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Sommario del 13/10/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa: non rimanere chiusi nei propri sistemi, aprirsi alle sorprese di Dio

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Aprirsi alle sorprese di Dio, non chiudersi ai segni dei tempi. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Commentando le parole di Gesù ai dottori della legge , il Papa ha esortato i fedeli a non rimanere attaccati alle proprie idee, ma a camminare con il Signore trovando sempre cose nuove. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

Gesù parla ai dottori della legge che gli chiedono un segno e li definisce “generazione malvagia”. Papa Francesco è partito da questo passo del Vangelo per soffermarsi sul tema delle “sorprese di Dio”. Tante volte, ha osservato, questi dottori chiedono dei segni a Gesù, e Lui gli risponde che non sono capaci di “vedere i segni dei tempi”:

“Perché questi dottori della legge non capivano i segni del tempo e chiedevano un segno straordinario (Gesù gliel’ha dato dopo), perché non capivano? Prima di tutto, perché erano chiusi. Erano chiusi nel loro sistema, avevano sistemato la legge benissimo, un capolavoro. Tutti gli ebrei sapevano che cosa si poteva fare, che cosa non si poteva fare, fino a dove si poteva andare. Era tutto sistemato. E loro erano sicuri lì”.

Per loro, ha soggiunto, erano “cose strane” quelle che faceva Gesù: “Andare con i peccatori, mangiare con i pubblicani”. A loro, ha detto, “non piaceva, era pericoloso; era in pericolo la dottrina, quella dottrina della legge, che loro”, i “teologi, avevano fatto nei secoli”. Il Papa ha riconosciuto che “l’avevano fatta per amore, per essere fedeli a Dio”. Però “erano chiusi lì”, “semplicemente avevano dimenticato la storia. Avevano dimenticato che Dio è il Dio della legge, ma è il Dio delle sorprese”. D’altro canto, ha detto Francesco, “anche al suo popolo, Dio ha riservato sorprese tante volte” come quando lo ha salvato “dalla schiavitù d’Egitto”:

“Loro non capivano che Dio è il Dio delle sorprese, che Dio è sempre nuovo; mai rinnega se stesso, mai dice che quello che aveva detto era sbagliato, mai, ma ci sorprende sempre. E loro non capivano e si chiudevano in quel sistema fatto con tanta buona volontà e chiedevano a Gesù: ‘Ma, fai un segno!’. E non capivano i tanti segni che faceva Gesù e che indicavano che il tempo era maturo. Chiusura! Secondo, avevano dimenticato che loro erano un popolo in cammino. In cammino! E quando ci si incammina, quando uno è in cammino, sempre trova cose nuove, cose che non conosceva”.

E, ha aggiunto, “un cammino non è assoluto in se stesso”, è il cammino verso “la manifestazione definitiva del Signore. La vita è un cammino verso la pienezza di Gesù Cristo, quando verrà la seconda volta”. Questa generazione, ha ripreso, “cerca un segno” ma, dice il Signore, “non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona”, cioè “il segno della Resurrezione, della Gloria, di quella escatologia verso la quale andiamo in cammino”. E questi dottori, ha ribadito, “erano chiusi in se stessi, non aperti al Dio delle sorprese, non conoscevano il cammino e nemmeno questa escatologia”. Così, quando nel Sinedrio Gesù afferma di essere il Figlio di Dio, “si stracciarono le vesti”, si scandalizzarono dicendo che aveva bestemmiato. “Il segno che Gesù dà a loro – ha affermato - era una bestemmia”. E per questo motivo “Gesù dice: generazione malvagia”.

Costoro, ha osservato ancora il Papa, “non hanno capito che la legge che loro custodivano e amavano” era una pedagogia verso Gesù Cristo. “Se la legge non porta a Gesù Cristo – ha ribadito – non ci avvicina a Gesù Cristo, è morta. E per questo Gesù li rimprovera di essere chiusi, di non essere capaci di conoscere i segni dei tempi, di non essere aperti al Dio delle sorprese”:

“E questo deve farci pensare: io sono attaccato alle mie cose, alle mie idee, chiuso? O sono aperto al Dio delle sorprese? Sono una persona ferma o una persona che cammina? Io credo in Gesù Cristo - in Gesù, quello che ha fatto: è morto, risorto e finita la storia – credo che il cammino vada avanti verso la maturità, verso la manifestazione di gloria del Signore? Io sono capace di capire i segni dei tempi ed essere fedele alla voce del Signore che si manifesta in essi? Possiamo farci oggi queste domande e chiedere al Signore un cuore che ami la legge, perché la legge è di Dio; che ami anche le sorprese di Dio e che sappia che questa legge santa non è fine a se stessa”.

E’ “in cammino”, ha riaffermato, è una pedagogia “che ci porta a Gesù Cristo, all’incontro definitivo, dove ci sarà questo grande segno del Figlio dell’uomo”.

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Sinodo. Erdö: pazienza e delicatezza per famiglie ferite. No a soluzioni uniche

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Pazienza e delicatezza per le famiglie ferite. No a soluzioni uniche o alla logica del “tutto o niente”: questa la riflessione centrale della “Relazione dopo la discussione” del Sinodo straordinario sulla famiglia, presentata stamani dal relatore generale dell’Assise, card. Peter Erdö. Annunciato, inoltre, il tema del 14.mo Sinodo generale ordinario, che si svolgerà dal 4 al 25 ottobre 2015: “La vocazione e la missione della famiglia della Chiesa nel mondo contemporaneo”. Il servizio di Isabella Piro: 

Bisogna ascoltare il contesto socio-culturale in cui vivono le famiglie oggi; confrontarsi sulle prospettive pastorali da intraprendere e soprattutto bisogna guardare a Cristo, al suo Vangelo della famiglia. Tira le fila, il card. Erdö, dopo una settimana intensa di dibattito nell’Aula del Sinodo: la sua “Relazione dopo la discussione” fa il punto e suggerisce su quali temi i Circoli minori dovranno lavorare, nei prossimi giorni, per preparare i documenti finali dell’Assemblea.

La famiglia, dunque: realtà “decisiva e preziosa”, “grembo di gioie e di prove, di affetti profondi e di relazioni a volte ferite”, “scuola di umanità”, va innanzitutto ascoltata, nella sua “complessità”. L’individualismo esasperato, la “grande prova” della solitudine, “l’affettività narcisistica” legata alla “fragilità” dei sentimenti, “l’incubo” della precarietà lavorativa, insieme a guerra, terrorismo, migrazioni, deteriorano, infatti, sempre più le situazioni familiari. E’ qui, allora – si legge nella Relazione – che la Chiesa deve dare “speranza e senso” alla vita dell’uomo contemporaneo, facendogli conoscere di più “la dottrina della fede”, ma proponendola “insieme alla misericordia”.

Poi, lo sguardo a Cristo, che “riafferma l’unione indissolubile tra uomo e donna”, ma che permette anche di “leggere in termini di continuità e novità l’alleanza nuziale”. Il principio – spiega il card. Erdö – deve essere quello della “gradualità” per i coniugi di matrimoni falliti, in una “prospettiva inclusiva” per le “forme imperfette” della realtà nuziale:

“Rendendosi necessario un discernimento spirituale, riguardo alle convivenze e ai matrimoni civili e ai divorziati risposati, compete alla Chiesa di riconoscere quei semi del Verbo sparsi oltre i suoi confini visibili e sacramentali. (…) La Chiesa si volge con rispetto a coloro che partecipano alla sua vita in modo incompiuto e imperfetto, apprezzando più i valori positivi che custodiscono, anziché i limiti e le mancanze”.

Occorre, dunque, una “dimensione nuova della pastorale familiare”, che sappia nutrire i semi in maturazione, come quei matrimoni civili connotati da stabilità, affetto profondo, responsabilità nei confronti dei figli e che possono portare al vincolo sacramentale. Anche perché spesso le convivenze o le unioni di fatto non sono dettate da un “rigetto dei valori cristiani”, ma da esigenze pratiche, come l’attesa di un lavoro fisso. Vera “casa paterna”, “fiaccola in mezzo alla gente” – continua il porporato – la Chiesa, allora, deve accompagnare “con pazienza e delicatezza”, “con attenzione e premura i suoi figli più fragili, quelli segnati dall’amore ferito e smarrito”, dando loro “fiducia e speranza”.

In terzo luogo, la “Relazione dopo la discussione” affronta le “istanze pastorali più urgenti” da affidare “alla concretizzazione nelle singole Chiese locali”, sempre in comunione con il Papa. Al primo posto, c’è “l’annuncio del Vangelo della famiglia”, da attuare non per “condannare, ma per guarire la fragilità umana”. E tale annuncio riguarda anche i fedeli:

“Evangelizzare è responsabilità condivisa di tutto il popolo di Dio, ognuno secondo il proprio ministero e carisma. Senza la testimonianza gioiosa dei coniugi e delle famiglie, l’annunzio, anche se corretto, rischia di essere incompreso o di affogare nel mare di parole che caratterizza la nostra società (cf. Novo Millennio Ineunte, 50). Le famiglie cattoliche sono chiamate ad essere esse stesse i soggetti attivi di tutta la pastorale familiare”.

