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Sommario del 04/11/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa: Dio dona con gratuità, no ai “cattolici ma non troppo”

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Nella legge del Regno di Dio il “contraccambio non serve”, perché Lui dona con gratuità. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice ha avvertito che, a volte, per egoismo o voglia di potere rifiutiamo la festa a cui il Signore ci invita gratuitamente. A volte, ha avvertito, ci fidiamo di Dio “ma non troppo”. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

Un uomo diede una grande festa, ma gli invitati trovarono delle scuse per non andare. Papa Francesco ha sviluppato la sua omelia partendo dalla parabola narrata da Gesù nel passo del Vangelo odierno. Una parabola, ha detto, che ci fa pensare perché “a tutti piace andare a una festa, piace essere invitati”. Ma in questo banchetto “c’era qualcosa” che a tre invitati, “che sono un esempio di tanti, non piaceva”. Uno dice che deve vedere il suo campo, ha voglia di vederlo per sentirsi “un po’ potente”, “la vanità, l’orgoglio, il potere e preferisce quello piuttosto che rimanere seduto come uno tra tanti”. Un altro ha comprato cinque buoi, quindi è concentrato sugli affari e non vuole “perdere tempo” con altra gente. L’ultimo infine si scusa dicendo di essere sposato e non vuole portare la sposa alla festa. “No – ha detto il Papa – voleva l’affetto per se stesso: l’egoismo”. “Alla fine – ha proseguito – tutti e tre hanno una preferenza per se stessi, non per condividere una festa: non sanno cosa sia una festa”. Sempre, ha ammonito, “c’è l’interesse, c’è quello che Gesù” ha spiegato come “il contraccambio”:

“Se l’invito fosse stato, per esempio: ‘Venite, che ho due o tre amici affaristi che vengono da un altro Paese, possiamo fare qualcosa insieme’, sicuramente nessuno si sarebbe scusato. Ma quello che spaventava loro, era la gratuità. Essere uno come gli altri, lì … Proprio l’egoismo, essere al centro di tutto … E’ tanto difficile ascoltare la voce di Gesù, la voce di Dio, quando uno gira intorno a se stesso: non ha orizzonte, perché l’orizzonte è lui stesso. E dietro a questo c’è un’altra cosa, più profonda: c’è la paura della gratuità. Abbiamo paura della gratuità di Dio. E’ tanto grande che ci fa paura”.

Questo, ha detto, avviene “perché le esperienze della vita, tante volte ci hanno fatto soffrire” come succede ai discepoli di Emmaus che si allontanano da Gerusalemme o a Tommaso che vuole toccare per credere. Quando “l’offerta è tanta – ha detto, riprendendo un proverbio popolare – persino il Santo sospetta”, perché “la gratuità è troppa”. “E quando Dio ci offre un banchetto così”, ha affermato, pensiamo sia “meglio non immischiarsi”:

“Siamo più sicuri nei nostri peccati, nei nostri limiti, ma siamo a casa nostra; uscire da casa nostra per andare all’invito di Dio, a casa di Dio, con gli altri? No. Ho paura. E tutti noi cristiani abbiamo questa paura: nascosta, dentro … ma non troppo. Cattolici, ma non troppo. Fiduciosi nel Signore, ma non troppo. Questo ‘ma non troppo’, segna la nostra vita, ci fa piccoli, no?, ci rimpiccolisce”.

“Una cosa che mi fa pensare – ha soggiunto – è che, quando il servo riferì tutto questo al suo padrone, il padrone” si adirò perché era stato disprezzato. E manda a chiamare tutti i poveri, gli storpi, per le piazze e le vie della città. Il Signore chiede al servo che costringa le persone ad entrare alla festa. “Tante volte – ha commentato – il Signore deve fare con noi lo stesso: con le prove, tante prove”:

“Costringili, ché qui sarà la festa. La gratuità. Costringe quel cuore, quell’anima a credere che c’è gratuità in Dio, che il dono di Dio è gratis, che la salvezza non si compra: è un grande regalo, che l’amore di Dio … è il regalo più grande! Questa è la gratuità. E noi abbiamo un po’ di paura e per questo pensiamo che la santità si faccia con le cose nostre e alla lunga diventiamo un po’ pelagiani eh! La santità, la salvezza è gratuità”.

Gesù, ha evidenziato, “ha pagato la festa, con la sua umiliazione fino alla morte, morte di Croce. E questa è la grande gratuità”. Quando noi guardiamo il Crocifisso, ha detto ancora, pensiamo che “questa è l’entrata alla festa”: “Sì, Signore, sono peccatore, ho tante cose, ma guardo Te e vado alla festa del Padre. Mi fido. Non rimarrò deluso, perché Tu hai pagato tutto”. Oggi, ha concluso, “la Chiesa ci chiede di non avere paura della gratuità di Dio”. Soltanto, “noi dobbiamo aprire il cuore, fare da parte nostra tutto quello che possiamo; ma la grande festa la farà Lui”.

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Nomine episcopali di Papa Francesco

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Negli Usa, Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Boise City, presentata da mons. Michael P. Driscoll, per sopraggiunti limiti d’età.

In Uganda, il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Lugazi, in Uganda, presentata da mons. Matthias Ssekamanya, per sopraggiunti limiti d’età e ha nominato vescovo di Lugazi, mons. Christopher Kakooza, vesc. tit. di Case di Numidia e Ausiliare dell’Arcidiocesi di Kampala

In Guatemala, il Santo Padre ha nominato vescovo della diocesi di San Marcos  il rev.do sac. Carlos Enrique Trinidad Gómez, del clero dell’arcidiocesi di Santiago de Guatemala, ivi parroco de La Inmaculada Concepción nella città di Villa Nueva e vicario episcopale per la Pastorale della zona Sud.

In Argentina, Francesco ha nominato vescovo della diocesi di Villa de la Concepción del Río Cuarto, mons. Adolfo Armando Uriona, F.D.P., trasferendolo dalla diocesi di Añatuya.

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Tweet del Papa: l’umiltà ci aiuta a farci carico del peso degli altri.

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"L’umiltà ci aiuta di farci carico del peso degli altri”: è il tweet di Papa Francesco pubblicato oggi sul suo account Twitter @Pontifex, seguito da oltre 16 milioni di follower.

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Ebola, Caritas. Mons. Vitillo: azione Chiesa più coordinata ed efficace

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Di fronte al dilagare del virus Ebola nell’Africa occidentale occorre un intervento più ampio e coordinato. Per questo motivo, Caritas Internationalis ha convocato per oggi a Roma una conferenza, destinata a tutte le Congregazioni religiose e le organizzazioni di ispirazione cattolica attive nei Paesi colpiti dall’epidemia. Sensibilizzazione e prevenzione, ma anche sicurezza alimentare e vicinanza pastorale, le priorità degli interventi previsti. Il servizio di Gabriella Ceraso: 

Più di 5.000 decessi e oltre 14 mila contagi finora per Ebola, ma le cifre potrebbero toccare il milione, sostiene Caritas internationalis, per un virus che per ora ha un tasso di mortalità al 60%. Tutto dipende da come si svilupperanno le misure di contrasto. La risposta della Chiesa finora è stata tempestiva, spiega Caritas Internationalis riunita a Roma, con interventi sanitari: l’impegno alla sensibilizzazione - anche tramite 2.600 spot radio e un milione di sms - la distribuzione di kit sanitari alle famiglie - 53 mila quelle raggiunte finora in Guinea e Sierra Leone - e in luoghi pubblici. E poi c’è la capillare assistenza alimentare a chi è in quarantena: obiettivo Caritas ora sono 1.500 famiglie in Sierra Leone e 1.250 in Guinea nei prossimi giorni. E questa è la nuova emergenza, spiega mons. Robert J. Vitillo consigliere speciale di Caritas per la  sanità:

“La situazione è che loro non possono uscire da casa e quindi il governo o anche la parrocchia dà loro qualcosa da mangiare, ma è sempre e solo per 21 giorni… Però, se una persona si ammala, loro devono prolungare questo periodo di quarantena. Per questo motivo, è necessario avere un sistema per avere l'alimentazione necessaria e per noi di distribuirla nelle comunità locali”.

