui, non sarà il messaggio del Papa, a Piazza Carlo III, a trasformare Caserta, ma quel messaggio noi lo ascolteremo, su quel messaggio noi mediteremo, e saranno poi i parroci e le realtà cristiane, cattoliche, a spiegarlo e a ritornarci per farlo diventare pioggerella semplice e continua. La trasformazione non avviene come un fulmine, avviene lentamente. Occorre camminare e lavorare sempre sulle stesse realtà, sugli stessi passi e sugli stessi messaggi.

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In udienza dal Papa il nunzio apostolico in Irlanda

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Papa Francesco ha ricevuto oggi in udienza mons. Charles John Brown, arcivescovo tit. di Aquileia, nunzio apostolico in Irlanda.

In Brasile, il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Zé Doca, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Carlo Ellena. Al suo posto, il Pontefice ha nominato padre Jan Kot, degli Oblati di Maria Immacolata, finora parroco nella Parrocchia “Sagrado Coração de Maria” a Campo Alegre do Fidalgo, diocesi di São Raimundo Nonato. Mons. Kot è nato il 10 maggio 1962, nella città di Makón, diocesi di Kraków (Polonia). Ha emesso i voti religiosi l’8 settembre 1986 nella Congregazione dei Missionari Oblati di Maria Immacolata ed è stato ordinato sacerdote il 20 giugno 1992. Dopo gli studi elementari, ha frequentato i Corsi di Filosofia e Teologia presso i Seminari degli Oblati di Maria Immacolata in Polonia. Inoltre, ha ottenuto la Licenza in Storia della Chiesa presso l’Università Rybnik, in Polonia. Nel 1994 è stato destinato alle missioni in Brasile. Nel corso del ministero sacerdotale ha ricoperto i seguenti incarichi: Vicario Parrocchiale a Siedlce – Polonia (1992-1994); Parroco a Jussarval, arcidiocesi di Olinda e Recife (1995-2000); Parroco di Vitória di Santo Antão, arcidiocesi di Olinda e Recife (2000-2005); 2° Consigliere Provinciale (2003-2012); 1° Consigliere Provinciale (dal 2012 in poi). Dal 2005 è parroco della Parrocchia “Sagrado Coração de Maria” a Campo Alegre do Fidalgo, diocesi di São Raimundo Nonato.

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A un anno dal viaggio di Francesco a Rio. il card. Tempesta:

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Un anno fa (22-29 luglio 2013) Papa Francesco compiva a Rio de Janeiro il primo viaggio del suo Pontificato in occasione della 28.ma Giornata mondiale della gioventù. Come ricordare questo importante evento? Silvonei Protz lo ha chiesto all’arcivescovo di Rio, il cardinale Orani João Tempesta:

R. – Con un ringraziamento a Dio per questa possibilità di aver avuto il Santo Padre nel suo primo viaggio internazionale qui in Brasile. La partecipazione giovanile è stata bellissima in quei giorni e ancora continua questa partecipazione nella nostra diocesi, così come bellissima è stata anche l’accoglienza del popolo brasiliano, del popolo carioca, a tutti i pellegrini che sono arrivati, e bellissimo è stato l’annuncio di Gesù Cristo, nostro Signore, il centro di questa Gmg.

D. – Come commemora Rio de Janeiro questo primo anniversario?

R. – Con celebrazioni, testimonianze, esposizioni fotografiche e filmati, in tutte le parrocchie. Avremo una giornata dedicata al ricordo della Gmg, il 26 luglio, sabato: ci sarà un grande incontro promosso dall’arcidiocesi, qui a Rio de Janeiro, per stare tutti insieme e ringraziare Dio per questa Gmg.

D. – Rio de Janeiro è cambiata dopo la Gmg?

R. – Si può dire che tutto è cambiato, ma ovviamente ancora molte cose devono cambiare per quanto riguarda la questione sociale e della convivenza pacifica. Devono cambiare molte cose. Ma ora vediamo i giovani partecipare di più alla vita ecclesiale, abbiamo visto il loro protagonismo, una presenza maggiore ai nostri incontri e una frequentazione maggiore nelle chiese. Tuttavia c’è ancora molto lavoro da fare per cambiare questa città.

D. – Il Papa ha conquistato i cariocas e i brasiliani continuano a pregare per il Santo Padre …

R. – Sì, certamente! In tutte le parrocchie si organizzano incontri di preghiera per il Papa. Il Santo Padre ha lasciato qui una bella immagine e ha instaurato un rapporto molto bello con tutta la popolazione carioca.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Accanto alle nuove povertà e fragilità: messaggio di Papa Francesco ai cattolici del Regno Unito e dell'Irlanda che domenica prossima celebrano l'annuale giornata per la vita.

Una chiesa che cammina: il Papa per i cinquant'anni del santuario argentino di San Pantaleone.

Nessun civile è sicuro a Gaza, mentre Kerry annuncia passi avanti verso una tregua

Tra ecologia e informatica, Maurizio Gronchi spiega come Teilhard de Chardin influì sul Vaticano II.

Perché gridiamo? Cristiana Dobner sulla domanda che rimbalza nella storia.

Un articolo di Antonio Paolucci dal titolo "Wunderkammer delle reliquie": nella cappella voluta dai Medici a Palazzo Pitti.

Manzoni in Argentina: José Maria Poirier su "I promessi sposi" tra storia sociale e presenza di Dio.

Premio Bresson a Carlo Verdone.

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Oggi in Primo Piano



Cristiani in Iraq. Mons. Warduni all'Occidente: perché state zitti?

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Grande preoccupazione per la persecuzione delle migliaia di cristiani costretti alla fuga da Mosul è stata espressa ieri dal ministro degli Esteri italiano, Mogherini, nell’incontro con i colleghi a Bruxelles. Della drammatica situazione dei cristiani dell'Iraq, cacciati dalle loro case e minacciati nelle zone del Paese controllate dai miliziani dello Stato islamico, ha parlato ieri con il Papa il nunzio apostolico in Iraq, l'arcivescovo Giorgio Lingua, ricevuto in Vaticano. Nel nord dell’Iraq, Fausta Speranza ha raggiunto telefonicamente mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad dei Caldei, impegnato in incontri significativi con autorità locali a Arbil: 

R. – Noi ci troviamo ad affrontare questa situazione. Il patriarca e noi vescovi ora ci troviamo al nord e stiamo cercando di analizzare questo problema grave, gravissimo. Ci chiediamo come mai accadono queste cose contrarie alla dignità dell’uomo? Contro Dio, contro l’uomo… Stamani, siamo andati dal presidente del Kurdistan e lui ci ha promesso tante belle cose. Ha detto: “Noi, o ce ne andiamo tutti insieme, o tutti insieme rimaniamo. Bisogna tagliare la strada a questa gente, che non sono uomini di coscienza perché fanno queste cose terribili contro tutti: contro i bambini, contro i vecchi, contro i malati...”. Ci ha assicurato la loro protezione per i cristiani. Dove è il rispetto dei diritti dei cristiani? Bisogna dire a tutto il mondo: Perché state zitti? Perché non parlate? I diritti umani esistono, o no? E se ci sono, dove sono? Ci sono bambini, bambini piccoli, ai quali strappano le medicine dalle mani e li gettano a terra… E' così in tanti, tanti casi! Vogliamo prima di tutto smuovere la coscienza di tutto il mondo: dov’è l’Europa? Dov’è l’America?

