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Sommario del 24/07/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa abbraccia Meriam e la sua famiglia: grazie per la vostra fede!

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Il Papa ha incontrato stamani, a Santa Marta, Meriam, la cristiana sudanese condannata a morte per apostasìa da un tribunale di Karthoum, e l’ha ringraziata per la sua testimonianza di fede. Ascoltiamo il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, al microfono di Fausta Speranza

R. – E’ stata ricevuta non solo lei, ma tutta la sua famiglia. Lei era con il marito che è disabile – era in carrozzina – ed era con i due piccolissimi bambini, deliziosi. Quindi, una famiglia di quattro persone, molto affettuosamente unita. Il Papa ha manifestato verso di loro tutta la sua vicinanza e tenerezza; ha ringraziato per la testimonianza di fede che è stata data dai due coniugi e per l’esempio di coraggio, di costanza che è stato dato, e loro hanno ringraziato perché hanno sentito la vicinanza e il sostegno del Papa e della preghiera di tutta la Chiesa e di tutte le persone di buona volontà. Il Papa, con questo incontro, naturalmente anche al di là della vicinanza a questa specifica famiglia, ha voluto dire la sua solidarietà, la sua vicinanza per tutti coloro che sono in sofferenza, che subiscono persecuzioni o difficoltà per la loro fede o per la limitazione della libertà religiosa.

D. – Meriam è stata un caso eclatante; altre forse vengono meno sotto i riflettori …

R. – Certamente. E questi gesti hanno un grande significato per le persone che li possono vivere in prima persona, però hanno anche un significato e una portata simbolica, in senso molto forte, anche per tantissime persone che si sentono con ciò incoraggiate dalla vicinanza, dall’attenzione e dalla preghiera del Santo Padre.

D. – Ci sono stati momenti di conversazione privata…

R. – Sì, l’incontro è stato molto discreto, molto affettuoso e molto intimo. Per circa un quarto d’ora la conversazione è stata tra il Papa e i due coniugi, con l’aiuto del suo segretario che è interprete; era presente anche il vice ministro degli Esteri, Pistelli, che accompagna questa famiglia in questa nuova situazione qui in Italia: la aiuta ad affrontare i problemi per la migrazione. Poi, però, il Papa ha voluto salutare anche i membri del gruppo del personale italiano che sta accompagnando e sta aiutando questa famiglia in questo periodo e quindi c’è stato anche un momento di incontro più allargato. Sempre, però, molto gioioso, molto sereno.

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Meriam libera, ma un'altra donna, madre di 8 figli, costretta ad abiurare

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Finito l’incubo per Meriam: la giovane cristiana sudanese di 26 anni condannata a morte quando era all'ottavo mese di gravidanza per apostasia, è giunta questa mattina con un volo di Stato italiano a Ciampino, dove l'ha attesa il premier Renzi che ha parlato di “giorno di festa". L’Italia ospiterà Meriam e la sua famiglia per momenti di riposo prima del volo per New York. La sua vicenda purtroppo non è un caso isolato. Il servizio di Fausta Speranza: 

Condanna a morte e 100 frustate per adulterio. L’accusa: aver sposato un cristiano, lei considerata musulmana perché figlia di musulmano, ma Meriam non ha vissuto con il padre bensì con la madre che l’ha educata alla fede cristiana, che non rinnega: da qui l’accusa di apostasia. Dopo la condanna a maggio, il carcere insieme con il figlio di 20 mesi. Letteralmente in catene Meriam partorisce la piccola Maya. Il caso sciocca e mobilita il mondo. Il 23 giugno la liberazione e il tentativo di lasciare il Sudan con il marito che ha anche passaporto statunitense, ma ci sono ancora difficoltà e diversi fermi per motivi burocratici. Renzi nel suo primo discorso da presidente di turno dell’Ue cita il caso. L’Italia media con Khartoum e l’odissea si conclude con l’arrivo a Roma.

Il caso Meriam è emblematico di tanti altri. In molti Paesi del mondo il diritto alla libertà religiosa non esiste, in tanti, al di là dei riconoscimenti ufficiali, non viene rispettato. Fausta Speranza ne ha parlato con mons. Mansueto Bianchi, presidente della Commissione Cei per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso: 

R. – Quando si tratta della libertà religiosa, non si tratta di un qualunque tipo di libertà e men che meno di una libertà periferica – per così dire – nella vita e nella vicenda di una persona. Si tratta della radice di tutte le libertà, perché si tratta di un mondo di convinzioni e di valori che si collocano proprio nella profondità della persona e dai quali la persona stessa trae orientamenti, criteri di scelta, di giudizio, di relazione per la propria vita. E la mancanza contro questo diritto alla libertà religiosa colpisce alla radice la dignità umana. E colpisce la radice di ogni libertà.

D. – Il caso di Meriam: donna, giovane, incinta all’ottavo mese, che partoriva in carcere, condannata a morte, alla fustigazione per non voler rinnegare la propria fede, ha toccato il mondo. Ma bisognerebbe fare più spesso, al di là di questi casi eclatanti, una riflessione più profonda sul problema della libertà religiosa...

R. – Io credo proprio di sì. Credo soprattutto che bisognerebbe impegnarci ad avere un rispetto autentico della coscienza delle persone. E questo non vale soltanto per una certa fascia geografica o culturale; vale anche per il nostro Occidente considerato così progredito. Bisogna riconoscere il primato della coscienza della persona e rispettarlo, accoglierlo e farne un valore in quanto tale, di fronte al quale nessuno deve permettersi di entrare a passo di marcia battendo il passo, di manipolarlo. Questa vicenda, poi, è stata una vicenda assolutamente atroce, perché una donna che viene umiliata fino al punto di essere costretta a partorire in carcere, a partorire in catene, è veramente una vicenda che non solo calpesta la dignità della donna ma che, in un certo senso, ferisce la dignità del Paese e anche delle persone che hanno tramato e adottato questa linea di comportamento nei confronti di Meriam. E’ un assoluto atto di disumanità che chiede una condanna e una riprovazione senza ‘se’ e senza ‘ma’, e chiede la vigilanza dell’intelligenza e della coscienza perché queste cose non capitino; come invece stanno ampiamente capitando nel nostro tempo e attorno a noi. Vorrei aggiungere un’altra, brevissima cosa: vorrei che queste vicende non ci persuadessero a imboccare linee di reciprocità dura nel rapporto con certi Paesi o con certe culture, come istintivamente saremmo portati a fare; ma ci aiutino invece a credere ancora più profondamente nella strada del dialogo che dobbiamo per primi praticare, soprattutto con quelle componenti di quei Paesi o di quelle culture e di quelle esperienze religiose che provano essi stessi riprovazione ed esprimono condanna di fronte a questi avvenimenti, a queste vicende.

D. – Un dialogo in cui devono essere protagonisti anche i laici: vogliamo ricordare che il diritto alla libertà religiosa è anche il diritto a non credere, quindi coinvolge direttamente anche persone non credenti, laiche …

R. – Certo. E mi pare importante e interessante. Abbiamo avvertito voci di condanne e di allarme su questo versante, anche non soltanto dall’ambito cattolico, cristiano in generale, ma anche dall’ambito laico o non credente. A dire il vero, qualche voce più alta e un po’ più frequente non mi sarebbe dispiaciuta, come non mi sarebbe dispiaciuta qualche altra voce nell’ambito islamico, di condanna per questa vicenda. Però, ripeto, qui si tratta di un problema di ragione e di coscienza, prima ancora che di religione …

In prima linea a denunciare e seguire il caso, l’organizzazione Italians for Darfur. La presidente, Antonella Napoli, nell’intervista di Fausta Speranza, esprime la sua gioia per Meriam ma chiede di non abbassare la guardia: 

R. – Siamo riusciti a coronare il sogno di Meriam, di incontrare il Papa. Oggi questo è stato possibile grazie al viceministro degli Esteri Lapo Pistelli e al premier Matteo Renzi, che si è impegnato per questo caso, e a padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede. La cosa importante era che Meriam, che ha dimostrato questa grande fede, potesse essere accanto a Papa Francesco e mostrare ancora una volta questa sua grande, immensa fede che è stata la sua forza, insieme all’amore del marito Daniel e della sua famiglia.