Tragedia nella tragedia, avverte Caritas, sono gli oltre 3.700 orfani confinati nelle case o, peggio, negli istituti di cura:

“Molti sono in questi centri di trattamento per l’Ebola. Alcuni di loro erano infetti, ma altri bambini non erano malati… Rimangono comuqnue bloccati in questi centri di isolamento che sono il posto peggiore dove stare per un bambino che è sano, perchè c'è sempre la possibilità di infettarsi… Abbiamo chiesto quindi a tutti gli istituti, come ad esempio alle Suore di Madre Teresa di Calcutta e ad altri istituti, di prendere questi bambini che sono rimasti senza genitori”.

In Africa, serve inoltre per il personale medico sia il materiale sia la formazione continua, al fine di evitare il contagio. L’emergenza sanitaria in Africa, disegnata dalla Caritas, è quella di una vera e propria crisi regionale, sociale ed economica senza precedenti, sottovalutata e in aumento. Di fronte a questo, l’azione della Chiesa, affermano gli orgaizzatori della Conferenza, deve dunque procedere in modo più coordinato ed efficace:

“Innanzitutto, bisogna riconfermare il ruolo delle Chiese in questo. Noi dobbiamo stare accanto ai poveri, accanto a queste persone che sono ammalate e che sono escluse. Spero anche che riusciremo a metterci insieme: molto spesso nella Chiesa facciamo un bellissimo lavoro, ma non lo facciamo insieme. Serve quindi una collaborazione fra di noi, istituzioni cattoliche”.

 Le direttive di questa azione nelle parole ancora di mons Vitillo:

“Prima di tutto, educazione sociale e poi mantenere aperte le cliniche e gli ospedali della chiesa, perchè dobbiamo assicurare la salute di tutta la popolazione. Poi, dobbiamo rispondere alle persone non solo con un trattamento diretto, ma anche pastoralmente. Occorre pensare al futuro di questi Paesi”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Ma il dono di Dio è gratis: messa del Papa a Santa Marta.

Il diritto inesistente: in prima pagina, Ferdinando Cancelli a proposito di un editoriale della rivista "Etudes" sull'eutanasia.

Come sradicare la povertà: intervento della Santa Sede all'Onu.

Un articolo del cardinale Renato Raffaele Martino dal titolo "Una vita spesa per la carità": il 5 novembre 1964 fu al Concilio il giorno della povertà.

Mucchi di vetri ovunque: la lettera scritta da Ester Nogara dopo il bombardamento in Vaticano del 5 novembre 1943.

Ritorno ai segni: Timothy Verdon sul ruolo dell'arte sacra in una società secolarizzata.

Un articolo di Emilio Ranzato dal titolo "Angelo senza ali": più difetti che pregi nel film "Ghadi" su un bimbo down.

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Oggi in Primo Piano



Libertà religiosa: Acs, peggiora situazione per cristiani d'Iraq

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Il rispetto della libertà religiosa oggi continua a diminuire. I cristiani si confermano il gruppo religioso maggiormente perseguitato nel mondo, i cambiamenti registrati nelle condizioni delle minoranze religiose corrispondono a un aggravamento della situazione interna dei Paesi. È quanto emerge dalla 12.ma edizione del Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo, presentato oggi a Roma da "Aiuto alla Chiesa che Soffre" (Acs). Il documento, pubblicato ogni due anni dalla Fondazione di diritto pontificio, fotografa il grado di rispetto della libertà religiosa in 196 Paesi, con attenzione alla situazione delle comunità cristiane e a quella dei fedeli di ogni credo. Il servizio di Giada Aquilino

Iraq, Libia, Nigeria, Pakistan, Siria, Sudan. Sono questi i Paesi in cui "Aiuto alla Chiesa che Soffre" ha rilevato un “peggioramento significativo” delle violazioni alla libertà religiosa, nel periodo tra ottobre 2012 e giugno 2014. Un caso particolare, che riflette la situazione in Medio Oriente caratterizzata dall’avanzata del sedicente Stato islamico (Is) e dal crescente fenomeno delle migrazioni di massa, è quello dei cristiani d’Iraq. Ce ne parla Peter Sefton-Williams, presidente del comitato di redazione del Rapporto Acs sulla libertà religiosa nel mondo:

R. – I suppose it’s the worst example at the moment…
Credo che in questo momento sia l’esempio peggiore, l’esempio dell’Iraq. Nel luglio di questo 2014, i jihadisti del sedicente Stato islamico sono entrati a Mosul. Lì vivevano 30 mila cristiani a cui è stato detto: “Potete convertirvi o andarvene; ma se rimanete e non vi convertirete, sarete uccisi”. Così, tutti i cristiani se ne sono andati: non avevano altra scelta. E per la prima volta in 1600 anni, in quell’antica città cristiana non si sono più tenute liturgie cristiane. E questo è uno scandalo assoluto, è una disgrazia per tutto il mondo che questo accada nella nostra epoca ai nostri fratelli cristiani.

D. – Cosa accade alle altre minoranze che vivono in Iraq?

R. – Acs' Report very clearly...
Il Rapporto di Acs evidenzia chiaramente che non solo i cristiani stanno soffrendo. Credo che sia corretto dirlo. Papa Francesco lo ha evidenziato. Come illustra questo Rapporto, anche i musulmani subiscono forti persecuzioni, pure se bisogna dire che a volte questo accade per mano di altri musulmani, mentre altre volte per mano di Stati autoritari. Così accade, ad esempio, in Asia Centrale, dove il problema è rappresentato dai regimi autoritari e il gruppo maggiormente esposto è quello dei musulmani, che subiscono persecuzioni estreme in Paesi come il Tagikistan o l’Azerbaigian. La vita in queste zone per loro è davvero difficile, come lo è anche per gruppi musulmani minoritari, come ad esempio per gli sciiti che vivono in Pakistan, oppure per i musulmani ahmadi: probabilmente la vita per loro in questo Paese è ancora peggiore di quanto non lo sia per le minoranze cristiane pakistane.

D. – E in Africa quali segnali ci sono?

R. – Africa is in one sense a good-news-story. There are not many good-news-stories…
In un certo senso, l’Africa rappresenta una buona notizia. Non ci sono molte storie che contengano buone notizie. In alcune parti dell’Africa, come nella Repubblica Centrafricana e nel nord della Nigeria, operano gruppi violenti islamici, gruppi jihadisti di cui Boko Haram è il più conosciuto, con storie drammatiche come il rapimento delle 200 studentesse ed altri tragici avvenimenti. Però, come risulta chiaramente dal Rapporto, la grande maggioranza di africani vive una condizione di collaborazione religiosa e non in una condizione di confronto religioso. In un certo senso, l’Africa è diventata un faro per il mondo, perché insegna a vivere insieme in un clima di collaborazione. E la stessa cosa si può dire anche per l’America Latina, anche se ci sono sacche di discriminazione. In Venezuela, alcuni gruppi religiosi subiscono il controllo da parte dello Stato, ma in generale, attraversando l’America Latina, possiamo vedere un quadro religioso diverso: non solo cattolici, ci sono molti evangelici, molti protestanti – nei Caraibi, per esempio, e in generale in America Latina – che convivono serenamente.