D. – Che dire della popolazione? Si tratta di attacchi di estremisti – di questo cosiddetto gruppo Isis – ma la popolazione irachena come vive questo attacco ai cristiani?

R. – Fino ad alcuni giorni fa, anche loro hanno taciuto, come il mondo intero. Però, adesso si stanno muovendo anche loro perché noi abbiamo chiesto loro di fare qualcosa: sono 1400 anni che viviamo insieme. 

D. – Mons. Warduni, ha qualcosa da aggiungere?

R. – Io voglio dire soltanto: cari amici, uomini di tutto il mondo, gridiamo a voi, fate qualcosa almeno per la tutela dei diritti umani! Cercate di dire a tutti di fare la pace, di non vendere le armi. E, soprattutto, oggi abbiamo sentito che tra questi [guerriglieri - ndr] ce ne sono oltre 2.000 provenienti dall’Europa…

D. – Sono mercenari…

R. – Sono mercenari, persone che vengono dall’Europa! E questo ci ha fatto molto male e ci ha sorpresi molto. Come mai, un belga, uno svizzero dovrebbe arrivare? Duemila persone per combattere contro cristiani innocenti… Comunque, noi preghiamo per tutti, preghiamo per la pace e chiediamo a voi tutti di pregare per la pace e la sicurezza della gente che non ha acqua, non ha elettricità, non ha tante cose… E queste persone hanno bisogno del vostro aiuto, di voi tutti!

“I cristiani iracheni di Mossul hanno più diritto di noi alla loro terra e alle loro case. Abitano la città da prima dell’arrivo dell'islam e noi abbiamo il dovere di proteggerli”. A parlare così è lo scrittore iracheno, Younis Tawfik, musulmano sunnita, nato a Mossul e in esilio in Italia dal 1979. Fabio Colagrande gli ha chiesto di commentare le persecuzioni dei cristiani attuate in Iraq, e in particolare a Mossul, dai jihadisti dell’Isis: 

R. – E’ una ferita molto, molto, molto profonda… Io sono venuto in Italia grazie ad un amico cristiano, mio maestro, il dr. Yousuf Habbi, che mi ha insegnato ad amare la Divina Commedia e il rapporto tra Oriente e Occidente. Quindi, è stato grazie ai cristiani d’Oriente che io ho scelto l’Italia e sono venuto qui. E dunque, quando sento di queste persecuzioni è un grande dolore. A parte che io me l’aspettavo, perché questa è la conseguenza chiara di un governo corrotto, fallito, che non è riuscito a portare avanti il progetto della democratizzazione del Paese. Ma ricordiamo molto bene che i cristiani iracheni hanno giocato un ruolo importante attraverso i secoli per la crescita dell’Iraq: i maggiori scrittori, artisti, medici, scienziati erano di fede cristiana e hanno saputo valorizzare tutta la cultura araba. Ricordiamo che i primi dizionari moderni della lingua araba, i primi studi sulla cultura araba, sono stati fatti per mano dei cristiani d’Oriente, per cui loro hanno dato molto, sono stati molto generosi.

D. – Ci sono stati gesti di solidarietà da parte dei cittadini musulmani nei confronti dei cristiani perseguitati?

R. – C’è molta solidarietà, ma purtroppo la gente non può fare niente perché, ad esempio, i miei stessi familiari erano stati costretti a lasciare le loro case, poi sono rientrati ma come fossero prigionieri nelle loro stessa città. Dunque, c’è molta solidarietà ma purtroppo nessuno fa qualcosa per mettere fine a questo nuovo dramma. Io oso dire che i cristiani iracheni di Mossul hanno più diritto di noi musulmani alla loro terra, alle loro case, perché abitavano a Mossul ancora prima dell’arrivo dell’islam e di alcune tribù arabe provenienti da diverse parti della penisola arabica. Dunque, noi abbiamo il dovere morale ed etico di tutelarli e di proteggerli. C’è proprio un comunicato ufficiale che io ho tra le mani, dell’Ente dei dotti musulmani a Mossul, che condanna fermamente questa azione dell’Isis e la considera contraria ai principi dell’islam. Per cui, non ha nulla a che fare con i principi di accoglienza, di ospitalità e di cittadinanza che la nuova lettura, la nuova interpretazione dell’islam ovviamente ripudia. Non siamo più all’epoca dell’Impero ottomano: oggi, siamo cittadini di un Paese del quale questi nostri concittadini cristiani fanno parte e anzi, come dicevo prima, hanno più diritto di noi di rimanerci. Ho letto anche adesso, su Facebook, una lettera che mi ha scritto un mio amico, un grande scrittore cristiano iracheno, che mi racconta un dramma allucinante di queste persone che sono state cacciate via dalle loro case. Oggi, ho visto anche immagini del quartiere, soprattutto del quartiere cristiano di Mosul, completamente vuoto. Le case sono segnate con la lettera “N” … Questo è incredibile, mai successo nell’epoca moderna e deve essere condannato, ma condannato non solo dall’Ente dei dotti dell’islam di Mosul, ma anche dalle istituzioni islamiche internazionali e dai governi arabi, islamici… Poi, qualcuno deve muoversi per mettere fine a questo dramma.

D. – Qual è la posizione della popolazione musulmana nei confronti di questo cosiddetto "califfato", che si è autoproclamato?

R. – Non è più epoca di un califfato del genere. Nessuno ha il diritto di acquisire questo titolo, perché nessuno ha i requisiti per essere un califfo. Noi sappiamo quali siano i principi di un califfato: per questo, non si può instaurare un califfato così, campato in aria. E non è visto molto bene da nessuno, nemmeno dai salafiti – io conosco alcuni dei Fratelli musulmani – né da altri, perché un califfato oggi non può sorgere, non ci sono i requisiti per la nascita di un califfato. Oltre che questo tipo di califfato, come abbiamo notato, è un califfato tra virgolette, è un’organizzazione criminale.