Il Vangelo della famiglia è “gioia”, sottolinea il card. Erdö, e per questo richiede “una conversione missionaria”, così da non fermarsi ad un “annuncio meramente teorico, sganciato dai problemi reali delle persone”. Allo stesso tempo, è necessario agire anche sul linguaggio:

“La conversione deve essere quella del linguaggio perché esso risulti effettivamente significativo. (…) Non si tratta soltanto di presentare una normativa ma di proporre valori, rispondendo al bisogno di essi che si constata oggi anche nei paesi più secolarizzati”.

Essenziale, poi, una “adeguata preparazione al matrimonio cristiano”, perché esso non è solo “una tradizione culturale o un’esigenza sociale”, bensì “una decisione vocazionale”. Senza “complicare i cicli di formazione”, dunque, l’obiettivo è quello di “andare in profondità”, non limitandosi ad “orientamenti generali”, ma rinnovando anche “la formazione dei presbiteri” sull’argomento, grazie al coinvolgimento delle stesse famiglie, la cui testimonianza va “privilegiata”. L’accompagnamento della Chiesa viene suggerito anche per dopo il matrimonio, periodo “vitale e delicato” in cui i coniugi maturano la consapevolezza del sacramento, il suo significato e le sfide che esso comporta.

Allo stesso modo, la Chiesa – continua la Relazione – deve incoraggiare e sostenere i laici impegnati nella cultura, nella politica e nella società, perché non manchi la denuncia di quei fattori che impediscono “l’autentica vita familiare, determinando discriminazioni, povertà, esclusioni, violenza”.

Guardando, quindi, a separati, divorziati e divorziati risposati, il card. Erdö sottolinea che “non è saggio pensare a soluzioni uniche o ispirate alla logica del ‘tutto o niente’”; il dialogo deve continuare, perciò, nelle Chiese locali, “con rispetto ed amore” per ogni famiglia ferita, pensando a chi ha subito ingiustamente l’abbandono del coniuge, evitando atteggiamenti discriminatori e tutelando bambini:

“E’ indispensabile farsi carico in maniera leale e costruttiva delle conseguenze della separazione o del divorzio sui figli: essi non possono diventare un ‘oggetto’ da contendersi e vanno cercate le forme migliori perché possano superare il trauma della scissione familiare e crescere in maniera il più possibile serena”.

Riguardo allo snellimento delle procedure per il riconoscimento della nullità matrimoniale, il Relatore generale del Sinodo ricorda le proposte avanzate in Aula: superare l’obbligo della doppia sentenza conforme, determinare la via amministrativa a livello diocesano, avviare un processo sommario in casi di nullità notoria, ma anche dare rilevanza alla fede dei nubendi per riconoscere o meno la validità del vincolo. Il tutto richiede - sottolinea il porporato - personale chierico e laico adeguatamente preparato, ed una maggiore responsabilità dei vescovi locali.

Quanto all’accesso al sacramento dell’Eucaristia per i divorziati risposati, la Relazione elenca i principali suggerimenti emersi dal Sinodo: mantenere la disciplina attuale; attuare una maggiore apertura per casi particolari, insolubili senza nuove ingiustizie o sofferenze; oppure optare per la via “penitenziale”:

“L’eventuale accesso ai sacramenti occorrerebbe fosse preceduto da un cammino penitenziale – sotto la responsabilità dal vescovo diocesano –, e con un impegno chiaro in favore dei figli. Si tratterebbe di una possibilità non generalizzata, frutto di un discernimento attuato caso per caso, secondo una legge di gradualità, che tenga presente la distinzione tra stato di peccato, stato di grazia e circostanze attenuanti”.

Resta ancora aperta, inoltre, la questione della “comunione spirituale”, per la quale viene sollecitato un maggiore approfondimento teologico, così come viene richiesta una maggiore riflessione sui matrimoni misti e sui “problemi gravi” legati alla diversa disciplina nuziale delle Chiese ortodosse. Quanto alle persone omosessuali, viene sottolineato che esse hanno “doti e qualità da offrire alla comunità cristiana”: la Chiesa sia dunque, per loro, “casa accogliente”, fermo restando il no alle unioni omosessuali e a quelle pressioni di organismi internazionali che legano gli aiuti finanziari all’introduzione di normative ispirate all’ideologia del gender:

“Senza negare le problematiche morali connesse alle unioni omosessuali si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners. Inoltre, la Chiesa ha attenzione speciale verso i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli”.

Nell’ultima parte, la Relazione riprende i temi dell’Enciclica Humanae Vitae di Paolo VI e si concentra sulla questione dell’apertura alla vita, definendola “esigenza intrinseca dell’amore coniugale”. Di qui, il bisogno di un “linguaggio realista” che sappia spiegare “la bellezza e la verità” di aprirsi al dono di un figlio, anche grazie ad un “adeguato insegnamento circa i metodi naturali di regolazione della fertilità” e ad una “comunicazione armoniosa e consapevole tra i coniugi, in tutte le sue dimensioni”. Centrale, inoltre, la sfida educativa, in cui la Chiesa ha “un ruolo prezioso di sostegno” alle famiglie, per sostenerle nelle scelte e nelle responsabilità.

Infine, il card. Erdö sottolinea che il dialogo sinodale si è svolto “in grande libertà e in uno stile di reciproco ascolto” e ricorda che le riflessioni proposte fino ad ora non sono decisioni già prese: il cammino, infatti, proseguirà con il Sinodo generale ordinario, sempre sul tema della famiglia, in programma ad ottobre 2015.

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Mons. Forte: Sinodo, un working in progress nello spirito del Vaticano II

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Nella Sala Stampa della Santa Sede, è stata presentata ai giornalisti la “Relazione dopo la discussione” nell’ambito del Sinodo dei Vescovi dedicato alla famiglia e giunto alla seconda settimana di lavori. Sono intervenuti il cardinale ungherese Peter Erdő, arcivescovo di Esztergom-Budapest, il cardinale filippino Luis Antonio G. Tagle, arcivescovo di Manila, mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, e il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi. Il servizio di Giada Aquilino

Una Chiesa in ascolto delle famiglie, calata nella società di oggi, con tutte le sfaccettature che la realtà contemporanea comporta. Questa, in sintesi, la prima settimana di lavori al Sinodo dei vescovi, rispecchiata nella “Relazione dopo la discussione”. Un ‘working in progress’, lavori in corso, prendendo a prestito le parole del segretario speciale, mons. Bruno Forte, che ha messo in luce il senso di sinodalità inteso non soltanto come “ascoltare tutti”, ma anche “camminare insieme”, maturando e crescendo nel tempo, con umiltà nell’ascolto, così come auspicato da Papa Francesco. In fondo, ha aggiunto mons. Forte, “questo è stato lo spirito del Concilio Vaticano II”. Quella che va emergendo è dunque un’attenzione a una sorta di legge della gradualità:

“La logica vincente non è mai quella del tutto o niente, ma è quella della pazienza del divenire, dell’attenzione alle nuances, alle sfumature, alle diversità, alle complessità delle situazioni. Perché chi non usa questa logica rischia di giudicare le persone e non di capirle, di accompagnarle, di accoglierle. Mi sembra che uno dei dati più belli di questo Sinodo, che la Relatio post disceptationem ha recepito, è questo spirito di compagnia, di accompagnamento e di progressività, di maturazione sul quale naturalmente c’è ancora da fare tanto. Quindi quello di oggi è solo un momento, una tappa. Il lavoro che ci aspetta, soprattutto il contributo dei gruppi, sarà importantissimo per integrare, precisare e sviluppare gli elementi che sono venuti fuori”.

Quindi mons. Forte si è soffermato su un altro tema affrontato all’assemblea, l’accesso al Sacramento dell’Eucaristia per i divorziati risposati e la via penitenziale proposta:

“Un riconoscimento eventuale di colpe che possono esserci state, perché ogni fallimento di un’alleanza nuziale avviene certamente per la responsabilità di entrambi: non è mai giusto scaricare tutto su una sola persona. Quindi è giusto che ognuno prenda coscienza eventualmente dei propri limiti, delle proprie insufficienze e sia disposta a mettersi in ascolto di Dio, per una conversione del cuore”.