D. – Nel giorno della commemorazione dei defunti, Papa Francesco ha pregato per i nostri “fratelli e sorelle uccisi perché cristiani”. Qual è la sua speranza per il futuro?

R. – I think the hope for the future lies in religious leaders like Pope Francis…
Penso che la speranza per il futuro sia riposta in leader come Papa Francesco che levano la voce per denunciare le persecuzioni. La settimana scorsa, 120 imam hanno scritto una lettera aperta al capo del sedicente Stato islamico in Iraq, ribadendo come l’operato dei jihadisti sia assolutamente inaccettabile. Per me, tutto ciò rappresenta un esempio: abbiamo bisogno di molte più iniziative di questo tipo da parte dei capi religiosi. Come fa la Chiesa cattolica. Spero che questo Rapporto rappresenti un esempio di come la Chiesa parli delle necessità di altri gruppi religiosi, denunciando che se uno dei nostri fratelli è oppresso, questo colpisce tutti noi nella stessa maniera.

A testimoniare la realtà irachena è Pascale Warda, fondatrice della Società irachena per i diritti umani e già ministro per le Politiche migratorie di Baghdad, intervistata da Helene Destombes:

R. – Les Chrétiens sans protection, ils voient qu’il n’y a pas d’autre solution que…
I cristiani lasciati senza protezione non hanno altra soluzione che la fuga, ma questo non è giusto. Siamo parte di un tutto che si chiama Iraq. Ci sono anche altri che sono presi di mira, ma sicuramente i cristiani sono stati quelli maggiormente colpiti, assieme agli yazidi che sono i membri di un’altra religione molto antica. Dunque, queste due minoranze – se così si possono definire popoli originari di questo Paese, popoli che hanno radici antichissime – sono senza alcuna protezione, perché a Mosul sono stati consegnati di fatto nelle mani dei jihadisti, mentre nella Piana di Ninive sono stati abbandonati alle aggressioni dei jihadisti. È avvenuto a Qaraqosh o nei dintorni di Mosul…

D. – Con la sua Associazione, lei lavora per venire in aiuto delle minoranze e dei molti rifugiati che fuggono davanti a gravi violenze. Quali sono, oggi, le loro condizioni di vita?

R. – Très grave, leur condition est vraiment inhumaine…
Molto gravi. La loro condizione è veramente disumana. Qualche giorno fa sono stata nel campo che accoglie i profughi cristiani e quelli yazidi, che vivono ancora peggio: non hanno delle vere tende sotto le quali rifugiarsi, ma protezioni di fortuna, ci sono persone che vivono sotto un albero, sui marciapiedi, sulla strada. È veramente disastroso quello che si vede. Bisogna far fronte a tutto ciò, ma è necessaria un’organizzazione a livello internazionale. Le stesse Nazioni Unite svolgono molte attività, eppure non è sufficiente e non riescono a fare più di quello che già fanno. Il problema numero uno è quello degli alloggi. Queste persone sono totalmente esposte alla pioggia e presto alla neve. Quindi, è necessario che si forniscano almeno i ricoveri, dei prefabbricati, dei caravan... Io stessa ho presentato all’ambasciata di Francia un progetto che riguarda, appunto, i caravan. Bisogna potervi installare le persone perché possano stare al caldo e avere un minimo di dignità umana.

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Trageria del Mare in Turchia. In Italia salvate 329 persone

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"Sono inorridito da questa ennesima tragedia del mare”. Così il commissario europeo per gli affari interni, migrazione e cittadinanza, Dimitris Avramopoulos, commentando il naufragio di ieri davanti alle coste turche, costato la vita a 24 persone. In Italia intanto proseguono gli sbarchi, mentre Londra continua a ribadire che andrà avanti con la sua proposta di stretta sull'immigrazione. Massimiliano Menichetti: 

L’Unione Europea attraverso la voce del commissario Dimitris Avramopoulos si dice inorridita e sconvolta per la morte dei ventiquattro migranti afghani affogati ieri, a Rumelifeneri,  tra il Bosforo e il Mar Nero, sulla costa settentrionale di Istanbul. I soccorritori, che hanno lottato contro il maltempo ed il passare dei minuti, hanno salvato sette persone. A bordo dell’imbarcazione che si è rovesciata, quarantadue occupanti tra uomini, donne e bambini, undici sono ancora dispersi. Secondo le testimonianze i migranti erano diretti in Romania percorrendo la rotta nota delle coste occidentali e meridionali turche. Salve invece le 329 persone provenienti dal Maghreb e sbarcate a Pozzallo, in Sicilia, otto di loro sono indagati perché ritenuti gli scafisti. In questo quadro l’Italia ribadisce che con la missione di salvataggio Triton, "l’Europa è finalmente coinvolta in mare e che ora si punta alla realizzare campi profughi in Africa". Critica Caritas italiana sul passaggio dall'operazione umanitaria Mare Nostrum a Triton, per la riduzione delle regole d’ingaggio. “Un passaggio - rimarcano - doloroso che non avremmo voluto”. Intanto Londra annuncia che andrà avanti con la sua proposta di stretta sull'immigrazione, malgrado l'invito in senso opposto della cancelliera tedesca, Angela Merkel.

Per un commento abbiamo intervistato Donatella Parisi, responsabile comunicazione del Centro Astalli, servizio dei gesuiti per i rifugiati: 

R. – Il centro Astalli ha più volte espresso preoccupazione per la sorte delle persone, che si affidano ai trafficanti per cercare salvezza in Europa. Sono persone che non hanno scelta: devono lasciare il loro Paese, perché perseguitate e perché in fuga da guerre e violenze; sono richiedenti asilo, potenziali richiedenti asilo, cioè persone che l’Italia e l’Europa, firmando le convenzioni internazionali, hanno il dovere di proteggere e accogliere. Questo spesso non accade e non accade per una serie di motivi e forse, il più grave è il fatto che manchino canali umanitari sicuri.

D. – Sdegno dall’Unione Europea per quanto accaduto in Turchia e si parla di urgenza di azioni per salvare vite umane...

R. – L’Europa, l’Unione Europea, prova indignazione per i morti, però poi di fatto è corresponsabile di questa situazione, perché l’operazione Triton, che va a sostituire progressivamente Mare Nostrum, è un’operazione di sicurezza delle frontiere, di controllo delle frontiere, che perde quasi totalmente la sua azione umanitaria. Mare Nostrum fino alle 170 miglia dalla costa, il che vuol dire che andava a prendere i barconi in difficoltà anche molto lontano; Triton, invece, arriverà fino alle 30 miglia dalla costa e questo vuol dire che moltissime persone rischieranno di perdere la vita. E’ un arretramento dei diritti.

D. – Si parla di barriera, proprio perché il recupero delle persone che sono in mare viene spostato a 30 miglia. Si lascia un grandissimo spazio in cui può accadere di tutto...

R. – Può accadere di tutto e accadrà di tutto, perché l’esperienza degli ultimi anni ci mostra questo. Il 13 ottobre, quando sono morte circa 400 persone, in fuga dall’Eritrea, che è un Paese in guerra, un Paese in cui i diritti umani non sono garantiti, hanno perso la vita, perché appunto i soccorsi non sono stati tempestivi e non sono stati in grado di salvare vite umane.