D. – Una preghiera sicuramente di ringraziamento per tutte le preghiere che ha ricevuto da parte di tutti i cristiani, ma soprattutto una preghiera per quanti ancora stanno in condizioni simili alla sua …

R. – Assolutamente, perché non è finita. Infatti, il nostro impegno continua: abbiamo appena avuto notizia di un nuovo caso di una donna che è stata costretta ad abiurare: madre di otto figli, era stata condannata a morte per apostasia. E’ stata costretta ad abiurare e questo è stato denunciato dal vescovo. Purtroppo, non è l’unico caso dichiarato che sia stato reso pubblico. In più, è in atto una vera e propria persecuzione nei confronti dei cristiani. Mi raccontavano esponenti del clero che ho incontrato in Sudan, che spesso viene impedito di seguire le funzioni … c’è un grande ostracismo; spesso ai sacerdoti e agli stessi vescovi che escono dal Paese non vengono dati i visti per rientrare nel Paese … Quindi la situazione è di grande pericolo. Noi dobbiamo evitare che questo accada perché nessuno deve rinunciare alla propria fede, nessuno dev’essere condannato per la propria fede e ci dovrà essere, un giorno, una libertà in tutto il mondo per tutte le religioni. Mi auguro che tutto questo possa essere un giorno superato: con la fede, con l’impegno per i diritti umani io sono certa che questo possa essere ottenuto. La mia gioia più grande è aver visto su Maya, la piccola venuta alla luce in carcere, il vestitino che le ho portato quando li ho incontrati a Khartoum qualche settimana fa …

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Il cordoglio del Papa per la sciagura aerea a Taiwan

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Cordoglio per le vittime dell’incidente aereo a Taiwan e preghiera per le loro famiglie: è quanto scrive Papa Francesco in un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, inviato all’arcivescovo di Taipei, mons. Shan-chuan. Il Pontefice, si legge nel testo, “ha appreso con tristezza la notizia dell’incidente” e su tutti “invoca la consolazione, la forza e la pace di Dio”. 48, fino ad ora, le vittime e 10 i superstiti della sciagura aerea avvenuta ieri, quando un volo della  compagnia Trans Asia, con a bordo 58 persone, si è schiantato al suolo in fase di atterraggio sull'isola di Penghu. A causare l’incidente, il tifone Matmo.

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Tweet del Papa: impossibile la felicità se si è attaccati a denaro e potere

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Il Papa ha lanciato un nuovo tweet sul suo account @Pontifex in nove lingue: “Quando si vive attaccati al denaro, all’orgoglio o al potere, è impossibile essere felici”.

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Mons. Tomasi: Israele, uso sproporzionato forza; stop a razzi palestinesi

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Il Consiglio Onu per i diritti umani ha votato ieri a Ginevra l’apertura di una inchiesta sulle violazioni compiute nella guerra a Gaza. La risoluzione è passata con 29 voti a favore, uno contrario, quello degli Stati Uniti, e 17 astenuti, tra cui tutti i Paesi dell’Unione Europea, compresa l’Italia. Durante i lavori è intervenuto anche l’osservatore permanente vaticano, mons. Silvano Maria Tomasi, che ha chiesto una tregua immediata per consentire l’ingresso di aiuti umanitari in favore della stremata popolazione di Gaza. Israeliani e palestinesi – ha detto il presule ai nostri microfoni – sono purtroppo “due mondi che non si parlano e che cercano di trovare la soluzione dei problemi attraverso la violenza che mai porta risultati”. Sulla Commissione d’inchiesta, ascoltiamo lo stesso mons. Silvano Maria Tomasi al microfono di Sergio Centofanti

R. – Certamente la Commissione dovrà esaminare l’uso sproporzionato della forza che viene fatto dall’esercito d’Israele, quando distrugge, come dice, per ragioni di difesa militare - ma di fatto distrugge - case di privati e attacca strutture sanitarie, bombarda famiglie. Devono anche essere con la stessa oggettività esaminati questi gruppi palestinesi, che controllano l’utilizzo dei missili lanciati verso la popolazione civile israeliana. Quindi, il compito di questa Commissione non sarà facile. Si sono decise altre Commissioni nel passato, che non hanno veramente portato molti risultati: fanno il loro rapporto che viene comunicato ai Paesi membri delle Nazioni Unite; si riflette su questi rapporti e sulle raccomandazioni che vengono fatte, però poi l’attuazione di queste direttive rimane sempre campata in aria. Manca, infatti, mi sembra, la volontà politica di arrivare a risolvere il problema alla radice, rispettando i diritti di tutti: i diritti degli israeliani di vivere nel loro Stato in pace e sicurezza, senza essere attaccati, e il diritto dei palestinesi di avere anche loro una vita degna e poter affermare la loro identità attraverso uno Stato. 

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Appello di mons. Andreatta: la Terra Santa ha bisogno dei pellegrini

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Sta volgendo al termine il pellegrinaggio in Terra Santa di mons. Liberio Andreatta. Stamane, dopo aver celebrato la Messa a Nazaret, nella Basilica dell’Annunciazione, il vice presidente e amministratore delegato dell’Opera Romana Pellegrinaggi, ha ribadito la tranquillità che si respira negli itinerari percorsi in queste giornate di crisi israelo-palestinese. Ci sono le condizioni di sicurezza per i pellegrini - sottolinea - che sono chiamati a mostrare anche la loro solidarietà con le popolazioni della Terra Santa. Ascoltiamo mons. Liberio Andreatta al microfono di Luca Collodi: 

R. – Qui c’è una grande serenità e una grande tranquillità, nell’ambito dell’accoglienza dei pellegrini. I pellegrini sono arrivati, sono sereni, tranquilli e stanno percorrendo tutto l’itinerario del pellegrinaggio, accolti con entusiasmo e con amore. Tutti dicono: “Meno male che siete venuti! Non ci lasciate soli!”. C’è una grande speranza, una grande serenità e un grande desiderio affinché i pellegrini si rendano solidali e partecipi in questo momento di sofferenza e solitudine.

D. – I pellegrini possono favorire la pace, una svolta tra israeliani e palestinesi?

R. – Esattamente! Esattamente! In Terra Santa esistono e sussistono tre popoli, che danno vita, danno speranza e soprattutto rendono una testimonianza straordinaria delle pagine della Bibbia e del Vangelo della vita di Gesù. I tre popoli sono: il popolo israeliano, il popolo palestinese e il popolo dei pellegrini. Il popolo dei pellegrini ha pieno titolo, sia giuridico sia di fede sia – direi – proprio di componente essenziale, mancando questa, è come un tavolo che non può reggere su due gambe, è la terza gamba che crea dialogo, confronto – accolti da ambedue – che crea la normalizzazione, favorisce la pace, dona una serenità, la solidarietà. Guai se mancano i pellegrini! E mai come ora questo popolo ha bisogno che i pellegrini non siano assenti, proprio per sostenere la pace, come la terza gamba di un tavolo per stare in piedi.

