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Sommario del 10/10/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: esame di coscienza, pratica antica ma tanto buona

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Per non far entrare il male nel nostro cuore c’è una pratica antica, ma tanto buona, l’esame di coscienza: lo ha detto Papa Francesco nell’omelia mattutina a Santa Marta. Ce ne parla Sergio Centofanti: 

Il Vangelo del giorno ci ricorda che il diavolo torna sempre da noi, non smette mai di tentare l’uomo: “Il diavolo ha pazienza” – afferma Papa Francesco – “non lascia quello che vuole per sé”, la nostra anima:

“Dopo le tentazioni, nel deserto, quando Gesù fu tentato dal diavolo, nella versione di Luca si dice che il demonio lo lasciò per un tempo ma durante la vita di Gesù tornava e tornava: quando lo mettevano alla prova, quando gli tendevano delle trappole, nella Passione, fino alla Croce. ‘Ma se Tu sei il Figlio di Dio, ma vieni, vieni da noi, così noi possiamo credere’. E tutti noi sappiamo che questa parola tocca il cuore: ‘Ma tu sei capace? Fammelo vedere! No, non sei capace’. Come il diavolo fino alla fine a Gesù. E così con noi”.

Occorre custodire il nostro cuore dove abita lo Spirito Santo – sottolinea il Papa -  “perché non entrino gli altri spiriti”. Custodire il cuore, come si custodisce una casa, a chiave”. E poi vigilare sul cuore, come una sentinella: “Quante volte – osserva - entrano i cattivi pensieri, le cattive intenzioni, le gelosie, le invidie. Tante cose, che entrano. Ma chi ha aperto quella porta? Da dove sono entrati? Se io non mi accorgo” di quanto “entra nel mio cuore, il mio cuore diviene una piazza, dove tutti vanno e vengono. Un cuore senza intimità, un cuore dove il Signore non può parlare e nemmeno essere ascoltato”.

“E Gesù dice un’altra cosa lì – no? - che sembra un po’ strana: ‘Chi non raccoglie con me, disperde’. Usa la parola ‘raccogliere’. Avere un cuore raccolto, un cuore sul quale noi sappiamo cosa succede, e qui e là si può fare la pratica tanto antica della Chiesa, ma buona: l’esame di coscienza. Chi di noi, la sera, prima di finire la giornata, rimane da solo, da sola, e si fa la domanda: cosa è accaduto oggi nel mio cuore? Cosa è successo? Che cose sono passate attraverso il mio cuore? Se non lo facciamo, davvero non sappiamo vigilare bene né custodire bene”.

L’esame di coscienza “è una grazia, perché custodire il nostro cuore è custodire lo Spirito Santo, che è dentro di noi”:

“Noi sappiamo, Gesù parla chiaramente, che i diavoli tornano, sempre. Anche alla fine della vita, Lui ci dà l’esempio – Gesù – di questo. E per custodire, per vigilare, perché non entrino i demoni, bisogna saper raccogliersi, cioè stare in silenzio davanti a se stessi e davanti a Dio, e alla fine della giornata domandarsi: ‘Cosa è accaduto oggi nel mio cuore? E’ entrato qualcuno che non conosco? La chiave è a posto?’. E questo ci aiuterà a difenderci da tante cattiverie, anche da quelle che noi possiamo fare, se entrano questi demoni, che sono furbissimi, e alla fine ci truffano tutti”.

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Sinodo: proposti percorsi penitenziali per divorziati risposati

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Celebrazioni penitenziali di tipo comunitario per i divorziati risposati che desiderano rientrare nella comunione ecclesiale. È una delle strade proposte durante la Congregazione di ieri pomeriggio al Sinodo sulla famiglia, che ha visto stamattina protagoniste le testimonianze delle uditrici e degli uditori presenti. Con le loro storie si è conclusa la prima settimana di lavori in Aula, che ha visto gli interventi di 180 padri Sinodali. I temi emersi tra l’ottava e la nona riunione dell’assemblea sono stati sintetizzati nel consueto briefing di fine mattinata, in Sala Stampa vaticana. Il servizio di Alessandro De Carolis

Il tema “caldissimo”, dibattuto da settimane e mesi dai media quasi fosse l’unico sul tavolo, ha trovato notevole spazio durante gli ultimi interventi dei Padri nell’Aula sinodale. In modo particolare, ha riferito padre Lombardi al briefing, l’assemblea si è interessata ai divorziati risposati e alle possibilità che la loro condizione trovi nuovi percorsi di accoglienza all’interno della Chiesa:

“Uno dei Padri ha dato un po’ un modello di come sta cercando di esercitare con le coppie interessate, con le persone interessate questo cammino, ponendo delle domande di riflessione sulle conseguenze che ciò che è avvenuto può aver avuto sui figli oppure se si sono riparati i torti o gli atteggiamenti ingiusti avuti nei confronti dell’altro coniuge (...) Qualcuno ha anche parlato di forme, di atti ecclesiali con cui cercare poi di dare concretezza a questo cammino penitenziale. Ad esempio, delle celebrazioni, diciamo così, ‘giubilari’ (…), da celebrare anche comunitariamente.”

Strettamente connesso a questo argomento, l’aspetto sacramentale riguardante la possibilità, da tanti invocata, di poter accostarsi soprattutto all’Eucaristia. Sul punto, molto interessante, ha sottolineato padre Lombardi, è stata un’osservazione:

“È quella che faceva rilevare ciò che aveva fatto San Pio X al suo tempo ammettendo i bambini all’Eucaristia: era stato considerato estremamente rivoluzionario, estremamente innovatore al suo tempo. Quindi, ci sono anche degli esempi di coraggio da parte di un Papa – anche se in una situazione così diversa da quella in cui noi ci troviamo – nel riflettere o introdurre delle novità per quanto può riguardare la prassi dell’accesso all’Eucaristia”.

Tema “sensibile” anche quello riguardante la preparazione al matrimonio, che i Padri sinodali hanno indicato di curare con profondità e per tempi più lunghi giacché, è stato riconosciuto, la brevità dei corsi attuali – peraltro vissuti dalle coppie spesso come un’imposizione – non aiuta a comprendere la sacralità del vincolo al punto che, è stato rilevato, ciò che alla fine viene percepito è la celebrazione di un rito più che del Sacramento. Inoltre, l’assemblea sinodale ha suggerito che si utilizzi il momento dell’omelia come luogo privilegiato per l’annuncio del Vangelo della famiglia.

Di formazione al matrimonio e di accompagnamento delle coppie hanno diffusamente parlato le uditrici e gli uditori presenti in Aula. I laici, è stato ribadito da più angolazioni, siano più ampiamente coinvolti in questi percorsi di crescita e sostegno, perché notevole impatto in questi casi assume la forza della “testimonianza vissuta”. Dalle loro esperienze è emerso anche – in modo analogo ai convincimenti dei Padri sinodali, che ieri avevano riaffermato la dottrina dell’Humanae Vitae di Paolo VI  – l’invito ad approfondire la conoscenza dei metodi naturali per la regolazione delle nascite.

Sempre in sintonia e riflesso con l’opinione dei vescovi, convinti del peso della cultura e quindi del lavoro universitario a sostegno della famiglia, uditrici e uditori hanno descritto in concreto il peso specifico dell’impegno laicale sia in campo accademico che in seno alle istituzioni civili. E questo senza dimenticare, ha osservato padre Lombardi, i frutti che il lavoro di tanti cristiani produce anche negli angoli più bui della società:

“Il fatto cioè di avere un tipo di testimonianza e di pastorale, esercitato anche dai laici, che guarda alle molte solitudini che ci sono nel mondo di oggi nelle grandi città (...) come un servizio che raggiunge tante persone sole o in difficoltà indipendentemente dal loro essere partecipanti alla vita della Chiesa. Quindi, un servizio generoso e aperto che va al di là dei confini della comunità, diciamo, praticante”.

In ottica sociale e umanitaria, durante i 33 interventi dell’ottava Congregazione, era stata levata anche la condanna della manipolazione e della crioconservazione degli embrioni e stigmatizzata la tendenza, specie in Africa, di alcuni Paesi e organizzazioni a presentare il ricorso all’aborto e alle unioni gay come “diritti umani” – legando all’accettazione di questi concetti l’elargizione di aiuti. Individuata pure la contraddittorietà mostrata, in tema di salute riproduttiva, da istituzioni che condannano l’aborto forzato pur promuovendo l’aborto sicuro.

Toccato anche l’ambito delle migrazioni, in particolare con la richiesta di meglio tutelare il diritto all’unità familiare dei migranti, e – specie nella nona Congregazione – la questione della protezione dei figli delle coppie divorziate e il diritto dei genitori a scegliere il progetto educativo più adatto per i loro figli. Non è rimasto fuori dell’Aula l’aspetto della morte di uno dei coniugi, evocato dalla storia di una delle uditrici, lei stessa vedova e impegnata in una associazione che si dedica all’ascolto e all’incontro delle vedove e dei vedovi.

La seconda parte della mattinata, dopo gli interventi degli uditori, è stata caratterizzata dalla prima riunione dei cosiddetti “Circoli minori”: 10 gruppi – tre in lingua inglese e italiana, due in francese e spagnolo – che inizieranno i loro lavori la prossima settimana dopo la “Relatio post-disceptationem”.