D. – C’è chi suggerisce la creazione di campi profughi in Africa, nei luoghi di imbarco. E’ una soluzione?

R. – Noi chiediamo da tempo canali umanitari sicuri. Canali umanitari sicuri vuol dire, per esempio, la possibilità di chiedere asilo in Paesi di transito, in Paesi che sono al confine con i Paesi da cui si fugge e quindi di chiedere alle ambasciate in loco la possibilità di coinvolgere le Nazioni Unite nel rilascio di permessi umanitari, la possibilità di vari progetti di reinsediamento. Ci sono varie vie sperimentate e ce ne sono altre teorizzate, che potrebbero essere in qualche modo messe in pratica. Siamo aperti ad ogni possibilità che, veramente, tolga le vite umane dal giogo dei trafficanti.

D. – Perché l’Unione Europea non riesce ad intervenire concretamente? Triton di fatto è meno operativo di Mare Nostrum, che era solo a carico dell’Italia, com’è possibile?

R. – Secondo me, non si tratta di una situazione di possibilità o meno, ma di una decisione, cioè di una volontà di porsi in un atteggiamento di roccaforte più che di continente aperto e solidale nei confronti dei Paesi, che si trovano in situazioni di conflitto e persecuzione. In Europa, nell’Unione Europea, oggi i diritti umani sono in qualche modo subordinati agli interessi economici, che sembrano prevalere su tutto.

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Ucraina: Onu critica svolgimento elezioni nel sudest del Paese

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Continuano le critiche della comunità internazionale contro lo svolgimento delle elezioni locali nel sudest separatista dell’Ucraina. Anche il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha giudicato il voto controproducente al buon andamento del processo di pace. Mentre la Russia appoggia il fronte ribelle e l’Unione Europea sta studiando nuove sanzioni nei confronti di Mosca, il leader indipendentista, Alexandre Zakhartchenko, eletto domenica scorsa ha oggi giurato come presidente dell'autoproclamata Repubblica di Donetsk. Sulla situazione Giancarlo La Vella ha intervistato Danilo Elia, dell’Osservatorio Balcani e Causaso, appena rientrato da Donetsk: 

R. – La scelta di fare elezioni locali, domenica scorsa, sicuramente non è andata in favore del processo di pace in corso. Come immediato effetto ha avuto almeno quello di smuovere la politica ucraina nelle dichiarazioni del presidente, che fino a ieri ha sempre spinto per una pace rapida e ora sembra metterla in discussione. Sembra di intuire, adesso, anche dalle recentissime dichiarazioni dei neoletti leader separatisti, che si voglia ridiscutere il processo di pace. Come questo si evolverà, è tutto da vedere.

D. – Nel caso – com’è successo per la Crimea – l’Est confluisse nella Russia o, comunque, dovesse dare vita ad uno Stato diverso...

R. – E’ piuttosto improbabile che la Russia - che, di fatto, appoggia i separatisti, è inutile nasconderlo – voglia procedere ad un’annessione sul modello della Crimea, anche perché l’avrebbe già fatto. Al momento diventa sempre più probabile l’ipotesi di mantenere un’area, utile alla Russia, di stabilità in quella regione; quindi, come si dice, siamo in presenza di un conflitto congelato. E’ quello che sta accadendo già da settembre ad oggi, di fatto, con questa tregua che non si sa dove porti. Quanto questo possa influire sul gas? Non dovrebbe influire. Basti pensare che la guerra in Dombass va avanti più o meno da maggio. Si è creata questa situazione paradossale fino ad oggi. Immaginiamo questi tubi che scorrono sotto terra, che portano un fiume di gas in Europa. Questo fiume non ha mai smesso di scorrere, nonostante sulla superficie si sparasse e si combattesse.

D. – Si tratta, quindi, secondo te, di una guerra per così dire ideologica o economica?

R. – Certamente, la componente etnico-linguistica, più che ideologica, ha avuto un ruolo determinante fin dall’inizio, che ha sempre guardato alla Russia per vocazione. L’Est è sempre visto più vicino a Mosca che a Kiev. Quanto poi questo continui ad alimentare il conflitto, forse è anche presto per dirlo. La questione economica è probabilmente anche sottesa a tutto questo, perché ricordiamo che il Dombass è la regione più industrializzata dell’Ucraina, ricca di materie prime; ma di contro dobbiamo anche dire che i mesi di guerra hanno distrutto la rete infrastrutturale e bloccato tutte le attività. Le attività estrattive sono ferme. Quindi anche su questo sicuramente la ricchezza del sottosuolo, la ricchezza industriale del Dombass, fa gola a qualcuno. Probabilmente, però, ora le cause che mantengono in piedi questo conflitto sono tante: non ultima, forse, l’interesse geopolitico delle potenze come la Russia e anche l’Europa sullo scacchiere ucraino.

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Nigeria. Kamikaze fa 30 morti. Una suora: Boko Haram uccide chiunque

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In Nigeria, il gruppo islamista di matrice sunnita Boko Haram ha dichiarato un Califfato islamico nella località di Mubi, nel nordest. In quest’area del Paese la situazione è incandescente. Ieri, a Potiskum, un attentato suicida contro un corteo sciita ha provocato 30 morti, mentre l’assedio al carcere di Kogi ha consentito a 132 prigionieri di evadere. Il servizio di Paolo Ondarza: 

Il nordest della Nigeria, teatro dell’azione del gruppo islamista di matrice sunnita Boko Haram, è nel caos. Ieri, un attentato suicida è stato compiuto contro una processione sciita a Potiskum, capitale economica di Yobe, uno dei tre Stati dove vige lo stato di emergenza a causa dell’inseurrezione dei fondamentalisti che ha provocato già oltre 10 mila morti. I fedeli stavano celebrando la festività dell’Ashura quando l’attentatore, imbottito di esplosivo, si è fatto saltare in aria auna decina di metri dal palazzo dell’emiro. La comunità sciita è minoritaria nel nord della Nigeria, dove conta comunque diversi milioni di fedeli. Dalla città nordorientale di Kogi, a circa 100 km dalla capitale Abuja, invece arriva la notizia di un assalto al carcere che ha permesso l’evasione di 132 prigionieri. Un detenuto è morto, otto sono stati ricatturati,  quattro si sono consegnati. Le autorità accusano forze esterne che avrebbero agito indisturbate per oltre tre ore nella notte di domenica. La prigione, ora parzialmente distrutta, era già stata presa di mira da Boko Haram nel 2012.

Le notizie circolano all’interno del paese in modo confuso e spesso contraddittorio. Lo conferma, al microfono di Paolo Ondarza,  suor Cristina Katung, raggiunta telefonicamente nella città centrosettentrionale di Kaduna: 

R. - Noi siamo della zona di Kaduna e quindi un po’ lontani da Maduguri e dintorni, luoghi in cui si stanno verificando gli attacchi di Boko Haram. Quello che noi abbiamo saputo leggendo i giornali è che Boko Haram sta crescendo e che è riuscito a prendere delle città vicine a Maduguri, ma i militari invece hanno smentito. Quindi, non posso dire cosa sia vero o falso. So che i militari nigeriani stanno proseguendo nella loro azione nel tentativo di cacciare Boko Haram fuori dal Paese.

 D. - Da Kaduna, dove vi trovate voi, è reale la minaccia di Boko Haram?

 R. No, noi ci troviamo al centro della Nigeria. Da qui a dove si trova Boko Haram, il viaggio è di sette ore in macchina, quindi a Kaduna non c’è questo problema. Per adesso siamo in pace, almeno per il momento, ma non sappiamo quello che succederà domani… Abbiamo avuto un attacco di Boko Haram a maggio di quest’anno: hanno colpito durante la festa dei musulmani.