Quanto alle persone omosessuali, si è riflettuto su “doti e qualità” che esse possono offrire alla comunità cristiana. Per ciò che concerne le unioni tra persone dello stesso sesso, mons. Forte ha chiarito:

“La Chiesa non condivide che la stessa terminologia ‘famiglia’ possa essere indifferentemente applicata all’unione fra un uomo e una donna, aperta alla procreazione, e all’unione omosessuale. Detto questo, mi sembra evidente che le persone umane coinvolte nelle diverse esperienze hanno dei diritti che devono essere tutelati. Dunque il problema è anzitutto non la equiparazione tout court, anche terminologica, ma naturalmente questo non vuole affatto dire che bisogna allora escludere la ricerca anche di una codificazione di diritti che possano essere garantiti a persone che vivono in unioni omosessuali. E’ un discorso - credo - di civiltà e di rispetto della dignità delle persone”.

Il relatore generale dell’assise, il cardinale Erdő, e il presidente delegato, il cardinale Luis Antonio G. Tagle, soffermandosi sulla Relazione – in attesa del documento finale dei lavori e del messaggio del Sinodo – hanno tratteggiato alcune situazioni particolari delle famiglie nel contesto contemporaneo. Ecco il cardinale Tagle:

“I could give you some ideas...
Potrei darvi alcune idee, per esempio l’impatto della povertà sull’intero tessuto della famiglia, e collegato a questo, i conflitti, le guerre, le battaglie che hanno separato le famiglie; la situazione dei rifugiati. E potete sentire il pianto dei bambini che vogliono stare vicino ai loro genitori, ma che si trovano nei campi dei rifugiati. Questi non sono fatti esterni, sono interni alla famiglia. E come si può dare un aiuto pastorale ai bambini che sono rimasti traumatizzati da queste separazioni? Poi c’è l’immigrazione, specialmente il fenomeno della migrazione forzata. Le persone sono costrette a lasciare le loro famiglie, non a causa di un conflitto, di un conflitto interno, ma perché devono cercare un lavoro altrove, per provvedere ai loro cari. Qual è l’aiuto pastorale per quelle coppie che sono separate, lontane mille miglia l’uno dall’altra? Come possono restare fedeli ai loro coniugi e ai loro bambini? Ora, per esempio, in Asia ci sono matrimoni interreligiosi e la preoccupazione quotidiana è come crescere i bambini”.

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Sinodo. Mons. Fisichella: Chiesa, profezia nel mondo

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Per un commento alla Relatio post disceptationem, Paolo Ondarza ha intervistato il presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, mons. Rino Fisichella

R. - Questa relazione fa emergere in pienezza il dibattito che si è svolto in questa prima settimana. Spesso abbiamo parlato dell’esigenza che ci sia un linguaggio capace di comunicare. Penso che la relazione abbia sviluppato soprattutto questa dimensione.

D. - Ritiene ci siano degli elementi che potrebbero essere aggiunti?

R. - La relazione deve provocare la riflessione nei circoli minori che adesso ci apprestiamo a compiere. Penso che ci sia una parola importante che bisogna fare emergere: la Chiesa rimane sempre profezia nel mondo. Questo significa che noi dobbiamo aiutare le persone a guardare anche al di là del momento presente. Allora la Parola di Dio ci spinge ad essere capaci di critica nei confronti di quelle situazioni che non ci possono lasciare pastoralmente soddisfatti e contenti. Ci sono molte situazioni riguardo la famiglia nella società contemporanea che meritano una parola di aiuto per far comprendere loro il limite che possiedono e soprattutto le contraddizioni a cui vanno incontro.

D. - Può farci qualche esempio?

R. - La convivenza. È vero che ci sono vari tipi di convivenza: c’è una convivenza che è quella determinata da alcuni fattori di ordine economico, finanziario, mancanza di lavoro, disoccupazione; c’è un altro tipo di convivenza che invece è fatta nel profondo disinteresse e indifferenza nei confronti della società, della legge civile, come una forma di scelta individualista. Anche in questo caos, ad esempio, dovremmo essere capaci di dire che questa non può essere la tappa finale, ma deve essere una tappa su cui riflettere anche per la responsabilità che si ha nei confronti delle persone più deboli, in questo caso dei figli.

D. - Questa profezia a cui faceva  riferimento vuol dire ribadire che il disegno di Dio su famiglia e matrimonio è un punto fermo che non cambia con la storia?

R. - Ci sono ovviamente degli elementi che appartengono alla Rivelazione cristiana e ciò che è il contenuto della rivelazione - ovviamente - non può essere modificato. L’indissolubilità del matrimonio cristiano è una novità che Gesù ha portato e che per noi rimane come una ricchezza da condividere nel contesto del mondo contemporaneo.

D. - La crisi della fede, crisi del matrimonio, crisi della società: questo è stato il tema al centro del suo intervento qui in aula del Sinodo…

R. – E’ per la profonda crisi di fede che vive soprattutto l’Occidente che San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco insistono continuamente sul tema della nuova evangelizzazione. Questa nasce proprio dall’esigenza e sull’urgenza di dare una risposta alla crisi di fede. Oggi, con piacere, ho sentito nella Relatio post disceptationem che si insiste sull’esigenza che all’interno della nuova evangelizzazione ci sia - come prioritario - il tema della famiglia.

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Sinodo, la testimonianza di due sposi brasiliani

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Tre le coppie di uditori presenti in aula c’è quella formata da Arturo e Hermelinda Zamberline, responsabili dell’equipe Notre Dame in Brasile. Nel loro contesto, caratterizzato da un clima di crescente secolarizzazione, sono impegnati ad avvicinare e accompagnare i giovani e le coppie in difficoltà alla bellezza del matrimonio cristiano. Lo spiega lo stesso Arturo Zamberline al microfono di Paolo Ondarza

R. – Poca gente in Brasile crede ancora al matrimonio. Si sposano, ma prima di sposarsi convivono e dopo, anni dopo, decidono se sposarsi o meno. Le coppie devono essere evangelizzate, devono essere preparate per un buon matrimonio, in modo che il matrimonio sia visto come un vero Sacramento e non solo come un’unione di due persone.

D. – Perché questa preparazione sia efficace, perché quindi porti ad un matrimonio solido, secondo lei, quali sono gli elementi principali nella formazione?

R. – Le formiamo in modo che vedano il matrimonio come un cammino, una strada di santità, una strada che porta una felicità coniugale che cresce nel tempo. Le sfide in Brasile sono grandi, come penso qui in Italia e in tutto il mondo. Principalmente i giovani, ogni giorno, sono più lontani dalla Chiesa. Noi tentiamo di avvicinarli.

D. – I giovani sono lontani perché hanno paura del matrimonio, hanno sfiducia nella Chiesa?

R. – Non so se sia paura del matrimonio … Non pensano che il Sacramento sia importante. E’ più facile oggi vivere insieme, senza avere un impegno. Se domani mi stanco: “Ciao e vado via, vado a cercarmene un’altra o un altro”.

D. – Probabilmente quello che emerge è più la fatica dell’impegno che la bellezza e la realizzazione che il matrimonio può dare ad una coppia...

R. – Sì, non lo guardano come un Sacramento che porta felicità, una grazia di Dio, una benedizione di Dio.

D. – Come Equipe Notre-Dame siete vicini anche a famiglie che hanno delle sofferenze al loro interno; parlo di coppie che non stanno più insieme, che si sono separate...

R. – Noi, come Equipe, lavoriamo nelle pastorali familiari, quindi cerchiamo di riportare alla Chiesa quelle famiglie che non sono più insieme, che sono divorziate. Le aiutiamo a reintegrarsi all’interno della Chiesa cattolica.

D. – Tanto spesso si parla di persone che si separano e si pensa che questo sia irrimediabile, mentre probabilmente con un accompagnamento amorevole, forse in quest’ottica si legge anche la misericordia della Chiesa, le persone possono essere anche aiutate a capire cosa hanno sbagliato e a riprendere il cammino...

R. – Il cammino sì, giusto. E’ proprio così.

D. – Uno stare accanto nella difficoltà e nella sofferenza, nell’indicare però anche la verità sul matrimonio...

R. – Sì, sì, e lavorare proprio con la verità. E’ impossibile non lavorare con la verità, non dire la verità. Si deve capire che questa è la strada migliore da percorrere.

D. – Secondo voi, quale dovrebbe essere un messaggio che da quest’aula del Sinodo dovrebbe partire?

R. – Speriamo un risultato positivo, che guardi queste coppie, che aiuti queste coppie, perché possano ritornare sulla strada della Chiesa.

D. – E che insieme incoraggi le coppie che vanno avanti, nonostante le difficoltà?

R. – Noi siamo sposati da 41 anni: non è stata tutti i giorni una luna di miele. Ogni giorno c’è una storia nuova da vincere per andare sempre avanti.

