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Sommario del 19/11/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: Medio Oriente, violenza inaccettabile, servono decisioni coraggiose

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“Episodi inaccettabili di violenza”. Così Papa Francesco all'udienza generale in Piazza San Pietro riferendosi all’attentato di ieri mattina presso una sinagoga di Gerusalemme, in cui sono morte sette persone. Guardando al contesto mediorientale in cui cresce la tensione tra palestinesi e israeliani, il Papa ha lanciato un vibrante appello per il mantenimento e costruzione della pace, sottolineando la necessità di “decisioni coraggiose”. Ascoltiamo la sua voce nel sevizio di Massimiliano Menichetti: 

"Seguo con preoccupazione l’allarmante aumento della tensione a Gerusalemme e in altre zone della Terra Santa, con episodi inaccettabili di violenza che non risparmiano neanche i luoghi di culto".

Il Papa prega per le vittime dell’attentato alla Sinagoga a Gerusalemme e per quanti ne soffrono le conseguenze parla di situazione “drammatica”, poi “dal profondo del cuore” lancia il suo appello:

"Rivolgo alle parti implicate un appello affinché si ponga fine alla spirale di odio e di violenza e si prendano decisioni coraggiose per la riconciliazione e la pace. Costruire la pace è difficile, ma vivere senza pace è un tormento!".

Oggi, i fedeli sono tornati a pregare nel tempio del sobborgo Har Nof di Gerusalemme violato ieri, dalla ferocia di due palestinesi. Morto nella notte un poliziotto ferito, sono sette ora le vittime dell’assalto, compresi gli attentatori. La tensione sul territorio è altissima, Hamas parla di “atto eroico" del Fronte popolare per la liberazione della Palestina che ha rivendicato l’attentato, mentre il premer dello Stato ebraico, Netanyahu, promette una risposta dura. Questo nonostante il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, abbia condannato la tragedia insieme a tutta la comunità internazionale. Intanto, alcuni osservatori parlano di rischio di una terza Intifada:

Ai nostri microfoni il direttore della rivista "Oriente Moderno", Claudio Lo Jacono:

R. – Il rischio è la ripresa di azioni terroristiche intense anche suicide, che erano state per alcuni anni accantonate dai movimenti più estremisti del fronte palestinese, come Hamas, il Fronte popolare e l’Associazione per il jihad islamico. Questo è il rischio grave. E naturalmente a ogni azione e a ogni reazione non si sa mettere poi fine. Non c’è un terzo in grado di imporre la pace a tutti i costi e la soluzione più logica, cioè quella di due Stati per due popoli.

D. – C’è chi dice che Israele abbia delle grandi responsabilità. Come vede lei la situazione a ora?

R. – Pessimisticamente. E l’ho vista pessimisticamente nel momento stesso in cui il governo Netanyahu ha deciso di autorizzare la costruzione di nuovi insediamenti per i coloni. Questo è un fatto che per i palestinesi e per molti osservatori è inaccettabile in un percorso che voglia arrivare a una conclusione pacifica, come tutti si augurano.

D. – C’è il rischio anche del riaccendersi delle violenze con la risposta dura di Israele?

R. – Sì. Abbiamo dei precedenti che non tranquillizzano minimamente. Sappiamo che Israele ha come principio quello della ritorsione, legittimata ai suoi occhi e anche agli occhi di tanti osservatori da un atto violento, tra l’altro perpetrato in un luogo di culto. Il discorso poi riguarderà la proporzione di questa ritorsione.

D. – Sembra che non si riesca mai ad arrivare ad un punto…

R. – Purtroppo è così. Dal 1948, assistiamo ad una crescita sempre maggiore, salvo pochissimi momenti ottimistici, dell’oltranzismo. La soluzione dei due Stati e dei due popoli, che era prevista ad Oslo, sembra una dichiarazione assolutamente di pura buona volontà, ma non c’è nessuno in grado – né gli Stati Uniti né l’Europa e né la Russia – di premere sui due contendenti. Oggi, siamo in presenza di un governo fortemente di destra in Israele e dall’altra parte ci sono organizzazioni come Hamas, l’Organizzazione per il jihad islamico e il Fronte popolare che sono assolutamente al di fuori di qualsiasi controllo dell’Anp, dell’Autorità nazionale palestinese. Io credo profondamente che la spaccatura, che si è espressa anche in termini di scontro civile tra le due anime dei palestinesi, abbia espresso una parte relativamente più moderata, che mira certamente alla nascita di uno Stato, e una parte più oltranzista, che non ha alcuna difficoltà ad usare anche la popolazione come scudo. Credo sia uno scontro tra oltranzismi oramai…

D. – E che manovrabilità ha in questo scenario l’Autorità nazionale palestinese, che non viene vista – sembra – come un interlocutore neanche da Netanyahu, il premier israeliano?

R. – Certo, perché naturalmente nel momento in cui l’Autorità nazionale palestinese non riesce a controllare tutti i territori di sua pertinenza, nel momento in cui non riesce a tenere un congresso per una serie di attentati, quasi sicuramente portati contro l’Autorità nazionale palestinese da Hamas, quello che decide ha una estensione limitata. Dunque, il governo israeliano si fa forte – diciamo – di questa strisciante guerra tra Hamas e Fatah, cioè dall’Autorità nazionale palestinese. L’auspicio è che vengano delle persone più ragionevoli su entrambi i fronti… Il discorso è che se si vuole arrivare ad una pace, si deve essere in due e si debbono fare concessioni. Non si devono soltanto esprimere parole vuote, che restano poi inapplicate.

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Francesco: ci si fa santi dovunque nelle cose di ogni giorno

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La santità è un cammino che tutti possono percorrere, in qualsiasi luogo si svolga la loro vita, e si costruisce con piccoli gesti fatti per amore degli altri. È l’insegnamento che Papa Francesco ha proposto alla folla radunatasi in Piazza San Pietro per l’udienza generale. Al termine il Papa ha chiesto preghiere e sostegno per le comunità religiose di clausura, in vista della Giornata “pro Orantibus” del 21 novembre. Il servizio di Alessandro De Carolis

La santità non è stata mai una questione di nicchie sugli altari e nuvole di incenso, perché tutte le Sante e i Santi della storia prima di diventare una statua di gesso venerata nelle chiese sono stati in larghissima parte donne e uomini con le maniche rimboccate e la schiena piegata verso i più poveri dei poveri.

Lo ripete con passione Papa Francesco alle migliaia di persone in Piazza San Pietro, mamme e papà, ragazze e ragazzi, nonni, preti, suore: “Ogni stato di vita porta alla santità”. Santo lo può diventare chiunque e lo si può diventare dovunque. Lo insegna da 50 anni il Concilio Vaticano II che la santità, ricorda il Papa, è una “vocazione universale” e dunque sbaglia chi ancora ritiene che questa sia “riservata soltanto a coloro che hanno la possibilità di staccarsi dalle faccende ordinarie, per dedicarsi esclusivamente alla preghiera”:

“Qualcuno pensa che la santità è chiudere gli occhi e fare la faccia da immaginetta. No! Non è questo la santità! La santità è qualcosa di più grande, di più profondo che ci dà Dio. Anzi, è proprio vivendo con amore e offrendo la propria testimonianza cristiana nelle occupazioni di ogni giorno che siamo chiamati a diventare santi”.

Sei consacrato? Vivi “con gioia la tua donazione”. Sei sposato? “Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie” come Gesù “ha fatto con la Chiesa”. Papa Francesco si rivolge a ognuno per sollecitarlo a considerare la santità un cammino percorribile. E com’è suo costume, dà voce alle obiezioni più immediate che su questo argomento affollano teste e cuori:

“‘Ma, padre, io lavoro in una fabbrica; io lavoro come ragioniere, sempre con i numeri, ma lì non si può essere santo…’. Sì, si può! Lì dove tu lavori tu puoi diventare santo. Dio ti dà la grazia di diventare santo. Dio si comunica a te. Sempre in ogni posto si può diventare santo, cioè ci si può aprire a questa grazia che ci lavora dentro e ci porta alla santità”.