 D. - Gli attacchi di Boko Haram quindi colpiscono indifferentemente dal credo religioso, sia cristiani che musulmani…

 R. - Sì. Se Boko Haram mette una bomba nel mercato, il mercato è frequentato da tutti… Non è un attacco rivolto solamente ai cristiani, ma anche ai musulmani. Nella città musulmana di Kano, ad esempio, sono ormai due mesi che ogni giorno mettono bombe e uccidono tante persone…

 D. - Come comunità cristiana come vivete in questa situazione?

 R. - Nella preghiera. Sappiamo che questo è un problema che se non è Dio che converte le persone, come possiamo farlo noi?

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Alla Carovana Internazionale Antimafie il "Premio Falcone"

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E’ uno dei principali riconoscimenti europei all’impegno civile: è il “Premio Falcone”, istituito dal Consiglio d’Europa e dalla città di Strasburgo, che quest’anno vede premiata la Carovana Internazionale Antimafia, promossa da Arci, Libera, e Avviso Pubblico. Sono venti anni, dal 1994, a meno di due anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, che Carovana viaggia in giro prima per l’Italia e ora per l’Europa, soprattutto per tenere alta l’attenzione sul fenomeno mafioso, per promuovere impegno sociale e progetti concreti. A ricevere il Premio oggi a Strasburgo, è stato il coordinatore, Alessandro Cobianchi. Francesca Sabatinelli gli ha chiesto quali sono stati in questi anni  i successi di Carovana: 

R. – Senz’altro, nei primi anni è stato proprio quello di andare incontro alle persone. La Carovana nasce per questo: va in quei luoghi in cui non si riusciva a parlare né di mafia né tantomeno di antimafia. Penso a Capaci, a Gela. Credo che questo sia stato il risultato maggiore. Nel corso degli anni, Carovana ha avuto anche la capacità di mettere in discussione alcuni luoghi comuni, come quello che le mafie fossero radicate soltanto nelle regioni meridionali. Un altro importante risultato di questi anni è stato proprio la scelta europea, la volontà delle organizzazioni che costituiscono Carovana, che sono Arci, Libera, Avviso Pubblico, con il sostegno di Cgil, Cisl e Uil, di incontrare nuovi partner, di non ragionare più soltanto sul nostro Paese, sull’Italia, ma di provare a confrontarsi con altre organizzazioni, di altri Paesi, avendo soprattutto la possibilità di ragionare "dal basso". Quello che a noi interessa è costruire una rete di associazioni che siano impegnate direttamente contro lo mafie o comunque siano impegnate sui temi della giustizia sociale, allo scopo poi di costruire un percorso che vada ben oltre naturalmente il singolo viaggio di Carovana. Credo che Carovana un merito ce lo abbia: quello di mettersi in discussione ogni anno e quindi di cercare nuove strade.

D. – Nel 2013, Carovana ha affrontato i costi dell’illegalità. Quest’anno, vi siete messi in viaggio contro la tratta di esseri umani, che sappiamo essere uno dei grandi terreni fertili per le organizzazioni criminali. Voi state compiendo un viaggio in tutta Europa, che vi metterà a confronto con le varie realtà. Faccio degli esempi: lo sfruttamento nell’edilizia in Francia, quello minorile in Romania, il settore turistico a Malta, lo sfruttamento del lavoro domestico in Italia…

R. – Noi abbiamo lanciato un appello ai partner con cui lavoriamo, chiedendo di focalizzare un punto, per non parlare tutti di tutto. E’ stato straordinario che alcuni Paesi, come è accaduto proprio in Francia, ci segnalassero qualcosa che noi non ci aspettavamo, come ad esempio lo sfruttamento del lavoro nell’edilizia. E’ stato anche interessante creare questo collegamento fra ciò che ci hanno detto i nostri partner maltesi e molti partner di Carovana italiana, che lamentavano la stessa difficoltà rispetto a un tema, quello dello sfruttamento nel lavoro turistico. Alla fine avremo un quadro chiaro, Paese per Paese, perché naturalmente siamo collegati anche a un progetto europeo che prevede anche la realizzazione di un libro, in cui noi intendiamo presentare questi dati. Il tema della Carovana si divide in due parti: quello del viaggio – che naturalmente è la parte epidermica, quella cioè delle sensazioni, ciò che si coglie parlando con le persone – e poi quello della vera e propria ricerca. Noi pensiamo di unire questi due punti. A noi interessa anche ragionare su quali siano le ragioni che portano, Paese per Paese, alle condizioni di sfruttamento delle persone, con un dato che già abbiamo naturalmente e che è questo famoso milione di persone che in Europa vive in condizioni di schiavitù.

D. – Voi siete tra gli osservatori privilegiati sul fenomeno delle mafie in Italia. Si sta parlando, negli ultimi tempi, di un ritorno a quegli spaventosi gruppi di fuoco che ci ricordiamo all’inizio degli anni Novanta. Dalla cosiddetta “mafia dei colletti bianchi”, che non è certo meno pericolosa, sembrerebbe quasi che si sia tornati a una riorganizzazione di stampo terroristico, se la vogliamo così definire. A voi risulta che vi sia un riarmo della mafia?

R. – Sì, ed proprio questo uno dei problemi che abbiamo avuto e che probabilmente non ha ingenerato la nostra vittoria totale nei confronti delle organizzazioni criminali, ossia quello di pensare che le mafie siano in trasformazione tale da dimenticarsi la loro parte antica, se così posso dire. Sì, è vero che esiste una “mafia dei colletti bianchi”, ma è anche vero che la mafia resta profondamente radicata ancora ai territori, che mantiene ancora un forte collegamento. Questo ci ha impedito di avere una lettura totale, perché tutti convinti che si potesse parlare ormai di un nuovo, dimenticando – ripeto – che le mafie si trasformano, sono nuove, ma sono anche vecchie. E poi naturalmente, rispetto alla recrudescenza, forse abbiamo commesso il secondo errore – dai mezzi di comunicazione agli operatori del settore, ai cittadini – e cioè pensare che le mafie quando non sparano, non ci sono. Invece, in questi anni, si sono arricchite e hanno trovato sempre nuovi canali su cui investire. La cosa che a noi preoccupa è che ci svegliamo soltanto quanto c’è una recrudescenza della loro azione militare. Noi siamo convinti che in alcuni momenti storici,  come potrebbe essere questo, ci sia un tentativo di cambiare strategia. Però, non crediamo che questo sia il punto: il punto fondamentale è quello di capire cosa accade nei momenti in cui le mafie non fanno rumore. Sono i momenti probabilmente più preoccupanti per la loro evoluzione e per il fatto che decidono davvero di aggredire qualsiasi settore dell’economia, provocando poi morti in modo anche indiretto, non quelle eclatanti che noi leggiamo o vediamo o che hanno caratterizzato un periodo della nostra storia.