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Messaggio del Sinodo alle famiglie vittime delle guerre

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Vicinanza profonda e solidarietà per tutte le famiglie che soffrono a causa dei tanti conflitti in corso: questo il contenuto del Messaggio diffuso oggi dal Sinodo straordinario sulla famiglia, che si tiene in Vaticano. Nel documento, si lancia anche un appello per la pace in Iraq, Siria e Medio Oriente. Il servizio di Isabella Piro

“Condividiamo la paterna sollecitudine del Santo Padre, esprimendo profonda vicinanza a tutte le famiglie che soffrono a causa dei numerosi conflitti in corso”, si legge nel Messaggio che poi eleva una “supplica per le famiglie irachene e siriane, costrette, a causa della fede cristiana che professano o dell’appartenenza ad altre comunità etniche o religiose, ad abbandonare tutto e a fuggire verso un futuro privo di ogni certezza”. Il Sinodo ribadisce, insieme al Papa, che  “nessuno può usare il nome di Dio per commettere violenza” e che “uccidere in nome di Dio è un grande sacrilegio!”. Quindi, si ringraziano le Organizzazioni internazionali e i Paesi per la solidarietà dimostrata, si invitano “le persone di buona volontà” ad offrire “assistenza ed aiuto alle vittime innocenti della barbarie in atto”. Allo stesso tempo, si chiede alla comnità internazionale “di adoperarsi per ristabilire la convivenza pacifica in Iraq, in Siria e in tutto il Medio Oriente”.

Ma il pensiero del Sinodo va anche “alle famiglie lacerate e sofferenti nelle altre parti del mondo, che subiscono persistenti violenze”: a tutte loro viene assicurata una preghiera “costante” perché “il Signore misericordioso converta i cuori e doni pace e stabilità a quanti ora sono nella prova”. Lo sguardo va, infine, alla Santa Famiglia di Nazareth, che ha patito l’esilio, affinché trasformi ogni famiglia in una “comunità di amore e di riconciliazione”, in una “sorgente di speranza per il mondo intero”.

Proposto dai Padri Sinodali sin dalla seconda Congregazione generale, tenutasi nel pomeriggio del 6 ottobre, il Messaggio è stato poi elaborato nei giorni successivi. Da ricordare che lunedì 20 ottobre, il Concistoro ordinario convocato da Papa Francesco sarà dedicato proprio al tema del Medio Oriente.

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Card. Parolin: clima di grande fraternità e libertà al Sinodo

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“Mi sembra che il Sinodo stia andando molto bene, nel senso che si è creato un clima di grande fraternità e di grande libertà, come ci ha chiesto il Papa fin dall'inizio. Mettendo insieme questi due aspetti, penso che si sta lavorando molto bene sul tema della famiglia”: è quanto afferma alla Radio Vaticana il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin.

Il porporato ricorda alle famiglie in difficoltà che “questo non è il momento di perdere la speranza, questo è il momento di capire che la Chiesa e il Papa sono vicini alle famiglie e che davvero non devono perdere la speranza, perché i problemi possono essere risolti. Abbiamo parlato del Vangelo delle famiglie – ha proseguito – e il Vangelo della famiglia è Gesù Cristo che è con loro. E se Gesù è con loro, soprattutto a partire dal momento della celebrazione del Sacramento del matrimonio,  Gesù si mette al fianco degli sposi per accompagnarli in tutte le situazioni della vita. Quindi, se c'è Gesù Cristo, non c'è motivo di perdere la speranza, nonostante le molte difficoltà. Siamo vicini – ha concluso il cardinale Parolin - è stato detto più volte, con la nostra solidarietà e la nostra preghiera”.

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Card. Ouellet: divorziati risposati restano membri della Chiesa

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Evitare di dare un giudizio morale sui divorziati risposati: la non ammissione al Sacramento dell’Eucaristia non elimina del tutto la possibilità della grazia in Cristo: questa una delle riflessioni emerse dal Sinodo straordinario sulla famiglia, in corso in Vaticano. Al microfono di Paolo Ondarza, ascoltiamo il card. Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi: 

R. - Credo prima di tutto che si deve ripetere che i divorziati risposati rimangono membri della Chiesa; non devono allontanarsi dalla Chiesa per il fatto che non possono ricevere la Comunione: il legame con la comunità è molto importate, la partecipazione all’offerta della Santa Eucarestia è fondamentale. Credo anche che dobbiamo favorire degli incontri con le persone che soffrono in queste situazioni affinché possano essere ascoltate. Qualcuno ha detto che l’ascolto è terapeutico; credo profondamente che sia vero.

D. - Queste persone si sentono giudicate dalla Chiesa?

R. - Credo che dobbiamo curare il nostro linguaggio nei loro confronti per evitare di dichiarare che non sono ammessi perché sono in peccato mortale permanente e non possono ritrovare lo stato di grazia. Questo è un linguaggio offensivo e che non tiene conto della vita spirituale della persone che, probabilmente, in tanti casi, hanno chiesto cento volte perdono nel loro cuore per il primo matrimonio fallito, ma, oggettivamente si trovano da dieci anni con un altro coniuge, con altri figli e quindi non possono mettere fine a questa nuova unione. Quindi c’è molto da fare per aiutarli a rimanere in contatto con la Chiesa, a sentirsi non giudicati dal punto di vista morale e a capire che rimane comunque un ostacolo al ricevimento della Comunione sacramentale.

D. - Perché c’è questo ostacolo?

R. - Perché il mistero della Santa Eucarestia, è un mistero nuziale: è il mistero della donazione che Cristo fa del suo Corpo - Lui, il Corpo del Signore risorto - alla Chiesa sua sposa. Questo dono è l’espressione della sua fedeltà fino alla morte. Allora, dal momento in cui il primo matrimonio viene considerato sacramentale - quindi il primo vincolo nuziale non è stato cancellato -, se una persona si trova in una seconda unione nasce una contraddizione oggettiva con il mistero che sta per ricevere. Dobbiamo aiutarli a capire che la Comunione con Cristo è possibile anche per loro, ma è una Comunione spirituale che non arriva fino al punto della comunione sacramentale.

D. - Ma la comunione spirituale prevede un rito? C’è chi suggerisce per esempio di benedire i divorziati e i risposati al momento della Comunione …

R. - Sì, questo certamente può essere anche espresso ritualmente: una persona può venire al momento della comunione e incrociare le braccia al petto: in questo modo avverte il sacerdote che non può ricevere la comunione, ma è disponibile per una benedizione. Bisogna dire alla gente che è possibile ritrovare la comunione con Cristo, cioè lo stato di grazia.

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Card. Versaldi: necessaria maggiore preparazione al matrimonio

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A fronte dell’alto numero dei divorzi è necessaria una preparazione maggiore, personalizzata ed anche severa, al matrimonio senza timori di veder eventualmente diminuire il numero di nozze celebrate in Chiesa. E’ stato ribadito durante i lavori del Sinodo straordinario sulla famiglia, in corso in Vaticano. Paolo Ondarza ha intervistato il card. Giuseppe Versaldi, presidente della Prefettura degli affari economici della Santa Sede: 

R. – I problemi ci sono e vanno risolti quelli che riguardano le persone in difficoltà dopo il matrimonio, ma io ho voluto insistere sul fatto che bisogna prevenire le difficoltà e soprattutto le sofferenze delle persone, avendo quindi una maggiore attenzione sulla preparazione al matrimonio. Nell’Anno della Fede, il Papa ci aveva detto che la fede – anche tra i battezzati – non può più essere presupposta e quindi occorre fare un cammino, anche dottrinale: io ho insistito sull’accompagnamento personale delle coppie, in maniera tale che non attraverso gli strumenti giuridici, ma attraverso un accompagnamento pastorale e spirituale si verifichi veramente se l’intenzione degli sposi è quella di accedere non alle nozze, ma al Sacramento del matrimonio, in modo che possano poi reggere le difficoltà nella vita matrimoniale. Ci saranno sempre dei fallimenti, ma così mettiamo una barriera non per impedire il matrimonio, ma per farlo non solo validamente ma fruttuosamente. La Chiesa non può poi intervenire dopo dichiarando nulli i matrimoni, che invece sono validi e caricando di pesi i fedeli dopo il matrimonio. E’ meglio essere un po’ più severi prima, anche se diminuiscono un po’ o rallentano nel tempo le celebrazioni delle nozze, ma che siano persone convinte di incontrare Cristo e non solo di fare una cerimonia.

D. – Per evitare proprio che ci si sposi per una tappa quasi di costume, concentrata molto sulla cerimonia e sul giorno del matrimonio. Poi, quando arrivano i problemi, ci si trova impreparati…

R. – Dando per scontato questo automatismo tra il fatto che uno è battezzato - e quindi si presuppone che abbia la fede - e il matrimonio, che è un altro Sacramento ancora: certo il Battesimo introduce nella salvezza, però è un incontro con Cristo e chi si sposa invece credendo di non aver bisogno di Cristo, ma solo perché è una tradizione o addirittura un atto folkloristico, si sposa validamente ma poi non regge la fatica del matrimonio e dopo chiede la nullità. Il paradosso allora è che la Chiesa largheggia all’inizio ammettendo tutti e poi è severa nel lasciarli con i loro pesi. Questo non va bene!