La santità, afferma il Papa, “è il volto più bello della Chiesa”. E questo presenta un risvolto ben preciso:

“Quando il Signore ci invita a diventare santi, non ci chiama a qualcosa di pesante, di triste… Tutt’altro! È l’invito a condividere la sua gioia, a vivere e a offrire con gioia ogni momento della nostra vita, facendolo diventare allo stesso tempo un dono d’amore per le persone che ci stanno accanto”.

Persone “accanto” vuol dire proprio che la santità non è compiere un atto grandioso in circostanze straordinarie, ma è il piccolo gesto di tutti i giorni fatto con amore. E Papa Francesco ne offre alcuni esempi concreti:

“A casa tua, il figlio ti chiede di parlare un po’ delle sue cose fantasiose: ‘Oh, sono tanto stanco, ho lavorato tanto oggi…’. ‘Ma tu accomodati e ascolta tuo figlio, che ha bisogno!’. E tu ti accomodi, lo ascolti con pazienza: questo è un passo verso la santità. Poi, finisce la giornata, siamo tutti stanchi, ma c’è la preghiera. Facciamo la preghiera: anche questo è un passo verso la santità”.

E su questi gesti Dio si innesta con la sua “grazia” perché, conclude il Papa, la santità è sempre un suo “dono” e non è mai un percorso che si fa “da soli”, “ma si percorre insieme in quell’unico corpo che è la Chiesa”.

Al termine della catechesi in sintesi nelle altre lingue, Papa Francesco ha ricordato la Giornata “pro Orantibus” di dopodomani, dedicata alle comunità religiose di clausura:

“È un’occasione opportuna per ringraziare il Signore del dono di tante persone che, nei monasteri e negli eremi, si dedicano a Dio nella preghiera e nel silenzio operoso, riconoscendogli quel primato che solo a Lui spetta”.

Un saluto il Papa lo ha poi indirizzato ai giovani professionisti, impresari e imprenditori sociali che partecipano al convegno promosso dal “World Economic Forum”, in collaborazione con le Università Pontificie di Roma, per stimolare vie e atteggiamenti che aiutino a superare l’esclusione sociale ed economica. L’auspicio è che questo incontro, ha detto il Papa, favorisca “una nuova mentalità in cui il denaro non sia considerato idolo da servire, ma un mezzo per perseguire il bene comune”. L'ultimo pensiero è stato per “le vittime della recente alluvione in Liguria e nel Nord Italia: preghiamo per loro e per i familiari e siamo solidali – chiede Papa Francesco – con quanti hanno subito dei danni”.

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Nomina episcopale in Messico

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In Messico, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Linares (Messico), presentata per raggiunti limiti di età da mons. Ramón Calderón Batres. Al suo posto, il Papa ha nominato vescovo di Linares il sacerdote Hilario González García, del clero dell’arcidiocesi di Monterrey, rettore del Seminario maggiore. Il neo presule è nato il 19 giugno 1965, a Monterrey, ed è stato ordinato sacerdote il 15 agosto 1995, incardinandosi nell’arcidiocesi. Ha compiuto gli studi ecclesiastici presso il Seminario di Monterrey e ha conseguito la Licenza in Teologia presso la Pontificia Università del Messico. Ha svolto i seguenti incarichi: direttore spirituale, Prefetto degli Studi di Filosofia e Vice Rettore nel Seminario Maggiore, Cappellano in diverse comunità religiose femminile, Promotore per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso e Segretario Esecutivo della Commissione per l’Ecumenismo e il Dialogo della Conferenza Episcopale del Messico. Attualmente è rettore del Seminario Maggiore dell’arcidiocesi di Monterrey.

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Religioni in Vaticano: difendere bambini da ideologia gender

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Terza ed ultima giornata oggi in Vaticano del Colloquio interreligioso internazionale “Humanum. La complementarietà tra uomo e donna”. Numerosi i contributi offerti dagli esponenti delle 14 religioni presenti che hanno concordato nel ribadire la centralità del matrimonio e della famiglia per la società. Lo evidenzia al microfono di Paolo Ondarza, mons. Jean Laffitte, segretario del Pontificio Consiglio per la Famiglia: 

R. – Ciò che mi ha colpito molto è l’unità che si è creata molto rapidamente tra i partecipanti delle varie religioni, già dopo poche ore, pochi istanti dall’inizio dei lavori… Tutte le religioni credono nella Creazione e che ci sia un’intelligenza divina, che non è un atto assurdo e disordinato. Quindi, le religioni sono qui per testimoniare che nell’amore tra un uomo e una donna c‘è qualcosa che trascende non solo la loro persona, ma anche la loro relazione perché la loro relazione costituisce qualcosa per tutta la società. Ma di più, quando uno ama e si sa amato, allora, ha in sé questa intuizione che è amato da un Altro e che desidera amare un Altro, un Dio, un Dio buono.

D. – Il valore non mutevole della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna è stato ribadito anche dal Papa. Già in passato il Papa era tornato a difendere il diritto dei bambini a crescere in una famiglia con un papà e una mamma. Nei mesi scorsi (parlando ad una delegazione dell’ufficio internazionale dell’infanzia. ndr) ha anche voluto rifiutare espressamente ogni tipo di sperimentazione educativa nei confronti dei bambini…

R. – Sì, durante questi giorni spesso il Santo Padre è citato dai relatori quando si parla del diritto dei bambini ad avere un padre e una madre. Cosa significa? Significa che la complementarietà uomo-donna, solleva un problema giuridico di protezione dei più deboli. Un bambino che viene alla luce ha il diritto di essere accolto da un padre e una madre, lo dice senza sosta Papa Francesco. E dicendo questo dimostra che questa complementarietà non è uno studio teorico per esperti, è davvero un elemento in cui si esprime il fondamento e la radice di un diritto per il più debole, per il bambino. Inoltre effettivamente, alcuni interventi hanno illustrato la sfida educativa a cui lei accenna, a partire da questa prospettiva della complementarietà. L’educazione è fondamentale, non poteva essere trascurata in questo congresso. Alcuni interventi importanti hanno ribadito l’importanza di questo riconoscimento del dato di natura, un dato fondamentale, strutturale.

D. - Lei nel suo intervento ha riaffermato la centralità anche per i nostri giorni dell’insegnamento di San Giovanni Paolo II sul matrimonio cristiano…

R. – Gli insegnamenti di Giovanni Paolo II non solo riassumono e portano con sé tutto l’insieme dei tesori del magistero della Chiesa. E’ la prima volta che abbiamo qualcuno che si è preparato a livello antropologico e che ha dedicato più di 25 anni della propria vita, anche prima di essere Papa, al tema del matrimonio tra uomo e donna; abbiamo quindi un contributo enorme non solo da studioso, da filosofo e da moralista ma soprattutto nell’insieme delle 134 catechesi pronunciate tra il 1979 e il 1984. In queste catechesi abbiamo una luce pluridisciplinare sul mistero dell’amore umano. E’ un opus monumentale che non possiamo non usare dal momento che è proprio ciò di cui le persone hanno bisogno oggi: cioè sapere qualcosa sulla loro vocazione all’amore, sulla visione di Dio, ciò che Papa Wojtyla chiamava sempre il disegno di Dio su matrimonio e famiglia. Un insegnamento che è straordinariamente attuale e che può raggiungere le persone di buona volontà al di là dei circoli strettamente cattolici o cristiani.

