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Sommario del 09/11/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa ricorda caduta del Muro di Berlino: mondo ha bisogno di ponti

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L'umanità di oggi ha bisogno di "ponti, non di muri", esattamente come i popoli del Novecento non avevano bisogno della divisione simboleggiata dal Muro di Berlino. Nel giorno che ne ricorda il crollo, 25 anni fa, Papa Francesco ha lanciato all'Angelus in Piazza San Pietro un appello affinché cadano, ha detto, "tutti i muri che ancora dividono il mondo". Un augurio di pace e di fraternità ripetuto anche durante il pensiero spirituale prima dell'Angelus, ispirato dall'odierna festa della Dedicazione della Basilica di S. Giovanni in Laterano. Il servizio di Alessandro De Carolis

“25 anni fa, il 9 novembre 1989, cadeva il Muro di Berlino”. L’applauso che interrompe subito Papa Francesco è un volo di colomba che porta la gioia dei romani e dei tanti stranieri da Piazza San Pietro fino alla Porta di Brandeburgo e alle piazze e alle strade della capitale tedesca dove applausi, voci, musica, silenzi e commozione celebrano da giorni la rinascita dell’Europa dalla polvere e dai rottami di cemento tra i quali 25 anni fa implose lo scempio che, per i trenta anni precedenti, aveva tenuto segregati in un cupo terrore milioni di persone. Papa Francesco condivide l’entusiasmo e offre la sua lettura, la lettura della Chiesa, di ciò che avvenne con il crollo di quello che definisce “simbolo della divisione ideologica dell’Europa e del mondo intero":

“La caduta avvenne all’improvviso, ma fu resa possibile dal lungo e faticoso impegno di tante persone che per questo hanno lottato, pregato e sofferto, alcuni fino al sacrificio della vita. Tra questi, un ruolo di protagonista ha avuto il santo Papa Giovanni Paolo II”.

La storia è maestra di vita e Papa Francesco alza gli occhi dal Muro che non c’è più per chiedere l’abbattimento di tutti gli altri che ancora oggi dividono i popoli col cemento di altre forme di discriminazione:

“Preghiamo perché, con l’aiuto del Signore e la collaborazione di tutti gli uomini di buona volontà, si diffonda sempre più una cultura dell’incontro, capace di far cadere tutti i muri che ancora dividono il mondo, e non accada più che persone innocenti siano perseguitate e perfino uccise a causa del loro credo e della loro religione. Dove c’è un muro, c’è chiusura di cuore! Servono ponti, non muri!

L’esclamazione del Papa è strettamente collegata alla riflessione che aveva preceduto la recita dell’Angelus. Parlando della Dedicazione della Basilica Lateranense, oggi celebrata dalla Chiesa, e sottolineando come il senso spirituale di questa festa sia nell’“unità” che tale Basilica rappresenta per tutte le comunità cristiane in quanto sede originaria “del vescovo di Roma”, Papa Francesco aveva osservato che proprio la “comunione di tutte le Chiese”…

“…per analogia ci stimola a impegnarci perché l’umanità possa superare le frontiere dell’inimicizia e dell’indifferenza, a costruire ponti di comprensione e di dialogo, per fare del mondo intero una famiglia di popoli riconciliati tra di loro, fraterni e solidali”.

Ci vogliono i mattoni per costruire una chiesa, aveva spiegato ancora Papa Francesco, ma ci vuole un’anima perché quei “mattoni” prendano vita nelle vite dei cristiani, “pietre vive” chiamate – afferma il Papa – al dovere della “coerenza”:

“E non è facile, lo sappiamo tutti, la coerenza nella vita fra la fede e la testimonianza; ma noi dobbiamo andare avanti e fare nella nostra vita, questa coerenza quotidiana. 'Questo è un cristiano!', non tanto per quello che dice, ma per quello che fa, per il modo in cui si comporta. Questa coerenza, che ci dà vita, è una grazia dello Spirito Santo che dobbiamo chiedere”.

La Chiesa, conclude Papa Francesco, “è chiamata ad essere nel mondo la comunità che, radicata in Cristo per mezzo del Battesimo, professa con umiltà e coraggio la fede in Lui, testimoniandola nella carità”. Dopo la preghiera dell’Angelus, Papa Francesco ha ricordato la “Giornata del Ringraziamento”, che si celebra in Italia sul tema “Nutrire il pianeta. Energia per la vita”, legato al leit-motiv dell’Expo di Milano 2015:

“Mi unisco ai Vescovi nell’auspicare un impegno rinnovato perché a nessuno manchi il cibo quotidiano, che Dio dona per tutti. Sono vicino al mondo dell’agricoltura, e incoraggio a coltivare la terra in modo sostenibile e solidale”.

E dall’Italia a Roma, il saluto del Papa ha raggiunto anche la diocesi capitolina che vive la Giornata per la custodia del creato, “evento – rammenta il Papa – che intende promuovere stili di vita basati sul rispetto dell’ambiente, riaffermando l’alleanza tra l’uomo, custode del creato, e il suo Creatore”.

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Francesco: anni di seminario sono apprendistato di fraternità

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Il sacerdozio non è un ministero da vivere né solitaria e nemmeno in modo individualistico. Papa Francesco coglie l’occasione di un messaggio ai seminaristi impegnati che partono stasera per un pellegrinaggio a Lourdes fino a lunedì prossimo, per chiarire i tre punti fondamentali su cui ogni futuro presbitero deve riflettere per poterli tradurre in pratica. Il primo riguarda la “fraternità”. Quella dei discepoli “esprime l'unità dei cuori, è parte integrante della chiamata che avete ricevuto”, afferma Papa Francesco, che afferma subito dopo: “Il ministero sacerdotale non può in nessun caso essere individuale e meno ancora individualista”. In seminario, scrive il Papa, “vivete insieme per imparare a conoscervi, apprezzarvi, a sostenervi, a volte anche sopportarvi”, per questo – soggiunge – “vi invito ad accettare questo apprendistato della fraternità con tutto il vostro ardore”.