D. – Ogni giorno è un sì...

R. – Ogni giorno è un sì! proprio così.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Nessuno è escluso: all'Angelus il Papa ricorda che la bontà di Dio non ha confini e non discrimina.

Con tenerezza di madre e chiarezza di maestra: la relazione dopo la discussione all'assemblea generale straordinaria del Sinodo dei vescovi.

Una pagina monografica racconta la mostra - che si inaugura giovedì pomeriggio al Braccio di Carlo Magno - su Paolo VI e gli artisti.

Un quadro giuridico per unire le famiglie dei migranti: intervento della Santa Sede a Ginevra.

Un mondo sempre più disuguale: allarme della Banca mondiale.

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Oggi in Primo Piano



Ancora raid anti Is su Kobane, ok di Turchia a uso basi

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In Siria, continuano i raid a guida Usa contro il califfato islamico a Kobane, i miliziani curdi hanno ripreso il controllo di due postazioni nel Sud della città, uccidendo 13 miliziani dell’Is. Intanto, la Turchia ha messo a disposizione della coalizione internazionale le sue basi al confine siriano, mentre in Iraq aumenta il pericolo di un accerchiamento jihadista su Baghdad. Elvira Ragosta ha raccolto il commento di Alberto Negri, inviato del Sole 24Ore: 

R. – I raid aerei non sono affatto sufficienti a fermare le milizie dello "Stato Islamico", non lo sono state a Kobane e non lo sono neppure in Iraq, vista l’avanzata delle truppe del califfato verso la provincia di Al Anbar e verso Baghdad. Quindi, è chiaro che questa strategia di bombardamenti dall’alto deve essere rivista; del resto, lo stesso capo di stato maggiore americano Dempsey l’aveva detto: i bombardamenti aerei sono una parte di questa campagna; poi, bisogna fare la lotta al califfato sul terreno e questa lotta, come sappiamo bene, viene fatta in Iraq dalle milizie sciite - essenzialmente dai curdi di Erbil, di Barzani - e in campo siriano viene combattuta quasi essenzialmente dai curdi, in questa zona a contatto con il confine turco.

D. – Intanto, a Kobane, dopo oltre tre settimane di assedio, è emergenza umanitaria e la Turchia ha messo a disposizione della coalizione anti-Is le sue basi militari al confine siriano…

R. – In realtà l’assedio di Kobane città, dura da tre settimane. L’avanzata del califfato in quel distretto – che era popolato da un milione e 200 mila persone – dura dall’inizio di agosto: hanno conquistato 380 villaggi intorno alla capitale Kobane; quindi, l’avanzata dura da molto tempo e c’è un’emergenza umanitaria evidente, perché sono rimasti pochi dentro Kobane, quasi essenzialmente combattenti. È chiaro che c’è anche un’emergenza umanitaria. Si parlava dell’idea di aprire un corridoio umanitario, ma i turchi per ora non l’hanno fatto perché temono che i combattenti curdi del Pkk – la formazione turca di Abdullah Öcalan – fluiscano verso questo corridoio e vadano a combattere da un’altra parte. La priorità della Turchia non è tanto combattere il califfato; quanto far in modo che i curdi vadano allo stremo, perché l’idea che possa nascere una zona autonoma curda dall’altra parte, evidentemente, infastidisce molto Ankara.

D. – Tornando proprio al tema umanitario, al ruolo delle donne in questa guerra: noi vediamo da un lato una donna di 40 anni alla guida dei combattenti curdi, a Kobane; dall’altro, sulla frontiera irachena, le tantissime prigioniere yazide che vengono vendute come schiave sessuali ai miliziani dell’Is…

R. - Non solo le prigioniere yazide. Delle yazide abbiamo notizie perché c’è stato raccontato, ma dovunque siano entrati hanno fatto prigioniere anche cristiane, donne anche sunnite e sono state asservite ai miliziani, e a quelli islamici. L’esempio curdo, dall’altra parte, è chiaramente quasi scioccante per la differenza; ma qui parliamo di un altro tipo di situazione in cui i partiti curdi, i movimenti di guerriglia curda, sin dall’inizio – 30 anni fa – avevano dato alle donne un ruolo preminente; così preminente da essere entrate nella leadership politica e poi anche in quella militare.

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Scontri in Centrafrica. Parroco di Bangui: forze Onu passive

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Grande tensione a Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana, dove da una settimana si susseguono scontri tra opposte fazioni armate. Dal 15 settembre scorso le forze dell’Onu (Minusca) pattugliano la città, ma l’instabilità iniziata nel marzo 2013 non sembra avere fine. Forte è la paura che il conflitto possa assumere una connotazione religiosa, per l’espansione anche in Africa dell’estremismo islamico. Sulla situazione Sergio Centofanti ha intervistato il nuovo parroco della Cattedrale di Bangui, don Mathieu Bondobo

R. – Tante persone sono state uccise. La città è paralizzata non soltanto dalla paura, perché nella capitale ci sono combattimenti tra vari gruppi armati, ma anche per lo sciopero dei conduttori di taxi e autobus, perché uno di loro è stato ucciso. Quindi dalla settimana scorsa la città è paralizzata. Questa mattina la vita sta riprendendo, però c’è ancora un livello di insicurezza forte nella capitale. La gente vive nella paura: ci sono delle persone armate che vanno a rubare nelle case, rubano le macchine, aggrediscono le persone… E’ un clima di paura!

D. – La Chiesa che cosa può fare in questa situazione?

R. – La Chiesa ha sempre cercato di far sentire la sua voce, di intervenire. La Chiesa è a favore della pace e cerca di parlare ai cuori delle persone, iniziando dalla preghiera, perché il nostro aiuto viene dal Signore. Quindi la Chiesa fa questo: prega e - allo stesso tempo - apre questo corridoio di dialogo… L’unica chiave è questa: parlare e cercare di capirci per uscire da questa situazione, perché con la guerra non possiamo risolvere nulla. La guerra dà vita alla guerra: è una catena, ma noi non possiamo rimanerci chiusi dentro. La Chiesa è a favore della pace, la Chiesa offre la sua voce, la Chiesa incontra le persone, la Chiesa cerca di dare il contributo che è sempre importante in questa situazione.

D. – Si sente la presenza delle forze dell’Onu oppure no?

R. – Questa è una bella domanda. A dire la verità, le forze dell’Onu ci sono: a volte sembra che non agiscano per impedire ciò che sta accadendo, a volte sembra che aspettino che accada il peggio… E’ solo da quel momento che incominciano ad intervenire. Quindi, la popolazione sta cominciando a farsi delle domande su tutto questo, perché non capisce più quale sia il ruolo dell’Onu: alcune di queste situazioni – a dire il vero – si sarebbero potute impedire, se le truppe dell’Onu fossero intervenute prima per fermare tutto questo. C’è un po’ una forma di passività nel loro modo di agire e questa passività non aiuta la popolazione! Il popolo del Centrafrica ha sofferto tantissimo: stiamo dicendo basta alla guerra, ma sembra che la fine di tutta questa situazione sia ancora lontana. Sembra che siamo ancora dentro un sistema che non sappiamo dove ci stia portando.

D. – C’è la paura che l’integralismo islamico entri anche in Centrafrica?

R. – Diciamo che la paura c’è nell’aria, speriamo che non diventi una realtà. Sappiamo che tra questi ribelli ex-Seleka ci sono tanti mercenari di guerra, gente che vivono soltanto per combattere … Quindi c’è anche il rischio del fanatismo, che ovviamente si sente nell’aria. Speriamo che questo non accada. Non siamo ancora a questo punto, ma si sente nell’aria…

D. – Quali sono le speranze?

R. – Le speranze non ci devono mancare! Anche se – ripeto – sembra che ci troviamo in una situazione dove l’uscita non si vede! Vogliamo che questa nostra speranza non sia solo un sogno. Bisogna che questa speranza sia una cosa vera e che le Nazioni Unite e tutti i Paesi del mondo, che ci stanno aiutando, ci diano veramente una mano nel senso vero del termine, per uscire da questa situazione. Il Paese non ha un esercito nazionale: questo è un tema importante. Quindi quando siamo aggrediti, chi ci difende? Queste truppe delle forze internazionali che sono qua? E se loro tardano ad intervenire è peggio! Siamo abbandonati! Tutto comincia però dal popolo del Centrafrica: dobbiamo anche noi convertire il cuore, convertire la nostra mentalità. Perché questo è il nostro Paese e dobbiamo cominciamo ad amarlo: lì sarà l’inizio di una speranza vera! Fin quando continueremo a combatterci fra di noi, questa speranza sarà sempre lontana!