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Tra i giovani detenuti di Nisida ricordando Papa Wojtyla

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“Nella memoria di Giovanni Paolo II” è il tema della manifestazione promossa dalla "Life Communication", in collaborazione col Dipartimento della Giustizia minorile del Ministero della giustizia, che si tiene oggi nell’Istituto penale per minorenni dell'isola di Nisida, nel territorio di Napoli. L’obiettivo è quello di ricordare la figura e l’opera di uno dei Pontefici più amati e diffondere i suoi messaggi alle nuove generazioni. Il servizio di Davide Dionisi: 

Carissimi ragazzi e ragazze di Napoli, non abbiate paura! Siate giovani dal “cuore buono”! L’appello di Papa Wojtyla ai ragazzi di Napoli, pronunciato durante la sua visita pastorale in Campania del 1990, riecheggia oggi nei corridoi dell’Istituto penale per minorenni di Nisida, sede scelta per la decima edizione della manifestazione intitolata “Nella memoria di Giovanni Paolo II”. L’iniziativa, patrocinata dalla Conferenza episcopale italiana, in collaborazione con il Dipartimento della Giustizia minorile, si avvale del contributo di noti personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo e affronta un argomento molto caro al compianto pontefice: il lavoro. Un’occasione, dunque, per sensibilizzare non solo gli ospiti del carcere, ma tutti i ragazzi, ai problemi di Napoli e del suo hinterland. Ne è convinto il direttore di Nisida, Gianluca Guida:

R. – Noi abbiamo utilizzato questa opportunità per rilanciare in qualche maniera quello che era stato il messaggio di Giovanni Paolo II, quando venne in visita a Napoli alcuni anni orsono. Quelli furono giorni di grande speranza per la città. L’azione era quella di motivare di nuovo la città ad uno slancio nuovo. Questo è lo spirito con il quale noi abbiamo proposto ai ragazzi questa esperienza, questo ricordo di Giovanni Paolo II: avere una motivazione in più per ricominciare ad amare la nostra città e a creare condizioni nuove. Per noi, è stata l’occasione per far avvicinare i ragazzi in maniera diversa ai problemi della nostra città e leggere il loro impegno e la loro vicinanza alla sede come un impegno sociale. Non come semplicemente un’occasione di sostegno spirituale e di vicinanza spirituale, ma come una opportunità per rimboccarsi le maniche, loro per primi.

D. – Che realtà è quella di Nisida?

R. – Noi ospitiamo in questo momento circa 45 ragazzi e 5 ragazze, prevalentemente dell’area napoletana. Sono quindi ragazzi della zona, che hanno commesso per la maggior parte reati in maniera violenta contro il patrimonio o contro la persona. Ragazzi che sono cresciuti purtroppo nelle aree di disagio della città, nelle periferie, quelle periferie che possono essere tanto geografiche che esistenziali. Ci sono ragazzi, infatti, che provengono anche dall’area del centro storico, che periferia come tale non è, ma che purtroppo vivono anche in quel caso condizioni e situazioni di grave disagio. Sono ragazzi, quindi, profondamente intrisi della cultura della devianza e, in qualche caso, appartengono anche a realtà di criminalità organizzata.

D. – Secondo lei, un istituto di pena come quello che lei dirige riesce a recuperare la persona?

R. – Naturalmente, questa è una scommessa, un impegno. Io dico sempre che un istituto di pena non è una fabbrica di scatolette, quindi noi difficilmente possiamo dire alla fine della filiera se il prodotto sia riuscito o meno. L’uscita dalla devianza per una persona, ancor più per un ragazzo, è qualcosa che si può verificare nel tempo sulle scelte di lunga durata. Sicuramente, quello che noi in questi anni siamo riusciti a verificare è che il progetto educativo di Nisida riesce ad avvicinare i ragazzi, a dargli un tempo e uno spazio nel quale possono riprendere in mano la loro adolescenza, in qualche caso la loro gioventù - sono giovani, infatti, che vanno mediamente tra i 17 e i 19 anni - e recuperare quelle che sono le loro potenzialità. Noi ci siamo dati uno strumento operativo, che è quello della cura. Vogliamo che i ragazzi che sono ospiti del nostro Istituto di pena si sentano presi in carico, curati dallo Stato e dalle persone che lo Stato in quel caso rappresentano.  

D. – Barriere e pregiudizi: quale contributo può dare un direttore di un istituto di pena come lei per abbatterli?

R. – I pregiudizi sono tanti e alle volte sono anche giustificati, perché è inevitabile che un ragazzo che devia sia un ragazzo che fa paura. Quello che però è importante sapere è che, al di là dell’episodio deviante, del percorso deviante, sono uomini e donne che hanno anche un bagaglio esperienziale profondamente ricco e hanno delle potenzialità. Ognuno di loro ha una ricchezza estrema. La chiave di svolta è quella rappresentata dal fatto di poter insieme con loro creare le condizioni, perché riescano a mettere in campo le loro potenzialità e abbandonare le loro scelte devianti. La devianza, infatti, purtroppo, è anche una condizione di scelta personale.

Manifestazioni come queste, che rievocano gli insegnamenti di una figura tanto amata dai giovani, possono avere una funzione rieducativa. A sottolinearlo è don Fabio De Luca, cappellano del carcere minorile di Nisida:

R. – Certo che può avere una funzione rieducativa. Tutto il progetto educativo dell’Istituto penale minorile di Nisida si basa sulla proposta di valori su cui costruire o ricostruire, dopo aver demolito quello che non è stato costruito bene, la personalità dei ragazzi. Quindi, vengono proposti loro valori, quali quello della legalità, del rispetto, della solidarietà, anche del sacrificio, della disponibilità, che si ritrovano tutti pienamente nel Vangelo. Allora, in questo, può essere di aiuto grandissimo il cammino di fede che viene proposto ai ragazzi lì a Nisida, non solo da me, ma anche dai giovani seminaristi, che vengono dal seminario interregionale di Posillipo, che pure si affiancano a loro. Partendo da quello che vivono in quel momento, cercano di arrivare al Vangelo, a Gesù. Sono convinto che quello che Gesù ha vissuto, quello che Lui ha detto, quello che Lui ha promosso, possa aiutare tantissimi ragazzi nel ricostruirsi una vita.

D. - Quanto influisce in queste scelte devianti il contesto da cui provengono i ragazzi?

R. – E’ determinante. La maggior parte dei ragazzi che sono a Nisida provengono da quartieri molto difficili della città e della provincia di Napoli. E non è un caso che sia così. Spesso l’illegalità è lo stile di vita quotidiano di intere famiglie, alle volte di buona parte anche del quartiere. Un bambino che nasce, cresce, nutrendosi di questo stile di vita è ovvio che pensi che la sua vita sia questa o che si viva così. Questo la dice lunga sulla difficoltà nel cercare di aiutare un giovane a demolire le cose che non vanno nella sua vita, per poter invece ricostruire in una maniera nuova.

D. – Cosa vuol dire fare il cappellano a Nisida?

R. – Significa stare insieme ai ragazzi, vivere le loro situazioni, conoscere le famiglie, cercare di aiutarli a capire che la vita che hanno vissuto fino a quel momento non è certo la vita bella, la vita buona, la vita da gustare. Io con loro faccio sempre la differenza tra la “bella vita” e la “vita bella”. Loro forse hanno imparato che anche a costo del carcere o di essere ammazzati vale la pena fare la bella vita anche per un giorno, per un mese, per un anno, fino a quando non vengono arrestati. Quello che invece cerco di fargli capire è che è fondamentale invece la vita bella e che vale la pena, quindi, spendere ogni giornata, per arrivare alla vita bella, che è la vita felice, la vita nella gioia.

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Cinema. "Torneranno i prati". Olmi: guerra non uccide sentimenti

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Sarà presentato in anteprima questa sera a Roma, alla presenza del presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, l’ultimo film di Ermanno Olmi “Torneranno i prati”, in sala poi da giovedì prossimo. Una nuova meditazione sul dolore e la memoria del grande maestro bergamasco, che ambienta questa sua ultima opera in una trincea della Prima Guerra Mondiale con un bravissimo Claudio Santamaria nei panni di un tormentato ufficiale. Il servizio di Luca Pellegrini. 

(musica)

“Siamo sepolti sotto la neve, anche stanotte ne è venuta tanta, che adesso ha uno spessore di quattro metri e mezzo… E ancora non ha smesso di nevicare!”.