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Nomina episcopale negli Stati Uniti

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Il Santo Padre ha nominato Vescovo Ausiliare dell’Eparchia di St. Thomas the Apostle of Chicago dei Siro-Malabaresi (U.S.A.), assegnandogli la sede titolare di Bencenna, il Rev.do Joy Alappat, del clero dell’Eparchia di Irinjalakuda dei Siro-Malabaresi, finora Rettore della Cattedrale Eparchiale a Chicago (U.S.A.).

Il Rev.do Joy Alappat è nato a Parappukara, nell’Eparchia di Irinjalakuda (Kerala), il 27 settembre 1956. Dopo la formazione sacerdotale al St. Thomas Apostolic Seminary, Vadavathoor, è stato ordinato sacerdote il 31 dicembre 1981. Ha conseguito il Master in teologia al St. Joseph’s Pontifical Institute, Aluva, e all’Adheva University, Wattair. Alla Georgetown University, ha completato il Clinical Pastoral Education Program. Oltre al malayalam e all’inglese, conosce l’hindi e il tamil. In India, ha svolto il ministero pastorale a Chalakudy, Mala, nella Cattedrale Eparchiale e in qualità di Cappellano della comunità siro-malabarese a Chennai. Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1993, è stato Cappellano alla Georgetown University, Parroco a New Milford (Connecticut), Newark e Garfield (New Jersey) e, dal 2011, Rettore della Cattedrale Eparchiale a Bellwood (Illinois).

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Messaggio del card. Filoni alla Plenaria dell'Africa orientale

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Un invito a ricordare le vittime innocenti che soffrono per i conflitti e le guerre nella regione è stato rivolto dal card. Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli ai delegati della 18.ma Assemblea plenaria dell’Associazione dei membri delle Conferenze episcopali dell’Africa orientale (Amecea). L’appello è contenuto in un messaggio — firmato anche dal segretario del dicastero mons. Savio Hon Tai Fai — che è stato letto dal nunzio apostolico in Zambia e Malawi, mons. Julio Murat, in occasione della cerimonia di apertura dei lavori, in corso fino al 26 luglio a Lilongwe.

Nella capitale del Malawi per dieci giorni più di 250 presuli — provenienti oltre che dal Paese ospitante anche da Eritrea, Etiopia, Kenya, Sudan, Sud Sudan Tanzania, Uganda e Zambia — si stanno confrontando sul tema «La nuova evangelizzazione attraverso la conversione e la testimonianza della fede cristiana». E nel farlo, esorta il prefetto di Propaganda fide, non possono dimenticare la drammatica situazione di intere regioni dove le persone «soffrono per conflitti e guerre» che, tra l’altro, «ostacolano le attività missionarie e la promozione dello sviluppo umano nella regione». Da qui l’invito a chiedere al Signore risorto, attraverso la preghiera, «che la pace, la giustizia, la comprensione e la comunione fraterna possano regnare».

Il documento si apre ricordando come «la crescita e i successi della Chiesa» in questa giurisdizione ecclesiastica siano «dovuti in gran parte alla dedizione eroica e disinteressata di tante generazioni di missionari, venuti in obbedienza al mandato di Gesù». Ed è in questo spirito che il dicastero missionario chiede ai membri dell’Amecea di riflettere sugli insegnamenti di Papa Francesco, contenuti nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. «Anche ai nostri giorni — spiega il card. Filoni — Gesù continua a comandare di “andare e fare discepoli”».

Perciò ogni cristiano è fortemente incoraggiato a prendere parte a questa nuova missionarietà. Il Pontefice, infatti, insiste sul fatto che ogni comunità deve discernere il cammino indicato dal Signore, rispondendo alla sua consegna a raggiungere tutte le periferie. E in tale contesto anche i vescovi dell’Africa orientale devono continuare a predicare il Vangelo a tutti: «In tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza esitazione, riluttanza o paura». Perché «la gioia del Vangelo, come insegna il Santo Padre, è per tutti, nessuno è escluso».

Il porporato richiama inoltre l’attenzione dei delegati sul prossimo Sinodo dei vescovi in programma nel mese di ottobre, nel quale il Papa ha chiesto al popolo di Dio, attraverso la preghiera e la riflessione, di riscoprire i valori cristiani fondamentali della famiglia. Facendo riferimento al concilio Vaticano II, il messaggio spiega che «la famiglia è, per così dire, la Chiesa domestica. In essa i genitori dovrebbero essere con la parola e con l’esempio, i primi annunciatori della fede ai bambini». E prosegue con l’assicurazione che la Congregazione continuerà a sostenere i presuli dell’Amecea nei loro sforzi «per rafforzare e arricchire» coloro che sono stati chiamati alla vocazione della vita matrimoniale e familiare.

Infine il ringraziamento diretto ai vescovi che, come i primi agenti della nuova evangelizzazione in mezzo alle sfide odierne, svolgono attività pastorali, apostoliche e sociali per edificare la Chiesa in questa regione con tante difficoltà, «facendo ogni sforzo per assicurare che essa sia uno strumento reale ed efficace di salvezza per le persone, il sale e luce per il continente africano. Continuate — conclude il documento — a essere strumenti di pace nella comunione e nella missione». (I.P.)
 

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, l''incontro tra Papa Francesco e Meriam, la sudanese condannata a morte per apostasia, giunta questa mattina a Roma.

Per una riforma spirituale: nel servizio vaticano, Nicola Gori intervista il cardinale Francesco Coccopalmerio, presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi.

Possibili crimini di guerra a Gaza: la denuncia dell'Onu mentre continuano i combattimenti tra Israele e Hamas.

Il monaco e lo psicanalista: in cultura, una riflessione di Ugo Sartorio sul significato del perdono nella società di oggi.

Il coraggio delle Brigidine: John McCarthy racconta come le suore inglesi salvarono ebrei e disertori tedeschi durante la seconda guerra mondiale.

Bellezza sempre antica e sempre nuova: Timothy Verdon sul rapporto tra arte e pellegrinaggio.

La realtà sregolata: un testo del gesuita Ferdinando Castelli sulle rappresentazioni dell'inferno nella letteratura del Novecento.

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Oggi in Primo Piano



Iraq, il patriarca Sako scrive all'Onu: basta indifferenza verso i cristiani

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In Iraq rimane critica la situazione dei cristiani, mentre è di almeno sessanta morti il bilancio di un attacco di un commando armato a un pullman di detenuti, nei pressi di Baghdad. Intanto il patriarca dei caldei, mons. Louis Sako ha lanciato un appello alle Nazioni Unite affinchè ”il Consiglio di sicurezza non rimanga un semplice osservatore delle continue atrocità commesse contro i cristiani”, cacciati dal nord del Paese dagli islamisti dello “Stato Islamico”. Sul piano politico si terrà oggi la seconda seduta del parlamento dedicata all’elezione del capo dello Stato, dopo il nulla di fatto di ieri, mentre potrebbe essere istituita una commissione proprio per vigilare sulla minoranza cristiana. Ma sentiamo le parole di mons. Sako, al microfono di Michele Raviart:

 

R. – Mille famiglie hanno lasciato Mosul, dopo la pubblicazione dell’ordine dell’Isis. Sono nei villaggi cristiani della Piana di Ninive e anche nelle città curde. Il Kurdistan e la Chiesa caldea hanno aiutato un poco queste famiglie, ma finora non sono state prese misure per aiutarle o per trovare una soluzione politica per loro. La gente, dunque, ancora è nel panico. Ieri hanno sentito dei bombardamenti vicino ad un villaggio e hanno lasciato le loro case. Io ho incontrato ieri il capo del Kurdistan e, tornando a Baghdad, ho incontrato il presidente del Parlamento e tanti politici. Sto cercando, dunque, con loro, un aiuto umano, ma anche politico.