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Una donna di Gaza: solo Dio può cambiare questa realtà di morte

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L'intervento militare israeliano nella Striscia di Gaza potrebbe essere considerato un crimine di guerra. Lo ha affermato l'Alto Commissario Onu per i Diritti umani, Navi Pillay, aprendo il Consiglio a Ginevra. Nelle sue parole anche la condanna degli attacchi indiscriminati di Hamas nei confronti dei civili israeliani: si violano le leggi internazionali, dice l’Onu. La denuncia mentre a Tel Aviv il segretario di Stato Usa, Kerry, continua i colloqui con le delegazioni "C’è qualche progresso", fa sapere Kerry, ma per ora anche la tregua umanitaria chiesta dalla Croce Rossa internazionale è saltata. Israele ha attaccato l'ospedale Wafa a Sajaya ritenuto deposito di razzi di Hamas. Tra la gente di Gaza intanto prevale lo sconforto, unico aiuto sono le parole del Papa e il sostegno delle tante preghiere nel mondo, come racconta al microfono di Gabriella Ceraso una giovane donna del Movimento dei Focolari che vive a Gaza e che per ragioni di sicurezza mantiene l’anonimato: 

R. – Non esiste tregua al conflitto, vediamo solo morte, distruzione e rifugiati per le strade. E‘ una cosa che non si può concepire, non si può credere. Vicino a noi c ‘è una scuola del servizio Onu per i Rifugiati,ci sono una settantina di persone che vivono in 50 metri quadrati, rifugiati sotto gli alberi. Come si fa  a trovare pace in questa situazione?

D. – Come è cambiata la vostra vita da quando è iniziato il conflitto?

R. – Sinceramente, siamo un popolo già morto. Prima e dopo questa guerra nulla è cambiato. Siamo senza elettricità, senz’acqua, senza lavoro. I giovani stanno morendo psicologicamente: parli con loro e sembra di parlare con una persona di 70 anni senza aspettative nella vita e speranze. L’unica ambizione è avere almeno l’elettricità per due ore durante il giorno e trovare un po’ di carburante

D. – Sia Hamas che le autorità di Israele finora hanno detto che non ci si può fermare, bisogna finire quanto iniziato. Lo pensa anche lei?

R. – Noi non abbiamo nessuna aspettativa. Tutto quello che abbiamo è la preghiera. Rivolgerci a Dio e affidarci a Lui, perché non c’è nessun governo che ci possa aiutare né arabo né straniero, neanche l’Onu può fare niente.

D. – E  come può cambiare questa situazione?

R. – Se le cose dovessero cambiare sarebbe solo perché chi ha responsabilità e potere si ferma al cospetto di Dio. Solo Dio può fare la differenza, può cambiare i cuori pieni di odio, può cambiare questa realtà di morte e sofferenza

D. – Vi giunge notizia delle preghiere e degli appelli del Papa per voi? Servono a sostenervi?

R. – Abbiamo ricevuto tutti i messaggi e gli appelli del Papa. Sappiamo che  lui ci è vicino e chiede a Dio la nostra protezione con l’intercessione di Maria. E poi tutte le comunità cristiane intorno a noi ci chiamano ogni giorno per non farci sentire soli e ci sostengono con la preghiera. Tutto questo ci aiuta.

D. – Lei appartiene al Movimento dei Focolari e quindi alla spiritualità dell’unità che si costruisce con l’amore scambievole, come dice il Vangelo. Come fa a metterla in pratica ora ?

R. – Cerco ogni giorno al mattino e alla sera di tenere i contatti con famigliari e amici, sapere come stanno. Molti non hanno più una casa perché distrutta dalle bombe e noi stiamo accogliendo due famiglie rifugiate. Proprio ieri, parlando con loro dicevo: non pensate alla casa, alle cose materiali, l’importante è che siamo vivi e che stiamo insieme. L’importante è che ci siamo l’uno per l’altro. Poi, ogni giorno rendo lode a Dio per la grazia di un nuovo giorno di vita. Questo è già tanto: ancora esistiamo e ancora possiamo darci da fare.

D. – Se potesse lanciare un appello cosa direbbe?

R. – Vorrei rivolgermi  a tutto il mondo, a nome del mio popolo, affinchè torni a Dio, e si ricordi che a Gaza cristiani e musulmani siamo una sola famiglia, un unico popolo e un'unica vita, e stiamo subendo tutti la stessa sofferenza. Grazie.

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Nigeria. 100 giorni fa il rapimento di 276 ragazze. Ricerche vane

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Era il 14 aprile quando il gruppo estremista islamico Boko Haram rapiva nel nord est della Nigeria 276 ragazze tra i 12 e i 17 anni, con un blitz nel liceo di Chibok, nello Stato del Borno. Di quel gruppo, ancora 219 adolescenti mancano all’appello, mentre oltre 50 di loro sono riuscite a fuggire. I parenti delle rapite per la prima volta hanno potuto incontrare ieri, a 100 giorni dal sequestro, il presidente Goodluck Jonathan, dopo mesi di disperazione per le sorti delle giovani, ma anche di polemiche per la gestione dell’emergenza. I familiari hanno ricevuto rassicurazioni sulla vicenda, dopo che la scorsa settimana anche la giovane attivista pakistana, Malala Yousafzai, si era recata in Nigeria per supportarli. Della situazione nel Paese, Giada Aquilino ha parlato con padre Patrick Tor Alumuku, portavoce dell’arcidiocesi di Abuja: 

R. - Dopo l’incontro del presidente Goodluck Jonathan con i parenti di queste ragazze, c’è speranza in tutto il Paese perché i familiari hanno percepito dal presidente la sua voglia di fare il possibile per trovare queste giovani. Il Paese sta pregando per loro, sperando che tornino a casa. Stanno già facendo qualcosa, ha detto il presidente ai genitori, però sono molto preoccupati che un eventuale attacco a Boko Haram possa mettere in pericolo le vite di tutte queste ragazze.

D. - In questi mesi, la Chiesa cosa ha fatto?

R. - In questi mesi abbiamo pregato in tutte le chiese del Paese, su invito dei nostri vescovi. Quindi, abbiamo fatto adorazioni, abbiamo recitato il Rosario e abbiamo fatto delle veglie per la liberazione di queste ragazze.

D. - Il dialogo interreligioso, in questi frangenti, come può aiutare?

R. - Il cardinale di Abuja, John Olorunfemi Onaiyekan, ha dato un importante contributo: cercava di fare in modo che i cristiani non confondessero i Boko Haram con i veri musulmani. Anche i capi dei musulmani in questo Pese stanno dicendo: “Boko Haram non appartiene a noi”.