La complementarietà uomo- donna è centrale per le religioni. “La storia del Popolo di Israele inizia con un uomo e una donna”, ricorda al microfono di Paolo Ondarza, il rabbino Lord Jonathan Sacks: 

R. – Judaism begins with the story…
Il giudaismo comincia con la storia del primo uomo e della prima donna e del Giardino dell’Eden. Sebbene perdano il loro Paradiso speciale noi sentiamo di riscoprirlo ogni volta che un uomo e una donna si uniscono nell’amore. Quindi noi ci stiamo riunendo qui proprio per ricordare all’Occidente questa meravigliosa istituzione, la sacra alleanza del matrimonio, che è stata la forza dell’Occidente per duemila anni e che ora sembra stia perdendo, quando sono sempre più i Paesi in cui ci sono sempre più bambini che nascono fuori dal matrimonio e sempre meno persone che si sposano.

D. – Oggi la nostra società cerca di relativizzare il concetto di famiglia naturale. Gli Stati stanno promuovendo forme alternative di matrimonio, adozioni per le coppie omosessuali e la diffusione della teoria del gender. Come rispondere a queste sfide?

R. – What’s happening in the West…
Quello che sta accadendo in Occidente è che i governi e ampi raggruppamenti di persone ignorano i dati basilari della biologia, sociologia e antropologia. La ragione per cui gli esseri umani sono diventati esseri umani è perché un uomo e una donna si sono uniti per proteggere e crescere i loro figli. E’ stata una realtà biologica molto prima che qualcuno la santificasse attraverso la religione. Sappiamo che i Paesi dove i matrimoni sono stati forti hanno avuto società forti e Paesi forti; lì dove i matrimoni sono deboli, nella generazione successiva la nazione stessa diventa debole. Parliamo quindi di qualcosa che non predichiamo come dogma, non ci limitiamo semplicemente a citare la Rivelazione, ma stiamo parlando di fatti stabiliti scientificamente. L’esperimento cui l’Occidente si sta sottoponendo oggi, abbandonando in larga misura il matrimonio tradizionale, è un esperimento che nessuna società ha sperimentato prima e che finirà in una grande confusione ed in una grande sofferenza per i figli che cresceranno senza entrambi i genitori.

D. – Infine, ha qualche augurio per questo Colloquio in Vaticano?

R. – This Colloquium has already achieved…
Questo Colloquio ha già raggiunto un grande risultato: tutti coloro che difendono il matrimonio tradizionale si sentono molto soli, perché vanno contro le mode del tempo. Quindi già il semplice fatto di esserci riuniti ci aiuta a darci coraggio l’uno con l’altro. Ma, al di là di questo, penso che le persone torneranno ai loro rispettivi Paesi con un impegno rinnovato non solo nel riconoscere al matrimonio il suo valore, ma anche nel ribadire alle persone quanto sia importante, sia che si parli di felicità personale o della gioia di crescere dei figli o del senso di sicurezza, che darà felicità ai figli in futuro. In un modo o nell’altro porteremo il messaggio che abbiamo sentito ieri ed oggi, lo porteremo con noi e lo trasmetteremo nella maniera più ampia possibile.

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Mons. Auza: fermare genocidio di cristiani e minoranze per mano dell’Is

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Il ricordo dei genocidi del recente passato deve spingere la comunità internazionale a fermare il sedicente Stato Islamico. E’ il forte appello levato da mons. Bernardito Auza al Simposio sulle protezione delle minoranze religiose, svoltosi in questi giorni all’Onu di New York. L’Osservatore vaticano al Palazzo di Vetro ha quindi ribadito che i leader religiosi hanno una grande responsabilità nel promuovere il dialogo e sconfiggere l'intolleranza. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

Serve una “mobilitazione delle coscienze” per porre fine alle persecuzioni dei cristiani e di “tutte le minoranze religiose”. Mons. Auza ha ripreso l’appello di Papa Francesco per ribadire che la Santa Sede chiede “decisioni coraggiose” alle Nazioni Unite per applicare a livello “multilaterale” la “responsabilità di proteggere i popoli da un genocidio, dalla pulizia etnica, dai crimini contro l’umanità e da ogni forma di ingiusta aggressione”. Il presule si è in particolare soffermato sulla situazione dei cristiani e delle minoranze perseguitate dagli islamisti dell’Is in Siria e Iraq:

“Their intolerance and brutal deeds…”
“La loro intolleranza e gli atti brutali in nome della religione – ha ammonito – parlano eloquentemente del terribile danno che la distorsione della religione può fare alle persone e alla stessa religione”. E ha ribadito che la Santa Sede chiede alle Nazioni Unite di considerare queste violenze dei jihadisti contro le minoranze religiose come aperte violazioni dei diritti fondamentali e che “come tali vanno affrontate”. Mons. Auza ha quindi richiamato le lezioni del passato quando la comunità internazionale non ha saputo fermare genocidi che non devono ripetersi ora. Il presule richiama, infine, Papa Francesco per esortare i leader religiosi nel mondo a promuovere il dialogo interreligioso e a denunciare ogni “uso della religione per giustificare l’estremismo”.

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Mons. Perego e Ketelers: costruire con immigrati futuro comune

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Prosegue a Roma, presso la Pontificia Università Urbaniana, il VII Congresso Mondiale della Pastorale dei Migranti sul tema “Cooperazione e sviluppo nella pastorale delle migrazioni”. Presente all’incontro anche mons. Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Cei, che – al microfono di Gabriele Beltrami – parla dei migranti come partner per lo sviluppo della comunità ecclesiale e della società: 

R. – Il fatto che i migranti siano partner significa riconoscere la soggettività dei migranti, non solo nel loro percorso migratorio, delle loro scelte, ma anche nella costruzione della città, di una comunità, e questo significa la valorizzazione, il riconoscimento delle persone che sono presenti e provengono da diverse nazionalità come soggetti con cui costruire un percorso sociale, economico, politico e anche ecclesiale. E questo è un processo, un cammino, che occorre fare insieme. In questo senso allora parlare di partner significa riconoscere le persone, non semplicemente considerarle oggetto di un’attenzione ma un soggetto con cui camminare insieme nella costruzione di una realtà nuova.

D. – La Chiesa italiana si sta muovendo in questo senso anche con progetti specifici, con un’attenzione rinnovata a promuovere quello che il migrante può fare nella società?

R. – Certamente, anche l’attenzione alle comunità cattoliche non di lingua italiana va in questa direzione. La valorizzazione di esperienze, anche presbiteriali, di 1.500 sacerdoti che vengono da altre nazioni, va in questa direzione. Ma va in questa direzione anche la promozione dell’associazionismo immigrato, la promozione degli strumenti di comunicazione all’interno delle comunità, come anche la campagna a cui abbiamo aderito per la cittadinanza e l’estensione della cittadinanza come un dono da cui costruire da subito una città diversa e anche l’estensione del diritto di voto amministrativo ai migranti, come anche la battaglia perché il servizio civile sia una possibilità anche dei giovani immigrati presenti in Italia.

E’ intervenuto al Congresso anche Johan Ketelers, segretario generale dell’International Catholic Migration Commission (Icmc), che ha sottolineato le sfide poste dall’attuale fenomeno migratorio: 

R. – E’ una sfida perché dobbiamo cambiare le abitudini, la mentalità. Si tratta di persone che vengono perché non hanno trovato un altro mezzo per sopravvivere o per migliorare la loro vita. Una cosa che tutti desideriamo. Perché, allora, non organizzarci perché questi viaggi avvengano in un altro modo? Bisognerebbe dare la possibilità a queste persone di lavorare nel proprio Paese di origine e poi, se emigrano, trovare i mezzi per stare insieme e costruire un futuro.