Secondo punto, la “preghiera”. L’immagine evocata è quella del Cenacolo, dove i discepoli pregano con Maria in attesa dello Spirito Santo. Da ciò, sottolinea Papa Francesco, si evince  che “alla base della vostra formazione c’è la Parola di Dio, che vi penetra, vi nutre, vi illumina”. Dunque, è il consiglio del Papa ai seminaristi, abbiate “ogni giorno lunghe ore di preghiera” e “lasciate che la vostra preghiera sia un invito allo Spirito”, dal quale dipende la costruzione della Chiesa, la guida dei discepoli e il dono della “carità pastorale”. In questo modo, assicura il Papa, andando da coloro cui sarete inviati potrete essere  quegli “uomini di Dio” che la gente vuole siano i sacerdoti.

Infine il terzo punto, la “missione”. Gli anni di seminario, indica Papa Francesco, non sono altro che una preparazione con l’“unico obiettivo” di diventare discepoli “umili” capaci di “preferenza per le persone più emarginate”, quelle delle “periferie”. “La missione – scrive ancora il Papa – è inseparabile dalla preghiera, perché la preghiera apre allo Spirito e lo Spirito vi guiderà nella missione. E la missione, la cui anima è l'amore, è quella di condurre quanti incontrate a cogliere la tenerezza” di Cristo, attraverso i Sacramenti. (A cura di Alessandro De Carolis)

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Card. Tauran: Muro di Berlino crollato grazie a Wojtyla e Gorbaciov

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Celebrazioni, menifestazioni di vario tipo, folla non solo cittadina. E' Berlino oggi l'epicentro dell'attenzione internazionale, nel giorno in cui si ricorda la caduta del famigerato Muro che 25 anni fa cambiò il corso della storia contemporanea. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha rievocato quella notte straordinaria come un "miracolo" per come si sia svolta pacificamente e ha affermato: "Serve coraggio per combattere per la libertà, e serve coraggio per usare la libertà". Su questo evento e sul contributo che a esso diede l'azione di Giovanni Paolo II, sottolineata anche dal Papa all'Angelus, Olivier Bonnell ha intervistato il cardinale Jean-Louis Tauran, che nel 1989 era sottosegretario per i Rapporti con gli Stati: 

R. – Le Pape Jean-Paul II disait toujours que le système communiste était miné…
Giovanni Paolo II diceva sempre che il sistema comunista era minato dall’interno e che un giorno o l’altro sarebbe crollato. Ma nessuno mai avrebbe pensato che questo sarebbe accaduto così presto e, soprattutto, senza un bagno di sangue. Praticamente, non ci sono state vittime… Nel 1978, la sua stessa elezione aveva portato scompiglio: infatti, con l’arcivescovo di Cracovia eletto Papa il sistema non funzionava più. Dieci anni dopo, chi avrebbe mai immaginato che con quelle parole – “Non abbiate paura: la verità vincerà!” – il Muro sarebbe crollato... Credo che questa evoluzione sia stata introdotta intanto dall’atmosfera portata dagli Accordi di Helsinki e poi dall’azione di due uomini, protagonisti della storia: Giovanni Paolo II e Gorbaciov, questi tre elementi insieme.

D. – Un mese dopo la caduta del Muro, Mikhail Gorbaciov venne in Vaticano, in visita da Giovanni Paolo II. Ovviamente, fu una visita storica. Quali ricordi serba di quei momenti?

R. – Eh bien, moi je me souviens de ce qu’avait dit le Pape...
Ricordo molto bene quello che diceva il Papa: Gorbaciov è un uomo del mondo sovietico che ragiona in termini moderni.

D. – E per la preparazione di questa visita, c’era un’atmosfera particolare, febbrile?

R. – Le Pape, je veux vous dire…
Il Papa, voglio dirle, per tutto un mese ha preparato questa visita leggendo un passo del Nuovo Testamento in russo. Quando si sono incontrati, uno parlava in polacco, l’altro in russo e si sono capiti molto bene…

D. – Ricorda un aneddoto, qualcosa che l’ha colpita in maniera particolare in quel momento in cui la storia vacillava?

R. – Je me souviens avoir parlé avec des diplomates soviétiques à la Conférence…
Mi ricordo, in occasione della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa – alla quale partecipavo come rappresentante della Santa Sede – di aver parlato con alcuni diplomatici sovietici. Il punto di svolta è stato quel giorno, nel mese di maggio, in cui il Patriarca Pimen rilasciò un’intervista che apparve poi sulla prima pagina della “Pravda”. In quel momento, abbiamo capito che le cose stavano cambiando.

D. – Quali ricordi ha degli anni Ottanta, di quell’epoca della caduta di un blocco, quando lei era nella diplomazia vaticana?

R. – D’abord, l’immense courage de ces évêques et de ces prêtres, emprisonnés…
Intanto, l’immenso coraggio di vescovi e preti, imprigionati, torturati… Per me, è stato molto commovente. Credo che ogni secolo abbia i suoi martiri. Credo anche che la più grande illusione che ci si potesse fare fosse quella di pensare che si potesse avere un “cristianesimo di moda”, che piacesse a tutti… La Croce di Cristo è una sfida per tutti, ce lo rende sempre presente.