D. - Dai rapimenti agli attacchi alle chiese: perché i Boko Haram agiscono con tanta violenza?

R. - Possiamo capirlo solamente all’interno del contesto globale attuale. Ad esempio, il Papa negli ultimi giorni ha chiesto alla comunità internazionale di aiutare i cristiani in Iraq. Ci sono movimenti contro i cristiani in Iraq, in Egitto, in parte in Libia e in altri Paesi. Non si può vedere Boko Haram isolato da tutto questo movimento globale. Chi finanzia Boko Haram? Sono gli stessi che finanziano Al Qaeda in Maghreb e negli altri Paesi islamici. Infatti, la Nigeria ha scoperto che c’è un fiume di soldi che va a finanziare i Boko Haram: una ricerca indica che quasi chiaramente Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Iran mandano i soldi, danno la possibilità di formazione di questi islamisti, inviano armi che arrivano poi in Egitto, Libia, Tunisia e, da lì, scendono attraverso il Sahara per arrivare a noi, in Nigeria.

D. - Dal rapimento delle ragazze ad oggi, sono morti 11 familiari delle adolescenti, per problemi di salute legati al tragico sequestro ma anche in attacchi e violenze…

R. - È una tragedia grave, perché molti di questi genitori non vogliono più vivere. Conosco la storia di un genitore di queste ragazze che, prima di morire, recitava i nomi delle figlie rapite da Boko Haram. È una tragedia che si aggiunge alla tragedia...

D. - Cosa sperare?

R. - Speriamo che tutto ciò finisca presto. Ma pensiamo anche che la comunità internazionale debba dare un aiuto al nostro Paese.

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Messico, migranti. P. Rigoni: Papa ci ha portati da periferia a centro

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Il governatore del Texas, Rick Perry, ha inviato mille uomini della Guardia nazionale al confine con il Messico per fare fronte all'emergenza immigrazione. Perry chiede da tempo che l'amministrazione Obama agisca per fermare gli immigrati illegali. Proprio per affrontare la crisi umanitaria legata all’aumento del flusso di minori migranti non accompagnati dall'America centrale verso gli Usa, si è svolto nei giorni scorsi a Città del Messico un seminario voluto dal governo locale e dalla Santa Sede, a cui ha partecipato il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin. Fabio Colagrande ha intervistato padre Florenzo Maria Rigoni, scalabriniano, direttore della Casa del Migrante a Tapachula nel Chiapas, che ha preso parte all'incontro: 

R. – E’ stato un evento importante, perché il governo messicano da oltre 100 anni è un governo fondamentalmente laico. Le relazioni con il Vaticano sono state allacciate solo nel 1994. E’ stato un incontro ad alto livello tra Chiesa e Stato, e direi che tutti quelli del governo che hanno partecipato hanno riconosciuto il contributo che la Chiesa può portare alla società civile, sulla base del principio di sussidiarietà, aprendo sul drammatico tema delle migrazioni un cammino che per loro era chiuso. Questo voglio sottolinearlo perché il segretario di Stato, che tutta l’assemblea si aspettava facesse un saluto, ha fatto veramente una conferenza magistrale – come la chiamano – ed è stato lui veramente il vero “keynote speaker”: ha aperto l’orizzonte, direi che ha portato la compassione del Cristo personificata del Papa dentro la politica e ne ha fatto un elemento sociale, quello che in genere si considera solamente una dimensione evangelica.

D. – Nei primi sei mesi del 2014, 52 mila minori migranti illegali sono stati fermati dalla polizia statunitense al confine con il Messico. Ma quanto si tratta di un’emergenza? Quanto si tratta di una novità?

R. – Dobbiamo dirlo chiaramente: non è novità. Nel 2007, gli Stati Uniti – attraverso la Border Patrol, che è la polizia di frontiera – ha consegnato al Messico 48 mila minori. Recentemente, c’è stata una campagna da parte della criminalità organizzata che stava perdendo ormai parte del guadagno. Hanno messo in giro la voce – errata e falsa – che i bambini che fossero arrivati senza documenti ma soli, sarebbero stati accolti negli Stati Uniti. E’ scoppiato il caso perché, sì, noi l’abbiamo visto qui: l’aumento della migrazione ha avuto quest’anno, nei primi sei mesi, un balzo del 120%. E adesso, da un mese, è sceso ai livelli normali. Poi, c’è l’altro elemento: gli Stati Uniti devono prendere in considerazione che tutto ciò è il risultato della non-politica migratoria degli Stati Uniti, questo ping-pong tra democratici e repubblicani…

D. – Papa Francesco, nel messaggio inviato al seminario di Città del Messico, chiede accoglienza e protezione per questi minori…

R. – In 30 anni di attività, dopo la prima Casa del migrante Scalabrini a Tijuana, la Chiesa ha aperto al giorno d’oggi 58 di quelle che io chiamo “Case Betania”. Purtroppo, c’è una frontiera di cui nessuno parla, ed è la famosa frontiera verticale, quella che accompagna il cammino da sud a nord di tutti questi migranti. Questa frontiera verticale corre il rischio di trasformarsi in un calvario e di cancellare questa mano tesa di 58 Case. Papa Francesco – Dio mi perdoni se forse vado troppo in là – almeno qui in Messico, da parte del governo, prima di essere ascoltato come uomo di Chiesa, è stato accolto come uomo della gente. Noi, con lui, ci siamo sentiti passare dalla periferia al centro. Di nuovo, un missionario di frontiera, il curato di campagna ha alzato la testa e ha sentito di essere al posto giusto. E, d’altra parte, non possiamo dimenticare la grande tradizione degli ultimi Papi qui, in Messico, e Papa Francesco è già atteso come un uomo nostro, un uomo della gente. E, soprattutto, un uomo di Dio.

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Conferenza di Melbourne: in calo Aids, tubercolosi e malaria

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È stato presentato ieri, alla Conferenza internazionale sull’HIiv in corso a Melbourne, il Rapporto della rivista “The Lancet”, un’analisi del “Global Burden of Disease Study 2013” guidata dal prof. Christopher Murray dell’Università di Washington. Le cifre regalano speranze per il prossimo futuro: dal 1996, i farmaci antiretrovirali hanno salvato oltre 19 milioni di vite, diminuendo i decessi causati anche da malaria e Tbc. Le tre “malattie della povertà”, infatti, sono legate tra loro: trattare l’Hiv significa diminuire le probabilità di contagio da parte delle altre due. Paolo Giacosa ha chiesto di spiegare l’interconnessione tra le tre patologie a Carlo Federico Perno, ordinario di Virologia all’Università Tor Vergata e primario di Virologia molecolare al Policlinico “Tor Vergata”: 

R. – Globalmente, nei Paesi poveri abbiamo tre grandi cause di mortalità che sono l’Aids la tubercolosi e la malaria. Queste tre grandi cause collaborano fra di loro perché chi ha l’Aids è più predisposto ad ammalarsi di tubercolosi e malaria e ha una mortalità superiore da tubercolosi e malaria. Sono tre malattie, le cosiddette "malattie della povertà", che collaborano perfettamente per fare ulteriori danni in una situazione già disastrata. Quindi, sapere da questo report che negli ultimi anni c’è stato un calo della mortalità per quanto concerne sia l’Aids, sia la tubercolosi e la malaria non può che far piacere. Non va dimenticato che anche in questo senso c’è una correlazione tra le malattie. Finalmente, in Africa, nei Paesi poveri, è arrivata la terapia: oggi è arrivata a svariati milioni di persone che hanno il virus Hiv meno aggressivo. Di conseguenza, la tubercolosi e la malaria uccidono di meno. Ecco spiegato come pian piano si sta ottenendo un risultato che era auspicabile da tanto tempo. Attraverso l’Hiv si riesce a colpire l’Hiv stesso, che rimane una causa di morte primaria, ma anche la tubercolosi e la malaria.