D. – Lei ha connesso in maniera forte sviluppo e migrazione, per il nostro sviluppo comune…

R. - Non possiamo guardare ai migranti come oggetti della nostra carità. Loro sono i soggetti del nostro futuro comune. Dunque, c’è una responsabilità che dobbiamo condividere con loro. Non siamo noi che facciamo le cose per loro che arrivano. Integrazione non vuol dire che noi diamo loro un certo spazio, no. Vuol dire che dobbiamo essere inclusivi in tutte le attività che abbiamo a livello della parrocchia e di tutte le strutture che esistono per offrire uno spazio di dialogo, offrire uno spazio che apre potenzialità per i migranti ma anche per noi. Abbiamo bisogno di loro! Perché non vedere le persone che vengono da noi in un altro modo? Quanti italiani sono emigrati negli ultimi anni perché non hanno trovato lavoro qui? E’ la stessa cosa.

D. – Le tensioni che colpiscono i Paesi di accoglienza dei migranti, ci interpellano …

R. – Sì, perché in questi tempi siamo in un mondo che vive con paura. Viviamo la paura in tanti modi e dunque l’incertezza che porta l’arrivo di queste persone sta crescendo e tutti noi cerchiamo la sicurezza nella stabilità. Speriamo di conservare la nostra tranquillità ma non è così che il mondo cresce. Il mondo cresce attraverso le relazioni, l’unità della gente che si ritrova. Adesso la solidarietà non si fa più a 7, 8 mila chilometri da qui, la solidarietà si fa qui. Le persone sono presenti davanti a noi. Ma è difficile perché dobbiamo cambiare mentalità e molto.

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Kaiciid. Mons. Ayuso: nulla giustifica barbarie in Iraq e Siria

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“Il mondo intero è stato testimone con incredulità di atti inumani di violenza. Nessuna causa, e certamente nessuna religione, possono giustificare una tale barbarie. Ciò costituisce una gravissima offesa all’umanità e a Dio”. Sono le parole del segretario del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, mons. Miguel Angel Ayuso Guixot, intervenuto alla Conferenza internazionale tenutasi ieri e oggi a Vienna, per iniziativa del Centro internazionale per il dialogo interreligioso e interculturale Re Abdullah bin Abdulaziz (Kaiciid).

Il tema dell’incontro – “Uniti contro la violenza in nome della religione : Sostenere la diversità religiosa e culturale in Iraq e Siria” – ha visto alternarsi varie voci a sostegno della promozione della pace nello scacchiere mediorientale, musulmani, ebrei e cristiani di varie denominazioni.

Le violenze perpetrate in nome della religione in questi due Paesi minacciano il cuore del diversificato tessuto sociale e religioso” delle rispettive società, ha affermato il segretario generale del Kaiciid, Faisal bin Abdulrahman bin Muaammar, per il quale l’obiettivo del Kaiciid è quello, “attraverso il dialogo”, di “mettere in evidenza iniziative esistenti e delineare nuove e concrete risposte alla violenza”. (A.D.C.)

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Inaccettabile violenza: Papa Francesco preoccupato per il crescere della tensione a Gerusalemme e in altre zone della Terra santa.

A piccoli passi: all'udienza generale il Papa parla della vocazione alla santità che accomuna tutti i cristiani.

Fame, un delitto sociale: in prima pagina, Pierluigi Natalia riguardo alla seconda Conferenza internazionale sulla nutrizione.

Lo sguardo paziente: José Gabriel Funes sul carteggio del gesuita Angelo Secchi con il collega laico Pietro Tacchini.

Seguire le orme e andare avanti: Il cardinale Gerhard Muller e Gilles Routhier nel cinquantesimo anniversario della "Lumen gentium".

L'universo è come un orologio: Ernesto D'Avanzo su determinismo e libero arbitrio secondo lo scienziato francese Pierre-Simon marchese di Laplace.

E' questo il tempo di osare l'unità: fratel Alois nel venticinquesimo dell'associazione ecumenica parigina Etoile-Champs Elysées.

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Oggi in Primo Piano



Rapporto Onu: jihadisti dell'Is hanno armi per altri 2 anni

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Tre civili e due poliziotti sono le vittime dell’attentato suicida di oggi a Erbil, il capoluogo del Kurdistan iracheno, rivendicato dal sedicente Stato islamico e che ha provocato anche una ventina di feriti. Un’autobomba è scoppiata davanti all’edificio dell’amministrazione della provincia autonoma. Il Kurdistan è sotto la minaccia dell’Is per il ruolo dei peshmerga al fianco dell’esercito iracheno contro i jihadisti. Sarebbe stato intanto identificato il secondo francese del gruppo degli assassini dello statunitense Peter Kassig, sarebbe un 22enne della periferia parigina. Dall’Onu arriva nel frattempo un rapporto che definisce l’Is e il Fronte al Nusra “una chiara minaccia per la pace e la sicurezza internazionale”. Servizio di Francesca Sabatinelli: 

Il sedicente Stato islamico ha tante e tali armi che può permettersi di combattere per altri due anni senza problemi, a dispetto dei raid della coalizione internazionale. Il rapporto delle Nazioni Unite atterrisce quando elenca le armi nelle mani dei jihadisti: dai fucili mitragliatori, alle armi pesanti, tra cui razzi e lanciarazzi, probabilmente anche missili antiaerei portatili, pezzi d'artiglieria, carri armati, catturati ai militari iracheni. Il rapporto, tra le raccomandazioni, elenca nuove sanzioni e poi spinge per misure che possano bloccare i finanziamenti diretti all’Is. Dall’Onu arrivano altri allarmi, come quello relativo alla situazione umanitaria in Iraq dove, dall’inizio dell’anno, 10mila civili sono stati uccisi e 20mila feriti, tra le vittime moltissimi bambini, 700 tra morti e rimasti mutilati. L’allarme è anche per un milione e 900mila sfollati, e per gli oltre tre milioni e mezzo di iracheni che vivono in zone sotto il controllo dell’Is. Dalle Nazioni Unite arriva inoltre l’elogio per il governo iracheno per aver messo in atto l’arruolamento di curdi e di milizie di tribù locali a sostegno dell’esercito di Baghdad nella lotta contro l’Is. Secca condanna invece per il governo siriano per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani, una risoluzione descrive l’utilizzo da parte di Damasco di armi chimiche nella guerra che va ormai avanti dal 2011, e deplora l’utilizzo della tortura nei centri di detenzione. Si esorta infine la Siria a mettere fine agli attacchi contro i civili, condotti anche attraverso l’utilizzo dei barili bomba.

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Giappone in recessione. Il premier Abe anticipa le elezioni

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Il Giappone torna in recessione e il premier Shinzo Abe decide di sciogliere la Camera Bassa e indire elezioni anticipate il 14 dicembre, per chiedere agli elettori il giudizio sulla sua politica economica la cosiddetta “Abenomics”. Abe ha rinviato al 2017 l’ulteriore aumento dell’Iva e ha promesso stimoli economici e calo dei prezzi energetici. Ma cosa è fallito del piano attuato finora e quali le prospettive per la popolazione? Gabriella Ceraso lo ha chiesto a Carlo Filippini direttore dell’Istituto di Studi economico-sociali per l'Asia Orientale, alla Bocconi di Milano: 

R. – Ciò che è andato male è stata probabilmente la diminuzione del reddito per un altro trimestre, mentre tutti si aspettavano una certa crescita.

D. – Non c’è stata crescita, non c’è stato neanche un aumento della produzione industriale, dei consumi, nonostante questa politica espansiva del Giappone che alcuni hanno additato come “esemplare”…

R. – Delle cosiddette “tre frecce” del programma del primo ministro, quella che ha funzionato benissimo è stata la manovra monetaria. Avendo inondato l’economia giapponese di yen, di moneta, il tasso di cambio si è svalutato e la borsa è aumentata. La manovra fiscale, la seconda freccia, ha avuto esiti incerti. La terza manovra, la terza freccia, riguarda le politiche delle riforme: qui il governo non ha fatto abbastanza.