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Oggi in Primo Piano



Muro di Berlino. Geninazzi: la libertà è sempre non violenta

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Uno dei testimoni oculari di ciò che accadde nel 1989 a Berlino, anche nei giorni successivi alla caduta del Muro, fu il giornalista Luigi Geninazzi. Inviato per il quotidiano “Avvenire” ha sempre rivolto molta attenzione all’Europa dell’Est, vivendo da protagonista i principali eventi di quegli anni nei Paesi Oltrecortina, raccolti poi nel volume “L’Atlantide Rossa”. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato: 

R.  – Mi recai a Berlino subito, la mattina dopo quel 9 novembre. Alla sera, già tardi, arrivavano le notizie di queste migliaia di persone che ebbre di felicità attraversavano il muro, i “Vopos” non opponevano resistenze. Quindi, la mattina dopo, mi sono trovato immerso in una festa incredibile, gente che si abbracciava anche senza conoscersi, Berlino ovest intasata dalle “Trabant”, la macchina prodotta nella DDR,  “un caos meraviglioso” come titolarono i giornali, che contraddiceva un po’ lo stereotipo del tedesco freddo, compassato. E l’immagine più bella che ho sempre in mente è questa: a uno di questi valichi, finalmente aperti dopo mezzo secolo di impenetrabile chiusura, un bambino a cavalcioni sulle spalle del padre che ha guardato il cielo appena passata la frontiera, appena passato il Muro, come se il cielo dovesse avere un colore diverso da quello che aveva all’est. E’ l’immagine più bella di un popolo intero che ha riacciuffato la libertà.

D.  – Ricordiamo che fu un giornalista dell’Ansa che con una domanda fece capire ciò che sarebbe accaduto di lì a poche ore senza che fino ad allora ci fossero i segnali…

R.  – Per la cronaca fu Riccardo Ehrman, un mio carissimo amico, giornalista noto a tutti perché molto pignolo. E in quella conferenza stampa Gunter Schabowski, il portavoce della Sed, il partito comunista della Germania Est, aveva presentato un confuso progetto per semplificare le domande di visto per andare all’estero. L’annuncio era che adesso si poteva andare in Occidente con più facilità. Ehrman chiese quando le misure sarebbero entrate in vigore e Schabowski, nella confusione in cui vivevano i vertici comunisti della Germania Est, disse: “Da subito”. La gente, che guardava la televisione, incuriosita si chiede: “Come da subito? Andiamo a vedere”. E si avvicinò a quella frontiera. E così è cominciata la fuga. Questa festa incredibile, inaspettata, è entrata nella leggenda e ha fatto dimenticare un po’ che il comunismo non è caduto in una notte, è caduto perché per tanti anni, tanta gente, a cominciare dai polacchi, dai cecoslovacchi, e così via, ha combattuto in modo dignitoso e senza violenza questi regimi.

D. – Quel Muro è stato oltrepassato da migliaia di persone e in tantissimi hanno perso la vita…

R. – Sono centinaia i caduti nel tentativo di attraversare il Muro, nei modi anche più rocamboleschi. Io ricordo che, subito dopo l’apertura del Muro, andai a intervistare la madre di Peter Fechter, uno dei primi caduti, forse il primo, nel senso che il Muro era già stato costruito e Peter Fechter era un giovane soldato di 18 anni, la madre ancora mi diceva che secondo lei non voleva scappare, ma questo perché voleva negare la realtà. In realtà, Peter Fechter è stato il primo a poter scappare dal Muro appena costruito e i Volpos, le guardie di frontiera, lo hanno ucciso. La cosa più tragica è che l’hanno lasciato agonizzante per ore nella cosiddetta “fascia della morte”, cioè la terra di nessuno, tra l’Est e l’Ovest, dove quelli dell’Ovest non potevano intervenire e quelli dell’Est non hanno voluto intervenire. Dobbiamo ricordare queste cose perché la libertà è stato il frutto di una lunga lotta e tanti ci hanno perso la vita.

D. – La fine dell’allora contrapposizione tra Est e Ovest, da una parte, sì, ha permesso la riconquista  di diritti fondamentali, però non è che abbia portato soltanto aspetti positivi…

R. - Io distinguerei due cose. C’è stata una certa mitologia legata a questo grande evento storico: dato che i regimi comunisti sono caduti in modo così spettacolare, come appunto il 9 novembre dell’89, la democrazia ormai ha trionfato nel mondo, e questa è la tesi del politologo americano Fukuyama, con la “Fine della storia”. Certo, ci sarebbero state crisi, contrasti, anche conflitti, ma il grande conflitto fra lo spirito della libertà e lo spirito dell’oppressione, il totalitarismo, non ci sarebbe più stato. Una previsione assolutamente  sbagliata. Proprio in questo 2014, come ha detto Papa Francesco, assistiamo a una terza guerra mondiale fatta a pezzi. Vediamo guerra all’Est, nell’Ucraina orientale, vediamo il risorgere addirittura del terrorismo islamico nella sua forma più crudele con lo Stato islamico, vediamo incertezza, confusione per la crisi non solo economica ma anche etica dell’Occidente. Quindi, è chiaro che quell’idea era sbagliata. Però, vorrei dire una seconda cosa: l’89 non è stato questo mito e questa libertà scoppiata all’improvviso. L’89 è stato la vittoria dei movimenti non violenti, ispirati dalla fede cristiana, in gran parte, sostenuti da un Papa come Giovanni Paolo II. Ed è questa cosa che oggi non è caduta ed è questa cosa che dobbiamo tenere dell’89: non l’illusione di una libertà che sarebbe dilagata in tutto il mondo – è falso – ma piuttosto la lezione che per conquistare la libertà, ancora oggi, occorre una coscienza morale, soprattutto un metodo basato sulla non violenza.