D. – Bisognerebbe forse avere il coraggio anche di dire “no” ad una coppia che arriva impreparata al matrimonio?

R. – Più che dire “no”, indicare un cammino: non subito, ma facciamo un cammino. Adesso si parla tanto dei divorziati e dei rispostati e di un cammino penitenziale, che è sempre penitenziale e doloroso; là sarebbe invece un cammino non penitenziale, ma di crescita, di maturazione nella fede.

D. – Agire all’origine…

R. – Agire all’origine, facendo anche capire che non possono venire lì a chiederci il matrimonio, fissando già la data e presupponendo che si tratta solo di una formula: “Accetti quello che fa la Chiesa?”; “Si!”. E poi vai a sapere cosa c’è dietro a quel sì…. Stiamo tanto discutendo su come cambiare il dopo e non discutiamo tanto su come cambiare il prima. Io ho fatto un intervento, ma anche altri hanno fatto interventi così.

D. – C’è poi il dopo matrimonio: c’è chi suggerisce un accompagnamento anche dopo il matrimonio delle coppie, che spesso si sposano su presupposti cristiani e a un certo punto si ritrovano sole…

R. – E lì veramente è la parrocchia, la comunità parrocchiale, come famiglia di famiglie, e soprattutto gli sposi più che i sacerdoti a quel punto che devono accompagnare gli sposati. E’ importante l’accompagnamento dei giovani sposi da parte di chi ha già esperienza, magari, di crisi superate. Questo è un altro punto intermezzo: prima di arrivare alla vexata quaestio “Diamo o non diamo la Comunione ai divorziati-risposati?”, che è certamente un problema, ma se diventa un problema troppo generalizzato vuol dire che qualcosa è sbagliato prima. Se non facciamo una preparazione adeguata, dobbiamo poi curare i matrimoni falliti e la Chiesa da “ospedale di campo” diventa obitorio, in cui si fanno le autopsie dei matrimoni defunti.

D. – Si parla molto in questi giorni di dottrina e misericordia, quasi fossero due realtà distinte, separate. E’ davvero così o dottrina e misericordia necessariamente devono camminare insieme, si identificano?

R. – La misericordia è la dottrina della Chiesa e la dottrina della Chiesa è la salvezza: “Non sono venuto per condannare, ma per perdonare”. Tuttavia il perdono presuppone il pentimento.

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Nomina episcopale in Portogallo

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In Portogallo, Papa Francesco ha nominato coadiutore della diocesi di Beja il sacerdote  José João dos Santos Marcos, del clero di Lisboa, finora Direttore Spirituale dei Seminari Maggiori di “Cristo Rei” e “Redemptoris Mater” nel patriarcato di Lisboa”. Mons. Marcos è nato il 17 agosto 1949 a Monte Perobolso, nella diocesi di Guarda, ed è stato ordinato sacerdote il 23 giugno 1974, per il patriarcato di Lisboa. Dopo la scuola elementare, è entrato nel Seminario Minore di Santarém (allora del patriarcato di Lisboa), passando poi al Seminario Maggiore di S. Paolo (Almada) e successivamente al Seminario di Cristo Re (Olivais), frequentando l’Istituto Superiore degli Studi Teologici di Lisboa. Ha seguito anche un corso di pittura presso la Scuola Superiore di Belle Arti di Lisboa. Nel corso del ministero, ha ricoperto i seguenti incarichi: Membro del gruppo sacerdotale di formazione in Merceana (1973); Parroco della Chiesa di São Miguel in Milharado (1985-1993); Parroco della Chiesa di São Tiago in Camarate e di Nossa Senhora da Encarnação in Apelação (1993-2002); Direttore Spirituale nel Seminario Maggiore di Cristo Re (Olivais) del patriarcato di Lisboa (dal 1995); Direttore Spirituale nel Seminario Redemptoris Mater, Lisboa (dal 2001); Membro del Consiglio Pastorale del patriarcato di Lisboa (dal 2001). Nel 2003 è stato nominato Canonico del Capitolo della Cattedrale di Lisboa.

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"Inutile strage": convegno in Vaticano sulla Prima Guerra Mondiale

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E’ stato presentato stamani, in Sala Stampa vaticana, il Convegno Internazionale: “Inutile strage. I cattolici e la Santa Sede nella Prima Guerra Mondiale”. Promosso dal Pontificio Comitato di Scienze storiche, in collaborazione con l’Accademia di Ungheria in Roma e la "Commission Internationale d’Histoire et d’Étude du Christianisme", il Convegno inizierà mercoledì 15 ottobre in Vaticano, proseguirà i lavori il 16 nell’Aula San Pio X a Roma, per concludersi il 17 all’Accademia di Ungheria sempre a Roma. Alla conferenza stampa gli interventi di padre Bernard Ardura, presidente del Comitato organizzatore, e del prof. Roberto Morozzo della Rocca, dell’Università degli Studi di “Roma Tre”. Il servizio di Adriana Masotti: 

Obiettivo dell’iniziativa è proporre una rilettura del primo conflitto mondiale così come è stato visto e vissuto dai credenti, in maggioranza cattolici, e particolarmente dalla Santa Sede. E per farlo, dice padre Ardura, abbiamo scelto due parole forti di Benedetto XV che caratterizzano i feroci combattimenti, le considerevoli perdite umane e l’inutilità strategica di tanti sacrifici di giovani vite: “Inutile strage”. Due  parole scritte dal Papa nella sua "Nota ai Capi dei popoli belligeranti", del primo agosto 1917, per invitarli ad aprire le vie della pace. Padre Ardura:

"Due parole quasi insopportabili di fronte al sacrificio di tanti milioni di soldati e civili, le cui vite furono stroncate nel corso dei combattimenti sanguinosi senza ottenere significativi successi strategici".

Al Convegno, si analizzeranno le azioni di San Pio X allo scoppiare della guerra e di Benedetto XV nel 1917, e le reazioni dei credenti di fronte a questi tentativi di scongiurare e poi di arginare il conflitto. Sarà esaminato anche l’operato dei cappellani militari, così come l’opera d’assistenza svolta da religiosi e religiose, dall’Ordine di Malta e dalla Croce Rossa. Senza dimenticare il ruolo svolto dalle donne che cambiò profondamente il loro posto nella società.

Nel suo intervento, il prof. Morozzo della Rocca parla della nota di pace di Benedetto XV e soprattutto del perché sia stata respinta e censurata dai vari governi che volevano soltanto una pace data dalla vittoria delle armi:

"Diversamente pensavano gli umili e i poveri d’ogni dove, i soldati nel fango delle trincee, le madri in angoscia, le masse contadine estranee ai motivi del conflitto, i feriti e i prigionieri, gli sfollati delle regioni occupate, quanti avevano sentimenti di pace".

Certo è che le parole di Benedetto XV e le tante altre condanne della guerra da lui pronunciate sin dal 1914 - “spettacolo mostruoso”, “spaventoso flagello”, “orrenda carneficina”, e ancora “suicidio dell’Europa civile” - non intendevano negare le ragioni della guerra in atto e certamente non disprezzavano il sacrificio di milioni di vite. Piuttosto percepivano una realtà storica profonda: 

"La storia successiva giustifica appieno, a mio avviso, il successo postumo della definizione di “inutile strage”. Dopo la Prima Guerra Mondiale, infatti, vengono nazionalismi d’ogni specie, totalitarismi di destra e di sinistra, particolarismi e pulizie etniche di piccoli Stati-nazione, feroci movimenti antisemiti alla ricerca di capri espiatori, nonché viene la guerra del 1939-1945 che è la ripresa della precedente dopo i trattati di pace versagliesi, troppo unilaterali, ispirati all’etica della punizione foriera di revisionismo e vendetta".

E ancora, dice lo storico, dalla Prima Guerra Mondiale vengono le prime armi di distruzione di massa, i bombardamenti, i gas, i sottomarini, le distruzioni di città, i civili coinvolti, i genocidi, insomma la modernità a disposizione della morte. Benedetto XV dunque aveva avuto ragione.

Dopo gli interventi una domanda che riporta all’attualità. Oggi, sono in corso almeno 30 conflitti: che cos’ha la guerra di così interessante che l’uomo non ne può fare a meno? La risposta del prof. Morozzo della Rocca:

“Ricordo proprio una citazione di Benedetto XV che dice: 'Le guerre non cesseranno mai finché vi sarà l’umana cupidigia'. È una nota a margine che lui fa al testo stampato della Nota di pace del 1917. L’unica maniera per ridurre le guerre, per non ripeterle, è concluderle - lui si riferiva a quella in atto - con un negoziato e non con la vittoria di una parte sull’altra, perché l’altra parte - la perdente - con il tempo potrà sempre riorganizzarsi per la 'revanche'. E poi aggiunge questa frase: 'Le guerre ci saranno sempre finché ci sarà l’umana cupidigia'”.