D. – Il premier, come dicevamo, si rimette al giudizio degli elettori. Se dovessero bocciare il suo piano e il piano economico che ha varato il suo governo, si potrebbe aprire la bancarotta per il Giappone?

R. – La bancarotta assolutamente no. Il primo ministro sta cercando semplicemente di sfruttare ancora un momento di elevata popolarità del suo partito, ma soprattutto di bassissima popolarità dei partiti di opposizione. Certamente, pensa di avere elevatissime probabilità di vincere ancora le elezioni, magari con una maggioranza minore, e quindi di poter continuare a governare.

D. – Qual è ad oggi la condizione della popolazione giapponese? A cosa va incontro? Anche questo è un aspetto importante…

R. – Direi che innanzi tutto i giapponesi hanno ancora degli standard di vita molto elevati, un reddito medio per abitante e un reddito disponibile elevati. C’è stata però una stagnazione nei guadagni che dura ormai da moltissimo tempo, ovvero da circa 25 anni. I redditi negli ultimi anni sono rimasti sostanzialmente piatti. C’è stato probabilmente un aumento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito e un peggioramento degli strati più poveri. Una delle manovre, una delle politiche che Abe voleva fare era proprio quella di chiedere alle imprese di aumentare i salari.

D. – Una popolazione del genere che cosa voterà?

R. – Purtroppo, in Giappone non mi pare che ci siano grandi alternative al partito liberaldemocratico e all’attuale governo Abe. Se dovesse perdere, o a ogni modo esser fortemente indebolito, si rischierebbe di continuare con la mancanza di riforme, con l’inefficienza attuali e rinviare i problemi. Ad esempio, tra gli anziani, tra i pensionati, la grande maggioranza di questi sono pensionati ricchi e una minoranza sono relativamente poveri. In questo caso, è chiaro che il governo ha un elettorato fiducioso che lo sostiene.

D. – E comunque, l’impoverimento della popolazione giapponese è un dato in crescendo?

R. – Se non cambia qualcosa nei prossimi cinque-dieci anni, le conseguenze anche sociali saranno molto gravi.

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Consiglio Onu deferisce la Nord Corea alla Cpi

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Torture, aborti forzati, violazioni della libertà di espressione, di movimento, di vita. Queste alcune delle condizioni estreme a cui sono sottoposte le persone nei campi di prigionia di Pyongyang, secondo un rapporto Onu. Ecco perché il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha votato per deferire la Nord Corea alla Corte Penale Internazionale per gli abusi sui diritti umani e per comminare sanzioni ai responsabili di crimini contro l'umanità. Per approfondire la situazione nella Corea del Nord, Corinna Spirito ha intervistato Maurizio Simoncelli di Archivio Disarmo: 

R. – Questo documento è stata la base con la quale la terza Commissione ha potuto poi approvare addirittura una mozione indirizzata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in merito alle violazioni dei diritti umani, che il governo della Corea del Nord ha effettuato nel corso di questi anni.

D. – Ecco, questa mozione è stata approvata con 111 voti a favore, 19 contrari, 55 astenuti. In passato su sanzioni nei confronti della Corea c’era stata l’unanimità. Cos’è cambiato sul piano internazionale?

R. – Sul piano internazionale, dunque, noi ci troviamo con Paesi come la Russia e la Cina, che all’interno della Commissione - ricordiamo che sono anche membri  permanenti del Consiglio di Sicurezza - non hanno approvato questa mozione, definendola manipolata politicamente. Pertanto, tutto questo va anche rivisto all’interno del nuovo quadro internazionale, così come si sta delineando. Non dimentichiamo che tra Stati Uniti e Russia, in particolare, è in corso una nuova guerra fredda, in cui sono coinvolte anche l’Unione Europea e la Nato, in misura differente. Certamente, però, non dimentichiamo la vicenda dell’Ucraina, che è il simbolo di una situazione che si era deteriorata già da tempo e, all’interno di questo quadro, la nuova alleanza che sta emergendo tra Russia e Cina, che quindi fa ridisegnare tutti gli equilibri nello scacchiere internazionale  e, pertanto, a seguire tutti i Paesi che sono politicamente vicini a queste due super potenze. Questo è il nuovo quadro in cui si iscrive questa situazione, che ha visto l’approvazione di una mozione del genere.

D. – A causa della sua politica nazionale e internazionale la Corea del Nord vive già sotto il peso delle sanzioni ed è uno Stato molto povero. Si va ad aggravare questa situazione?

R. – Teniamo presente che questa mozione approvata è indirizzata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che sarebbe l’organo deputato ad approvarla. Ma tenendo presente che già la Russia e la Cina hanno votato contro, è ovvio e conseguente che all’interno del Consiglio di Sicurezza, in cui addirittura le due superpotenze hanno un potere di veto, che tale mozione non si tradurrà in un atto concreto. In realtà, quindi, rimane solamente come un segnale politico e non altro. Certamente, le sanzioni che sono in vigore e che isolano economicamente, tecnologicamente e quant’altro la Corea del Nord rimangono in vigore e quindi sicuramente la situazione nella Corea del Nord non tenderà a migliorare nel momento in cui non ci sarà uno schiarimento nei rapporti internazionali.

D. – Ciclicamente la Corea del Nord minaccia la Corea del Sud e più in generale gli equilibri internazionali. Quali rischi si corrono nell’area?

R. – I rischi ci sono, perché periodicamente ci sono incidenti anche con feriti e morti. Probabilità elevate di un conflitto internazionale ad oggi non sono reputate statisticamente probabili. Non credo che la Corea del Nord voglia attivare un vero e proprio conflitto. Certamente, però, una situazione di tensione prima o poi potrebbe anche generare una escalation, soprattutto nel momento in cui i rapporti tra le super potenze degenerassero, cosa che noi ci auguriamo non avvenga.

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Fao: abbiamo risorse per superare qualsiasi forma di malnutrizione

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Better nutrition, better lives. Questo il titolo della Seconda conferenza internazionale sulla nutrizione, da stamani a venerdì alla sede Fao, a Roma. L’evento è organizzato dalla stessa Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura e dall’Oms, l’Organizzazione mondiale della Sanità. Domattina, è atteso l’intervento di Papa Francesco. Il servizio di Giada Aquilino

“Il cibo non deve mai essere usato come strumento di pressione politica ed economica”. E’ la base della Dichiarazione di Roma per la nutrizione e il relativo Quadro d’azione, approvati stamani alla Conferenza di Fao e Oms: si ribadisce il diritto di tutti ad avere accesso ad un'alimentazione sicura, sufficiente e nutritiva, impegnando i governi a prevenire la malnutrizione in tutte le sue forme. I rappresentanti di oltre 170 Paesi, ministri, funzionari governativi, agenzie dell’Onu, organizzazioni intergovernative, membri della società civile fanno il punto su fame, sottonutrizione, carenza di micronutrienti (cioè le vitamine e i minerali necessari per l’uomo), ma anche sulla diffusione dell’obesità. Tutti gli interventi, da quello del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, tramite  un video messaggio, a quello del direttore generale della Fao, José Graziano da Silva, a quello della direttrice dell’Oms, Margaret Chan, sono partiti da una certezza: nella lotta alla fame e alla malnutrizione “sono stati compiuti grandi progressi”, ma - ha detto ad esempio José Graziano da Silva - esse “continuano a mietere vittime”. Sono infatti almeno 805 milioni le persone vittime di fame cronica nel mondo. La malnutrizione cronica ha interessato, solo nel 2013, 161 milioni di bambini di età inferiore ai 5 anni. Allo stesso tempo, c'è stato un aumento degli sprechi alimentari e dell'obesità in tutto il mondo. Da Silva ha detto che 500 milioni di adulti oggi sono obesi. Allora cosa fare? Il direttore generale della Fao ha esortato a “rimodellare i nostri sistemi alimentari per affrontare la malnutrizione”:

“We have all the knowledge, expertise and resources….
Abbiamo tutta la conoscenza, la competenza e le risorse per superare qualsiasi forma di malnutrizione. Infatti - ha detto - c’è già abbastanza cibo per tutti nel mondo per nutrirsi adeguatamente. Tuttavia, questa disponibilità di cibo non è stata tradotta in sano nutrimento per tutti”.