Ce n’è tanta di neve su quelle Alpi in cui si compie l’inutile strage, neve che diventa sangue, neve che racchiude i corpi dei soldati mandati al macello. Ermanno Olmi scrive e dirige un film bellissimo sul dolore della guerra, sul dovere della memoria, sul bisogno di chiedere scusa a quelle vittime innocenti che combatterono per un’idea di Patria che poi scoprirono essere una grande bugia. Ambientato in una trincea e in una notte del 1917 carica di attesa e disperazione, ricordi e paura, il film che addensa sentimenti e poesia, fotografato con dolente bellezza dal figlio del regista Fabio, è un continuo scorre sui volti anonimi dei ragazzi italiani che credevano di essere eroi, un incrocio di sguardi che attestano l’essere ancora in vita e per questo sperare, mentre la morte può arrivare in un soffio. E’ lo stesso regista bergamasco che ricorda l’origine del suo film.

R. – Facendo questo film, mi sono accorto che, in maniera molto rimarcata ma fuori dalla consapevolezza degli interpreti e dei soldati di allora, c’era - come dire - un galleggiare di sentimenti che nelle guerre recenti, nelle guerre attuali, sono assolutamente scomparsi. Ebbene, forse perché io da bambino ricordo che mio padre mi raccontava spesso della Prima Guerra Mondiale, cui aveva partecipato come bersagliere e avendo vissuto tutte quelle azioni belliche di estrema tragicità e rischio, la cosa che mi colpì allora fu che in certi momenti lo vedovo commosso, sul punto di piangere… Allora io bambino, piccolo, capii che dietro quella memoria c’era qualcosa di straordinariamente carico appunto di sentimenti. Da lì ho cominciato a pensare: può esserci una guerra che uccide gli uomini, ma non i sentimenti?

D. – Ha deciso di tornare a 83 anni dietro la macchina da presa proprio con un film sulla Grande Guerra. Perché?

R. – Noi abbiamo compiuto un grande tradimento nei confronti di tutti quei giovani, anche civili. Milioni di persone che sono morte in quella guerra… Non abbiamo spiegato loro perché sono morti: perché non lo abbiamo spiegato? Con i morti e con i bambini non si può barare. Noi, questi giovani morti, li abbiamo traditi. Adesso celebriamo il centenario: fanfare, bandiere, discorsi… Ma se prima non sciogliamo questo nodo dell’ipocrisia e direi della vigliaccheria - uso parole forti, lo so - resteremo sempre in quella fascia neutrale che è già tradimento. Allora, cosa fare? Mi auguro che questa celebrazione del centenario, con alcune riflessioni a proposito di questo tradimento, trovi in noi un motivo per quantomeno chiedere scusa.

D. – Maestro, ci spiega il titolo del film, “Torneranno i prati”?

R. – Perché qualsiasi tragedia umana, qualsiasi stravolgimento epocale, dove alla fine rimangono ceneri e fiamme, qualsiasi di queste occasioni ha sempre un epilogo e che tutto poi tornerà normale, come i prati appunto.

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Nella Chiesa e nel mondo



Pakistan: due cristiani bruciati vivi con l'accusa di blasfemia

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Una coppia di cristiani, lui il 26enne Shahzad e lei, la 24enne Shama, sono stati arsi vivi da una folla di musulmani, provenienti da cinque villaggi a Sud di Lahore (provincia del Punjab), che li accusavano di aver commesso blasfemia, per aver bruciato delle pagine del Corano. Lo comunica all’agenzia Fides l’avvocato cristiano Sardar Mushtaq Gill, difensore dei diritti umani, che è stato chiamato da altri cristiani e si è recato sul luogo del tragico avvenimento, il villaggio “Chak 59”, nei pressi della cittadina di Kot Radha Kishan, a sud di Lahore.

I due, che lavoravano in una fabbrica di argilla, sono stati sequestrati e tenuti in ostaggio per due giorni, a partire dal 2 novembre, all’interno della fabbrica. Questa mattina alle ore 7.00 sono stati spinti nella fornace dove si cuociono i mattoni.

Come spiegato a Fides dall’avvocato Gill, l’episodio incriminato, cioè la supposta blasfemia, è relativo alla recente morte del padre di Shahzad. Due giorni fa Shama, ripulendo l’abitazione dell’uomo, aveva preso alcuni oggetti personali, carte e fogli dell’uomo, ritenuti inservibili, facendone un piccolo rogo. Secondo un uomo musulmano che ha assistito alla scena, in quel rogo vi sarebbero state delle pagine del Corano.

L’uomo ha quindi sparso la voce nei villaggi circostanti e una folla di oltre 100 persone ha preso in ostaggio i due giovani. Stamane il tragico epilogo. La polizia, avvisata da altri cristiani, è intervenuta constatando il decesso e arrestando, per un primo interrogatorio, 35 persone.

L’avvocato Gill dice a Fides: “E’ una vera tragedia, è un atto barbarico e disumano. Il mondo intero deve condannare fermamente questo episodio che dimostra come sia aumentata in Pakistan l'insicurezza tra i cristiani. Basta un’accusa per essere vittime di esecuzioni extragiudiziali. Vedremo se qualcuno sarà punito per questo omicidio”. (R.P.)

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Iraq: chiesa di Sant'Efrem a Mosul sarà trasformata in moschea

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Nella città nord-irachena di Mosul, caduta lo scorso giugno nelle mani dei jihadisti del sedicente Stato Islamico (Is), la chiesa siro-ortodossa dedicata a Sant'Efrem è stata svuotata dei suoi arredi interni e voci insistenti messe in rete via internet accreditano l'idea che il luogo di culto cristiano potrebbe essere trasformato in moschea. Immagini fotografiche, diffuse online anche dal sito www. ankawa.com, mostrano i banchi e altre suppellettili sottratte alla chiesa e disposte come merce in vendita nell'area antistante il luogo sacro.

Secondo alcune informazioni circolanti sui social network, la spoliazione sarebbe la prova che i miliziani dello Stato Islamico si preparano a trasformare la chiesa in moschea. Altre fonti contattate dall'agenzia Fides interpretano il saccheggio degli arredi di Sant'Efrem in tutt'altro modo: i jihadisti dell'Is, presentendo come imminente un'offensiva militare volta a liberare Mosul, starebbero intensificando le razzie negli edifici pubblici e in quelli privati prima di predisporre la resistenza.

I miliziani del Califfato già a luglio avevano scelto la chiesa di Sant'Efrem come sede del Consiglio di stato dei mujahidin. La croce che svettava sulla cupola era stata divelta. Lo scorso 9 settembre, i raid aerei compiuti per colpire le postazioni dei jihadisti del sedicente Califfato Islamico avevano danneggiato gravemente alcuni edifici adiacenti alla chiesa di Sant'Efrem e a quella siro-cattolica dedicata a san Paolo, anch'essa situata nel cosiddetto “quartiere della polizia”. (R.P.)

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Vescovi indiani: governo tace sugli attacchi alle minoranze

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“Il nuovo governo del leader nazionalista Narendra Modi non è apertamente contro le minoranze, ma siamo tristi e preoccupati per quanto sta accadendo in India: il governo non dice e non fa nulla per fermare i gruppi religiosi della destra nazionalista che attaccano le minoranze. In questo modo diventa complice”: lo afferma in un colloquio con l’agenzia Fides padre Charles Irudayam, segretario esecutivo della Commissione “Giustizia, pace e sviluppo” della Conferenza episcopale dell’India, esprimendo la visione dei vescovi indiani.

“Nello stato di Chattisgaṛh (India centrale) questi gruppi estremisti hanno promosso nuove violenze. Hanno impedito ai missionari e ai religiosi cristiani di entrare in alcune aree e in alcuni villaggi. Per questo la Commissione Giustizia e Pace ha inviato una lettera di protesta ufficiale al governo”, racconta il sacerdote indiano. Padre Charles ricorda che di recente tutta la società civile indiana ha manifestato pubblicamente il proprio disagio chiedendo l’intervento delle autorità civili.