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Prof. Dalla Torre: alla Lumsa un corso sul Diritto vaticano

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L’università Lumsa organizza per l’Anno accademico 2014/2015 un corso di perfezionamento in Diritto vaticano. Si tratta di un’iniziativa per offrire una preparazione scientifica completa sulla materia e per capire nel dettaglio ogni ramo dell’ordinamento vaticano. Le iscrizioni sono aperte fino al 14 novembre prossimo. Alessandro Gisotti ha intervistato il direttore del corso, il prof. Giuseppe Dalla Torre: 

R. – Il Vaticano, come Stato, come piccolo Stato, è da alcuni anni venuto all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale per varie ragioni e anche in relazione alla particolarità del suo ordinamento giuridico. C’è poi un motivo di carattere più pratico e concreto: la necessità di dare a chi lavora nello Stato o chi lavora in rapporti con questo Stato, strumenti giuridici adeguati, aggiornati per fare meglio il proprio servizio.

D. – Quali saranno le tematiche principali? Come sarà articolato questo corso?

R. – Il corso si aprirà naturalmente con un approfondimento di quella che è la struttura costituzionale della Città del Vaticano, che presenta molti aspetti del tutto originali, è un unicum; dopo di che si entrerà negli aspetti più strettamente attinenti al diritto civile, al diritto penale, al diritto processuale, al diritto del lavoro, al diritto amministrativo, anche con riferimento ad ambiti più ampi, quali possono essere la cultura, la comunicazione, l’informazione. Insomma, quella esigenza di conoscenza e, al tempo stesso, anche di trasparenza su cui Papa Francesco insiste tanto.

D. – Questo corso è ovviamente rivolto in particolare ad avvocati, operatori degli enti ecclesiastici, ma anche evidentemente ricercatori, dottori di ricerca. Quali sono le aspettative?

R. – Il corso ha, come dire, due facce: una faccia per chi lavora in questa realtà – il Vaticano, la Santa Sede, le Congregazioni che costituiscono la Curia Romana, gli altri organismi che fanno riferimento alla Santa Sede – però anche un volto, come dire, esterno. E’ chiaro, infatti, che questa realtà di micro Stato non è qualcosa di separato dal resto del mondo, anzi la globalizzazione lo coinvolge sempre di più in rapporti sempre più fitti di vario tipo: l’informazione, l’economia, il diritto. E allora ci sono anche professionalità esterne, che possono essere interessate, molto interessate a vedere in che modo, come rapportarsi con questa piccola, ma complessa realtà.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Vicini alle famiglie vittime di conflitti: appello dei padri sinodali per la pace in Iraq, in Siria e in tutto il Medio oriente.

Non dobbiamo rassegnarci: il cardinale segretario di Stato sulla tragica situazione in Medio oriente in un'intervista esclusiva a "L'Osservatore Romano".

Un uomo per tutte le stagioni: Papa Montini e Duns Scoto maestro di dialogo.

Un giorno festa l'altro battaglia: Silvia Gusmano su come aiutare a crescere un bambino con la sindrome di Down.

Grande racconto: il vice direttore sui concili nella storia tra Vangelo e potere.

Sette orchestre per sette direttori: Marcello Filotei sull'inaugurazione della stagione dei concerti del Lingotto a Torino.

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Oggi in Primo Piano



Nobel Pace a giovane pakistana Malala e attivista indiano Kailash

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E’ stato assegnato oggi a Oslo il premio Nobel per la pace 2014. Il riconoscimento è andato alla pakistana, Malala Yousafzay, gravemente ferita due anni fa dai talebani per il suo impegno a favore dell’istruzione femminile, e all’indiano Kailash Satyarthi, attivista impegnato per i diritti dei minori. Ci riferisce Giancarlo La Vella

Figure emblematiche, in lotta contro chi riduce i diritti di donne e bambini a ben poca cosa. Malala e Kailash – recita la motivazione del Comitato per il Nobel – sono stati premiati “per la loro battaglia contro la repressione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti loro all’educazione”. Significativa anche la storia dei due. Malala nel 2009 aveva solo 12 anni quando difendeva il diritto delle bambine allo studio nella valle pakistana dello Swat, opponendosi all’ideologia oscurantista talebana. E per questo in un attentato venne ferita gravemente alla testa, ma ha poi continuato la sua missione. Il 60enne indiano Kailash ha invece dimostrato “grande coraggio personale, mantenendo la tradizione di Gandhi, guidando varie forme pacifiche di protesta contro lo sfruttamento dei bambini nel lavoro, contribuendo anche allo sviluppo di importanti convenzioni internazionali sui diritti dei minori”. Per un commento, Paolo Ondarza ha intervistato il cardinale indiano, Oswald Gracias, arcivescovo metropolita di Mumbai, che sta partecipando in Vaticano al Sinodo straordinario sulla Famiglia:

R. – E’ un momento di grande gioia per noi in India e in Pakistan, perché i premiati sono un indù e una musulmana, quindi vedo una sorta di alleanza tra le due grandi religioni della nostra zona; poi ci sono una donna e un uomo e soprattutto un indiano e una pakistana. L’India e il Pakistan sono della stessa famiglia. Queste due persone sono apprezzate dal mondo intero a causa del loro lavoro per i diritti umani, per coloro che vengono sfruttati, per coloro che soffrono la violenza: la violenza fisica, la violenza psicologica e la violenza emotiva. 

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Scontri India-Pakistan per il Kashmir: almeno 20 morti

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Almeno 20 morti e migliaia di evacuati per la nuova fiammata di violenze scoppiata tra le truppe pakistane e indiane lungo la frontiera nella contesa regione del Kashmir. Oggi i media indiani segnalano un miglioramento della situazione lungo la cosiddetta Linea di Controllo mentre continua lo scambio di accuse tra i due governi. Sentiamo Marco Guerra: 

Da lunedì scorso la situazione lungo il confine indo-pakistano nel Kashmir ha raggiunto i massimi livelli dall’accordo per il cessate il fuoco del 2003 tra Nuova Delhi e Islamabad. I tiri di artiglieria e le sparatorie tra i due eserciti hanno provocato almeno 20 morti e la fuga di almeno 20mila persone dai villaggi vicini al confine. Ed è scambio di accuse tra i due governi nazionali, con quello indiano che imputa al Pakistan di favorire il passaggio di miliziani nel Kashmir, mentre stamane il premier pakistano Sharif ha chiesto all'India di sospendere immediatamente gli attacchi. E sempre oggi i media indiani segnalano un miglioramento della situazione lungo la ‘Linea di Controllo’, frutto anche del pressante appello lanciato ieri dal segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, il quale ha chiesto a India e Pakistan di utilizzare il dialogo per risolvere le loro divergenze. Ma per un analisi di queste nuove tensioni, alla luce dell’annosa questione del Kasmir, sentiamo  il commento di Romeo Orlandi, vice-presidente di Osservatorio Asia:

R. – E’ la recrudescenza di una storia antica, mai sopita e mai risolta! Poi possono esplodere tensioni, addirittura causare morti, per circostanze occasionali, ma la tensione, che è nata al tempo della partizione dell’India, nel 1947 - quando cioè il Kashmir è andato all’amministrazione indiana di Nerhu e non al Pakistan, come avrebbe suggerito la ripartizione tra linee religiose – che ha causato il risentimento del Pakistan e della popolazione musulmana, che vive lì e che si sente sotto stato d’assedio. L’India non ha mai voluto internazionalizzare la questione, perché pensava che fosse una questione interna, e il Pakistan non cede: la popolazione continua a rimanere ostile nonostante alcuni segnali e alcuni progressi economici. Che poi esploda qualche cosa ogni tanto è nell’ordine delle cose, anche se è un ordine – purtroppo – tragico.

D – Quindi ci sono questioni etniche o c’è dell’altro? Perché quest’area resta così instabile e contesa?

R. – Originariamente ci sono questioni etniche e religiose: la divisione dell’India era stata fatta secondo linee prevalentemente religiose, soprattutto da quella parte, dall’amministrazione inglese che ha gravissima responsabilità su quello che è successo. A queste tensioni, a queste divisioni religiose, però, si sono poi assommate delle divisioni fortissime, perché sia in India che in Pakistan hanno prevalso i servizi di sicurezza o l’esercito, chi ha cioè tenuto in vita questa tensione - anche per proprie ambizioni e interessi personali – piuttosto che puntare più concretamente sullo sviluppo economico. Sono due Paesi ancora estremamente arretrati e il fatto che abbiano la bomba atomica non depone in loro favore: magari queste energie e risorse sarebbero potute essere rivolte allo sviluppo economico.

D. – Il fatto appunto che siano due potenze nucleari non sembra fare da deterrente…

R. – No, direi proprio di no! Anzi, sembra che ci sia una rincorsa, anche se la connotazione dei governi sembra quella di voler fermare talvolta gli istinti bellicisti, che andrebbero eliminati perché altrimenti abbiamo situazioni di sottosviluppo, di analfabetismo fortissimo - tra il 35 e il 40 per cento nei due Paesi - e che altri Paesi non lontani da lì, come la Cina, hanno risolto da tempo.

D. – Il Nobel per la Pace è andata alla pachistana Malala e all’attivista indiano per i diritti umani, Kailash Satyarthi: può essere un messaggio di distensione?