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Siria, raid sui jahidisti. P. Nazzaro: Aleppo muore di fame e freddo

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Almeno 21 civili sono morti e centinaia sono rimasti feriti in raid del governo siriano su Al-Bab, una città in mano ai jihadisti del cosiddetto Stato islamico (Is) nella provincia di Aleppo. E contro le loro postazioni proseguono anche i raid della coalizione internazionale. Nelle ultime 24 ore, è ribalzata la notizia che in uno di questi bombardamenti, condotto nei pressi di Mosul, sarebbe morto il califfo, Abu Bakr al Baghdadi, leader delle milizie integraliste. Dal canto suo, il comando Usa ha confermato raid aerei contro la leadership dell’Is, ma non la morte o il ferimento di al Baghdadi. Intanto, aumenta sensibilmente il coinvolgimento militare degli Stati Uniti in Iraq. Obama ha deciso di inviare altri 1.500 consiglieri militari americani come addestratori, che si aggiungono 1.600 partiti nelle scorse settimane. E in vista dell’arrivo dell’inverno, padre Giuseppe Nazzaro, vicario apostolico emerito di Aleppo, ha presentato nei giorni scorsi a Bologna il progetto “Emergenza Siria”. Un’iniziativa per aiutare le famiglie di Aleppo a riparare le case danneggiate dai bombardamenti. L’incontro è stato anche occasione per fare il punto della situazione in quelle terre. Il servizio di Luca Tentori: 

“Una guerra che certamente il popolo siriano non ha voluto e non vuole. La subisce in maniera marziale, la subisce e soffre. Soffre perché non ci può fare nulla”.

E’ il filo rosso di molta storia che ancora oggi, purtroppo, continua ad essere scritta così. Il racconto è accorato come quello di un pastore che vede la sua comunità ferita e in agonia. Parole chiare, di chi conosce dal di dentro la guerra e quell’angolo di mondo oggi in fiamme: la Siria. Padre Giuseppe Nazzaro è stato vicario apostolico di Aleppo e negli anni novanta Custode di Terra Santa. Il Medi Oriente è la sua seconda casa e sa della convivenza di cristiani e musulmani, potenze economiche e ingerenze politiche. La sua Siria fino al 2011 era una convivenza pacifica, oggi è una polveriera. Cosa sta facendo l’Occidente per queste comunità?

“A mio avviso molto poco. Abbiamo una fraternità che soffre, abbiamo un popolo intero che muore di fame e di sete. Anche le condotte sono rovinate e le acque inquinate perché i terroristi hanno fatto scoppiare le fogne gettandole nelle acque potabili. Sono ricomparsi casi di colera. Molti si approvvigionano nelle antiche cisterne che esistevano già nei conventi e nelle moschee, ma quando non le possono raggiungere si devono accontentare dell'acqua sporca. Gente che muore di freddo, perché non esiste elettricità, non arriva il gasolio per il riscaldamento, non esiste da mangiare. Ma oggi in Siria si muore anche di fame, perché non c'è più moneta. Gli unici che amministrano e possiedono un po' di moneta sono coloro che ancora possono lavorare con il governo. Tutto il settore privato è privo di entrate”.

I cristiani, in un paese di 23 milioni di abitanti, erano il 10% della popolazione. Oggi ne sono rimasti meno della metà. Il rischio è che scompaia una delle prime comunità cristiane nate dopo la persecuzione di Gerusalemme e il martirio di Santo Stefano. In Siria, Saulo si convertì e da lì partì il messaggio cristiano per il mondo con lo stesso Paolo, Barnaba e gli altri apostoli. Oggi, gli stenti della guerra sono comuni per cristiani e musulmani. La Chiesa cerca di andare avanti come può.

“I conventi sono tutti delle mense pubbliche aperte a tutti, cristiani e musulmani. Molte di queste mense sono anche aiutate dagli stessi musulmani, perché sanno che i cristiani fanno la carità e aiutano tutti”.

Intanto, ad Aleppo è arrivato l’inverno e il gelo che di notte fa scendere i termometri sotto zero non fa sconti alla miseria delle case bombardate e non riscaldate. Il vescovo Georges Abou Khaze, vicario apostolico di Aleppo, ha lanciato un micro-progetto di aiuto per piccole riparazioni alle abitazioni solo danneggiate. Non si parla di ricostruire gli edifici distrutti, ma di aiutare quanti con piccoli interventi possono ancora vivere dignitosamente nella propria casa riparando finestre, porte e muri sventrati. Maggiori informazioni e numeri di conto correnti sul sito "www.siriapax.org" nella sezione dedicata alle famiglie sfollate di Aleppo - Emergenza siria.

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Ucraina: scontri a Donetsk, carri armati e armi pesanti tra i ribelli

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La nuova fiammata di combattimenti a Donetsk, roccaforte filorussa nell’Ucraina dell’est, fa vacillare la fragile tregua in vigore dal 5 settembre. Gli osservatori dell’Osce, l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, hanno visto numerosi carri armati transitare nella zona controllata dai separatisti e Kiev denuncia nuovi rifornimenti ai ribelli da parte di Mosca. Il servizio di Marco Guerra: 

I colpi di artiglieria partiti nella notte dalle file dei ribelli pro-russi sono proseguiti anche in mattinata ma con minore intensità. Secondo testimoni sul campo, si tratta dei più violenti combattimenti da diverse settimane a questa parte. Violenze che arrivano dopo la segnalazione, da parte degli osservatori dell’Osce, di una colonna di blindati e carri armati nella zona sotto il controllo dei separatisti filo-russi. Oggi, giornalisti dell'agenzia France Press riferiscono di una ventina di camion militari e 14 cannoni  dirigersi verso la zona dell’aeroporto, uno dei principali cambi di battaglia tra l’esercito ucraino e i separatisti. Kiev denuncia l’ingresso dalla Russia di un ingente numero di armi e rifornimenti per i ribelli. Tuttavia, nessuna conferma è arrivata al momento da Usa e Nato. Di sicuro, però, le ostilità non conoscono interruzioni, le vittime del conflitto hanno infatti toccato le 4.000 unità malgrado la tregua firmata lo scorso 5 settembre e i recenti accordi sul gas tra Kiev e Mosca.