D. – I dati diffusi in questi giorni non sono ancora un punto di arrivo, ma testimoniano i progressi della ricerca. Quali sono i programmi in atto per contrastare queste infezioni?

R . – Questo dipende dai vari contesti. Nei Paesi in via di sviluppo, proprio il trattamento delle persone infettate rappresenta un primo elemento attraverso cui ridurre le nuove infezioni, poiché una persona infettata e non trattata trasmette il virus. Una persona infettata ma trattata ha bassa carica virale e quindi tendenzialmente non trasmette il virus. Quindi, probabilmente oggi possiamo dire che il primo metodo attraverso cui ridurre le nuove infezioni nei Paesi in via di sviluppo è il trattamento dell’Hiv. In Occidente, la situazione è leggermente diversa. Noi abbiamo un trattamento diffuso, la stragrande maggioranza di pazienti con infezione da Hiv sono in trattamento, hanno carica virale bassa e quindi trasmettono poco l’infezione. Il vero problema dei Paesi occidentali è l’emersione del sommerso: cioè, quei pazienti che infettati da Hiv non sanno di esserlo, o non vogliono sapere a volte di esserlo, e continuano con comportamenti anche a rischio. In Italia, l’anno scorso abbiamo avuto circa quattromila nuove diagnosi di infezioni da Hiv e il numero non sembra diminuire negli anni.

D. – I dati ci dicono che siamo sulla strada del miglioramento, ma non bisogna allentare l’attenzione sulla prevenzione dal contagio?

R. – Assolutamente no. Semmai il rischio è l’opposto: cioè, abbassando l’attenzione, si ha la percezione che questa sia una malattia ormai guaribile. Dall’Aids purtroppo non si guarisce, l’Aids si cura. Se uno si tratta è meno a rischio di morte, è meno a rischio di trasmissione, ma se tutto questo non accade, il virus continuerà a diffondersi.

D. – Quindi, nei Paesi occidentali risulta molto importante focalizzarsi sull’educazione?

R. – Sull’educazione e sulla consapevolezza. La consapevolezza che l’Hiv c’è in Italia, c’è nei Paesi occidentali, che i comportamenti a rischio continuano a esserci e semmai tendono ad aumentare. Oggi, fare il test significa scoprire l’eventuale sieropositività in tempo utile per essere trattati presto e in questa maniera si ottengono due risultati: la malattia viene controllata prima e si può mettere a dormire per tanti anni, anche per tutta la vita, e nello stesso tempo non si trasmette il virus.

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Flashmob della Manif: no a reato di opinione "omofobica"

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No al ''reato di opinione omofobica'' e al “matrimonio-bis”: questo quanto chiede l’associazione Manif pour tous Italia, che ieri in una conferenza stampa al Senato ha evidenziato i rischi dei disegni di legge Scalfarotto sull'omofobia e Cirinnà sulle unioni civili. A seguire, un gruppo di persone, riunite a pochi metri da Palazzo Madama, ha dato vita ad un flashmob, in difesa, tra l'altro, della libertà di espressione. Il servizio di Debora Donnini

Famiglie, giovani, anche qualche bambino riuniti a pochi passi da Palazzo Madama in difesa della famiglia fondata sul matrimonio fra uomo e donna. Alcuni si sono imbavagliati con fazzoletti arcobaleno per difendere ''il diritto dei bambini ad avere una mamma e un papà''. Il flashmob ha seguito la conferenza stampa in cui si è parlato di due disegni di legge: il ddl sull’omofobia e quello sulle unioni civili. Ad intervenire sul ddl Scalfarotto, che attualmente è all’esame della Commissione Giustizia del Senato, il presidente dei Giuristi per la Vita, Gianfranco Amato:

R. – Per la prima volta nella storia dell’ordinamento giuridico del nostro Paese si sta introducendo un reato senza definirne il presupposto: questo disegno di legge non definisce cos’è l’omofobia, nessuna legge oggi in Italia definisce il concetto di omofobia. E allora chi sarà a definire questo reato? Noi sapremo al processo se quello che abbiamo commesso è un reato! Questo è tipico dei sistemi totalitari. In uno Stato di diritto, in uno Stato liberale, il cittadino deve sempre sapere preventivamente quali sono le conseguenze del suo comportamento, soprattutto se si tratta di conseguenze di carattere penale, ma prima del processo, non al processo. E perché diciamo che è tipico dei sistemi totalitari? Perché ricordiamo – ad esempio – che nell’ex Unione Sovietica vigeva il famigerato reato di attività anti-sovietiche. E ancora oggi non ne sappiamo molto: il concetto di "antisovietcik" era completamente evanescente, perché in realtà non serviva, ma era un mezzo per combattere gli oppositori politici. In più, se noi guardiamo quello che sta accadendo negli altri Stati europei, che già conoscono questo tipo di legislazione, lo scenario diventa ancora più inquietante.

D. – Cosa sta accadendo?

R. – Prendiamo, per esempio, la Gran Bretagna: anche lì la legge non definisce il concetto di omofobia. E allora come hanno risolto la questione? Semplice: il Crown Prosecution Service, che corrisponde più o meno alla nostra Procura della Repubblica, ha emanato la circolare sostenendo che - visto che la legge non definisce l’omofobia - nel perseguire questo reato, considererà omofobo ogni atto percepito come tale dalla vittima o da un terzo soggetto. Quindi lo scenario che ci attende sarebbe che il presupposto di questo reato verrebbe definito dal giudice o, se si utilizzerà il modello inglese, dalla vittima o da un terzo modello.