R. – Assolutamente sì! E’ una scelta nobile e lungimirante. La speranza è che venga raccolta!

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Gaza: Onu chiede 1,6 miliardi per la ricostruzione

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L'Agenzia delle Nazioni Unite per gli aiuti ai rifugiati palestinesi chiederà un contributo record di 1,6 miliardi di dollari per la ricostruzione di Gaza, devastata dalla guerra di questa estate tra Israele e Hamas, in vista della conferenza dei Paesi donatori prevista per domenica al Cairo. A quella data guarda anche il Governo di unità palestinese riunito a Gaza ieri per la prima volta dalla sua formazione in giugno. Una tappa storica che può avere riflessi concreti? Gabriella Ceraso lo ha chiesto a Marcella Emiliani esperta di Medio Oriente: 

R. – Come incontro, io non lo definirei storico, perché i governi di unità nazionale - Hamas, al Fatah e Olp – ci sono già stati. E’ un governo che sta più che altro a significare la volontà dei palestinesi di andare avanti. Hanno capito cioè che disuniti non arrivano da nessuna parte. Inoltre, è un grosso segnale nei confronti della comunità internazionale, perché si decidano non solo a contribuire alla ricostruzione di Gaza, ma anche a sostenere di nuovo la causa palestinese. Tutto questo, tenendo ben distinto il passato di Hamas da quello che potrebbe essere il suo presente e il suo futuro. Non dimentichiamo che Hamas è stata una creatura, nel senso che è stato finanziato e armato dalla Siria e dall’Iran, che l’Occidente non ama profondamente, specie con quello che sta succedendo in tutto il Medio Oriente. Quindi qui bisogna mantenere la visione più lucida possibile, perché fomentare o lasciare che i palestinesi rimangano disuniti e si facciano la guerra tra di loro non porta, come abbiamo visto, da nessuna parte.

D. – Riflessi su una trattativa israelo-palestinese di questa tappa, una trattativa che è rimasta assolutamente in sospeso…

R. – Qui è un problema che va a riflettersi totalmente sul governo israeliano. Netanyahu ha sempre detto a chiare lettere che non vuole negoziare con Hamas. Se Hamas entra in un governo di unità nazionale, come sembra, Netanyahu riproporrà il suo no.

D. – Questa riunione avrebbe dovuto inviare - ancora non si sa se l’ha fatto – un messaggio alla Conferenza dei donatori di domenica e cioè che i fondi destinati alla ricostruzione di Gaza saranno gestiti da un’autorità indipendente col sostegno di tutta la comunità internazionale. E’ fattibile una cosa del genere? E’ realistica?

R. – Dal punto di vista oggettivo, può anche darsi che riescano a mettere in piedi questa Commissione. Però, attenzione, i rancori – chiamiamoli così – tra Hamas e al Fatah non sono sopiti. Alla fine della guerra di Gaza – l’ultima – il fatto che i punti di frontiera fossero stati affidati, quanto a sorveglianza, ad al Fatah, cioè all’Autonomia Palestinese, aveva già creato nuovi attriti. E’ evidente, quindi, che quando si parlerà fattivamente della composizione del governo, delle responsabilità delle Commissioni, allora lì ci sarà veramente la prova del nove.

D. – C’è bisogno di tanti soldi per la ricostrizione di Gaza , questo è fuori di dubbio. Ma, i motivi di reticenza da parte della comunità internazionale vanno presi in considerazione. Perchè bisognerebbe, infatti, impegnarsi finanziariamente, quando le bombe hanno distrutto tutto, quando il conflitto israelo-palestinese è rimasto immobile, quando la guerra in Siria già impegna finanziariamente la comunità internazionale. Non rischia, dunque, di essere una sorta di riunione poi senza esiti?

R. – Se affrontano i reali problemi è un fatto, ma se si limitano… per l’amor di Dio, lo facciano, perché le condizioni della popolazione di Gaza sono drammatiche,,,,, ma l’umanitario in sé non risolve politicamente il conflitto. Questo è il punto. L’umanitario diventa una specie di velo, di muro, dietro il quale si vuole nascondere – scusi il termine – l’immondizia.

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Guerra in Iraq. I Focolari: l'amore è più forte dell'odio

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L'offensiva dei jihadisti del cosiddetto Stato Islamico colpisce in particolare le minoranze cristiane e di altre religioni. Ma a soffrire dell’assurda violenza degli estremisti islamici sono anche i musulmani. E’ la testimonianza resa da Rita del Movimento dei Focolari che vive tra la Giordania e l’Iraq. Non è il vero islam, sostengono infatti, quello che istiga all’odio. Ma le comunità dei Focolari presenti nei Paesi arabi e che vogliono mettere in pratica l’amore evangelico, come stanno affrontando l’avanzata dell’Is? Sentiamo Rita al microfono di Adriana Masotti: 

R. - Forse, in questa situazione, l’amore e l’unità vengono purificati proprio per il dolore che si vive. Eravamo veramente tutti scioccati davanti a quest’ultima tragedia, quando cioè questi terroristi sono entrati in tutti i villaggi del nord dell’Iraq e da un giorno all’altro, anzi la notte stessa, abbiamo visto migliaia di persone arrivare, senza niente…. Sì, un dolore molto grande! E ti domandi cosa sta succedendo e se è ancora vero quello a cui crediamo, quello a cui abbiamo dato la vita… Ma poi forse è proprio questo il momento della verifica e quindi…  quello che ci ha dato la certezza è uscire da noi stessi e andare incontro a queste persone: accogliere anche trenta persone nella propria casa e vedere che hanno bisogno di qualsiasi cosa. Una nostra famiglia in Iraq, ad esempio, ha accolto 40 persone in casa propria e ad un certo punto il padre, dopo aver sistemato tutti, rendendosi conto che non c’era più un angolo libero nella casa, si è ritrovato a dormire in macchina, fuori… Però amando l’altro anche in quel momento trovava la pace, la forza. Una quarantina di persone, invece, si erano rifugiate in un’altra zona del nord dell’Iraq, dove abbiamo due o tre famiglie, che hanno aperto loro le proprie case. Vedendo che tutti erano angosciati e turbati si sono radunati, tutti insieme, a pregare il Rosario: adesso sono in 60 e ogni sera si aggiunge qualcuno del villaggio e pregano, pregano per la pace, ma pregano anche per i terroristi. Hanno anche raccontato che rendendosi conto che qualcuno aveva bisogno di coperte, hanno messo insieme un po’ di soldi che avevano per andare a comprare una cosa e poi un’altra; ma poi mancavano ancora dell’ altro e la Provvidenza ha fatto arrivare altri soldi… Dicevano: la piccola somma che noi abbiamo messo, pur non avendo granché, ne ha attirata un’altra e un’ altra e questa somma piccola non finiva più! Io mi rendo conto che è questo amore autentico, forse distillato dal dolore, che ci fa vedere e ci fa toccare che l’amore è più forte. Personalmente ho visto gente che non aveva più niente, ma aveva mantenuto la fede e, sentendo la solidarietà degli altri, ha ritrovato il senso della vita, dell’amore, della pace vera e ci crede. Anzi ora sono testimoni ancora più forti.

D. - I rapporti tra le comunità dei Focolari nei Paesi che tu conosci e i musulmani come sono attualmente?

R. - Adesso in Iraq è più difficile, perché le parti sono un po’ divise: dove sono i cristiani, ci sono praticamente pochi musulmani. Non abbiamo tantissimi contatti. Però la gente si vuole bene: ha sempre vissuto insieme. E’ questa politica che viene a manipolare i rapporti. In Giordania, invece, c’è un gruppo di musulmani che condivide la nostra spiritualità. Ricordo che quando sono arrivate in Giordania alcune famiglie irachene sfollate, abbiamo raccontato alla nostra comunità quanto stesse accadendo in Iraq. Erano presenti anche una decina di musulmani - noi eravamo un centinaio - ed io ho visto che la prima reazione, immediata, veniva proprio dai musulmani che hanno detto: “Non è possibile quanto sta accadendo! Questi sono nostri fratelli: apriamo noi per primi le nostre case!”. C’è un dolore grande, in loro, per quanto sta accadendo a causa della violenza degli estremisti. Non osavano dirlo, perché si vergognavano, ma volevano farci capire che questa non è la loro religione, perché questo è sfruttare la religione per la violenza, per l’odio… Con alcuni abbiamo dei rapporti molto belli. Nella verità, anzi, ancora di più tu senti di dover essere vero cristiano per entrare in rapporto con un musulmano: non ci sono compromessi, non c’è confusione. Anzi ognuno di noi cerca con l’altro di essere il meglio di sé, di essere un vero cristiano; e il meglio di sé, per loro, è avere il coraggio di far cadere ciò che non è per l’uomo, che non è amore, che loro dicono “misericordia”. Ma riusciamo… e andiamo avanti…

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Giornata contro la pena di morte: aumentano Paesi abolizionisti

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Si celebra oggi la Giornata mondiale contro la pena di morte. Ancora numerosi i Paesi che applicano la pena capitale, giudicandolo un deterrente contro il crimine, anche se i dati sconfessano la sua efficacia. Ma la situazione anno dopo anno è in lieve miglioramento: in aumento i Paesi abolizionisti. Ad analizzare la situazione attuale, Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International al microfono di Paola Simonetti: 

R. – I Paesi che non applicano più la pena di morte sono ormai 140. Quelli che ce l’hanno ancora, nelle leggi, sono 58, ma negli ultimi due anni il numero di quelli che, effettivamente, hanno usato la pena di morte si colloca intorno ai 20, 22. Andrà così anche quest’anno. E’ ovvio ricordare che dietro questi numeri ci sono delle vite umane ed è importante sottolineare che sebbene la pena di morte sia applicata in poco più del 10 per cento della comunità internazionale, è prevista in Paesi estremamente popolosi ed è applicata in modo massiccio. In Cina, in Iran, in Arabia Saudita, in Iraq, negli Stati Uniti, ogni anno sono migliaia le esecuzioni, soprattutto per demerito della Cina, dove la pena di morte è applicata in maniera veramente spaventosa.