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La Catalogna al voto sull'indipendenza. No di Madrid

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Nonostante il parere negativo della Corte Costituzionale di Madrid, si svolge questa domenica in Catalogna il referendum sull’indipendenza della regione dalla Spagna. Si tratta di un voto meramente simbolico, ma dal forte significato politico, che suona come una sfida aperta nei confronti del potere centrale per l’affermazione delle istanze indipendentiste. Sulle conseguenze del voto nei rapporti tra Barcellona e Madrid, Giancarlo La Vella ha intervistato Alfonso Botti, storico dell’Università di Reggio Emilia, condirettore della rivista “Spagna contemporanea”: 

R. – Si tratta di una forzatura che il governo catalano ha voluto fare, non avendo la possibilità di indirlo legalmente. Quindi, diciamo, è un referendum non legale, ma solo consultivo.

D. – Comunque, una consultazione che verrà effettuata e che rende sempre più difficili i rapporti tra Barcellona e Madrid. Secondo lei, quali le conseguenze?

R. – Certamente rende più aspre le relazioni tra la Catalogna e Madrid. Io credo che, certo, la spinta indipendentista viene da lontano, ma vada collocata nel contesto della crisi economica spagnola iniziata nel 2008, che sta facendo scricchiolare il sistema-Spagna, così come era uscito dalla transizione e dalla Costituzione del 1978. E credo anche che a radicalizzare la situazione abbiano concorso due fattori, oltre alla crisi: anzitutto la sentenza del Tribunale Costituzionale dell’estate del 2010, che ha dichiarato incostituzionali una serie di articoli del nuovo Statuto autonomistico catalano, e poi l’atteggiamento non negoziale del governo Rajoy, che ha adottato, rispetto alle richieste catalane, una posizione di "muro contro muro".

D. - In una Europa che cerca sempre più motivi di coesione, che senso ha una iniziativa del genere?

R. – Io, in linea di principio, sono per l’autodeterminazione dei popoli e credo che il principio della democrazia vada rispettato anche di fronte a spinte di tipo secessioniste. La questione catalana, insieme alla questione basca, ha rappresentato e rappresenta un problema per la Spagna, per la Spagna di oggi, e quindi anche per l’Europa. Stando le cose come stanno in questo momento, l’ipotesi di una Catalogna in Europa è una strada impercorribile perché, data la necessità dell’approvazione degli Stati membri per l’ingresso dei nuovi Paesi, da questo punto di vista ci sarebbe un sicuro veto da parte della Spagna, così come – anche se in un contesto e in una situazione completamente differente – ci sono state difficoltà da parte spagnola rispetto all’indipendenza del Kosovo, per esempio.

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Centrafrica, pace ancora lontana. P. Trinchero: è emergenza profughi

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La guerra civile continua a piegare la popolazione della Repubblica Centrafricana. Dopo l’embargo sui diamanti, principale fonte di finanziamento per l’acquisto delle armi, nel 2013 l’Onu ha dato inizio a una missione di pace lo scorso 15 settembre. Ciò nonostante, come verificato sul campo da Amnesty International, nelle ultime settimane decine di civili, bambini compresi, sono stati uccisi e migliaia sono stati costretti a lasciare le loro case. Anche la capitale Bangui è stata colpita. I caschi blu della Minusca, migliaia in meno di quanto previsto inizialmente, non hanno infatti impedito le violenze. Anche secondo un rapporto appena stilato dalle Nazioni Unite, i nodi della crisi restano irrisolti. Corinna Spirito ha intervistato padre Federico Trinchero, missionario carmelitano in Centrafrica: 

R. - Dopo il colpo di Stato del marzo del 2013, la situazione è ancora piuttosto precaria in tutta la Repubblica Centrafricana. Dal 15 settembre scorso, è iniziata la missione di pace dell’Onu e la situazione è un po’ più sotto controllo, ma ci sono ancora delle tensioni sia nella capitale, che in altre zone del Paese, soprattutto nella parte centrale e nelle città di Bambari, Becoa, Batangafo… La situazione è sicuramente meno drammatica e meno tesa rispetto a mesi fa, ma non è ancora risolta. Ci sono spesso anche episodi di delinquenza, di banditismo e di questo ne è anche prova il rapimento che c’è stato di un sacerdote polacco nella zona nordoccidentale del Paese, padre Matthew, che si trova ancora - ormai da quasi un mese - ostaggio con altre 22 persone. E’ ancora molto forte il problema dei profughi: ci sono intere famiglie che vivono ancora nelle tende… Sono ancora migliaia che vivono in condizioni estreme! Purtroppo, anche la scuola è cominciata un po’ a fatica in alcune zone, in alcuni istituti non è stata ancora aperta. Questo comporta che vi siano veramente migliaia di giovani, dalla scuola materna fino all’università, che sono allo sbando perché la scuola o non funziona o funziona male e a singhiozzo.

D. - Quanto peso ha avuto, in questo senso, l’intervento dell’Onu? Dopo l’embargo sulla vendita dei diamanti è diminuito il numero di armi?

R. - Di armi ne circolano ancora tante! Non lo vedo, ma le sentiamo… Sono state condotte, alcune settimane fa, delle operazioni di disarmo in alcuni quartieri della capitale: ne sono state recuperate alcune, ma probabilmente ce ne sono ancora tante. L’Onu mi pare che non sia ancora del tutto operativa... Ovviamente, la loro presenza garantisce almeno che la situazione non degeneri, però non ci facciamo illusioni su un ritorno alla situazione precedente in breve tempo. Il Paese è veramente distrutto e non soltanto materialmente, ma anche proprio moralmente: come speranze, come fiducia nel futuro… Speriamo veramente che al più presto si possa arrivare alla pace. Chiediamo proprio che la comunità internazionale - che sappiamo essere concentrata in tante situazioni calde nel pianeta - non dimentichi il Centrafrica.