Il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, ha parlato del prossimo Expo di Milano 2015, che ha come tema 'Nutrire il pianeta', e che darà – ha assicurato – “una piattaforma globale per aumentare la consapevolezza dell'esigenza di sradicare la fame”; stessi auspici dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. Ignazio Marino, sindaco di Roma, ha ricordato l’importanza dei piccoli agricoltori nelle nostre economie. Per la direttrice dell’Oms, Chan, l’attenzione va puntata ora su Ebola: nel documento finale si sottolinea come l’epidemia e le altre ancora non debellate rappresentino “enormi sfide per la sicurezza alimentare e la nutrizione”. Quindi il capitolo commerciale: l'eccessiva volatilità dei prezzi dei prodotti alimentari e agricoli di base - prosegue il documento della Conferenza - “deve essere monitorata e affrontata con maggiore attenzione, considerando i problemi di cui è all'origine”. D’altra parte, rilevano gli esperti, ancora “esistono forti disuguaglianze”. L’obiettivo quindi dev’essere quello della concretezza, come ha ricordato da Silva:

“First, to ensure global food security and nutrition….
Primo, assicurare cibo e nutrizione globale, il che significa - ha aggiunto - scorte di cibo sufficienti per tutti. Secondo, tradurlo in sano nutrimento per tutte le persone nell’arco della nostra vita. E terzo: dobbiamo raggiungere questi obiettivi in modi sostenibili ecologicamente, socialmente ed economicamente”.

Domattina, attorno alle 11.15, è atteso l’intervento di Papa Francesco alla plenaria. Già nel suo messaggio per la Giornata mondiale dell‘alimentazione, il 16 ottobre, il Pontefice aveva ricordato che per sconfiggere la fame “non basta superare le carenze di chi è più sfortunato” o assistere con aiuti e donazioni coloro che vivono situazioni di emergenza. E’ arrivato il tempo, aveva aggiunto, “di pensare e decidere partendo da ogni persona e comunità e non dall’andamento dei mercati”.

Il Quadro operativo della Conferenza - convocata 22 anni dopo la prima, svoltasi nel 1992 - sottolinea che i governi hanno il ruolo e la responsabilità primari di affrontare i problemi e le sfide della nutrizione, in dialogo con la società civile, il settore privato e le comunità colpite. Per una riflessione sui dati riguardanti la nutrizione oggi e sugli sforzi da compiere, alla Conferenza Fao-Oms Giada Aquilino ha intervistato Kostas Stamoulis, direttore della divisione della Fao di Analisi economica dello sviluppo agricolo e coordinatore dell’obiettivo strategico della Fao sulla sicurezza alimentare e la nutrizione: 

R. – Per essere nel 21.mo secolo, siamo in una situazione abbastanza inaccettabile, data la ricchezza che c’è al mondo. Dal 1992, quando c’è stata la prima Conferenza sulla nutrizione, fino ad ora sono stati fatti tanti progressi: c’è il 20 per cento in meno della persone sottonutrite e progressi ci sono stati anche dal punto di vista della mortalità delle mamme. Però i numeri delineano una situazione abbastanza grave perché la sicurezza alimentare e la nutrizione non sono rimaste tra le priorità degli sforzi per lo sviluppo dei singoli governi e della comunità internazionale. Allora, dobbiamo rafforzare la posizione della nutrizione nelle strategie di sviluppo.

D.  – Al vertice della Fao e dell’Organizzazione mondiale della Sanità, sono state adottate la Dichiarazione di Roma e la Dichiarazione di intenti. Come cambieranno gli sforzi della comunità internazionale?

R.  – Come ha detto il direttore generale nel suo intervento alla plenaria, quelli sono il primo passo. Cioè, qui chiamiamo i governi a prendere un impegno, ad impegnarsi a linee generali di politiche, azioni, programmi, migliorando la situazione della nutrizione nei loro Paesi. Allora è un primo passo e questo passo deve essere tradotto in risultati e in azioni politiche, di governabilità del sistema nutrizionale.

D.  – Come verranno applicati in quei Paesi in cui l’agricoltura è la prima necessità ma anche la prima risorsa?

R.  – La difficoltà nel risolvere i problemi della nutrizione sta nel fatto che è “cross-sector”, cioè deve attraversare tanti settori, non soltanto l’agricoltura. Però, nei Paesi in cui l’agricoltura è molto importante dal punto di vista della produzione, dal punto di vista della sopravvivenza della gente, dei piccoli agricoltori, va detto che politiche sull’agricoltura che integrino meglio gli obiettivi nutrizionali sono veramente fondamentali.

D. – Papa Francesco nelle prossime ore interverrà alla plenaria della conferenza. Il Pontefice nella Giornata mondiale dell’alimentazione ha auspicato che sia garantito ai Paesi in cui l’agricoltura rappresenta la base dell’economia e della sopravvivenza un’autodeterminazione del proprio mercato agricolo. Come mettere in pratica questo auspicio del Santo Padre?

R.  – I programmi e le politiche per l’agricoltura e lo sviluppo sono prima di tutto il compito, la responsabilità e la competenza dei Paesi e dei governi dei Paesi membri. E’ molto importante. Allora, quello che fanno i Paesi con la loro agricoltura, incluso il mercato, la loro partecipazione nei mercati internazionali, sono temi che regolano i governi stessi però nell’ambito dei trattati internazionali, che i governi stanno firmando. Credo che l’appello del Papa a dare maggiore possibilità ai Paesi più poveri che si basano sull’agricoltura possa avere maggiore determinazione sulle loro politiche. E’ un discorso che si sta svolgendo.

D. – Quindi l’attesa per la visita del Papa qual è?

R. – Siamo certi che il Papa possa dare una maggiore forza a questo impegno politico che ci deve essere alla base della Dichiarazione siglata a Roma.

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Card. Tagle: Francesco in Asia, sfida per i cristiani di questo millennio

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"La missione in Asia: da Giovanni Paolo II a Papa Francesco” è stato il tema del secondo simposio internazionale promosso da “Asianews”, che si è svolto ieri alla Pontificia Università Urbaniana di Roma. Il Papa ha inviato il suo saluto auspicando che l’incontro possa favorire “un rinnovato slancio apostolico in favore dell'annuncio del Vangelo nel continente asiatico”. Si tratta di un percorso all’insegna della continuità, che assume un significato particolare dopo la visita dello scorso agosto di Francesco in Corea del Sud e in vista del viaggio a gennaio nelle Filippine e in Sri Lanka. Il servizio di Michele Raviart: 

San Giovanni Paolo II, rivolgendosi ai vescovi asiatici nel 1995, disse che la missione in Asia doveva partire dalle periferie. Un concetto molto caro a Papa Francesco e che esprime una realtà vissuta quotidianamente dalle Chiese locali, come ha spiegato il cardinale Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, proprio in vista del viaggio apostolico di gennaio:

“Il tema della visita pastorale del Santo Padre nelle Filippine è la misericordia e la compassione verso le vittime, specialmente dei tifoni, del terremoto, ma anche le vittime della corruzione, della povertà, i bambini nelle strade… Questa è una visita per risvegliare in tutti noi, non solo nelle Filippine, questo senso di compassione per i poveri. Per noi questa visita pastorale è una visita alle periferie dell’Asia e alle periferie delle Filippine”.