D. – Nei Paesi dove viene ancora eseguita, perché è così difficile estirparla come pratica?

R. – Nei Paesi del G8, giusto per identificare una categoria, come Stati Uniti e Giappone, permane l’idea che la pena di morte abbia un carattere retributivo, cioè si colpisce nella stessa misura una persona che ha commesso un crimine orribile quale l’omicidio, spesso in circostanze particolarmente efferate. E c’è anche l’idea, negli Stati Uniti soprattutto, che la pena di morte dia conforto ai familiari di chi ha subito un crimine violento. Va detto che, proprio negli Stati Uniti, sempre di più sono le famiglie colpite dalla criminalità, che chiedono allo Stato di non farsi giustizia in quel modo, nel loro nome, cioè con la pena di morte. Poi ci sono Paesi nei quali la pena di morte è difficile da scalfire, intanto perché non è possibile contestarne l’uso. Ci sono Paesi in cui la pena di morte non è l’unica violazione dei diritti umani, ma ad esempio è impossibile esprimere un’opinione al riguardo. Paesi nei quali si ritiene che la pena di morte assolva anche un dovere di controllo sociale, non soltanto sui comportamenti penali, ma anche sui comportamenti ordinari. Penso a tutti i Paesi del Medio Oriente in cui, in modo più o meno radicale, è applicata la sharia. Sono Paesi nei quali i comportamenti di natura morale, che non sono considerati assolutamente reati dal resto del mondo, sono puniti con la pena capitale. Penso all’apostasia, penso all’adulterio e altro ancora. In questi Paesi, laddove non c’è un dibattito pubblico, va avanti il mito che la pena di morte è desiderata dalla popolazione. Se si desse la parola alla popolazione, probabilmente non sarebbe così evidente.

D. – Nei Paesi dove per legge ancora c’è la pena di morte, ma di fatto non si applica più, cosa incide?

R. – Nei Paesi in cui la pena di morte c’è, ma non viene applicata, viene considerata uno spauracchio. Faccio l’esempio del Marocco, dove sono 20 anni che non c’è un’esecuzione, però ci sono condannati a morte che stanno in presunta attesa dell’esecuzione da 15 anni. Rimane lì, quindi, come un monito di presunta deterrenza. Poi, in realtà, scopriremo che la deterrenza non c’è. L’idea che si debba uccidere chi ha ucciso, e che questo serva a dimostrare che non si deve uccidere, è un’idea priva di qualunque fondamento. Lo dimostrano tutti gli studi effettuati nel mondo.

D. – La giornata di oggi rilancia il ‘no’ forte, il monito contro la pena di morte. Però, secondo voi, come organizzazione, quali sono i passi realmente necessari per far almeno progredire l’abolizione delle esecuzioni nel mondo?

R. – Ma, intanto, anche quest’anno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite si arriva con una risoluzione che chiede una moratoria sulle esecuzioni, un dibattito all’interno dei Paesi mantenitori, in vista della progressiva e definitiva abolizione. E sarà importante che questa risoluzione passi con un numero ancora più elevato di voti a favore e con un numero minore di astensioni e soprattutto di voti contrari. E poi c’è il lavoro, che viene fatto fuori dal Palazzo di Vetro, costantemente, nei confronti dei Paesi mantenitori, soprattutto nei confronti di quei Paesi che, appunto, non hanno usato la pena di morte per anni e che potrebbero avviarsi verso l’abolizione. Poi, il lavoro ancora più quotidiano che c’è da fare è quello di mobilitarsi per salvare vite umane. E’ quello che Amnesty International fa tutti i giorni con risultati a volte positivi, a volte meno. Mi piace ricordare che proprio due giorni fa in Iran, grazie ad una mobilitazione globale, è stata sospesa l’esecuzione di Reyhaneh Jabbari, una donna che era stata giudicata colpevole dell’omicidio di un uomo che l’aveva aggredita sessualmente e che per questo era stata condannata all’impiccagione.

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Alluvione Genova, una vittima. Il dolore del card. Bagnasco

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E’ stata prolungata fino alle 24 l’allerta a Genova, colpita questa notte da un nubifragio. Il bilancio è pesante: Un morto, danni alla città e ai privati, scuole chiuse, palazzine evacuate. Alessandro Guarasci: 

Genova ancora una è flagellata da acque fango. Una notte di piogge intensissime ha fatto straripare i torrenti, soprattutto il Bisagno. Poco fa un treno è uscito dai binari. Ieri sera, tra le 22 e le 23 sono caduti 150 mm d'acqua su un terreno ormai saturo. Oggi, 25 mm in un'ora e gli intervalli di tempo, tra un acquazzone e l'altro, si fanno sempre più stretti. Ci sono polemiche per la mancata allerta, ma i meteorologico definiscono quanto avvenuto del tutto imprevedibile. Critico il presidente della Regione Claudio Burlando. L’agenzia per la Protezione Ambientale, l’Arpal, però afferma: “non è questo il momento delle polemiche. La situazione è critica e tale rimarrà fino alle prime ore di domani”. Intanto la procura ha aperto un fascicolo per capire il perché dei ritardi nella comunicazione. Un fascicolo potrebbe essere aperto anche per la morte dell'infermiere Antonio Campanella, 57 anni, annegato in via Canevari durante l'alluvione della notte. Abbiamo sentito il direttore della Caritas di Genova, don Marino Poggi:

R. - Sta piovendo a dirotto, continua a scrosciare, poi rallenta un attimo ... Il timore è che esondino altri torrenti affluenti dei grossi torrenti del Bisagno perché il guaio è questo. Poi la zona della foce del Bisagno è in grande difficoltà perché comunque piovendo la pressione dell’acqua non rallenta.

 D. - Ci sono stati, da quanto si sa, anche episodi di sciacallaggio in città. A voi risulta?

 R. - Non risulta il fatto comprovato; se ne parla. Io andrei con cautela, nel senso che certamente il tentativo di approfittare di qualche cosa c’è, ad esempio nei negozi.

 D. - Le autorità vi hanno coinvolto per assistere la popolazione in questo momento di difficoltà?

 R. - Loro sanno che noi ci attiviamo, e quindi hanno in qualche modo la certezza della nostra rete di gruppi di attivi. Ad esempio, i preti con il loro gruppi di ragazzi sono andati in certe zone a rischio. C’è stata una collaborazione piena.

 D. - Voi in questo momento come siete intervenuti?

 R. - Siamo intervenuti con gruppi di giovani in due zone molto colpite, una di questa è la zona di Sturla. Quello che possiamo fare, in qualche modo, è tenere conto delle indicazioni della Protezione Civile, che non vuole che alcune cose siano fatte da noi perché spettano a loro. Mi pare che ci sia preoccupazione anche per il futuro. Questo sì.

Il cardinale arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco ha espresso dal Sinodo il suo profondo dolore per quanto accaduto. Ascoltiamolo al microfono di Paolo Ondarza: 

R. – Questo ripropone la situazione logistica di Genova, viaria, i vari fiumi, i vari torrenti, che facilmente si intasano e quindi esondano invadendo negozi, abitazioni, chiese, magazzini… Quindi, con gravissimi danni. Mi hanno detto che ci sono sei o sette parrocchie in gravi difficoltà, vuol dire che ci sono zone – parrocchie non vuol dire chiese, ma zone – evidentemente attorno al torrente del Bisagno, al torrente Sturla, come accadde già qualche anno fa. Sono già molto attivi tanti volontari, perché la situazione possa riprendere e risolversi rapidamente. Però, ripeto, il problema di fondo, che è quello logistico, per Genova resta.

D. – Purtroppo sono situazioni che si ripetono non solo a Genova: ultimamente le notizie di queste “bombe d’acqua” si susseguono in varie zone d’Italia…

R. – Sì, anche questa è stata proprio una bomba d’acqua, che anzi si sta ripetendo perché mi dicono che anche lì, in questo momento, le cose si alternano come clima, tra pioggia leggera e improvvise bombe d’acqua. Quindi, questa situazione fa parte di uno sconvolgimento climatico che è in atto. Su questo il problema, evidentemente, è più grande - per quanto riguarda le bombe d’acqua, cosiddette – sia a Genova, che in altre parti d’Italia e del mondo. Io, domani mattina, andrò a Genova; ritornerò – a Dio piacendo – domani sera, almeno per farmi presente in queste cinque, sei, sette parrocchie e, come ho fatto le altre volte, vedere la situazione delle strade ma soprattutto della gente, i negozianti in modo particolare.