D. – Ma cosa c’è dietro questa crisi centrafricana? Ci sono interessi?

R. – Ci sono senza dubbio degli interessi: questo è il mio parere. Il Paese è tra i più poveri al mondo, ma quando poi si vedono le ricchezze che ha … sembra un grande paradosso! Diamanti, oro, foreste, cotone, uranio… ma il Paese è povero: come si spiega questo? Una piccola analisi della situazione che stiamo vivendo, la storia del Centrafrica, ti fa capire che ogni volta che questo Paese comincia ad avere un inizio di sviluppo forte, arriva un colpo di Stato, che blocca tutto e si ricomincia da capo... Sembra che ci sia una mano dietro - mi viene da dire questo – proprio per gli interessi … ma non è giusto! Non è giusto!

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Da Paesi donatori 5,4 miliardi di dollari in aiuto a Gaza

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5,4 miliardi di dollari per ricostruire di Gaza, dopo gli ultimi sanguinosi scontri con Israele nell’estate scorsa. E’ risultato della Conferenza dei donatori, riunita ieri al Cairo, presenti 50 tra ministri degli Esteri e rappresentanti di organizzazioni internazionali, assente lo Stato ebraico. Ad invocare una pace possibile tra i due popoli è stato il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, giunto stamane a Ramallah in Cisgiordania, per incontrare il premier palestinese Hamdallah, e recarsi poi a Gerusalemme per colloqui nel pomeriggio con il premier e il presidente israeliano, Netanyahu e Rivlin. Il servizio di Roberta Gisotti: 

“Sono molto preoccupato per le provocazioni che si ripetono nei luoghi santi di Gerusalemme. Devono cessare”, ha detto Ban Ki moon, condannando ancora una volta la colonizzazione israeliana, chiedendo poi di fermare una “sofferenza senza senso e risolvere la radice del problema”. “Dobbiamo agire subito per cambiare uno statu quo che non è più sostenibile”, fiducioso – si è detto il segretario generale dell’Onu - che “il governo di unità palestinese rafforzerà i rapporti tra gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania”. 

E, una pioggia di dollari è in arrivo per Gaza, che aiuterà di certo la popolazione palestinese stremata dalla guerra ma possiamo essere anche sicuri che non aiuterà il riarmo di Hamas o di altri gruppi fondamentalisti come i miliziani dell’Is? Janiki Cingoli, direttore del Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo):

R. – Certezze in Medio Oriente ce ne sono sempre molto poche. Tuttavia, questa Conferenza è stata preceduta da due accordi. Il primo tra Israele, Autorità nazionale palestinese ed Onu per sovrintendere all’importazione dei materiali e quindi per essere ragionevolmente sicuri che i materiali non vengano utilizzati per rifare i tunnel, o per costruire razzi. Il secondo è quello tra Autorità nazionale palestinese ed Hamas, con la mediazione egiziana, in cui Hamas ha accettato che a sovrintendere all’opera di costruzione ci fosse appunto l’Anp, e che questa fosse presente ai valichi di frontiera: cosa essenziale sia per gli egiziani, sia per gli israeliani per permettere di riaprire i valichi.

D. – Da Abu Mazen - il presidente della Anp - abbiamo sentito al Cairo un appello ad Israele per la fine dell’occupazione della Palestina, e così anche il presidente egiziano al-Sisi ha chiesto allo Stato ebraico di porre fine al conflitto con il popolo palestinese. Sembra che nessuno abbia ricordato che la reazione inaccettabile di Israele contro la popolazione palestinese è stata comunque in risposta agli attacchi continui di Hamas al suo territorio…

R. – In realtà, c’è anche qui un elemento contraddittorio, perché Israele aveva detto che, mai e poi mai, avrebbe avuto a che fare con questo governo di unità nazionale palestinese - chiamato governo di “terroristi” – ma di fatto, adesso, accetta che sia quel governo a sovrintendere ai confini, ai check-point e ad organizzare gli aiuti. E, c’è anche che gli israeliani non hanno voluto smantellare il governo di Hamas – cosa che avrebbero potuto fare a Gaza - perché temono che se andasse via Hamas – se venisse ‘sbaraccata’ – rientrerebbe l’Is. C’è già stato infatti un primo attentato firmato Is ad un centro culturale francese, a Gaza. Quindi, sostanzialmente, ad Israele va bene il fatto che ci sia un Hamas indebolita a Gaza; che ci sia un ritorno dell’Autorità nazionale palestinese – e quindi, un rafforzamento di questa - a Gaza; e che ci sia contestualmente un indebolimento in Cisgiordania, perché le incursioni nelle zone controllate dall’Autorità palestinese, per smantellare la rete di Hamas, continuano.

D. – Possiamo dire che, più che un avvicinamento alla pace e alla possibilità di avere due Stati che coesistano, ci stiamo avvicinando ad un’assenza stabile di guerra…

R. – Ci stiamo avvicinando a un ‘management del conflitto’, in cui ognuna delle due parti fa la voce grossa - ci sono scambi di insulti – però poi contestualmente, ad un diverso livello, si discute, si negozia la gestione e il contenimento del conflitto. Israele sicuramente paga questo con un isolamento crescente, testimoniato dal fatto che ha dovuto accettare l’invito degli egiziani a non essere presente alla Conferenza dei donatori, perché altrimenti non ci sarebbero andati i sauditi, gli emirati e così via. Quindi, c’è una situazione sostanzialmente di status quo che non è totalmente immobile, che può esplodere anche in nuovi conflitti e che certamente dovrebbe poi preoccupare soprattutto gli stessi israeliani.

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Genova, massima allerta. Il lavoro degli "Angeli del fango"

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Ha ripreso a piovere su Genova, una pioggia leggera, la prima dopo i temporali fra venerdì e sabato. Sulla città soffia un vento di scirocco e le previsioni fanno pensare al peggio. Secondo gli esperti meteo sarebbero in arrivo “bombe d’acqua”. Servizio di Francesca Sabatinelli: 

L’allerta 2 su Genova resterà fino alla mezzanotte per la previsione di temporali, che potrebbero anche divenire “bombe d’acqua” a causa della forte intensità. Il Comune ha invitato i cittadini a non utilizzare i mezzi privati , mentre nell’entroterra, a Rossiglione, nella Valle Stura, il sindaco ha chiesto agli abitanti di non uscire di casa per alcun motivo e di rifugiarsi ai piani alti dei palazzi. La situazione è molto critica, i fiumi sono ai limiti di guardia, il torrente Stura, tra i principali corsi d’acqua nell’entroterra di Genova, è in piena. Massima allerta anche per le frane, due treni con una cinquantina di passeggeri sono bloccati per l’allagamento dei binari all’altezza di Campo ligure e Rossiglione. Chiusi anche alcuni tratti dell’autostrada A7. A mettere paura è il Bisagno, che giovedì, in pochi attimi, ha devastato tre quartieri e ucciso un uomo. La procura di Genova dopo aver aperto un fascicolo per omicidio colposo, ora indaga per disastro colposo, con attenzione alle opere fatte e a quelle non realizzate in ambito idraulico, ma anche la mancata allerta e la gestione d’emergenza. Intanto migliaia di ragazzi, gli ‘Angeli del fango’, continuano a pulire senza sosta strade, negozi e abitazioni. Stretto tra il Bisagno e i suoi affluenti, quindi in piena zona rossa, è il Municipio Bassa Valbisagno. Massimo Ferrante è il presidente:

R. - Siamo ancora in piena emergenza e le piogge ci fanno paura, non solo per la situazione dei torrenti che sono ancora gonfi, ma soprattutto per le colline: abbiamo paura che i versanti non trattengano più l’acqua e siccome gran parte di Genova è costruita sulle colline con muri che sfidano la gravità, abbiamo paura che, come già accaduto l’anno scorso, possano verificarsi vari smottamenti  e frane e vederci quindi impegnati non solo nel fondovalle, ma anche sulle colline, cosa che a livello operativo per noi sarebbe veramente difficile.

D. - Su 600 mila abitanti della città, 80 mila sono lì, nel suo municipio. C’è un’altissima densità di popolazione, ci dice esattamente qual è la situazione?

R. - Chi si trova nella parte collinare ha avuto pochi danni ma è tagliato fuori a livello di mezzi di trasporto, perché chiaramente nel fondovalle è difficile far viaggiare bus, e la metropolitana che collega con il centro è bloccata. Il fondovalle è privo di corrente elettrica e quindi parecchie abitazioni non hanno servizi elettrici ed in alcuni casi sono senza acqua. Da giovedì tantissime strade non hanno corrente elettrica. Quando c’è l’allerta 2, per legge dobbiamo far evacuare 130 famiglie che si trovano in prossimità degli alvei e in questo caso, invece, l’evacuazione ha riguardato altre persone che hanno lasciato autonomamente le case perché, non avendo la possibilità di accedere a servizi quali luce ed acqua, si sono trasferite presso amici o parenti. C’è un altro problema: siccome l’allerta non è cessata, chi si trova in prossimità dei torrenti non può stare ai primi piani, ma deve assolutamente occupare i piani superiori.