D. – Secondo la posizione dei Giuristi per la vita, il ddl sull’omofobia non è necessario, perché secondo voi la legge protegge già le persone per il loro orientamento sessuale…

R. – La questione, infatti, non è tanto la protezione giuridica, ma ideologica e culturale. Dal punto di vista pratico, infatti, oggi, l’ordinamento già dà a tutti i cittadini italiani, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, gli strumenti per difendere i propri diritti. Ricordiamo che l’art. 3 della Costituzione dice, infatti, che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di condizioni personali, sociali e opinioni politiche. Oggi, in realtà, ad una persona che commette un reato nei confronti  di una persona omosessuale per il suo orientamento sessuale, viene applicata l’aggravante dei cosiddetti motivi abbietti, che vale per la persona omosessuale come per il disabile e così via. Quindi, c’è già una tutela da questo punto di vista.

Sempre all’esame della Commissione Giustizia del Senato, il ddl Cirinnà sulle unioni civili e la disciplina delle convivenze, con il quale, secondo il consigliere nazionale del Forum delle Associazioni familiari, Simone Pillon, si rischia una situazione di caos. Perché? Ci risponde lo stesso Simone Pillon:

R. – Introduce, intanto, le unioni di fatto tra persone omosessuali, che godranno degli stessi identici diritti e doveri previsti per il matrimonio, tanto che è previsto che ci sia un decreto legislativo successivo, quindi una delega al governo, che vada a modificare tutti i provvedimenti legislativi e laddove ci sia scritto matrimonio si aggiungano: e le unioni civili. L’unico diritto che viene escluso è quello dell’adozione, ma l’esclusione riguarda solo formalmente l’adozione, mentre è perfettamente lecito - e la norma all’art. 1 comma 4 lo prevede esplicitamente – che ci siano figli dell’unione tra persone dello stesso sesso, registrati regolarmente. Ora siccome è impossibile una genitorialità omosessuale senza l’utilizzo dello strumento della fecondazione assistita, è chiaro che qua c’è un indiretto riconoscimento della pratica della fecondazione eterologa. Questa è la prima delle nuove forme. Poi ce ne sono altre due, che si affiancheranno.

D. – Quali sono le altre due forme?

R. – Avremo anche i contratti di civile convivenza e le convivenze registrate. Queste sono le tre unioni che vengono sancite da questa nuova proposta di legge. Quindi avremo sostanzialmente cinque possibilità: il matrimonio, come previsto dall’art. 29 della Costituzione, la convivenza non registrata da alcunché, come già oggi è possibile fare, e in più queste nuove tre forme, cioè l’unione civile, riservata alle persone omosessuali, il contratto di convivenza e poi le convivenze registrate.

D. – Questo, secondo voi, comporterà conseguenze a quale livello per la famiglia naturale?

R. – Noi, intanto, andremo incontro ad una sorta di “bazar della famiglia”, per cui alle giovani generazioni sarà posta la questione a quale tipo di unione vogliano approdare. E’ chiaro che questo diluisce la famiglia naturale, affiancandole forme di “famiglia artificiale”.

 

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Cinema. Settimana della critica, protagonista la donna

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Presentata a Roma la 29.ma Settimana internazionale della critica, che mostrerà i suoi film, selezionati con grande rigore e passione, nell’ambito del prossimo Festival del Cinema di Venezia. Sono opere prime provenienti da tutto il mondo di giovani registi e registe che sicuramente appassioneranno il pubblico, riservando commozione e sorprese. Il servizio di Luca Pellegrini

Lo sguardo della Settimana della Critica non è soltanto quello dei critici che scelgono i film da tutto il mondo – soltanto opere prime – per portarli alla Mostra veneziana. Quest’anno è anche lo sguardo di quel cinema che si fa critico nei confronti della realtà che ci circonda, dei sentimenti che esplora, storie che sono per lo più drammatiche, noir, ma caratterizzate da una forte dimensione autoriale e da uno stile assolutamente originale. Dall’Iran alla Serbia, dalla Francia alla sorprendente opera di un giovane tedesco ventinovenne, la Settimana non delude mai chi cerca nel cinema le ragioni stesse della sua esistenza, del suo fascino e anche del suo successo. Nel film della selezione la figura della donna – madri, vedove, ragazze – è la protagonista principale, cosi come lo sono i bambini, purtroppo nelle situazioni più estreme. Anna Maria Pasetti, che fa parte del gruppo dei cinque selezionatori, racconta questa esperienza:

R. – É stata una bella sorpresa trovare e poter scegliere delle pellicole che no solo abbiano come protagoniste delle donne ma che siano donne che esprimano un certo tipo di coraggio, che fanno delle scelte forti, importanti, che spesso si trovano in condizioni di gravidanza che le porta poi verso dei territori, percorsi di vita, che non avrebbero mai immaginato. Queste condizioni coinvolgono anche le persone che si trovano con loro. Poi si sono trovati dei film che guardano, anzi adottano lo sguardo del bambino. Nei nostri nove film presi in selezione, sette dei quali in concorso e due come eventi speciali fuori concorso, abbiamo due bambini protagonisti. Diversi hanno delle coppie, quindi la donna è in ogni caso presente e due film sono diretti da registe donne: uno viene dal Vietnam e l’altro dalla Palestina, quindi due territori forse non così tanto conosciuti dal punto di vista cinematografico. Ricordiamo che sono tutte opere prime”.

D. – Vi ha sorpreso l’unico film italiano in concorso, ma ambientato a Buenos Aires, dedicato a una figura straordinaria e leggendaria della danza argentina, Maria Fux…

R. – Si intitola “Dancing with Maria” (“Ballando con Maria”). Maria è una donna straordinaria di 93 anni, russa, emigrata in Argentina ma considerata ormai argentina, vive a Buenos Aires. È una danzatrice che fin dall’inizio della sua carriera ha adottato una etica e un’estetica della danza totalmente diverse da quelle che erano in vigore all’epoca. Maria nella sua libertà assoluta ha anche dato via a quella che possiamo considerare la “danzaterapia”. Nel documentario, molto bello, girato dal friulano Ivan Gergolet, la vediamo che impartisce lezioni con una grazia, una determinazione, una lungimiranza a persone che vengono da tutto il mondo, di tutte le età e soprattutto in qualunque tipo di situazione psicofisica immaginabile. Questo è un film di cui ci siamo letteralmente innamorati e ci auguriamo possa arrivare nelle sale perché non è il classico documentario informativo, ma è qualcosa che ha a che fare con il cinema nel migliore senso del termine.

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Nella Chiesa e nel mondo



Siria: colpito da un missile il convento francescano di Yacoubieh

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La sera del 20 luglio scorso un missile lanciato da un aereo ha colpito il convento francescano di Yacoubieh, un villaggio poco distante dai confini con la Turchia, situato nella vallata del fiume Oronte, nella Siria nord occidentale. L’edificio dei frati minori della Custodia di Terra Santa ha subito danni molto gravi ma per fortuna non ci sono state vittime.