 

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La Caritas di Roma compie 35 anni. Mons. Feroci: cresce povertà morale

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35 anni fa nasceva la Caritas di Roma. Oggi, di fronte ad una città che cambia, ci si interroga su quali siano le nuove forme di povertà nella capitale. Per un bilancio dell'attività svolta in questi anni dall'organismo cattolico, Lucia Fiore ha intervistato il direttore della Caritas romana, mons. Enrico Feroci

R. – Io credo che l’intuizione di Paolo VI, così bella e così ricca, abbia dato un volto nuovo alla presenza della Chiesa sul territorio, perché ha voluto la Caritas come realtà pedagogica, per la comunità cristiana. E’ stata interpretata da mons. Luigi Di Liegro, il primo direttore della Caritas di Roma, in maniera molto ricca, molto egregia. E in 35 anni noi abbiamo, qui a Roma, oggi, una presenza di segno molto bello, molto forte. Io sto parlando in questo momento dalla Cittadella della Carità Santa Giacinta, dove ci sono tante “opere segno”. La comunità cristiana, infatti, proprio vedendo quello che molti volontari, operatori fanno per la città, può rendersi conto che può svolgerlo a sua volta nelle comunità parrocchiali, nelle realtà territoriali. Quindi è stato quasi un motore di avviamento di una macchina. La macchina, che è la comunità cristiana, sta camminando - mi sembra - in maniera molto bella. Il motore di avviamento, che è la Caritas, ha fatto sì che questa macchina camminasse e andasse avanti. E’ ovvio che la Caritas non può mettersi al posto della comunità cristiana, come la comunità cristiana non può prescindere da chi l’avvia e la rende capace di poter rispondere ai bisogni dell’uomo di oggi.

D. – Quali sono le nuove forme di povertà che stanno emergendo?

R. – Io davanti a questa domanda mi interrogo sempre e cerco di dare una risposta ad ampio raggio. Molte volte si pensa che – ed oggi è vero – aumentano i poveri, perché si perde il lavoro, perché si perde la casa, perché non si hanno prospettive per il futuro. Troviamo delle famiglie che vivono per la strada o persone che sono veramente senza speranza, perché perdono il lavoro. Ma io credo che la grande povertà, oggi, sia una povertà di tipo etico. Oggi, infatti, vediamo uno spaccato della gioventù che non ha un futuro, che non ha un domani; troviamo una violenza assurda, troviamo - quello che dicono i sociologi e lo troviamo proprio sul campo - l’evaporazione della figura del padre; i giovani che non solamente implodono con patologie molto forti, ma soprattutto una società che sta implodendo in queste patologie discriminanti e quindi non aperte verso gli altri. Questa mi sembra che sia la povertà di oggi. Il nostro compito, quindi, non è solamente quello di dare un piatto di minestra, di dare un letto, di dare un tetto. Queste sono risposte risalenti forse ai primi tempi della Caritas. Oggi dovremmo attrezzarci a dare risposte ancor più variegate e forse meno visibili, ma molto più necessarie. Faccio un esempio: come Caritas abbiamo messo in piedi un servizio, chiamato servizio alla persona - perché le persone hanno delle ferite invisibili - con psicologi e con terapeuti. Le persone oggi, infatti, non hanno solamente la difficoltà del vivere quotidiano, del mangiare, del dormire, ma hanno delle patologie, delle realtà interiori sconcertanti. I giovani sono senza speranza, senza futuro. Credo che tutti quanti noi, leggendo i giornali, vedendo i mass media, ci rendiamo conto della difficoltà dei giovani, soprattutto nel guardare verso il futuro, verso il domani. E credo che la Caritas debba intercettare questo dolore, questa sofferenza, che è una sofferenza forse non visibile, ma sorda, presente, molto variegata, soprattutto nel mondo giovanile. Questo credo che debba essere oggi la nostra risposta ai problemi attuali.

D. – Come si prepara la Chiesa di Roma a rinnovare il suo impegno per i più poveri?

R. – Noi abbiamo innanzitutto un Osservatorio, lo abbiamo messo in piedi e lo stiamo incrementando sempre di più. Credo che il primo compito della Chiesa e dei cristiani sia quello di aprire gli occhi, ce lo dice il Vangelo. E la parabola del buon samaritano ci dice che: colui che lo vide, si fermò davanti al problema. Quindi noi stiamo incrementando questa capacità di intercettare, di vedere e quindi anche, ovvio, di mettere in piedi servizi. Ma noi siamo qui soprattutto per animare le comunità parrocchiali, perché sul territorio loro sappiano rispondere ai bisogni delle persone. Oggi ci sono bellissime realtà, anche di attenzione ai poveri, negli ambienti parrocchiali. La Caritas, quindi, non è più solamente diocesana, nel senso della centralità dei servizi, ma è una presenza locale, vissuta dalle comunità parrocchiali, dalle prefetture nei vari settori della città.

D. – Quali sono gli obiettivi futuri della Caritas?

R. – Il nostro compito è proprio quello di portare le persone a capire che c’è una prospettiva, c’è un domani, c’è un futuro, c’è una spiritualità, e questo credo che sia anche il compito della Caritas.

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Scuole in prima fila alla Marcia per la pace Perugia-Assisi

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Ci saranno anche 100 scuole alla Marcia per la pace Perugia-Assisi che si terrà domenica 19 ottobre. E poi quasi 500 autonomie locali. Un modo per ribadire che la cultura della tolleranza si costruisce fin da piccoli e attraverso una sensibilizzazione dal basso del mondo della politica. Alessandro Guarasci: 

Cento anni fa la prima guerra mondiale, ora gli organizzatori della Perugia-Assisi vogliono provare a costruire i prossimi 100 anni di pace. E per questo l’aiuto delle nuove generazioni, di chi è sui banchi di scuola è fondamentale. Ai ragazzi saranno dati compiti concreti nell’organizzazione della marcia che, da 46 anni a questa parte si snoda nel cuore dell’Umbria per 24 chilometri. Dunque i giovani leggeranno poesie, balleranno, porteranno striscioni. Oggi, con l’avanzata dello Stato Islamico e i bombardamenti della colazione internazionale in Siria e in Iraq, il futuro è quanto mai incerto. Il presidente della Tavola per la Pace Flavio Lotti:

"Quello che sta accadendo è purtroppo la tragica conseguenza di una politica assente, una politica che per moltissimi anni ha ignorato i veri drammi in corso e, anzi, ha finito per peggiorarli".

Dunque, gli organizzatori propongono una globalizzazione della fraternità, che, ricalcando quanto ha detto il Papa, deve prendere il posto della globalizzazione dell’indifferenza. La marcia infatti non si concluderà il 19 ottobre, ma proseguirà con iniziative in tante città. Tra tutte spicca “Natale di pace a Betlemme” che, dal 20 al 27 dicembre vedrà arrivare nella città palestinese i rappresentanti di 100 città per rinnovare l’impegno della pace per il Medio Oriente.

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Nella Chiesa e nel mondo



Liberia: annullate elezioni al Senato per epidemia di Ebola

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L’epidemia di Ebola arriva a condizionare anche il cammino democratico di uno dei Paesi più colpiti, la Liberia. Le elezioni per il Senato, in programma nel Paese martedì prossimo, sono state annullate perché – informa la Misna – pericolose per la diffusione del virus e quindi anche a rischio di irregolarità, vista la non opportunità di dispiegare osservatori e responsabili di seggio. La decisione è stata adottata ieri sera dalla presidente liberiana, Ellen Johnson Sirleaf, sulla base di poteri straordinari assunti ad agosto proprio per l’emergenza Ebola. Nei giorni scorsi, la Commissione elettorale della Liberia aveva comunicato di non aver potuto formare e dispiegare i circa 25 mila addetti necessari allo svolgimento delle elezioni nei 4.700 seggi del territorio nazionale. Da ricordare che più della metà dei decessi causati dell’epidemia di Ebola sono stati registrati in Liberia. (A.D.C.)

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Mons. Bertin: promuovere sviluppo per vincere terrorismo in Somalia

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“Alle operazioni militari deve fare seguito un reale sviluppo economico e la creazione di strutture dello Stato se si vuole stabilizzare la Somalia”: è quanto dice all’Agenzia Fides mons. Giorgio Bertin, già vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio, capitale della Somalia, dove nelle ultime settimane le truppe dell’Amisom (Missione dell’Unione Africana in Somalia) sono riuscite a conquistare alcune importanti roccaforti degli estremisti Shabaab. “Gli Shabaab non sono stati ancora sconfitti, e di fronte all’offensiva condotta dalle truppe somale e dell’Amisom potrebbero nascondersi tra la popolazione per poi ricorrere al terrorismo. Per convincere la popolazione a schierarsi con lo Stato occorre che questo porti dei vantaggi agli abitanti in termini di sviluppo economico e sociale, come scuole e servizi sociali” spiega mons. Bertin.