Nella maggior parte del continente asiatico i cristiani sono una minoranza, “un piccolo gregge”, ha detto il card. Tagle, dove il Vangelo va proclamato attraverso il dialogo. La visita del Papa in Corea del Sud, ad esempio, ha colpito molto la popolazione – anche non cattolica - tanto che ora la Chiesa è considerata una delle istituzioni più affidabili, ha spiegato il vescovo di Daejeon, Lazzaro You Heung-Sik, In altri Paesi, la situazione è più difficile. In Iraq i cristiani sono stati cacciati dalle loro case dai terroristi dello Stato Islamico e sono in molti a pregare per una visita di Papa Francesco. Il patriarca caldeo di Baghdad Louis Raphael Sako:

“Noi veramente contiamo molto su questa visita, perché per noi è la presenza di un padre della Chiesa fra il gregge, anche se siamo un 'piccolo gregge'. Ci tocca il cuore e insistiamo. La tragedia dell’Iraq continua è c’è una ansia psicologica, una paura del futuro. Non si sa se i cristiani potranno ritornare presto alle loro case o se bisognerà aspettare mesi o anni. Non si sa.”

Giovanni Paolo II aveva detto che l’evangelizzazione dell’Asia sarebbe stata la sfida del terzo millennio e i viaggi di Papa Francesco in Corea del Sud, nelle Filippine, nello Sri Lanka ma anche in Terra Santa, confermano “l’attenzione speciale” del Pontefice per questo continente. Ancora il cardinale Tagle:

“Ogni giorno, ogni millennio è ‘il giorno del Signore’ non solo di un luogo. Ma speriamo che Gesù, nato in Asia, benedirà questo sforzo missionario in questo millennio nel continente”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Terra Santa: leader religiosi alla sinagoga. Twal: mai più violenza

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I capi e i rappresentanti delle comunità religiose presenti in Terra Santa si sono recati questa mattina in visita alla sinagoga di Gerusalemme che ieri mattina è stata teatro di un sanguinoso attacco terroristico, per esprimere solidarietà alla comunità colpita e condannare insieme tutti gli atti di violenza che non risparmiano i luoghi di preghiera. Alla visita hanno preso parte leader e rappresentanti cristiani, musulmani, drusi ed ebrei.

Tra i diversi interventi, per i capi delle Chiese cristiane presenti ha preso la parola il patriarca greco-ortodosso Thephilos III, mentre per i musulmani ha parlato il mufti di Akko. “Gli interventi - riferisce all'agenzia Fides il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, che ha preso parte alla visita - hanno ripetuto con forza che nessuna ragione e nessuna intenzione di carattere politico possono giustificare la violenza contro persone in preghiera e assalti a luoghi dedicati al silenzio e all'orazione.

Sono state richiamate le responsabilità dei leader politici, ma anche quelle dei capi religiosi che devono trasmettere alle rispettive comunità sentimenti di pace e concordia, e vigilare affinchè non si sviluppino i semi cattivi dell'odio e dell'intolleranza. "Il fatto stesso di riunirci insieme in quel luogo di dolore, colpito dalla violenza - aggiunge il patriarca latino Twal - rappresenta un segno di speranza. Vuol dire che a Gerusalemme le diverse appartenenze religiose condividono la volontà di convivere in pace e nel rispetto reciproco, e che il conflitto e la violenza non possono prevalere e sfigurare il volto della Città Santa. Con questo spirito, noi cristiani ci prepariamo all'Avvento, sperando di poter accogliere pellegrini provenienti da ogni parte del mondo”. (R.P.)

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Nigeria: oltre 100mila cattolici dispersi a causa di Boko Haram

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Sono oltre 100.000 i cattolici costretti alla fuga dalle aree controllate da Boko Haram nella Nigeria del nord. Lo riferisce all’agenzia Fides padre Gideon Obasogie, responsabile delle Comunicazioni Sociali della diocesi di Maiduguri (capitale dello Stato di Borno)

Migliaia di sfollati si sono rifugiati nelle grotte delle montagne, riferisce il sacerdote a Fides, solo pochi sono riusciti a scappare a Maiduguri e a Yola. “Un gran numero di nigeriani sono intrappolati e costretti a seguire la stretta interpretazione delle regole della Sharia in diverse città come Bama, Gwoza, Madagali, Gulak, Shuwa, Michika Uba e Mubi. Si tratta di cittadine collocate lungo la strada che collega Maiduguri e Yola allo Stato di Adamawa” afferma padre Obasogie. “I terroristi hanno dichiarato che tutte le città conquistate fanno parte del Califfato islamico”.

“Mubi - spiega il sacerdote - è una comunità a maggioranza cristiana ed è il secondo centro commerciale nello Stato di Adamawa dopo Yola. Ha due importanti parrocchie, quella di Sant’Andrea e quella della Santissima Trinità, oltre a due cappellanie presso il Politecnico e l’Università dello Stato di Adamawa”.

Secondo padre Obasogie, con la cattura della città di Mubi, il bilancio delle distruzioni causate da Boko Haram nella diocesi di Maiduguri (il cui territorio comprende gli Stati di Borno, Yobe e alcune aree di quello di Adamawa) oltre ai 100mila fedeli sfollati, è il seguente: più di 2.500 cattolici uccisi; 26 sacerdoti sui 46 operanti nella diocesi sfollati (diversi sacerdoti sono stati accolti da mons. Dami Manza, vescovo di Yola); i catechisti sfollati sono 200 mentre le religiose sfollate sono più di 20; oltre 200 sono le ragazza rapite. Più di 50 parrocchie sono state distrutte (alcune più volte) mentre una quarantina sono state abbandonate e occupate da Boko Haram. Su 5 conventi, 4 sono stati abbandonati. Un gran numero di cattolici sono stati costretti alla conversione all’islam contro la loro volontà. Il sistema scolastico è al collasso

Il 29 ottobre è stato un giorno tristissimo per la nostra diocesi” ricorda padre Obasogie perché i 50.000 abitanti di Mubi sono stati costretti alla fuga da Boko Haram. “Un buon numero di loro sono fuggiti verso il Camerun, dove sono rimasti intrappolati per giorni, inclusi 5 preti e 2 suore”. “Con la caduta di Mubi - prosegue il responsabile delle comunicazioni della diocesi di Maiduguri - su 6 decanati, 3 sono occupati dai terroristi”.

Nonostante tutto questo, conclude padre Obasogie, “noi rimaniamo fedeli all’insegnamento della Chiesa sulla testimonianza con la nostra presenza”. (R.P.)

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Pakistan. I vescovi al governo: frenare l’intolleranza religiosa

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“L’aumento della violenza e dell’intolleranza religiosa mette in pericolo la convivenza civile e sociale in Pakistan” e testimonia “il fallimento dell’amministrazione civile e giudiziaria”. Per questo urgono “misure improrogabili”: è il forte appello inviato al governo pakistano dalla Conferenza episcopale del Pakistan e dall’Associazione dei Superiori maggiori.

Le massime autorità cattoliche del Paese hanno elaborato un documento, inviato all’agenzia Fides, che è firmato dal presidente della Conferenza episcopale, mons. Joseph Coutts, arcivescovo di Karachi, e dal rappresentante dei Superiori maggiori, padre Pascal Paulus. Il testo mette le autorità civili di fronte alle loro responsabilità inoltrando stringenti richieste all’esecutivo e alla Corte Suprema.

“L’omicidio di Shahzad Masih e Shama Bibi a Kasur ricorda che l’intolleranza in nome della religione è andata ben oltre lo stato di diritto: la giustizia sommaria viola la Costituzione e il Codice Penale” afferma il testo giunto a Fides. “Tali incidenti riflettono la mancanza di governance, il fallimento dell’amministrazione civile e del sistema giudiziario, che garantiscono l’impunità a questi crimini contro l’umanità” spiegano i vescovi.