D. – Cosa possono fare le istituzioni politiche irachene e che cosa chiede lei al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite?

R. – E’ triste vedere l’indifferenza del mondo intero verso ciò che il Medio Oriente sta vivendo. Sono perseguitati perché sono cristiani Sono pacifici. Sono innocenti, dunque. E questo è il grande scandalo. Il mondo intero deve muoversi per allontanare questi atti e chiedere a coloro, che finanziano questa gente – l’Isis -  di interrompere gli aiuti militari ed economici.

D. – L’Onu ha parlato appunto di crimini contro l’umanità e lei ha usato le parole durissime di “pulizia etnica”...

R. – Le parole e le condanne non bastano. Questi non capiscono! Bisogna fare pressione sui governi regionali. Noi siamo molto preoccupati anche del nostro patrimonio: ci sono chiese antiche a Mosul, dal V fino al X secolo, e queste chiese sono state bruciate, distrutte ed è tutto finito. Se esplode una nuova chiesa, ne possiamo costruire un’altra, ma questo patrimonio è storico e non lo è solo per i cristiani e per l’Iraq, ma per il mondo intero. Tutti devono agire e non solo guardare.

D. – C’è un’emergenza umanitaria. Di che cosa hanno bisogno i cristiani che sono fuggiti da Mosul?

R. – Sono stati cacciati e non hanno niente. Quelli di Isis sono entrati nelle loro case e hanno preso tutto. Non hanno un soldo! Noi, come Chiesa, diamo loro da mangiare, ma non basta, perché hanno altri bisogni. Domani ci sarà una marcia a Lione, come ha scritto il cardinale Barbarin, e questa marcia, questa vicinanza, ci dà la forza per non perdere la fiducia ed anche la speranza, altrimenti la gente lascerà, andrà via, e il Paese resterà vuoto.

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Onu: jihadisti contro le donne in Iraq, imposte mutilazioni genitali

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"Una fatwa dell'Isis (jihadisti dello Stato islamico) impone che in Iraq tutte le donne dagli 11 ai 46 anni subiscano mutilazioni genitali". E' quanto ha affermato dall'Iraq, in videoconferenza organizzata a Ginevra, Jacqueline Badcock, numero 2 delle Nazioni Unite nel Paese del Golfo. Badcock ha aggiunto di non avere il numero esatto delle donne bersaglio dalla fatwa, ma ha citato un'organizzazione umanitaria dell'Onu secondo cui "4 milioni di bambine e donne potrebbero essere colpite". I jihadisti sostengono che a chiederlo sia il Corano. Fausta Speranza ne ha parlato con Francesca Maria Corrao, docente di Lingua e Cultura Araba: 

R. – No, è assolutamente falso, perché si basa su un hadith che non ha nemmeno una catena di trasmissione certa, tant’è che ad al Azhar, al Cairo, negli anni l’hanno reimposta e poi tolta proprio perché è un hadith, è un detto, non ha niente a che vedere con il Corano e poi era su una pratica in uso nella zona dell’Eritrea e della Somalia intorno al 630. E ripeto, è una catena di trasmissione non certa. Quindi, diciamo che è un pretesto per non affrontare i problemi seri dei diritti delle persone e i problemi economici che hanno in quella fascia.

D. – Nella cultura dell’Iraq degli ultimi decenni non c’è stato nulla di simile?

R. – No. Assolutamente no. Perché è uno Stato secolare e nazionale ed era rispettoso non soltanto dei musulmani e dei diritti delle donne, ma anche delle minoranze cristiane. I problemi c’erano perché c’era una dittatura violenta e ingiusta; però è anche vero che le donne e gli uomini, tutti, potevano andare a scuola, avevano diritto allo studio e altri diritti che adesso sono assolutamente violati dal permanere dallo stato di combattimenti. Ma, ovviamente, la cosa più grave per le donne è di non avere la sicurezza di potere andare a scuola e all’università proprio per la diffusione di questo fenomeno di terrorismo violento e radicale e assolutamente intollerante, soprattutto nei confronti dei diritti delle persone che poi loro vorrebbero – “in nome di Dio” – difendere. Non dimentichiamo che questo disordine ha portato all’emigrazione della maggioranza dei cristiani dall’Iraq, e adesso anche in Siria sta succedendo lo stesso. E questo terrorismo lo fanno questi gruppi di fanatici estremisti che sono peraltro contrari a tutti gli altri regimi religiosi dell’area. Non dimentichiamo che questo cosiddetto califfo – che tra l’altro non so dove l’abbia preso il dottorato ... – ha pure attaccato l’Arabia Saudita … Quindi, ecco, sono molto strani, questi personaggi …

D. – E’ vero che sono ben foraggiati – purtroppo – di soldi e di armi, questi jihadisti dell’Isis; ma come hanno potuto attecchire? 

R. – Dalla violenza nasce solo violenza - come diceva anche una donna insignita del Nobel, Shirin Ebadi - e la violenza, a partire dalle guerre decennali che si portano avanti, dalle situazioni post-coloniali mai risolte, non fanno altro che produrre disperazione, esasperazione … Cioè, questi giovani che non riescono ad andare a scuola, che non hanno un’educazione minima e non hanno prospettive né di lavoro né di poter avere un futuro certo, diventano poi facile preda di avventurieri, e quindi si prestano anche a lavori di mercenariato. La popolazione è assolutamente vittima di tanta violenza e di tanti soprusi e quindi la spiegazione sta nella disperazione portata dalla guerra …

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Israele: ultimo giorno di Peres come presidente

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In Israele si tiene oggi la cerimonia che sigilla il passaggio dalla presidenza di Shimon Peres a quella del nuovo capo di Stato, Reuven Rivlin. Sulla figura di Shimon Peres, premio Nobel per la pace nel 1994, si sofferma al microfono di Amedeo Lomonaco l’editorialista del Corriere della Sera, Antonio Ferrari:  

R. – Con Peres, con l’uscita dalla presidenza di Israele, se ne va l’ultimo padre della patria. Non soltanto per ragioni anagrafiche, ma perché la stessa storia di Israele è legata intimamente e indissolubilmente alla figura di quest’uomo.

D. – La linea politica seguita negli anni ad Shimon Peres si è snodata anche attraverso vie molto diverse…

R. – Per esempio, la politica degli insediamenti porta il suo sigillo. Poi, Peres è passato sull’altro fronte contro questi insediamenti o, comunque, per un processo di pace che potesse garantire un compromesso accettabile da entrambe le parti. Shimon Peres, soffriva però per una cosa: non avere mai vinto una elezione. Tutte le volte che lui concorreva per una consultazione veniva sconfitto. E più volte è stato sconfitto da un uomo che sicuramente non aveva la stessa capacità culturale e anche la stessa abilità diplomatica, ma piaceva di più agli israeliani, cioè parlo di Yitzac Rabin, il suo compagno del partito laburista. Però, per contro, quando Shimon Peres diventa il fronte avanzato del dialogo con i palestinesi, questo suo passato è come se si cancellasse e si presenta quest’uomo nuovo e alla fine ottiene, con la nomina a capo dello Stato, una tardiva riparazione.

D. – Qual è il momento chiave del rinnovamento dell’agire politico di Peres?

R. - Direi che il momento chiave è stato quello che ha accompagnato la fase immediatamente successiva alla prima Intifada. Peres usciva da governi di coalizione. Dopo la prima Intifada e con l’inizio di quel percorso che portò agli accordi di Oslo del 1993, Peres ci mette naturalmente del suo.