“Il governo centrale di Narendra Modi – spiega Irudayam – non ha mai condannato le violenze. Questo silenzio significa che, nella sua mentalità, condivide l’approccio e l’ideologia di un’India riservata agli indù. Ma questa idea va contro la nostra Costituzione, che traccia una nazione democratica e pluralista. E’ compito del governo rispettare e far rispettare la Costituzione”.

“In questa fase, dopo i primi cento giorni di governo di Modi – prosegue il segretario – la Chiesa indiana e i suoi vescovi sono in allerta e seguono con grande attenzione quanto accade. Alcuni vescovi hanno chiesto: fino a quando continuerà questa complicità del governo con i violenti? Anche alcuni eminenti giuristi e intellettuali indù appoggiano questa posizione, chiedendo all’esecutivo un chiaro pronunciamento. Altrimenti, spiegano, le violenze sulle minoranze religiose aumenteranno”.

Il segretario della Commissione conclude: “Sappiamo che Papa Francesco ci accompagna nel nostro sforzo per la pace e la giustizia. Una lotta non violenta, alzando la voce in pubblico e verso Dio, con la preghiera. Il nostro è un impegno per l’armonia sociale e religiosa. Il governo si sta focalizzando sullo sviluppo e sulla pulizia della città. Quella che occorre è, prima di tutto, una pulizia del cuore. Vogliamo un’India pulita, ma soprattutto dal cuore pulito, grazie alla pace alla, giustizia, alla fratellanza”. (P.A.)

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Vescovi del Ghana: Coppa d'Africa di calcio 2015 a rischio Ebola

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Disputare l’African Cup of Nations nel 2015 aumenterebbe il rischio di una diffusione a macchia d’olio del virus Ebola. A sostenerlo sono i vescovi del Ghana che hanno chiesto alla Confederation of African Football di posticipare l’evento sportivo per contenere il più possibile il rischio contagio.

Il torneo calcistico dovrebbe disputarsi all’inizio del nuovo anno in Marocco, Paese che ha però chiesto espressamente alla Caf, responsabile dell’organizzazione dell’African Cup, di posticipare la data fissata per il calcio di inizio, proprio a causa del virus Ebola.

A questa richiesta la Caf avrebbe indicato il Ghana e il Sudafrica come location alternative, sottolineando, però, di non essere disposta a posticipare l’evento. Una contraddizione vera e propria a cui ha dato voce, in una lettera indirizzata all’organizzazione, mons Joseph Osei-Bonsu, vescovo di Konongo-Mampong, in Ghana, e presidente della Catholic Bishops’ Conference: “Mancano solo due mesi e mezzo all’avvio della competizione e francamente pensiamo che, a parte le preoccupazioni sanitarie, non saremo in grado di realizzare tutti i provvedimenti logistici e infrastrutturali prima dell’avvio”.

Oltre alla mancanza di tempo per organizzare un torneo continentale, i vescovi ghanesi, nella lettera firmata da mons. Osei-Bonsu, ricordano che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha indicato proprio il Ghana, insieme ad altri 14 Paesi, come possibili destinazioni dell’Ebola. "Sembra dunque una vera incoscienza, da parte della Caf - scrivono - decidere di non posticipare un evento che aumenterebbe di gran lunga il rischio di contagio a causa dell’afflusso di visitatori stranieri e di assembramenti di massa".

Per il momento, la Confederation of African Football è ferma nelle sue convinzioni e ha lanciato al Marocco un ultimatum: entro il prossimo 8 novembre le autorità dovranno confermare o meno la disponibilità ad ospitare l’evento. E in caso negativo, ci si sposterà con ogni probabilità verso il Ghana, il cui ministro dello Sport si è detto aperto a fare in modo che l’African Cup possa disputarsi nel suo Paese. (C.S.)

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Onu: al via la Campagna che dice stop all’apolidia

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Ogni dieci minuti nasce un bambino senza patria. Un dato che fa rabbrividire e che l’Onu vuole azzerare in dieci anni. Parte così oggi la Campagna “I Belong” (letteralmente “Io appartengo”), promossa dall’Acnur, l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, per cancellare la piaga dell’apolidia, che coinvolge oggi 10 milioni di persone.

All’iniziativa hanno aderito già moltissimi nomi noti: da star del calibro di Angelina Jolie ad aziende come United Colors of Benetton, fino ad arrivare a Desmond Tutu, arcivescovo sudafricano premio Nobel per la Pace, tutti hanno apposto una firma alla lettera aperta “10 milioni di firme per cambiare 10 milioni di vite”.

“I Belong” si basa sulla consapevolezza che l’apolidia è “un problema unicamente creato dall’uomo e facilmente risolvibile se ci fosse la volontà dei governi”. A nascere senza cittadinanza sono, infatti, spesso delle minoranze etniche discriminate dallo Stato. Pensiamo al Myanmar che ospita il maggior numero di apolidi al Mondo: circa 800.00 membri dell’etnia Rohingya, di fede musulmana, a cui la nazionalità è rifiutata sulla base di una legge del 1982, che limita anche la libertà religiosa e l’accesso all’istruzione.

Un gruppo molto ampio è anche quello dei Bihari nel Bangladesh: circa 600.000 ex sovietici senza nazionalità a 20 anni dalla disgregazione dell’Urss. E ancora: sono senza patria anche i 500.000 bambini nati da madri siriane rifugiate, in questi tre anni di conflitto, in Paesi vicini come Egitto, Turchia, Libano, Iraq e Giordania, che non hanno mai rilasciato loro un certificato di nascita.

Una situazione preoccupante perché i bambini apolidi (circa un terzo del numero totale delle persone senza patria) rischiano di trasmettere il loro sfortunato statuto alle future generazioni, allargando il fenomeno anziché arginarlo.

“I Belong” parte perché nessun bambino nasca più apolide, condannato non solo a vedersi negati diritti come l’istruzione e la sanità, ma anche a provare la sensazione di vivere continuamente nell’illegalità e ad essere considerato “invisibile dalla culla alla tomba”. (C.S.)

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Sud Corea: 60.mo della Federazione degli Studenti cattolici

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Fervono i preparativi nella cattedrale di Myeongdong, a Seoul, in vista del grande evento del prossimo sabato: i 60 anni della Federazione degli Studenti Cattolici (Sfcs). Le celebrazioni inizieranno alle 3 del pomeriggio con il “Pax Festival” durante il quale si esibiranno ragazzi e ragazze provenienti da tutto il Paese.

In serata l’arcivescovo della capitale, card. Andrew Yeom Soo-jung, presiederà la Messa e nell’occasione verrà presentato il logo, la preghiera ufficiale della Sfcs e un volume che ripercorre le tappe storiche dei 60 anni del Movimento studentesco cattolico in Corea del sud.

Nato nel 1954, in concomitanza con l’Associazione degli studenti cattolici coreani, l’organismo aderì fin dall’inizio alla Pax Romana, la Federazione Internazionale degli studenti e dei laureati cattolici. Oggi conta 1.200 giovani fedeli che frequentano 36 atenei di Seoul e dintorni.

“Si incontrano ogni domenica per la Messa e durante le vacanze estive partecipano a stage nelle fattorie e maturano esperienze a contatto con la natura” spiega padre Joseph Eun Sung-je, uno dei docenti della Federazione. “La nostra storia ricorda un po’ quella della Chiesa coreana. Siamo nati spontaneamente e il 60° rappresenta per noi un momento per riflettere sul cammino fino ad oggi compiuto e sulle prospettive future” rileva il sacerdote. (A cura di Davide Dionisi)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 308

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.