Lo ha riferito il Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, aggiungendo che “padre Dhiya Azziz è rimasto quasi incolume. Ha riportato solo qualche ferita alla testa. Provvidenzialmente non era nella sua stanza, che è andata completamente distrutta. Preghiamo per padre Dhiya, - ha aggiunto - per la gente di Yacoubieh e Knaieh, per padre Hanna e per la pace in Siria e in tutto il Medio Oriente infuocato.”

La notizia è stata pubblicata ieri sulla rivista online della Custodia di Terra Sancta, terrasanta.net, accompagnata da alcune immagini di ciò che rimane del Convento e da alcune testimonianze di piccoli atti di solidarietà e amicizia compiuti da credenti di fede diverse, che continuano a ripetersi nonostante il grande disorientamento creato dal conflitto che dura ormai da tre anni.

A Yacoubieh si trova anche uno dei 4 Centri di accoglienza creati dalla Custodia di Terra Sancta che ogni giorno ospita circa 200 persone e provvede alle esigenze di altre 4000. Padre Azziz è uno dei frati rimasti in Siria ad aiutare la popolazione, non solo cristiana, a resistere, a non lasciare le proprie case.

“La Siria è un Paese devastato, non esiste più nulla, la gente è allo stremo delle forze – ha dichiarato fra Simon Herro, responsabile della Regione San Paolo per la Custodia di Terra Santa. “Un mese fa è caduto un mortaio sulla testa di un bambino di 5 anni, che veniva al nostro catechismo. Le scuole funzionano pochissimo e diverse zone tra cui Aleppo sono ormai senza acqua da settimane. Per fortuna il nostro Convento possiede 4 pozzi e quindi siamo in grado di fornire acqua alla popolazione. Noi frati vogliamo restare, nonostante gli spostamenti siano sempre più pericolosi. La settimana scorsa un nostro giovane frate è rimasto vivo per miracolo. Un mortaio gli è caduto molto vicino ma per fortuna non è esploso. Dobbiamo rimanere perché essendo in questa terra da prima che il conflitto iniziasse siamo in grado di far arrivare gli aiuti direttamente alla popolazione. Operiamo dai Conventi e dai Centri di accoglienza che abbiamo creato grazie alle donazioni che ci arrivano dall’Occidente attraverso l’Associazione pro Terra Sancta. Senza questi aiuti la popolazione non potrebbe riuscire a sopravvivere”. (I.P.)

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Commissione Onu per i diritti umani sui civili uccisi a Gaza

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“Le abitazioni civili non sono un bersaglio legittimo, a meno che non vengano usate o contribuiscano a scopi militari…In caso di dubbio, non sono bersagli legittimi…Alla popolazione – in particolare agli anziani, ai malati e alle persone con disabilità – non viene dato tempo sufficiente per lasciare le proprie case. E quando riescono a correre in strada non c’è alcun posto dove nascondersi e nessun modo di sapere dove cadrà la prossima bomba o il prossimo missile”.

È un passaggio del discorso pronunciato oggi da Navy Pillay, la giurista sudafricana che guida il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, in una sessione speciale dedicata alla situazione nei Territori Palestinesi con particolare riferimento alla Striscia di Gaza.

“Il disprezzo per il diritto internazionale umanitario e il diritto alla vita è stato incredibilmente evidente agli occhi di tutti nell’apparente presa di mira, il 16 luglio, di sette bambini che giocavano su una spiaggia di Gaza. Rapporti credibili raccolti dal mio ufficio a Gaza indicano che i bambini sono stati colpiti prima da un attacco aereo israeliano e poi dai bombardamenti navali. Tutti e sette sono stati colpiti. Quattro di loro – di età compresa tra 9 e 11 anni, della stessa famiglia Bakr – sono stati uccisi. Questi bambini erano chiaramente civili che non prendono parte alle ostilità” aggiunge successivamente Pillay, ricordando che l’episodio è solo uno dei tanti che sono accaduti negli ultimi 16 giorni e che hanno provocato 147 vittime fra i bambini.

Citando altri episodi di civili uccisi anche nel bombardamento di strutture mediche, come l’ospedale di al-Aqsa Hospital a Deir al-Balah - riferisce l'agenzia Misna - Pillay li ha definiti “solo pochi esempi in cui sembra esserci una forte possibilità che il diritto internazionale umanitario è stato violato in un modo che potrebbe corrispondere a crimini di guerra. Ognuno di questi incidenti deve essere investigato in modo appropriato e indipendente”.

“La cultura dell’impunità per le presunte violazioni del diritto internazionale invita a ulteriori trasgressioni e le vittime del passato diventano nuovamente vittime. I crimini di guerra e i crimini contro l’umanità sono due delle più gravi tipologie di crimini nella vita, e le accuse credibili che siano stati commessi devono essere adeguatamente investigate. Finora – ha sottolineato fra l’altro Pillay – non lo sono state”.

“Tutti questi civili morti e menomati, dovrebbero pesare gravemente sulle nostre coscienze. So che pesano gravemente sulla mia” ha concluso Pillay. (R.P.)

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Francia. I leader religiosi: non strumentalizzare il conflitto a Gaza

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Mentre continuano i combattimenti tra Hamas e l’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, la Conferenza dei responsabili del culto in Francia (Crcf) ha rivolto un pressante appello per la pace in Medio Oriente e ad evitare ogni strumentalizzazione in Francia del conflitto israelo-palestinese.

La drammatica escalation della guerra ha infatti acceso qualche tensione anche Oltralpe, dove in questi giorni alcune manifestazioni sono degenerate in scontri con la polizia e attacchi contro la comunità ebraica a Parigi. Una degenerazione che i leader religiosi cristiani, islamici e ebraici e buddhisti, riuniti nella Crcf condannano con fermezza in una dichiarazione congiunta diffusa lunedì , al termine di un incontro all’Eliseo in cui hanno condiviso le loro preoccupazioni.

“Rifiutiamo l’associazione di una determinata posizione politica a una determinata appartenenza religiosa”, afferma il documento in cui i leader ribadiscono il desiderio di vedere ristabilita la “giustizia e la pace nella regione”. Quindi l’appello a tutti “a pregare per la pace insieme a tutti gli uomini e donne di buona volontà”.

Tra i firmatari del documento il presidente della Conferenza episcopale francese mons. Georges Pontier, che oggi ha invitato i cattolici francesi rivolgere, durante la prossima messa domenicale, il 27 luglio, una speciale intenzione di preghiera per la pace in Terra Santa e in tutte le aree di conflitto nel mondo. (L.Z.)