D. - Per quanto riguarda negozi, supermercati, si legge di persone che corrono a rifornirsi per paura di rimanere completamente tagliati fuori e senza viveri. Si è letto anche di episodi di sciacallaggio. Cosa accade?

R. - Genova è una città molto complicata a livello orografico, con grandi salite, grandi discese e forti pendenze. Noi siamo collegati con il resto della città attraverso dei tunnel che fino a ieri erano completamente chiusi. L’80-90 per cento dei negozi sono chiusi per le devastazioni, quindi la  gente assale le attività aperte perché ha paura di continuare a non avere collegamenti e  di non potere raggiungere quindi altri supermercati nel resto della città. Poi abbiamo avuto, purtroppo, nella zona più colpita, fenomeni di sciacallaggio, nei borghi dove ci sono negozi di antiquariato, ma anche nei supermercati dove gli operatori provano a ripulire. Dobbiamo costantemente chiamare la polizia e i carabinieri per presidiare con ronde.

D. - Si parla molto dell’importante lavoro, sostegno e contributo dei volontari: gli angeli del fango. Lei anche è in strada con loro, chi sono questi ragazzi? Quanto aiuto danno?

R. - Genova è una città difficile, ma ha una grande cultura e tradizione di solidarietà e di senso civico. Ad oggi ne abbiamo registrati circa tremila in questo municipio. Sono ragazzi che si erano già mobilitati nel 2011, e sono tornati a mobilitarsi nonostante la situazione economica di questa città, e del Paese, non offra loro grandi sbocchi. Ora sono fondamentali, perché se non ci fossero, noi non saremmo in grado di intervenire. Il mio municipio ha sette operai e tre tecnici, difficilmente possiamo intervenire. Qui abbiamo riaperto delle strade grazie al lavoro di questi ragazzi.

D. - Non mancano le polemiche. Come presidente del Municipio cosa ritiene che non sia stato fatto e che invece doveva essere sorvegliato?

R. - Il comune è una macchina che si attiva, come tutti comuni, solo quando la regione tramite l’Arpal, l’Azienda regionale per la prevenzione e la protezione ambientale, dà gli allerta. Noi sappiamo di vivere in un territorio, quello ligure per l’appunto, molto complesso, stretto tra mare e monti. Il comune si attiva solo ed esclusivamente se viene data l’allerta, altrimenti non è possibile allertare o creare quei meccanismi virtuosi che sono legati alle ordinanze specifiche, specie per questa zona che è completamente zona rossa. Però posso dire che oltre alle leggi ci dovrebbe anche essere il buon senso. Da lunedì sera c’erano piogge molto intense, e chi abita a Genova sa cosa vuol dire vedere piovere per tre o quattro giorni di seguito, avevamo una perturbazione che si auto rigenerava sopra Genova. Il buon senso sicuramente faceva capire a tutti noi che la situazione era drammatica. Mi ricordo che giovedì, prima dell’alluvione, abbiamo chiuso il municipio alle 19 convinti che ci arrivasse un’allerta. L’allarme non è arrivato, perché il entro meteorologico dell’Arpal annunciava, invece, un indebolimento di questa perturbazione. Noi eravamo perplessi e molto preoccupati. Purtroppo la nostra esperienza ci ha fatto dire che quello che pensavamo poi è accaduto.

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Indice Globale della Fame: nel mondo 800 milioni di affamati

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Nel mondo 805 milioni di persone soffrono la fame. Lo rivela il rapporto sul'Indice Globale della Fame, presentato a Milano dal Cesvi. In Africa una persona su quattro è cronicamente denutrita, mentre in Asia ci sono più di 500 milioni di affamati. Quest’anno lo studio è stato incentrato sulla fame nascosta, conosciuta anche come carenza di micronutrienti che colpisce due miliardi di individui. Maria Gabriella Lanza ha intervistato Giangi Milesi, presidente del Cesvi: 

R. - L’indice globale della fame è un indicatore più sofisticato, più complesso, che utilizza tutti i dati disponibili a livello mondiale, incrociando non solo i dati della popolazione adulta, ma soprattutto i dati dei bambini e della mortalità infantile. Quindi ci dà più uno sguardo sul futuro e ci fa capire meglio le tendenze.

D. - Il rapporto quest’anno mette in evidenza l’aspetto della fame nascosta, che colpisce due miliardi di persone al mondo…

R. - Noi abbiamo un indice che ci incoraggia a proseguire nella battaglia contro la fame, perché ci fa vedere dei risultati. Negli ultimi dieci anni la fame è regredita in modo impressionante. Il problema è che restano ancora 805 milioni di persone cronicamente denutrite. Queste persone sono concentrate in Africa, dove siamo fermi ad una persona su 4, cronicamente denutrita e in Asia meridionale, dove ci sono più di 500 milioni di affamati. Soprattutto, c’è questo tema della fame nascosta, il fatto che non solo manchi il cibo per tante persone, ma manchi una corretta dieta alimentare, manchino i micro nutrienti, manchino le vitamine e manchino i minerali, questo con delle drammatiche conseguenze sullo sviluppo umano. Nell’immediato, appunto, la chiamiamo fame nascosta, non si vede, ma i ritardi sulla crescita e sullo sviluppo della popolazione, sulla mortalità infantile, sono enormi. La fame nascosta, fra l’altro, riguarda anche noi occidentali, perché la scorretta dieta è una delle cause dell’obesità.

D. - Ci può raccontare qualche esperienza concreta, messa in luce dal rapporto?

R. - Quest’anno abbiamo parlato di Somalia, perché è una delle tante aree del mondo dove mancano i dati, e abbiamo raccontato quello che facciamo in una situazione di guerra e di violenza. Il tema della guerra e della violenza è una delle tante concause della malnutrizione.

D. - Qual è la situazione in Italia?

R. - In Italia abbiamo un grande problema di rifiuto, di perdite di cibo. Si stima a livello mondiale che un terzo del cibo venga sprecato, distrutto o perso. Questo riguarda soprattutto i Paesi industrializzati, più sviluppati ed è questa la prova del fatto che possiamo dar da mangiare a tutti. Il cibo per tutti c’è e ce ne sarà anche per un pianeta più affollato, dobbiamo, però correggere le nostre abitudini alimentari per la nostra salute e per la salute degli 805 milioni di affamati, che sono con noi sul pianeta Terra.

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In un libro, l’amore di una madre e una figlia oltre il muro dell’autismo

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“L’orologio di Benedetta” è un libro forte, commovente con un messaggio di speranza e al tempo stesso di denuncia. Edito dalla casa editrice Mursia, il volume racconta in prima persona la storia di Gabriella La Rovere e di Benedetta, la sua giovane figlia affetta da sclerosi tuberosa e autismo. Due malattie terribili, che però non hanno vinto l’amore e il coraggio di Gabriella. Alessandro Gisotti ha raccolto la sua testimonianza: 

R. - Prima di scriverlo sono passati, forse, 2 o 3 anni… Sono stata spinta in questi 2-3 anni da una mia amica e dal mio compagno a scrivere la storia mia e di Benedetta, perché - per loro - era importante raccontare da dove ero partita, da dove eravamo partite io e Benedetta e dove siamo arrivate, dando la possibilità ad altri genitori di poter trovare un confronto, ma anche la forza del cambiamento, perché in realtà non bisogna mai mollare!

D. - C’è anche una storia di sofferenza di famiglia: il padre di Benedetta, in un qualche modo, non ha retto…

R. - La disabilità, la disabilità mentale e l’autismo in particolare danno uno scossone ad un rapporto di coppia: l’uomo e la donna possono unirsi ancora di più oppure, in realtà, è lo scossone definitivo e c’è la separazione… Sono riuscita poi a portare avanti tutto da sola un mio "programma mentale" di quello che avrei dovuto fare e che dovevo fare per Benedetta e che era giusto per lei. Faccio di tutto per trovare la molla, il sistema comunicativo comune per farla uscire: questa per me era la cosa più importante di tutto!

D. - Benedetta trova nella musica una via importante di contrasto nei confronti del male e della sofferenza e, in un qualche modo, la musica fa sì che Benedetta venga avvicinata anche da di chi - magari superficialmente - non si sarebbe accostato a lei…

R. - Sì, questa è una cosa che devo dire mi fa molto sorridere: lei già da piccola aveva questa predisposizione a percuotere qualsiasi cosa, dal tavolo della cucina allo stipite della porta. Quindi quando c’è stata la possibilità di poterlo fare, l’ho fatta seguire da un professore di percussioni: è uscito fuori questo talento. Naturalmente Benedetta per la sua malattia rara, che è la sclerosi tuberosa, ha sul viso tutta la disabilità: è impossibile non accorgersi… Poi ha anche un incedere molto impacciato, molto goffo. Quindi spesso, quando adesso viene chiamata a suonare, io mi accorgo, quando sale sul palco, che la guardano e che naturalmente sono pronti ad applaudirla con grande tenerezza, perché si applaude al disabile… In realtà quando lei comincia a suonare, io mi giro e vedo proprio le facce impressionate e la gente a quel punto viene catturata da questo suo modo di comunicare e scorda chi sta suonando: questo è importante. Il talento, ognuno ce l’ha!