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Ebola. Fr. Ahodegnòn: puntiamo a riaprire centri in Africa Occidentale

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Tra le migliaia di vittime dell’epidemia di Ebola nell’Africa occidentale, elevato è il prezzo pagato dagli operatori sanitari. Centinaia i contagiati tra medici e infermieri e anche tra religiosi e laici impegnati in strutture della Chiesa. Addirittura da agosto, entrambi gli ospedali dei Fatebenefratelli in Sierra Leone e in Liberia sono stati chiusi per decessi dei dirigenti. Ma ora gli operatori stanno tentando di ricominciare. “La popolazione non può essere lasciata sola”, spiega, al microfono di Gabriella Ceraso, frate Pascal Ahodegnon, consigliere regionale dei Fatebenefratelli: 

R. - A oggi, stiamo puntando a riaprire in Sierra Leone una farmacia per dispensare almeno i farmaci alla popolazione, perché in questi due Paesi stranamente, non ci sono più le strutture ospedaliere che funzionano. Ci sono i centri per l’Ebola,  ma la gente oggi muore per altre patologie e infatti l’ultima statistica ha parlato del 20% circa di decessi, che non sono Ebola positivi. Invece a Monrovia, in Liberia, stiamo puntando su una riapertura progressiva di un centro per la maternità - perché tante mamme muoiono in casa di parto - e anche di un reparto di pediatria.

D. - La Caritas dice che non è più solo un’emergenza sanitaria: è un’emergenza sociale, culturale, umanitaria. Lei come pensa si possa affrontare oggi questa realtà?

R. - L’Ebola è come una guerra e, di fatto, quando si fa un giro questi Paesi - sia a Monrovia, che in Sierra Leone - appaiono come uno Stato dopo una guerra: non c’è nessuno in giro; la gente è barricata in casa, perché ha paura, la gente muore di fame anche oggi, perché non c’è cibo, la gente è disorientata. La Caritas - sia in Sierra Leone, che in Liberia - sta facendo un lavoro enorme di distribuzione di cibo, di educazione, di prevenzione. Addirittura, la Caritas ha formato team per poter sensibilizzare le popolazioni su come si debbano svolgere i funerali, perché è anche da lì che parte l’infezione. Quindi, secondo me, oggi sul terreno Caritas con le altre istituzioni della Chiesa stanno facendo un lavoro enorme.

D. - C’è anche un appello da fare ai governi del mondo, nel senso che c’è stata una carenza di aiuti anche per le crisi internazionali che hanno causato meno fondi a disposizione. Anche questo è importante da sottolineare...

R. - Certo che è importante. Se si guarda bene, questa epidemia è iniziata da tanto tempo, circa un anno fa, però nessuno si è mosso. Adesso, la comunità internazionale si sta muovendo perché ha capito che può attraversare anche le frontiere. Io dico alla comunità internazionale che non bisogna aspettare. Qui è un’emergenza veramente drammatica per le popolazioni africane. La comunità internazionale deve agire e subito.

D. - La Caritas chiede che anche la Chiesa lavori in modo coordinato…

R. - E’ la cosa più importante: la coordinazione, per avere la forza per una lotta efficace.

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Religioni e relazioni internazionali, un "atlante teopolitico"

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Lo scenario politico e sociale globale è oggi in profonda trasformazione e il fenomeno religioso suscita crescente interesse tra gli analisti di politica internazionale. Esso è infatti largamente considerato oggi un elemento chiave per una più ampia interpretazione degli eventi che hanno ridisegnato il quadro geopolitico mondiale. Da questa considerazione parte il libro di Pasquale Ferrara: “Religioni e relazioni internazionali. Atlante teopolitico", edito di recente da Città Nuova. Diplomatico di carriera e attualmente segretario generale dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze, oltre che docente alla Luiss di Roma, l'autore offre una lettura originale e documentata dell’incidenza delle religioni nelle relazioni internazionali attuali. In positivo, emerge ad esempio la loro capacità di promozione di forme di cooperazione internazionale tra Stati e attori non governativi internazionali. L'autore ne parla nell’intervista di Adriana Masotti

R. – Certamente, le religioni hanno avuto un ruolo fondamentale nelle relazioni, negli incontri, anche talvolta negli scontri tra i popoli. Ma quello che sta accadendo oggi è qualcosa di molto diverso: gli analisti di politica internazionale si sono resi conto che il sistema internazionale non funziona solamente sulla base di quello che sono il potere militare e il potere economico. Esistono altri elementi che sono fondamentali nelle relazioni tra gli Stati che sfuggono da questa logica e che invece si basano su elementi identitari. Ovviamente, il primo elemento identitario è quello della religione. L’altro punto che differenzia l’analisi contemporanea rispetto al passato è che le religioni non sono sempre e solamente considerate fattori negativi. Per esempio, si dice che quando la religione entra in gioco, i conflitti diventano più radicali: in realtà, la religione svolge un ruolo anche nella creazione di un’entità collettiva planetaria. Quindi, per la prima volta si scopre anche che le religioni hanno un ruolo fondamentale nella legittimazione di un ordine internazionale condiviso e non imposto dall'alto o da alcune aree del pianeta come nel caso della globalizzazione.