D. – E un’importante ricerca quella della pace ha anche animato l’incontro di preghiera in Vaticano…

R. - L’incontro con Papa Francesco, l’incontro con Abu Mazen, l’abbraccio nei giardini vaticani e il fatto stridente di vedere questi due uomini amici - perché sono veramente amici, Shimon Peres e Abu Mazen che in effetti poi rappresentano - uno senza un potere politico preciso e l’altro con un potere assolutamente dimezzato, il primo è Shimon Peres, il secondo è Abu Mazen - due popoli che in questo momento non riescono, non dico a fare la pace, ma anche a trovare la strada per evitare quello che si sta prefigurando come un massacro sistematico.

D. - Antonio Ferrari, come inviato hai più volte incontrato, intervistato Shimon Peres…

R. – A me era molto simpatico. Una cosa divertente, durante un comizio, a Bet Semesh, lo salvammo da una caduta, io ed un collega della radio svizzera. Lui inciampò, eravamo fortunatamente vicini e lo tenemmo. Lui disse: mi tocca anche ringraziare i giornalisti! Ma era una frase carina. Un uomo con un senso dell’umorismo straordinario. Tutti noi giornalisti, abbiamo vissuto con i suoi aforismi, con le sue battute fulminanti, con il suo sottile sarcasmo e con la convinzione che anche nei momenti più tragici non ci si dovesse dimenticare dell’autoironia.

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Tregua in Centrafrica. Una suora: una speranza, ma situazione precaria

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Il primo accordo di cessate il fuoco in Centrafrica, dopo oltre un anno di violenze. È quello raggiunto al Forum per la riconciliazione svoltosi a Brazzaville, nella Repubblica del Congo. A firmare l’intesa, i rappresentanti delle due principali forze belligeranti, i ribelli Seleka - andati al potere nel marzo 2013 con Michel Djotodia, dimessosi poi a gennaio - e le milizie anti Balaka. Gli scontri hanno provocato migliaia di vittime, soprattutto civili, e sfollati. La tregua impegna alla cessazione delle ostilità, ma non stabilisce il disarmo e la smobilitazione dei combattenti, né una road map per la normalizzazione politica. Il documento, già contestato da una fazione della Seleka non presente ai colloqui, appare comunque “un primo passo” verso di un dialogo nazionale, ha detto il presidente congolese Denis Sassou Nguesso. Ma qual è la situazione sul terreno nella Repubblica Centrafricana? Giada Aquilino lo ha chiesto a suor Paola Gabrieli, delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù, da 13 anni a Bimbo, alla periferia di Bangui: 

R. - La situazione qui è sempre stagnante, nel senso che appena c’è qualche provocazione tra gli anti Balaka e i Seleka, si uccidono senza pietà.

D. - Ci sono ancora violenze?

R. - Che io sappia, qui nella capitale no. Mi hanno detto che la settimana scorsa nella zona dell’aeroporto ci sono stati ancora disordini.

D. - Tra la gente c’è fiducia che la tregua regga?

R. - La speranza c’è sempre, ma la situazione non è sotto controllo.

D. - In che condizioni si vive oggi in Centrafrica?

R. - Soprattutto gli sfollati, si trovano in una situazione veramente precaria, sono accampati. Hanno il necessario per sopravvivere perché gli organismi umanitari fanno qualcosa, ma rimane il problema fame, il problema sicurezza. Soprattutto in questo momento, nella stagione delle piogge, c’è molta umidità e questo porta malattie ai bronchi e malaria.

D. - Lei di cosa si occupa?

R. - Mi trovo in una casa accoglienza per bambini orfani e in situazioni di disagio. Abbiamo 47 ospiti, una scuola materna e elementare. Siamo riusciti qui nella capitale a fare gli esami e a rendere valido l’anno scolastico, nonostante tutto.

D. - Voi accogliete bambini senza distinzione…

R. - Sì, senza distinzione, nel senso che non facciamo differenze di religione; l’importante è che abbiano un’educazione integrale.

D. - In questi mesi per il Centrafrica si è parlato di scontri a sfondo religioso: qual è la situazione?

R. - È soltanto una scusa, perché ci sono sempre le grandi potenze che hanno interessi sulle risorse dell’Africa, soprattutto il petrolio nel nostro caso. La religione è un ripiego, che nasconde altri interessi.

D. - Qual è l’impegno della Chiesa in questo momento in Centrafrica? L’arcivescovo di Bangui, in un’intervista a ‘La Semaine africaine’, ha detto che “è tempo di trovare soluzioni” al conflitto…

R. - L’arcivescovo Nzapalainga non fa altro che testimoniare insieme all’Imam Layama che c’è volontà di pace; appena è possibile, riescono ad essere di sostegno spirituale a chi soffre. Anche il nunzio, l’arcivescovo Coppola, che è intervenuto nell’assemblea dei vescovi del mese scorso, ha cercato di scuotere la coscienza di tutti, invitando ad essere aperti verso tutti, anche i musulmani e altri, per un amore universale.

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Italia, 6 milioni e mezzo i volontari. Patriarca: è il Paese reale

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Sono stati 6 milioni e 630 mila gli italiani impegnati nel volontariato lo scorso anno, regalando in media 19 ore al mese del loro tempo libero. Lo documenta il rapporto “Attività gratuite a beneficio di altri” 2013, pubblicato dall’Istat, insieme al Coordinamento nazionale dei Centri servizi per il volontariato (Csvnet) e la Fondazione volontariato e partecipazione. Il servizio di Roberta Gisotti:

 

Uno su otto gli italiani che hanno svolto attività di volontariato, da soli o in gruppi/organizzazioni, in prevalenza con finalità religiose-caritative (23,2%) o nel campo dell’assistenza sociale e della protezione civile (14,2%), o anche con scopi ricreativi e culturali (17,4%). Per la prima volta infatti il volontariato in Italia è stato valutato secondo gli standard più ampi dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Tra le motivazioni, quasi due terzi (62,1%) lo fa perché crede nella causa del gruppo, gli altri per dare un contributo alla comunità o seguire le proprie convinzioni o credo religioso. Volontariato di cui, a dire la verità, si parla poco nei media al di là di eventi eccezionali. Edoardo Patriarca, presidente del Centro nazionale volontariato:

R. – Eh sì, è proprio così. Nel senso che il racconto spesso è legato molto all’emergenza, ai terremoti, alla protezione civile; in realtà, abbiamo 6 milioni e più di italiani – una cifra davvero notevole – che dedicano il loro tempo gratuitamente e silenziosamente, nel quotidiano, per sostenere la comunità, soprattutto per costruire legami, legami di amicizia e di fraternità. Credo che questa ricerca davvero mostri – mi piace dire – il Paese che c’è, quel Paese che di fronte a questa crisi davvero lunga e troppo grave si è rimboccata le maniche e contribuisce silenziosamente a tenere unite le comunità. E questa è davvero una grande storia che meriterebbe sicuramente più attenzione.

D. – Il volontariato è sovente, quasi sempre, una scelta di vita. Ma in tempi di crisi è anche un modo per supplire alle carenze dello stato assistenziale?

R. – Sicuramente sì. Davvero la crisi apre una stagione diversa rispetto al welfare. Se prima si diceva che il volontariato non dovesse essere sostitutivo o comunque la funzione pubblica dovesse rimanere prioritaria, la più importante, oggi la crisi ci pone una sfida grandissima, quella di ripensare un welfare dove certamente l’ente pubblico avrà un ruolo significativo e importante ma sempre di più il volontariato e tutto il mondo del terzo settore non potranno davvero che essere protagonisti di politiche condivise con gli enti pubblici. Io spero che questa crisi ci porti in dono una sussidiarietà realmente praticata nel nostro Paese, che dia spazio e libertà alla capacità dei cittadini di auto-organizzarsi. Paradossalmente, la crisi può davvero farci pensare un’Italia migliore di quella che abbiamo conosciuto.