D. - Pagina dopo pagina, si staglia sempre più forte l’amore di una madre per una figlia e di una figlia per una madre, però anche l’impreparazione della società…

R. - La famiglia con un ragazzo o una ragazza disabile è lasciata ai margini della società, vive una vita di frontiera, da sola, perché progressivamente perde gli amici, anche gli amici che ha: alla fine non vieni più chiamato, perché hai dei ritmi completamente diversi, perché hai questo figlio o questa figlia così particolare, per cui già andare fuori a pranzo è difficile… Questo vale quindi con le amicizie, ma vale anche con la scuola. Perché? Perché non esiste l’inclusione! Bisogna essere molto, molto, molto fortunati a trovare degli insegnanti preparati, degli insegnanti che, se anche non sono preparati in realtà, lavorano con il cuore… Questo molte volte manca. E manca anche nella società. Io sono rimasta veramente anche molto scioccata ultimamente: eravamo con Benedetta - la cosa risale ad un anno fa - in ospedale, stavamo aspettando una visita e Benedetta ha avuto una crisi epilettica: dove eravamo, nella sala d’attesa, c’era tanta gente… Non si è avvicinato nessuno! Nessuno per dire: “Ha bisogno di qualcosa?”. E questo dimostra anche la paura che hanno le persone, la paura nei riguardi della disabilità mentale. Noi siamo abituati a capire tutti e non capiamo questi ragazzi, che crescono e diventano invisibili, diventano degli adulti invisibili. Come io poi dico alla fine del libro - che è quella parte che io potrò leggere 200 volte e piangere alla stessa maniera - “Che ne sarà dei nostri figli?”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Siria: rilasciati i 5 cristiani ancora nelle mani dei jihadisti

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Sono stati rilasciati ieri mattina i cinque cristiani siriani della Valle dell'Oronte che rimanevano ancora in stato di detenzione su disposizione del Tribunale Islamico di Darkush, dopo essere stati rastrellati da una brigata di jihadisti insieme al parroco di Knayeh, padre Hanna Jallouf e ad altri parrocchiani nella notte tra domenica 5 e lunedì 6 ottobre. Lo riferiscono all'agenzia Fides fonti locali, che riportano anche il sollievo espresso dalle comunità cristiane presenti nella Valle per il rilascio dei cinque uomini, a tutti noti per il loro coinvolgimento nelle attività dei conventi francescani dei villaggi di Knayeh e Yacoubieh.

Il francescano padre Hanna e una ventina di cattolici della zona - comprese quattro donne - erano stati prelevati su disposizione del Tribunale Islamico. Nei giorni successivi erano stati rilasciati prima le donne poi il sacerdote e gli altri fermati.

Il Tribunale islamico ha stabilito di sottoporre a processo padre Hanna, accusato di “collaborazionismo” con il regime siriano, ma non sono stati forniti dettagli sui tempi di tale procedura giudiziaria. In attesa del processo, padre Hanna non potrà lasciare il villaggio di Knayeh. Allo stesso Tribunale Islamico padre Hanna Jallouf aveva fatto appello nei giorni precedenti al blitz dei miliziani in parrocchia, per denunciare le crescenti vessazioni subite dal convento da parte di islamisti armati.

A Knayeh ci sono ancora 300 cristiani e padre Hanna continua il suo servizio pastorale in loro favore, pur nelle condizioni di libertà limitata in cui si trova. Nel villaggio funziona un Centro di aiuto parrocchiale, che costituisce l’unico presidio materiale per la popolazione, cristiana e non solo, della Valle dell’Oronte. Il Centro di aiuto è una delle attività sostenute in Siria fin dal 2011 da Ats-Pro Terra Sancta, l’ong della Custodia di Terrasanta. “Gli aiuti non vengono mai erogati in denaro” ha raccontato a terrasanta.net Tommaso Saltini, responsabile di Ats, “ma in generi alimentari (pacchi viveri e pasti già preparati), vestiti e medicine.

Purtroppo - ha aggiunto Saltini - non riusciamo a coprire tutte le necessità della gente. Ogni Centro spende dai 10 ai 20 mila dollari al mese in aiuti, con cui riesce a coprire solo una parte delle richieste”. Nel 2013 Ats ha soccorso i poveri della Siria, sia cristiani sia musulmani, con aiuti per un valore di 427 mila dollari (oltre ad altri sussidi, per 110 mila dollari, erogati a profughi e bisognosi in Libano e Giordania). (R.P.)

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Mons. Galantino in Iraq con una delegazione della Cei

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Da oggi a giovedì 16 ottobre, una piccola delegazione della Cei, guidata dal segretario generale, mons. Nunzio Galantino, insieme al direttore di Caritas Italiana, si reca in Iraq per incontrare i vescovi e i rappresentanti della Chiesa locale, visitare alcune strutture in cui sono ospitati migliaia di profughi cristiani e yazidi e confrontarsi con alcune autorità civili. Lo rende noto l’Ufficio per le comunicazioni sociali della Cei con una nota in cui si spiega che l’incontro con i responsabili di Caritas Iraq è volto a delineare lo sviluppo di progetti di collaborazione e di solidarietà.

“Questo viaggio - spiega mons. Galantino - si colloca all’interno di quel cammino di prossimità che come Chiesa italiana abbiamo avviato da tempo: ricordo la proposta, in occasione della Festa dell’Assunta, che come presidenza della Conferenza episcopale italiana abbiamo rivolto a tutte le comunità ecclesiali: viverla come una giornata di particolare vicinanza al dramma sofferto da centinaia di migliaia di cristiani. Ad essa, coerentemente, sono succeduti contributi economici che consentissero di affrontare la prima emergenza”. 

“La violenza che uccide, gli attacchi e l’insicurezza che costringono migliaia di persone all’emarginazione e all’esilio - afferma ancora il segretario generale - non possono trovarci indifferenti: e - mentre rilanciamo il nostro appello ai responsabili della politica, come a ogni uomo, affinché nelle rispettive responsabilità non volgano lo sguardo altrove - ci sentiamo chiamati a fare quanto sta in noi per sostenere fattivamente l’impegno della Caritas, presente nell’emergenza con la sua rete di relazioni e di progetti”. (R.P.)

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Hong Kong: agguati contro i dimostranti

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Schermaglie questa mattina sui siti della protesta organizzati in maggior parte dagli studenti nelle aree centrali di Admiralty, Wan chai e Causaway Bay, sull’isola di Hong Kong. Nelle ultime ore, gruppi convergenti si sono presentati all’esterno delle aree presidiate dalla protesta chiedendo la fine dell’occupazione. Difficile immaginare un movimento spontaneo, date simili manovre delle ultime settimane. La polizia è intervenuta per separare le due fazioni e dirottare la contro-protesta in aree dove minore sarebbe il rischio di contatto diretto ma anche per incrementare la sicurezza della propria sede centrale.

Nella prima mattinata - riporta l'agenzia Misna - la polizia aveva cercato di smantellare parte delle barricate che bloccano per il 16° giorno arterie determinanti per circolazione e commerci dell’isola di Hong Kong.

La polizia, intervenuta ma non in assetto antisommossa per evitare una reazione decisa, ha reso accessibili, in tratti sguarniti dagli studenti nella prima mattinata, parte delle strade di comunicazione tra ovest ed est dell’isola. Intenzione dichiarata, non di disperdere la protesta, ma di liberare alcuni spazi per il traffico cittadino e recuperare proprietà governative.

Immediata la reazione dei manifestanti, che hanno irrigidito i blocchi nelle aree sotto il loro controllo, creando ingorghi e alimentando nuove tensioni con quanti speravano in un miglioramento del traffico. Il tentativo di avviare il dialogo con il governo sulle riforme – negato venerdì scorso – ma per questo di avere uno strumento concreto di pressione, coinvolge non solo i gruppi maggioritari nel movimento (Federazione degli studenti, Scholarism e Occupy Central), ma anche ormai buona parte della società civile locale, divisa tra pieno sostegno all’occupazione, sostegno di principio ma non accoglienza dei metodi che portano a disagi indiscriminati, e una minoranza favorevole al governo e a Pechino che ritiene del tutto inutile la protesta e senza speranza le richieste di riforma.