D. – Inutile nascondere che quando si parla di religioni, di relazioni internazionali, di conflitti, si pensa subito all’islam e al ruolo che sta giocando in questi ultimi anni, non solo all’interno del mondo arabo, ma anche tra mondo arabo ed Occidente…

R. – Innanzitutto, anche la terminologia va corretta. Noi spesso utilizziamo questa contrapposizione tra islam, che è una religione universale e che non è necessariamente nordafricana e mediorientale – pensiamo, per esempio, all’Indonesia – ma, a parte questo, parliamo di islam da una parte e di Occidente dall’altra. All’interno dell’Occidente c’è la cristianità, senz’altro, ma pure l’Occidente è una realtà plurale, anche dal punto di vista delle culture. Dopodiché, il discorso riguarda il rapporto tra la religione e la guerra, nel caso in particolare dell’Isis, cioè: le religioni sono “motori di guerra”? E nel caso dell’islam radicale la religione è la motivazione fondamentale del conflitto? Io su questo ho moltissimi dubbi, perché anche nel caso del Califfato noi vediamo che sono all’opera forze che hanno poco a che vedere con la religione. Infatti, l’obiettivo non è tanto quello di creare una dimensione di islam "transnazionale", ma quello di creare una realtà politica, statuale addirittura, e questo ha a che fare con il potere, non ha a che fare con la religione.

D. – Potrebbe citarci casi in cui proprio l’appartenenza alle religioni ha aiutato, ad esempio, alla ricostruzione della pace?

R. – Sicuramente, le religioni hanno avuto un ruolo fondamentale in alcuni conflitti subnazionali, però dobbiamo metterci d’accordo: noi non possiamo pretendere che le religioni risolvano i conflitti, è la politica che risolve i conflitti. Quello che è fondamentale è ascoltare la voce delle religioni quando tendono a una logica compaginativa e non conflittuale.

D. – Che cosa le religioni potrebbero fare di più per influire positivamente sulle relazioni tra i popoli e gli Stati?

R. – Le religioni, secondo me, hanno un ruolo centrale nell’indicare quali siano le questioni strategiche. Per esempio: la questione dello sviluppo, o del modello di sviluppo, la questione su come affrontare insieme le malattie endemiche in Africa, la questione del rispetto reciproco tra le identità. Quando ci sono vertici del G8, ma anche quelli del G20, è interessante che i leader delle maggiori religioni del mondo si riuniscano qualche giorno prima per discutere esattamente degli stessi temi che sono nell’agenda del vertice internazionale, per fare anche proposte. Non a caso, anche i governi cominciano a vedere in questo delle potenzialità positive.

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Nella Chiesa e nel mondo



M.O. Sciopero cittadini arabi, Israele alza stato di allerta

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Stato di allerta elevato oggi in Israele per lo sciopero generale, proclamato nelle zone arabe del Paese, di protesta per l’uccisione del giovane palestinese da parte di agenti di polizia. Un video che mostra la morte del giovane arabo-israeliano ieri ha infiammato gli animi, perché riprende un agente mentre spara alla schiena dell’uomo che in precedenza aveva attaccato con un coltello una volante della polizia. A seguito della diffusione di queste immagini, circa 2.500 persone sono scese in strada a Kfar Kana, nel nord di Israele, per poi animare alcuni incidenti con le forze di sicurezza israeliane. Le tensioni fra gli arabi della Galilea vanno ad aggiungersi a quelle avvertite ormai da settimane a Gerusalemme est, dove anche la scorsa notte sono avvenuti scontri sporadici fra dimostranti palestinesi e reparti della polizia. Esponenti politici degli arabi-israeliani invocano intanto le dimissioni del ministro della Sicurezza interna, Yitzhak Aharonovic (del partito di destra radicale Israel Beitenu), che nei giorni scorsi ha giustificato la uccisione di tre palestinesi a Gerusalemme est, sospettati di essere responsabili di attentati. Mentre il premier, Benjamin Netanyahu, ha dato istruzioni al ministro dell'Interno di valutare la revoca della cittadinanza per i manifestanti “che invocano la distruzione dello Stato di Israele”. (M.G.)

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Kenya. Vescovi: vaccino antitetanica cela controllo nascite

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I vescovi del Kenya reiterano le loro accuse sulla campagna di vaccinazione antitetanica - che a loro dire nasconderebbe un programma di controllo della popolazione - e denunciano inoltre la mancanza di sicurezza in diverse aree del Paese. In una dichiarazione pubblicata il 6 novembre al termine della loro Assemblea plenaria, pervenuta all’agenzia Fides, scrivono: “Quanti altri keniani, compresi gli agenti di sicurezza, devono perdere la vita prima che un vero ordine sia restaurato? Vogliamo dichiararlo categoricamente: è giunto il tempo di fare meno chiacchiere e più azione”.I vescovi fanno riferimento ai recenti episodi di violenza nella regione del Lago Turkana e a quelli occorsi questa estate nella Contea di Lamu. 

“Una delle cause principali dell’insicurezza è lo sviluppo ineguale” afferma il comunicato. “È deplorevole che, a dispetto di 50 anni d’indipendenza, alcune zone del Paese non abbiano visto uno sviluppo significativo, senza strade, scuole ed altri servizi sociali essenziali”.

La Conferenza episcopale del Kenya ribadisce inoltre che, pur essendo a favore delle ordinarie campagne di vaccinazione (spesso condotte con il contributo delle strutture sanitarie cattoliche), resta una forte perplessità per la segretezza con la quale viene portata avanti la campagna antitetanica, avviata nel Paese da alcuni mesi.

La Chiesa è riuscita ad ottenere diverse dosi del vaccino, che sono state analizzate da 4 diversi laboratori in Kenya e all’estero. “Vogliamo annunciare che tutti i test dimostrano che il vaccino usato in Kenya a marzo e ad ottobre 2014 è in effetti contaminato con l’ormone Beta- Hcg” affermano i vescovi.