D. – C’è da sempre una polemica: il volontariato ‘ruba’ posti di lavoro?

R. – E’ una falsa polemica. Il volontariato c’è sempre stato e il fatto che sia molto presente nelle regioni del Nord – ed è un paradosso che smonta questa tesi che non ha alcun fondamento scientifico – sta a dimostrare come sia davvero cresciuto laddove c’era piena occupazione. Quindi, il volontariato non ‘ruba’ posti di lavoro; il volontariato cresce proprio laddove ci sono cittadini che hanno la serenità di lavorare, che hanno anche la serenità di un po’ di benessere economico e quindi non ‘ruba’ alcunché. La ricerca dell’Istat e della Fondazione volontariato e partecipazione ha quantificato le unità lavorative occupate, andando a calcolare le ore di volontariato, semplicemente per un esercizio di tipo statistico-economico, soltanto per dire che il volontariato, pur nella gratuità, dà un contributo elevatissimo alla ripresa di questo Paese.

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Comunità di Sant'Egidio: al via il tour della solidarietà in Calabria

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Al via oggi da Cosenza il “Sant’Egidio on the road”, il tour della solidarietà che attraverserà 14 città calabresi. Lo scopo, incentivato dal successo della prima edizione dello scorso anno, è quello di diffondere la cultura dell’incontro, dell’amicizia e della solidarietà, visitando realtà giovanili, case di riposo e centri di accoglienza per i poveri. Sarà un’alternarsi di conferenze, concerti, condivisione e preghiere per la pace. Paolo Giacosa ha approfondito l’iniziativa con Alessandro Moscetta, uno degli organizzatori della Comunità di Sant’Egidio: 

R. - “Sant’Egidio on the road” nasce l’estate scorsa da un’idea degli universitari della comunità di Sant’Egidio di portare alcuni valori concreti come la solidarietà, la giustizia, l’impegno per gli altri. É un modo di vivere la fede molto concreto e molto gioioso in Calabria perché abbiamo visto che forse è una terra che viene dipinta con toni negativi e con gente rassegnata. “Sant’Egidio on the road” porta soprattutto la speranza e un sogno: si può fare tanto, si può vivere la solidarietà. Si può avere anche un altro modo di vivere, altre idee di accogliere i tanti immigrati che arrivano - pensiamo alla zona dello Ionio - e anche per tanti giovani che decidono di non andare via, di non emigrare verso il Nord.

D. - A chi si rivolge nello specifico questa iniziativa?

R. - Nasce dall’idea di raggiungere tutti. Abbiamo trovato in realtà molti contatti in ambienti giovanili, di associazionismo. Abbiamo trovato degli ottimi parroci che hanno desiderio di collaborare con noi. L’anno scorso sono stati gettati dei piccoli semi con l’idea di coltivarli e di portare nuovi semi in nuovi posti.

D. - È una manifestazione itinerante attraverso la Calabria. Quali sono le realtà che andrete ad incontrare nella regione?

R. - Gireremo la Calabria per dieci giorni, andremo in 14 località. Incontriamo realtà molto diverse: realtà di località più piccole; città capoluogo come Catanzaro, Cosenza o Crotone, ambienti diversi. Cosenza è una città più universitaria, è una realtà viva; Catanzaro e Crotone forse soffrono un po’ la crisi della regione. Però ovunque vediamo che c’è voglia di essere ascoltati e di ricevere innanzitutto una parola buona.

D. - Il titolo dell’incontro di Delianuova è interessante: “Fare strada senza farsi strada”. Di cosa si tratta?

R. - Delianuova è un’iniziativa molto bella, perché nasce da un gruppo di studenti guidati da un professore di Oppido. Questo titolo nasce perché quando sono venuti a Roma hanno visto che le persone di Sant’Egidio riescono ad avere una loro vita, ma nella loro vita aiutano gli altri a percorrere il proprio cammino. Perché “senza farsi strada”? Perché nessuno di Sant’Egidio lo fa per motivi economici, ma viviamo tutto questo gratuitamente.

D. - La solidarietà è la chiave per affrontare le sfide odierne. Quali sono i vostri progetti in Calabria?

R. - Quando Papa Francesco è venuto a visitare la Comunità di Sant’Egidio a metà giugno, ha ricordato il valore della parola “solidarietà” dicendo che non è una parolaccia ma una parola che deve stare al centro. Noi sogniamo di poter promuovere il non lasciarsi andare alla rassegnazione dicendo “Non si può fare niente, quindi neanche ci perdo tempo, neanche ci provo”, ma invece sosteniamo di provarci perché si può realizzare e si può vivere. In questi giorni andremo anche in nuovi istituti, in nuovi luoghi per vedere se i giovani possono andare a trovare gli anziani per creare un’alleanza tra generazioni, avere un modo diverso di accogliere gli immigrati che spesso vengono portati in piccole località. Ci sono due aspetti molto belli per la comunità: la preghiera per la pace e la preghiera per i malati.

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Nella Chiesa e nel mondo



Aereo con 116 persone a bordo precipita in Mali

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Un aereo Md-83 della compagnia spagnola Swiftair che operava per conto dell'Air Algerie, partito dal Burkina Faso e di cui si erano perse le tracce dopo 50 minuti dal decollo, è precipitato in una zona desertica nel nord del Mali. A bordo dell'aereo c’erano 116 persone. Secondo le autorità del Burkina Faso, il pilota aveva chiesto di cambiare rotta a causa del maltempo nella zona.

Nel corso di una conferenza stampa all'aeroporto di Algeri, è stata resa nota una lista parziale delle nazionalità dei passeggeri a bordo: come riferisce Le Figaro, c'erano almeno 50 francesi, 24 del Burkina Faso, 8 libanesi, 6 algerini, 5 canadesi, 4 tedeschi, 2 del Lussemburgo, uno del Mali, un belga, uno del Camerun, un nigeriano, un egiziano, un ucraino, un rumeno, uno svizzero e tre persone ancora da identificare. Insieme a loro, i sei membri dell'equipaggio, tutti spagnoli. Due caccia francesi, di base a N'Djamena in Ciad, si sono alzati in volo per partecipare alle ricerche. Diversi passeggeri dovevano fare scalo ad Algeri per poi prendere un altro volo diretto a Parigi o Marsiglia.

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Onu: i poveri nel mondo sono un miliardo e mezzo

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Oltre due miliardi e 200 milioni di persone vivono in condizioni di povertà o quasi nel mondo, un numero che rischia di aumentare a causa delle crisi finanziarie e delle sempre più frequenti catastrofi naturali: è quanto emerge dal rapporto 2014 del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Unpd) – dal titolo “Progresso umano duraturo: ridurre le vulnerabilità e costruire la resilienza – pubblicato oggi a Kyoto che aggiunge nell’elenco delle cause l’andamento dei prezzi delle derrate alimentari e i conflitti.

Sebbene in termini assoluti si tratti di un dato in calo, l’Unpd ammonisce contro le disuguaglianze crescenti e le “vulnerabilità strutturali”: eliminare la povertà, “non significa solo arrivare a zero, ma restarci”. Occorre, nello specifico, “proteggere coloro che sono minacciati dalle catastrofi naturali, dai cambiamenti climatici o dai crack. Mettere al centro della nostra agenda di sviluppo la riduzione di queste vulnerabilità costituisce il solo mezzo per garantire un progresso duraturo”.