La Chiesa cattolica chiede allora “misure improrogabili” per impedire che tali episodi avvengano di nuovo e presenta una “magna carta” al governo e alla Corte Suprema, in cui si domanda: di promuovere una inchiesta indipendente e rapida sui fatti di Kasur, per una “giustizia immediata”, che costituisca un chiaro precedente; di ritenere responsabili i religiosi islamici che hanno istigato alla violenza; di prendere provvedimenti per fermare l’abuso della legge sulla blasfemia; di prevenire tali episodi addestrando la polizia e dichiarandola responsabile di negligenza; di applicare le raccomandazioni espresse a giugno scorso dal giudice capo della Corte Suprema, per la protezione delle minoranze religiose. (R.P.)

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Iraq: case dei cristiani saccheggiate anche dalle milizie curde

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I cristiani di Tel Isqof, villaggio della Piana di Ninive a 15 chilometri da Tilkaif, denunciano saccheggi compiuti nelle loro case dalle milizie curde Peshmerga, che controllano la zona dal 17 agosto. Le notizie sui saccheggi compiuti dalle milizie impegnate nella lotta ai jihadisti dello Stato Islamico sono riportate sul sito arabo www.ankawa.com.

La cittadina di Tel Isqof era stata occupata il 7 agosto dalle milizie jihadiste che già a giugno avevano conquistato Mosul. Davanti all'avanzata dei jihadisti, la popolazione civile, in gran maggioranza cristiana, era fuggita verso la Regione autonoma del Kurdistan iracheno, lasciando la città deserta. Dieci giorni dopo, i Peshmerga curdi con una controffensiva avevano ripreso il controllo della città.

Ma è proprio da allora che i residenti, nei loro periodici ritorni in città per verificare lo stato delle rispettive abitazioni, hanno dovuto prendere atto che le porte di un numero crescente di case e negozi sono state forzate e i beni in essi contenuti saccheggiati: denaro e gioielli, attrezzature tecniche e strumenti elettronici. L'accesso alla città è controllato da squadre dell'intelligence legate al governo autonomo del Kurdistan iracheno, e gli abitanti devono mostrare i documenti d'identità se vogliono accedere alle proprie case e ritirare i propri beni.

Domenica 9 novembre, come riportato da Fides, la chiesa caldea di Tel Isqof dedicata a San Giorgio era stata riaperta per la celebrazione di una liturgia eucaristica, a tre mesi dalla fuga di massa che ha reso deserta la cittadina. (R.P.)

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Indonesia: primo sindaco cristiano alla guida di Giakarta

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Dopo mesi di stallo politico e di aperta ostilità - perché cristiano e di etnia cinese - da parte di movimenti estremisti, guidati dal Fronte di difesa islamico (Fpi), Basuki Tjahaja "Ahok" Purnama è stato nominato in via ufficiale nuovo governatore di Jakarta. Egli ha partecipato oggi alla cerimonia ufficiale, con la presentazione delle credenziali e il giuramento nelle mani del Capo di Stato - e suo predecessore alla guida della capitale indonesiana - Joko "Jokowi" Widodo.

Il rito - riferisce l'agenzia AsiaNews - si è svolto all'interno del Palazzo presidenziale, in centro a Jakarta, con uno "strappo" al protocollo il quale prevede che la cerimonia di giuramento avvenga nella sede del ministero degli Interni. Migliaia di poliziotti e di soldati hanno pattugliato strade e punti sensibili, per prevenire attacchi o episodi isolati di violenze.

Il percorso politico che ha portato Ahok - questo il popolare soprannome con il quale viene chiamato il neogovernatore - alla guida della capitale è caratterizzato da ostacoli e difficoltà. In primis, per la sua appartenenza alla comunità indonesiana di etnia cinese e la fede cristiana; a questo, si aggiunge un carattere forte e una integrità di fondo nell'esercizio della propria funzione, lontana da episodi di corruttela o clientelismo. Una fermezza che ha mostrato anche in queste settimane, quando ha ricoperto la carica di governatore ad interim con le dimissioni di Jokowi.

In modo simile al Presidente Jokowi, del quale è stato numero due nel periodo in cui l'attuale Presidente era governatore di Jakarta, Ahok utilizza un linguaggio e un approccio ancora più inflessibile e intransigente rispetto al predecessore. Molte sue prese di posizione pubbliche hanno causato malcontento e ira, in particolare all'interno della frangia estremista islamica e fra i movimenti fondamentalisti.

Fra questi vi è proprio il Fronte di difesa islamico, che il neogovernatore di Jakarta vorrebbe mettere al bando per gli episodi di violenza e le posizioni estremiste in tema di diritti delle minoranze e di libertà religiosa. Centinaia di estremisti hanno manifestato nelle ultime ore, chiedendo la cacciata di Ahok.

L'ascesa alla carica di governatore rappresenta una pietra miliare nella storia della moderna Indonesia, perché per la prima volta sulla poltrona più importante della capitale siede un non musulmano e di etnia cinese. Cittadini e società civile attendono importanti cambiamenti, e in tempi rapidi. Tuttavia, il fronte di opposizione interno non sembra intenzionato a cedere le armi, visto che sino a poche ore dall'inizio del giuramento erano in atto manovre di Palazzo per bloccare l'inaugurazione del mandato.

Fra le priorità della nuova amministrazione guidata dal presidente Jokowi vi è anche la difesa delle minoranze e della libertà religiosa, una "priorità" da far rispettare con ogni mezzo concesso dalla legge; tuttavia, non si tratta di un obiettivo semplice da centrare nel Paese musulmano più popoloso al mondo, in cui una componente consistente della società - e della classe politica - professa una visione estrema dell'islam e mostra aperta ostilità verso le minoranze etnico-religiose. (R.P.)

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Cile: la riforma educativa dei vescovi

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"Una riforma educativa per il bene del Cile" è il titolo del documento della Conferenza episcopale del Cile presentato ieri, che espone il contributo della Chiesa a questo progetto di riforma, in discussione al Senato cileno.

I vescovi - riferisce l'agenzia Fides - affermano che è indispensabile la costruzione di un sistema più equo, per favorire livelli più alti di integrazione e inclusione. "Sebbene non siamo d'accordo su diversi aspetti del modo di fare la riforma educativa – scrivono -, data l'assenza di chiare premesse sulla natura, gli scopi e i principi di una autentica educazione, vogliamo contribuire con delle proposte in modo responsabile. Quindi ci uniamo alla riflessione e al contributo di tutti gli altri settori che hanno fatto dell'educazione un servizio riconosciuto e significativo per la nazione".

L’ampio documento, strutturato in 16 punti, raccoglie la preoccupazione delle comunità cattoliche del Paese, offre una riflessione sulla situazione che sta vivendo la nazione nel campo educativo e propone i compiti e le sfide da affrontare insieme a tutta la comunità civile. Tra i temi cruciali affrontati nel documento c’è anche la libertà di insegnamento e di iniziativa.

A tale proposito si legge: "è fondamentale incrementare la diversità di progetti educativi nell’educazione cilena, così necessaria per la democrazia. La nostra educazione dovrebbe esprimere chiaramente i principi associati alla libertà di insegnamento: libertà di sviluppare progetti educativi con la necessaria autonomia nella gestione…".

Inoltre i vescovi sottolineano la necessità di “riconoscere la concezione laica dell'educazione nelle scuole non confessionali, vale a dire non laicista, quindi rispettosa di ogni espressione religiosa, così come accettare la concezione cristiana o di altre espressioni religiose delle scuole confessionali, e facilitare la libertà di scelta dei genitori". (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 323

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.