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Indonesia: la vittoria di Widodo e il ricorso di Prabowo

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L’ex generale Prabowo Subianto, che ieri la Commissione elettorale ha dichiarato perdente nel ballottaggio con Joko Widodo per la carica presidenziale farà ricorso alla Corte costituzionale entro 72 ore, come previsto dalla legge. Un’inversione di rotta per Prabowo che ieri, poche ore prima che arrivasse la conferma della sconfitta con il 46,85% dei voti contro 53,15% del rivale, aveva rabbiosamente sconfessato la Commissione elettorale, dichiarato che non ne avrebbe accettato alcun responso e che lui, come pure il candidato alla vicepresidenza Hatta Rajasa, erano da considerarsi ritirati dalla corsa elettorale, Quindi non avevano più alcun titolo per ricorrere ai giudici supremi.

Una circostanza, questa - riferisce l'agenzia Misna - confermata la notte scorsa dai legali del candidato, esponente della politica conservatrice, nazionalista e islamista che da dieci anni preparava la sua ascesa alla massima carica del Paese.

Oggi invece l’avvocato Mahendradatta ha confermato che il suo cliente farà ricorso alla Corte costituzione “non solo per Prabowo, ma anche per tutelare i diritti dei votanti”.

“Applicheremo tutte le opzioni legali, una delle quali è di portare quelle che riteniamo frodi elettorali all’attenzione della corte”, ha confermato Mahendradatta, confermando anche che Prabowo resta a tutti gli effetti un candidato valido. Una situazione che allenta la tensione tra i due schieramenti, ma che al momento non dà certezze al Paese e rischia di innescare una crisi istituzionale. Una scelta difficile, forse incentivata anche dalla dissidenza di diversi esponenti della coalizione che sostiene Prabowo, favorevole a un’accettazione della sconfitta nel nome della coesione nazionale. (R.P.)

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Thailandia: approvata nuova costituzione della giunta militare

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Il sovrano thailandese ha approvato e firmato la costituzione provvisoria presentata dalla giunta militare. Il documento è stato immediatamente pubblicato sulla Gazzetta reale entrando in vigore da oggi. Preparata nelle ultime settimane - riferisce l'agenzia Misna - la costituzione è stata ritenuta necessaria per la nascita di nuove istituzioni provvisorie che delineeranno la fisionomia del Paese in vista di una futura restituzione dei pieni poteri a un parlamento eletto ma in un Paese la cui fisionomia va verso cambiamenti profondi.

Sono 48 gli articoli del documento di 17 pagine. Tra questi, il numero 6 riguarda la formazione di un’Assemblea nazionale di 220 membri che dovrà proporre al sovrano per l’entrata in carica un governo formato da un capo dell’esecutivo e da un gabinetto di non oltre 35 membri secondo l’articolo 19. Il Consiglio nazionale per le riforme, di 250 membri, sarà formato secondo quanto previsto dall’articolo 28. In modo significativo, l’articolo 44 indica che i membri dell’Assemblea legislativa nazionale saranno selezionati dal Consiglio nazionale per la pace e l’ordine (la giunta militare al potere dal 22 maggio) prima di essere proposti all’approvazione del sovrano, ma anche che la giunta avrà potere di modifica e veto sulle attività degli organi previsti nella costituzione.

Infine, l’articolo 48 garantisce l’amnistia ai responsabili del colpo di stato.

Prevista anche la formazione di un Comitato per la stesura della nuova costituzione di 36 membri installati nella carica dal presidente del Consiglio nazionale per le riforme, ma designati da vari organismi: un presidente designato dalla giunta militare, 20 membri nominati dal Consiglio nazionale per le riforme, cinque dall’Assemblea legislativa nazionali, cinque dal nuovo governo e cinque ancora dalla giunta.

Nessun membro delle nuove istituzioni provvisorie potrà avere partecipato a partiti politici o avere detenuto cariche politiche nell’ultimo triennio.

Infine, si rafforzano le voci che vorrebbero il capo della giunta militare e comandate dell’esercito, generale Prayuth Chan-ocha, come nuovo premier del governo provvisorio e di fatto punto di snodo tra forze armate e istituzioni. (R.P.)

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India. Pastorale nelle carceri: la Chiesa si ispira a San M. Kolbe

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La Chiesa indiana rafforza il suo impegno nella Pastorale carceraria. Da un lato denunciando il sovraffollamento, annoso problema nelle carceri indiane. D’altro canto scegliendo come figura ispiratrice san Massimiliano Kolbe, frate minore conventuale ucciso in un lager nazista ad Auschwitz. Papa Giovanni Paolo II ha canonizzato padre Kolbe come “martire della carità”, proclamandolo “patrono” dei prigionieri.

Il sovraffollamento nelle carceri in India si aggrava: secondo gli ultimi dati disponibili, alla fine nel 2012 il numero totale dei detenuti nel Paese era di oltre 385mila, su una capacità totale di circa 340mila posti. Alcune strutture ospitano il doppio dei detenuti. Per ridurre il sovraffollamento, il governo indiano ha lanciato, nello scorso decennio, un piano di modernizzazione e ampliamento delle prigioni, costruendo 125 nuove carceri, 1.579 caserme supplementari e 8.658 alloggi per il personale carcerario.

Ma, per la Chiesa, la soluzione non è costruire nuove strutture: come afferma una nota inviata all'agenzia Fides, la via giusta è la prevenzione del crimine, l’educazione pubblica alla legalità e all’etica. E, poi, è avviare percorsi di rieducazione che possano far diventare il soggiorno in un istituto di pena utile per la persona e per la società, non solo un provvedimento punitivo. La figura di padre Kolbe, infine, può essere un riferimento e un’esperienza concreta per annunciare la Buona Novella a chi vive la sofferenza della prigionia.

Il braccio esecutivo della Chiesa indiana per farsi “prossima” ai detenuti è l’associazione di apostolato “Prison Ministry India” (Pmi), avviata 28 anni fa in Kerala, approvata dalla Conferenza episcopale dell'India come una delle sue attività, e oggi rientrante sotto l’egida della Commissione “Giustizia e pace”. I membri della Pmi visitano di continuo le carceri e tengono incontri di dialogo e preghiera con i detenuti, gestendo anche Centri di riabilitazione per ex detenuti.

L’approccio è quello di visitare le carceri, incoraggiando i detenuti a riguadagnare la pace del cuore, stabilendo contatti con le famiglie dei detenuti e fornendo opportunità per la riabilitazione dopo il rilascio. A quest’opera collaborano le “Missionarie della Carità” che hanno aperto una casa, chiamata “Shanti Dhan” (“Dono della pace”) per uomini e donne provenienti da esperienza in carcere.

Oggi la Pmi ha 850 basi sul territorio indiano, 30 centri di riabilitazione e 6.000 volontari in tutta l'India. Organizza continui programmi di sensibilizzazione in parrocchie, università, scuole e altri istituti. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 204

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.