L’Undp scrive inoltre che assicurare una protezione sociale di base ai poveri del mondo costerebbe meno del 2% del Pil globale. “Una protezione sociale di base è abbordabile se i Paesi a basso reddito ridistribuiscono i fondi e aumentano le loro risorse interne, questo col sostegno della comunità dei donatori internazionali” si legge ancora nel testo.

L’Undp stima che i poveri siano con certezza un miliardo e mezzo ripartiti in 91 Paesi; 800 milioni sono sulla soglia della povertà. Un miliardo e 200.000 milioni di persone vivono con l’equivalente di 1,25 dollari al giorno. (R.P.)

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Caritas: aiuti a migliaia di musulmani rifugiati in scuole e chiese di Gaza

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Ci sono quasi 1300 palestinesi, in stragrande maggioranza musulmani, rifugiati nella chiesa greco-ortodossa di San Porfirio a Gaza per sottrarsi ai bombardamenti dell'esercito israeliano. Altri 700 hanno trovato rifugio presso la chiesa cattolica della Sacra Famiglia. In questi giorni la loro sopravvivenza dipende in buona parte dalle iniziative di soccorso e assistenza messe in campo da Caritas Jerusalem per dare il proprio contributo all'affronto dell'emergenza rappresentata da più di 130mila sfollati (di cui 70mila ammassati nelle scuole dell'Onu) che hanno dovuto lasciare le loro case dall'inizio dell'operazione militare israeliana “Bordo Protettivo”. Finora i morti tra i palestinesi sono oltre 700, e i presidi sanitari della Striscia non riescono a far fronte all'impressionante quantità dei feriti (più di 4mila).

“I nostri 18 operatori stanno lavorando senza sosta in quella situazione terribile, coi nostri Centri medici mobili che operano nelle scuole e distribuendo kit di sopravvivenza alle famiglie ammassate nelle scuole, in collaborazione con l'Onu” riferisce all'agenzia Fides padre Raed Abusahliah, direttore di Caritas Jerusalem.

“Da ieri - aggiunge il sacerdote palestinese residente a Ramallah -abbiamo preso per una settimana la responsabilità dei rifugiati presenti nella chiesa ortodossa e nella scuola cattolica. Distribuiamo cibo e pasti caldi, latte e beni di prima necessità per i bambini, carburante per i generatori elettrici. Intanto, con Caritas Internationalis, abbiamo lanciato un appello per progetti e iniziative a lungo termine da avviare immediatamente dopo il cessate il fuoco. Serviranno fondi per un milione 130mila euro. Ma già vedo arrivare adesioni da tutto il mondo, e anche in Terra Santa soprattutto i giovani danno offerte alla Caritas per i fratelli di Gaza. E’ un flusso ininterrotto”.

Sabato e domenica prossima in tutte le parrocchie di Giordania, Palestina e Israele si pregherà per il ritorno della pace e ci saranno raccolte fondi a favore della gente di Gaza. (R.P.)

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Critiche vescovi Usa al decreto su orientamenti sessuali e gender

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“Una misura estrema e senza precedenti”. Con queste parole i vescovi degli Stati Uniti esprimono la loro ferma contrarietà al nuovo decreto presidenziale che vieta alle imprese che lavorano per lo Stato ogni discriminazione basata su orientamenti sessuali o identità di genere. Il provvedimento, annunciato il mese scorso dalla Casa Bianca, è stato firmato dal Presidente Obama lunedì.

In una nota, i presidenti della Commissione episcopale per la libertà religiosa e di quella per i laici, il matrimonio, la famiglia e i giovani, , mons. William E. Lori e mons. Richard J. Malone, obiettano che “invece di vietare discriminazioni, la nuova misura le aumenta”, segnatamente nei confronti di imprese appaltatrici che rifiuteranno di applicare le nuove disposizioni per motivi religiosi. Il testo del provvedimento, infatti, usa il termine ambiguo di “orientamento sessuale”, ignorando la distinzione tra “inclinazione sessuale” e “condotta sessuale”.

Una distinzione fondamentale, ad esempio, per la Chiesa cattolica che è contraria alla discriminazione verso persone con inclinazioni omosessuali, ma considera “intrinsecamente disordinati” gli atti omosessuali e in quanto tali moralmente inaccettabili. Inoltre – continua la nota - il decreto parla di “identità di genere”, un termine finora sconosciuto nell’ordinamento federale e basato sull’idea che il genere sia una creazione culturale che può essere scelta dall’individuo a prescindere dal suo sesso biologico.

Queste ambiguità giuridiche – sottolinea in conclusione la nota - non sono compensate da nessuna norma che tuteli la libertà di coscienza dei datori di lavoro che hanno contratti di appalto con l’amministrazione federale. Un’anomalia inaccettabile per i vescovi. (A cura di Lisa Zengarini)
 

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Chiesa Usa: risposta umanitaria sui minori fermati alla frontiera

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La situazione dei bambini e ragazzi centroamericani fermati alla frontiera degli Stati Uniti con il Messico, in Texas, continua a presentarsi come una situazione di autentica crisi umanitaria. Il vescovo di Brownsville, mons. Daniel Ernest Flores, ha visitato insieme ad un gruppo di leader religiosi della Convención de Bautistas del Sur, le diverse strutture che ospitano i ragazzi fermati.

Nella nota inviata all’agenzia Fides, mons. Flores sottolinea che per affrontare questa crisi umanitaria è importante che i leader religiosi vedano con i loro occhi, in prima persona, le strutture che accolgono i ragazzi non accompagnati, e vedano anche come il governo stia cercando di sistemare, anche in modo temporaneo, questa fascia di popolazione vulnerabile. “I responsabili del governo devono trovare il modo di porre rimedio alla situazione di questi rifugiati – afferma il Vescovo -, soprattutto perché abbiamo i bambini e le mamme che stanno soffrendo enormemente. Ogni risposta del governo, a livello federale e statale, dovrebbe concentrarsi su questo".

Mons. Flores ha inoltre ribadito che la Chiesa sostiene l'attuale legge, che prevede l'asilo per queste persone e permette loro di presentare i loro casi in tribunale. "La Chiesa cercherà sempre di far sì che i diritti umani siano rispettati, specialmente nel caso della tutela di queste persone" ha ribadito il vescovo, sottolineando che "dinanzi ad una crisi umanitaria, si dovrebbe dare una risposta umanitaria". Allo stesso modo ha rilevato che le agenzie di immigrazione del governo e la polizia dovrebbero trattare tutti i rifugiati che chiedono asilo con dignità, giustizia, compassione e nel pieno rispetto dei loro diritti ad un giusto processo.

La nota conclude informando che il gruppo dei religiosi che ha visitato le strutture dove sono riuniti i ragazzi fermati, ha inviato una lettera al Congresso esprimendo la loro preoccupazione per la situazione attuale dei bambini e per come sono assistiti, chiedendo risorse sufficienti per consentire loro di superare la situazione attuale in modo dignitoso. (R.P.)

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Sri Lanka: la visita del Papa una consolazione per le vittime della guerra

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"Per la popolazione del nord dello Sri Lanka, colpita dalla guerra e che si sente abbandonata, la visita di papa Francesco sarà una grande consolazione". Lo afferma all'agenzia AsiaNews mons. Rayappu Joseph, vescovo della diocesi di Mannar (Northern Province), sede di una delle mete che il pontefice toccherà nel viaggio apostolico nell'isola previsto per la prima metà del gennaio 2015. Dopo Colombo, capitale dell'isola, il Papa si recherà al santuario di Nostra Signora di Madhu, importante meta di pellegrinaggio per tutta l'Asia meridionale. Qui ogni anno più di 600mila persone si recano per pregare la Vergine.