Questa sostanza “causa infertilità e aborti multipli nelle donne”, ricorda il documento, che conclude denunciando le intimidazioni nei confronti dei medici che hanno confermato le informazioni sul vaccino e chiedendo ai keniani di evitare la campagna antitetanica perché, sostengono i presuli, “siamo convinti che si tratti di un programma mascherato di controllo della popolazione”. (R.P.)

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Africa occidentale: la famiglia al centro del Congresso del clero

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“La famiglia come sfida del dialogo interreligioso” è stato il tema al centro dei lavori del secondo Congresso dei sacerdoti dell’Africa occidentale, che si è concluso a Dakar. I partecipanti - riferisce l'agenzia Fides - hanno sottolineato che “l’istituzione familiare, sana e viva, rimane la sfida e l’interesse delle nostre società sia sul piano politico sia su quello religioso”.

Nel documento finale, pubblicato al termine del Congresso, si sottolinea che in Africa occidentale “la famiglia deve far fronte a diverse minacce: l’impoverimento persistente delle nostre società; l’influenza negativa di ideologie e filosofie che mettono in questione il modello della famiglia, il peso di tradizioni che fanno riferimento a concezioni e a pratiche oscurantiste, i conflitti, l’instabilità politica, la recrudescenza dell’integralismo religioso e infine la minaccia di Ebola”.

Per far fronte a queste sfide, i sacerdoti diocesani dell’Africa occidentale si impegnano ad approfondire i valori delle altre religioni e culture relativi al matrimonio e alla vita familiare, ad aprirsi al dialogo interreligioso e a istruire i fidanzati sulle implicazioni del matrimonio tra sposi con fedi diverse. (R.P.)

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Nigeria: Chiesa invita a pellegrinaggio e preghiera per la pace

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I vescovi della Nigeria si ritroveranno, nella notte tra il 13 e il 14 novembre, nel Centro cristiano nazionale di Abuja per partecipare a un pellegrinaggio di preghiera per la pace, messa a dura prova nel Paese dalle violenze di Boko Haram.

L’evento, al quale sono attesi numerosi fedeli, sarà il momento culminante della speciale iniziativa di preghiera indetta lo scorso mese di giugno dal presidente della Conferenza episcopale, mons. Ignatius Kaigama. I fedeli nigeriani sono stati invitati a pregare da luglio a dicembre in famiglia, con la recita del Rosario il sabato sera, e in parrocchia con il Rosario e l'adorazione eucaristica l’ultimo sabato del mese, e infine partecipando al pellegrinaggio nazionale del prossimo 13 novembre.

I vescovi hanno suggerito ogni mese un’intenzione particolare di preghiera: a luglio per il rilascio di tutte le persone rapite in Nigeria, ad agosto per coloro che soffrono le conseguenze delle violenze, a settembre per gli agenti delle forze di sicurezza che hanno perso la vita o sono rimasti feriti per difendere il Paese, ad ottobre per l’unità, la pace e il buon governo, a novembre per lo sradicamento della corruzione e la promozione della giustizia, a dicembre per la promozione dei valori familiari, della famiglia e la protezione della vita umana.

Il programma della veglia di Abuja prevede una processione a lume di candela, la recita del Rosario, la Santa Messa, letture bibliche, adorazione eucaristica e altri atti devozionali. (A cura di Lisa Zengarini)

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Fondazione Giovanni XXIII lancia ricerca su storia ecumenismo

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Ricostruire la storia completa del dialogo ecumenico dalle sue origini fino ai nostri giorni. E’ l’obiettivo del progetto “Storicizzare l’ecumenismo: l’aspirazione cristiana all’unità delle Chiese tra il XIX e il XX secolo”, un ambizioso programma di ricerca internazionale lanciato dalla Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII di Bologna. L’appuntamento è dal 26 al 28 novembre al Monastero di Bose, quando studiosi, storici e teologi da tutto il mondo si incontreranno per presentare i risultati dei loro studi.

L’impostazione della ricerca sarà interdisciplinare. Si analizzerà l’evoluzione dell’atteggiamento delle Chiese cristiane anche in relazione agli eventi politici nelle successive fasi storiche. Al Convegno saranno inoltre discussi gli studi sulle vite degli iniziatori del movimento ecumenico e sulle autorità ed istituzioni ecclesiastiche coinvolte.

Cinque in particolare le sezioni tematiche sulle quali i conferenzieri sono stati invitati a dare i loro contributi. Una riguarda le fonti: gli archivi, documenti e la letteratura esistente sugli organismi, i protagonisti e le varie iniziative di dialogo. La seconda area di interesse per la ricerca sono i Centri in cui sono stati elaborati i contenuti teologici e spirituali del dialogo ecumenico: gruppi, monasteri, scuole, incontri, gruppi di lavoro, riviste.

Un altro obiettivo è di analizzare le esperienze spirituali e i conflitti in cui il cammino verso l’unità ha preso forma. Si vogliono poi approfondire le biografie dei pionieri e artefici del processo ecumenico. Infine, la ricerca si propone di affrontare punti di più ampio respiro: esegesi, patristica, diritto canonico; sinodalità, missiologia, etica, ricerca storica, ritorno alle fonti biblico-patristiche.

Tra i relatori del convegno, il priore della Comunità di Bose Enzo Bianchi, il prof. Alberto Melloni, storico del cristianesimo e del Concilio Vaticano II e direttore Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII, Maximos Vgenopoulos, grande arcidiacono del Patriarcato di Costantinopoli, Karim Schelkens della Facoltà di Teologia e studi religiosi dell’Università di Lovanio, e il teologo ortodosso Vladimir Shmaliy, dell’Accademia Teologica di Mosca (L.Z.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 313

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.