Da venerdì, dopo la delusione per la negazione del dialogo da parte del governo locale, favorevole al controllo di Pechino sul territorio e poco disposta a discutere le direttive del parlamento cinese sulla legge elettorale in vista del voto per il capo del governo nel 2017, il movimento di occupazione ha ripreso slancio, dandosi una prospettiva di lungo periodo, chiamando i sostenitori a trasformare le aree da esso controllato in accampamenti con tende e altre strutture più stabili.

Nel fine settimana, i leader del movimento avevano chiesto al presidente cinese Xi Jinping di farsi promotore di un dialogo che non solo porterebbe credibilità al suo potere mantenendo le promesse di maggiori libertà per i cittadini dell’ex colonia britannica, previste dagli accordi sino-britannici precedenti il ritorno della colonia alla Cina nel 1997, ma anche di non temere una piena autonomia di Hong Kong, che non vuole essere una minaccia per la dirigenza cinese.

Oggi proprio dalla Repubblica popolare cinese arriva la notizia dell’arresto di due attivisti accusati di avere partecipato a una manifestazione a favore della protesta a Hong Kong. Con questi sono almeno una quarantina i fermati in Cina in collegamento con i fatti in corso della regione speciale autonoma meridionale. (R.P.)

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Pakistan: si prepara l’udienza finale al processo Asia Bibi

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Gli avvocati di Asia Bibi sono al lavoro per limare la “memoria difensiva” finale che sarà presentata all’Alta Corte di Lahore il 16 ottobre, data che – se non vi saranno ulteriori sorprese – potrebbe essere l’ultima e decisiva udienza del processo di appello a carico della donna e madre cristiana condannata a morte in primo grado per presunta blasfemia.

Secondo quanto ha riferito all'agenzia Fides l’avvocato Naeem Shakir, membro del collegio di difesa, “cercheremo di dimostrare alla Corte l’esistenza di un complotto ai danni di questa donna, che ha resistito a molte sfide durante il processo e ha pagato, finora, un prezzo davvero molto alto”. “Tuttavia Asia è rimasta salda nella sua fede cristiana – rimarca – e lo è tuttora”.

Il denunciante, ricorda l’avvocato, è Qari Mohammad Salam, imam di una moschea del villaggio di Ittanwali, nel distretto di Nankana Sahib, in Punjab. “Ma la denuncia – spiega Shakir a Fides – è avvenuta il 19 giugno, sei giorni dopo il verificarsi del presunto atto di blasfemia (accaduto il 14 giugno). La dichiarazione del denunciante si basa sul sentito dire, dato che l’imam non era presente all’alterco in cui Asia avrebbe insultato il Profeta. Né il denunciante ha sentito direttamente alcuna espressione blasfema da parte dell'imputata. L'intero caso si basa sulla testimonianza di due sorelle che avevano litigato con Asia e che, sentendosi umiliate, hanno innescato la denuncia per rancore e vendetta”.

L’avvocato conclude fiducioso: “Sono convinto che saremo in grado di ottenere una assoluzione dalla falsa accusa di blasfemia. Questa avverrà se la Corte si pronuncerà basandosi sui principi stabiliti della giustizia penale e se non si farà influenzare da pressioni di gruppi settari ed estremisti”.

Asia è stata condannata a morte il 18 novembre 2010. Il suo caso ha generato nel Paese e nella comunità internazionale un ampio dibattito e due uomini politici che hanno cercato di difenderla, dichiarando la sua innocenza, sono stati uccisi in Pakistan: il musulmano Salman Taseer, governatore della provincia del Punjab, ucciso il 4 gennaio 2011 e il cattolico Shabaz Bhatti, allora Ministro federale delle minoranze, assassinato il 2 marzo 2011. I due stavano sollecitando un riesame della legge sulla blasfemia, divenuta “strumento di oppressione” a causa del cattivo uso che ne fanno gli estremisti islamici. (R.P.)

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Incontro dei Focolari con i Padri sinodali

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Un confronto leale, a tutto tondo, sulle dinamiche di vita delle famiglie oggi. Il dolore del fallimento, il distacco della separazione, il divorzio. Ma anche l’impegno nella formazione delle giovani coppie, il sostegno alle donne con gravidanze non desiderate, la disponibilità a lasciare tutto per portare il Vangelo in terre lontane. E' quanto emerso ieri sera nella sede del Pontificio Consiglio della famiglia a Roma all’incontro che un gruppo di padri sinodali e uditori al Sinodo hanno avuto con un gruppo di famiglie del Movimento dei Focolari.

Accolti dalla presidente e dal vice presidente del Movimento, Maria Voce e Jesus Moran - riferisce l'agenzia Sir - hanno partecipato (tra gli altri) all’incontro il card. Andrew Yeom Soo-jung, arcivescovo di Seoul, e i presidenti delle Conferenze episcopali di Repubblica Ceca, Slovenia, Madagascar, Tanzania, Uruguay. “Non ci sono ricette infallibili, anzi!”, ha esordito subito Alberto Friso di Famiglie Nuove. “Quante volte noi genitori sbagliamo con i nostri figli! A volte siamo troppo permissivi, a volte possessivi, o deboli, o inflessibili quando non serve. Anche qui vale la regola del ‘ricominciare’. Essere sempre pronti a riconoscere gli sbagli e chiedere scusa. E quando è il figlio a sbagliare, non esitare a farglielo osservare, dimostrandogli però fiducia”. 

Spesso ferita, lacerata al suo interno da tradimenti e silenzi colpevoli, la famiglia rimane un luogo “insostituibile” dove si genera e si trasmette la vita. Chi lavora a fianco alle famiglie oggi - ha raccontato Anna Friso (Famiglie Nuove) - ha deciso di vivere in “periferia” perché “come dice Papa Francesco, il cristiano non è tale per restare nell’accampamento, ma per andare nelle periferie del mondo”.

“E in periferia - ha aggiunto Friso - non puoi domandare se la gente è sposata in chiesa, se convive o è separata. Noi accogliamo tutti così come sono, li amiamo, li ascoltiamo profondamente, se possiamo cerchiamo di aiutarli in ciò di cui hanno bisogno. E al momento giusto, ma a tutti, in qualsiasi situazione si trovano, porgiamo lo stesso annuncio: Dio ti ama immensamente. Non c’è nessun uomo che è escluso dall’amore di Dio”.

I vescovi hanno ascoltato anche la storia di Tiziana Giuliani, con alle spalle un matrimonio e 13 anni di bugie, litigi, pseudo-chiarimenti e nuove delusione. Poi l’incontro con un vecchio compagno di scuola e l’inizio di una nuova vita familiare. “Avrei potuto andare in una chiesa dove non sono conosciuta e prendere lo stesso l’Eucaristia - ha raccontato -, ma per obbedienza non l’ho mai fatto”. Tiziana non nasconde ai vescovi il senso dell’“autoesclusione” provato, “la grande solitudine spirituale” vissuta e il “forte disagio nel vedere gli altri dirigersi verso l’altare e io restare nel banco. Mi sentivo abbandonata, ripudiata, colpevole”. 

Presenti all’incontro anche i coniugi Dieudonné ed Emerthe Gatsinga, di Kigali in Rwanda che al Sinodo come uditori hanno raccontato la loro esperienza nella formazione delle famiglie, dei giovani sposi, dei fidanzati, principalmente nel loro Paese, ma spesso anche in Uganda, Burundi, Kenya e Congo. (R.P.)

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Sri Lanka: dopo 24 anni, riapre la ferrovia che collega Nord e Sud

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Dopo 24 anni di fermo è stata riaperta oggi la Yal Devi, una delle più famose linee ferroviarie dello Sri Lanka, che unisce il Nord al Sud del Paese. Interrotto durante la guerra civile - riferisce l'agenzia AsiaNews - questo tratto di servizio rappresentava un collegamento fondamentale tra Jaffna e Colombo, trasportando beni e persone dall'estremo nord del Paese fino alla capitale.

Durante il conflitto, l'esercito iniziò a usare la linea per accedere al nord, enclave delle Tigri Tamil (Liberation Tigers of Tamil Eelam, Ltte). Ben presto, questo rese la ferrovia obiettivo di attacchi da parte dei ribelli, e nel 1990 il governo decise di chiuderla. Fino a oggi, il servizio è rimasto limitato tra Jaffna e Vavuniya, sempre nel nord.

Nel 2009, alla fine della guerra civile, il governo ha promesso di ricostruire la linea ferroviaria - nota come "la Regina di Jaffna" - e di ripristinare il servizio. L'opera è costata 58 miliardi di rupie (350,8 milioni di euro), la maggior parte dei quali finanziati dall'India. La Colombo-Jaffna può ora far transitare treni con una velocità di 120 chilometri l'ora. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 286

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.