"Qui celebrerà una Messa - sottolinea il presule ad AsiaNews - ma verrà anche per incontrare i sopravvissuti della guerra civile, per ascoltare le loro dolorose testimonianze e pregare con e per loro. Ci aspettiamo una grande affluenza, da tutte le diocesi del nord e da alcune del sud". La popolazione, aggiunge, "accoglie la sua visita come una benedizione da Dio, e ringraziamo il Signore per questo".

La diocesi di Mannar - che comprende i distretti di Mannar e Vavuniya - è parte della "cintura cattolica" che si estende da Negombo (Central Province) a Jaffna, come è chiamata l'area colonizzata dai portoghesi, con cui arrivarono anche i primi missionari cattolici. Eretta nel 1981, secondo gli ultimi dati disponibili (2004) conta una popolazione di oltre 219mila persone, il 33% delle quali di fede cattolica.

Dal 1983 al 2009 l'isola è stata teatro di una sanguinosa guerra civile tra governo e ribelli delle Tigri Tamil (Liberation Tigers of Tamil Eelam), un'organizzazione in lotta per creare uno Stato indipendente nel nord e nell'est del Paese, a maggioranza tamil.

"Durante questa guerra - spiega mons. Joseph ad AsiaNews - abbiamo subito perdite di ogni tipo: vite umane, case, proprietà. Alcuni nostri preti sono morti, le chiese e le strutture da noi avviate sono state distrutte. La popolazione è stata abbandonata a se stessa, con la sola nostra presenza ad aiutarla. Devo ringraziare la Caritas, che ha fatto un grande lavoro per aiutare le persone in quegli anni".

Eppure, prosegue il presule, "nonostante siano passati già cinque anni dalla fine del conflitto, non c'è stata riabilitazione per i sopravvissuti. Nessuno, né il governo né altri, si è occupato delle 89mila vedove di guerra, dei bambini rimasti orfani, dei mutilati, delle persone che hanno riportato traumi psicologici".

Tuttavia "il sostegno e la riabilitazione di un essere umano è un cammino lungo - sottolinea il vescovo - che deve essere integrale. Bisogna dare un'istruzione ai bambini: pagare loro gli studi, dare vestiti nuovi e medicine se stanno male. Noi ce ne stiamo occupando, con l'aiuto di amici e benefattori. Ma il governo non sta svolgendo alcuna opera di riabilitazione: pensa solo a costruire strade e ponti e non riesco a capire perché, invece, non prenda provvedimenti per le famiglie delle migliaia di persone che sono morte in guerra; per i mutilati; per chi soffre di problemi psicologici".

Il problema del recupero dei sopravvissuti è legato a filo doppio con le condizioni in cui vivono i tamil, secondo gruppo etnico del Paese (11,2%) dopo i singalesi (74,88%). La guerra ha finito con il trasformarsi in un vero e proprio conflitto etnico tra le due comunità, e ancora oggi i tamil denunciano una disparità di trattamento e di subire continue violazioni da parte delle autorità.

Per mons. Joseph "i problemi attuali, che esistono da un centinaio di anni, hanno un'unica soluzione, che è quella proposta da sempre: trovare una comunione nelle reciproche diversità. Tamil e singalesi hanno culture, lingue e tradizioni differenti. Un modello da seguire potrebbe essere quello dell'India. Creare uno Stato federale, una cornice unitaria in cui attuare un decentramento del potere. Ma il governo non vuole: per farlo, dovrebbe cambiare la Costituzione, e anche il presidente dovrebbe cambiare. Una figura che troppe volte ha abusato del suo potere, soprattutto nei confronti delle minoranze". (R.P.)

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Pakistan: dal nord Waziristan anche sfollati cristiani e indù

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Ci sono anche sfollati interni cristiani e indù provenienti dal Nord Waziristan, area dove il governo pakistano ha lanciato nelle scorse settimane un’offensiva antiterrorismo contro i gruppi talebani. Come riferito all'agenzia Fides, 65 famiglie cristiane e 15 famiglie indù hanno lasciato la città di Miranshah e i villaggi del Nord Waziristan, rifugiandosi nelle scuole cristiane della città di Bunnu, gestite dalla “Chiesa dl Pakistan” (comunità anglicana).

Secondo fonti governative, gli sfollati sono circa un milione, il 74% donne e bambini, e sono assistiti in strutture governative. Gli sfollati cristiani e indù, non essendo stati registrati ufficialmente nel distretto di Bunnu, non possono ricevere l’assistenza e i benefici assicurati agli altri rifugiati. Le comunità cristiane locali sollecitano quindi il governo a trattare i rifugiati, che sono tutti cittadini pakistani, “tutti allo stesso modo”, senza alcuna discriminazione su base religiosa.

Dell’offensiva verso i talebani ha fatto le spese anche un innocente. Come riferisce a Fides la “Asian Human Rights Commission”, Anisur Rehman Soomro, ragazzo di 17 anni, cittadino del Sindh, è stato arrestato, detenuto illegalmente per undici giorni, torturato e ucciso dalla polizia di Karachi, con l’accusa di essere membro di un gruppo talebano. Sul caso si chiede venga aperta al più presto una indagine indipendente. (R.P.)

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Australia: condizioni dure per i minori nel Centro di Christmas Island

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Sarebbero sempre più dure le condizioni di detenzione a Christmas Island per i boat-people fermati in mare e qui raccolti in attesa di accertarne la condizione di rifugiato oppure procedere al loro invio in uno dei Centri offshore.

Lembo di terra australiana più prossimo alla costa asiatica - riporta l'agenzia Misna - l’isola è stata per diversi anni insieme Centro di ospitalità e di smistamento. Anche di detenzioni per molti. Con la politica avviata da settembre 2013 dal governo conservatore guidato da Tony Abbott, l’isola non dovrebbe avere alcun ruolo futuro. Infatti, il blocco e respingimento verso i Paesi di provenienza per gli occupanti di imbarcazioni fermate al di fuori delle acque territoriali australiane, la riconsegna dei clandestini a Paesi di partenza in base a accordi bilaterali e, per tutti gli altri, la deportazione nei Centri extra-territoriali di Manus Island (Papua-Nuova Guinea) o Nauru sono i capisaldi della politica di blocco all’immigrazione irregolare.

A segnalare condizioni “deteriorate in modo significativo” a Christmas Island è lo stesso Commissario australiano per i diritti umani Gillian Triggs, che ha appena terminato una sua visita al Centro come parte di un’inchiesta nazionale sulla detenzione obbligatoria per i minori che cercano asilo in Australia. La Triggs ha indicato che i bambini ospiti della struttura sono in diversi casi affetti da disturbo da stress post-traumatico. In parte conseguenza dei tentativi di suicidi di diverse madri (una dozzina nel solo luglio) convinte di potere così garantire ai figli la possibilità di asilo, in parte per le condizioni di vita nel Centro dove si trovano ora 74 minori su 1102 ospiti. Tredici, secondo la Triggs, le madri a alto rischio di suicidio, di cui 10 guardate e a vista 24 ore al giorno. Una volontà di autodistruzione che si estende anche ai minorenni: 128 casi di autolesionismo riportati dal gennaio 2013 al marzo scorso.

Un ruolo hanno le condizioni della struttura, pessime sul piano dell’ospitalità, ma anche la disperazione per il futuro incerto in un ambiente sovraffollato e in condizioni di sostanziale prigionia. La legge prevede che coloro che sono stati fermati in Australia dal 19 luglio dello scorso anno, infatti, siano comunque avviati a Manus Island o Nauru, da cui potranno eventualmente emigrare in Paesi terzi dopo un lungo processo di verifica e selezione. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 205

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.