“Il problema non è tanto la mancanza di fondi, visto che i donatori internazionali, come l’Unione Europea, da anni contribuiscono finanziariamente agli sforzi per stabilizzare la Somalia, ma è la corruzione locale che impedisce al denaro di arrivare dove serve” continua il presule. “Ad esempio, i soldati somali in diverse occasioni hanno venduto le loro armi agli Shabaab, quando addirittura non si sono arruolati nelle loro file. Questo perché da mesi non ricevevano lo stipendio, regolarmente versato dall’Ue ma che finiva disperso nelle trafile burocratiche interne dell’amministrazione somala; in pratica qualcuno in alto si appropriava di questi fondi”.

L’instabilità della Somalia si somma a quella di altri Paesi vicini, non ultimo lo Yemen, in preda ad una guerra civile che ha ormai seriamente compromesso le istituzioni statali. Tra Somalia e Yemen i flussi commerciali leciti e illeciti sono comunque costanti: “Questi flussi illeciti – afferma mons. Bertin - traggono nutrimento dall’instabilità dei due Paesi, finendo per alimentare le diverse fazioni in lotta. Ci sono traffici di armi, di esseri umani e di Khat, la droga tradizionale del Corno d’Africa. Quest’ultima è coltivata soprattutto in Etiopia, Kenya e nello Yemen”.

A questo proposito mons. Bertin nota che “in un Paese come la Somalia dove gli aiuti umanitari in diverse occasioni fanno fatica ad arrivare, le spedizioni di Khat non si interrompono mai. Ci sono ‘aerei del Khat’ che fanno la spola regolare tra Mogadiscio e il Kenya, che sono utilizzati come aerei passeggeri sulla via del ritorno a Nairobi, una volta scaricata la droga in Somalia. In alcune occasioni sono l’unico mezzo di collegamento tra Mogadiscio e il resto del mondo, come ho potuto constatare di persona”. Mons. Bertin conclude sottolineando che “Il Khat è un problema sociale ancor prima che sanitario. La gente spende una parte importante dei suoi miseri guadagni per comprare la sua dose, a scapito delle necessità della propria famiglia”.

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Messico: lettera dell’arcivescovo di Acapulco su tragedia Iguala

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“Voglio esprimere il mio dolore e quello della Chiesa cattolica per tutte le conseguenze derivate dalla tragedia di Iguala. Abbiamo bisogno di vedere il dolore, così può diventare un'opportunità per costruire la solidarietà con tutti coloro che soffrono, e diventare anche responsabilità, in modo che queste tragedie non si ripetano”. Sono le parole della lettera di mons. Carlos Garfias Merlos, arcivescovo di Acapulco, in Messico, riportate in un comunicato della locale Conferenza episcopale e rese note dall’agenzia Fides. Il 26 settembre, scorso, circa 80 studenti della scuola "Normal Rural Raúl Isidro Burgos", dalla città di Ayotzinapa a Iguala, nello Stato di Guerrero, si stavano organizzando per raccogliere fondi per pagare le spese dell’istituto scolastico, che nelle zone rurali rappresenta l’unico riferimento educativo e dove spesso si formano anche i gruppi dirigenti dell'opposizione. Mentre lasciavano Iguala, alcune pattuglie della polizia municipale hanno tentato di bloccare gli autobus, che non si sono fermati, quindi gli agenti hanno cominciato a sparare. Poco dopo, quando una parte degli studenti aveva organizzato una conferenza stampa per denunciare la violenza subita, altri uomini in borghese, riconosciuti da molti come elementi della polizia municipale, hanno attaccato di nuovo il gruppo. Il bilancio delle varie aggressioni è stato inizialmente di sei morti, tre dei quali studenti, e venti feriti. Cinquantasette giovani sono stati sequestrati dagli uomini armati. Almeno venti di loro, secondo testimoni oculari, sono stati caricati a forza sui pick-up da agenti della polizia municipale. In questi ultimi giorni, il governo centrale ha deciso di inviare forze federali a investigare sull’accaduto. Sono state scoperte sei fosse comuni clandestine nei dintorni di Iguala, dove sono stati rinvenuti i corpi carbonizzati di 28 persone. Si sospetta che molti possano essere degli studenti, assassinati con l’aiuto del gruppo criminale Guerreros Unidos. Il presidente della Repubblica, Enrique Peña Nieto, ha disposto che siano accelerate le indagini sul caso, che ha descritto come "un atto barbarico". Nella sua lettera alle famiglie e ai dirigenti scolastici, l’arcivescovo di Acapulco, oltre ad assicurare la sua vicinanza e la sua preghiera, sottolinea: “La tragedia di Iguala, con gli uccisi e i dispersi, ha portato a una crisi con implicazioni politiche nello Stato di Guerrero e ha accresciuto la consapevolezza dei problemi nella zona, che hanno bisogno di essere affrontati con la responsabilità di tutti i protagonisti sociali e politici”. Mons. Carlos Garfias Merlos è preoccupato anche per la crescente “diffidenza della popolazione nei confronti delle istituzioni pubbliche” e conclude sollecitando le autorità a risolvere il caso e ad informarne la popolazione. (G.A.)

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Capo Verde: missionari al lavoro nei "jardims", le scuole materne

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Nell’arcipelago di Capo Verde, composto da dieci isole, nove delle quali abitate da gente originaria di almeno tre continenti (Africa, Europa e America), la famiglia è pressoché inesistente. Tuttavia i bambini, pur essendo molto numerosi, non sono abbandonati perché dove non arrivano i soliti nonni, arrivano i missionari con i "jardims" (scuole materne) aperti fino a mezzogiorno. Tra i religiosi primeggiano in questa provvidenziale attività i Frati Minori Cappuccini, che hanno aperto il primo jardim nell’isola di Brava 54 anni fa e oggi ne sostengono 32, costruiti ex novo o adeguando vecchie strutture soprattutto nelle aree rurali, assistendo oltre duemila ragazzi con personale debitamente preparato per la loro formazione umano-cristiana. Servendosi dell’Amses (Associazione missionaria solidarietà e sviluppo), i missionari garantiscono non solo il mantenimento delle strutture, ma un pasto al giorno per tutti e l’acquisto del materiale didattico. Inoltre, a Santa Cruz, nell’isola di Santiago, hanno aperto "Casa Manuela Irgher" per l’accoglienza delle ragazze madri e dei loro figli, aiutandole a reinserirsi dignitosamente nel tessuto sociale e familiare attraverso il lavoro. (A cura di padre Egidio Picucci)

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Seoul: una mostra ricorda la visita di Papa Francesco

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Una grande mostra fotografica farà rivivere alla Sud Corea i momenti più significativi della visita di quest’estate di Papa Francesco. L’iniziativa è promossa dall’arcidiocesi di Seoul e ha l’obiettivo di raccontare quei cinque giorni - dal 13 al 18 agosto - attraverso cinquanta istantanee e altre testimonianze che hanno segnato il viaggio del Pontefice. “Alzati e risplendi” è il tema dell’esposizione che propone, tra l’altro, anche il messaggio e la firma apposta in calce da Francesco prima della Messa per la riconciliazione nella cattedrale di Myeong-dong. “Alla comunità cattolica di Seoul. Prego ogni giorno affinché ciascuno diventi lievito del Vangelo nella città. Vi chiedo di pregare per me. Gesù Cristo vi benedica e la Vergine vi protegga”: è il testo che verrà esposto nella rassegna, unitamente alla sedia e al tavolo utilizzati dal Santo Padre per scrivere il messaggio. Inoltre, verranno opportunamente sistemati nella galleria gli oggetti sacri impiegati durante la celebrazione del 18 agosto e la medaglia di bronzo con i 124 martiri donata dal Papa all’arcidiocesi. “Vogliamo tenere vivo il ricordo di quei momenti vissuti con il Papa e preghiamo affinché i suoi insegnamenti rimangano impressi. La riconciliazione e il perdono su tutti”, ha detto Padre Matthia Hur, portavoce dell’arcidiocesi. La mostra aprirà i battenti il 15 ottobre prossimo. (D.D.)

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Si è spento il padre gesuita Angelo Macchi

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Si è spento ieri a Roma il padre gesuita Angelo Macchi, firma storica delle riviste della Compagnia di Gesù “Civiltà Cattolica” e “Aggiornamenti Sociali”. Aveva appena compiuto 89 anni. Padre Macchi era nato a Inveruno (Milano) l’8 ottobre 1923. Entrato nella Compagnia di Gesù il 9 ottobre 1942 e ordinato sacerdote l’8 luglio 1956, si laurea in legge a Padova e dopo un periodo di formazione negli Stati Uniti, nel 1967 è nominato direttore del Centro Studi Sociali San Fedele e nel 1974 superiore della stessa comunità religiosa a Milano.

Nel 1981 è nominato direttore del mensile Aggiornamenti Sociali, dove commenta le vicende politiche italiane e il ruolo dei cattolici nella vita pubblica. Nel 1992 diventa membro del Collegio degli scrittori della Civiltà Cattolica, dove resterà fino al 1998, dedicandosi soprattutto alle questioni internazionali. I funerali si sono svolti oggi nella cappella della Civiltà Cattolica a Roma.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 283

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.