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Sommario del 21/10/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa: siamo popolo unito in Gesù, non isole che si arrangiano

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“Il cristiano è un uomo o una donna che sa aspettare Gesù e per questo è uomo o donna di speranza”. Lo ha ribadito Papa Francesco all’omelia della Messa del mattino, celebrata in Casa S. Marta. Col suo sacrificio, ha affermato il Papa, Cristo ci ha resi "amici, vicini, in pace". Il servizio di Alessandro De Carolis

Persone che sanno aspettare e, nell’attesa, coltivano una solida speranza. Questi sono i cristiani, un popolo – spiega Papa Francesco – unito da Gesù oltre ogni “inimicizia”, da Lui servito e dotato di un nome. Il Papa riflette fondendo gli spunti del Vangelo di Luca con la Lettera di Paolo agli Efesini. Nel primo, Cristo parla ai discepoli paragonandosi al padrone che rientra a tarda notte dalla festa di nozze e chiama “beati” i servi che lo aspettano svegli e con le lampade accese. La scena che segue vede Gesù farsi servo dei suoi servitori e portare loro il pranzo a tavola. Osserva Papa Francesco: il primo servizio che il Maestro fa ai cristiani è dare loro “l’identità”. “Noi senza Cristo – dice – non abbiamo identità”. E sul punto, il Papa si connette con le parole di Paolo ai pagani – “ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele” – ribadendo: “Quello che è venuto a fare Gesù con noi è darci cittadinanza, appartenenza a un popolo, nome, cognome”. Così, da “nemici senza pace”, afferma Papa Francesco, Cristo “ci ha accomunato” col “suo sangue”, “abbattendo il muro di separazione che divide”:

“Tutti noi sappiamo che quando non siamo in pace con le persone, c’è un muro. C’è un muro che ci divide. Ma Gesù ci offre il suo servizio di abbattere questo muro, perché possiamo incontrarci. E se siamo divisi, non siamo amici: siamo nemici. E di più ha fatto, per riconciliare tutti in Dio. Ci ha riconciliato con Dio: da nemici, amici; da estranei, figli”.

Da “gente di strada”, da persone che non erano neanche “ospiti”, a “concittadini dei Santi e familiari di Dio”, per dirla ancora come San Paolo. Questo è ciò che ha creato Gesù con la sua venuta. “Ma qual è la condizione?”, si chiede Papa Francesco. “Aspettarlo”, attenderlo come i servi col loro padrone:

“Aspettare Gesù. Chi non aspetta Gesù, chiude la porta a Gesù, non lo lascia fare quest’opera di pace, di comunità, di cittadinanza, di più: di nome. Ci dà un nome. Ci fa figli di Dio. Questo è l’atteggiamento di aspettare Gesù, che è dentro la speranza cristiana. Il cristiano è un uomo o una donna di speranza. Sa che il Signore verrà.  Davvero verrà, eh? Non sappiamo l’ora, come questi. Non sappiamo l’ora, ma verrà, verrà a trovarci, ma non a trovarci isolati, nemici, no. A trovarci come Lui ci ha fatto con il suo servizio: amici vicini, in pace”.

A questo punto, conclude Papa Francesco, c’è un’altra domanda che il cristiano può porsi: come aspetto Gesù? E prima ancora: Lo “aspetto o non lo aspetto?”:

“Io ci credo in questa speranza, che Lui verrà? Io ho il cuore aperto, per sentire il rumore, quando bussa alla porta, quando apre la porta? Il cristiano è un uomo o una donna che sa aspettare Gesù e per questo è uomo o donna di speranza. Invece il pagano – e tante volte noi cristiani ci comportiamo come i pagani – si dimentica di Gesù, pensa a se stesso, alle sue cose, non aspetta Gesù. L’egoista pagano fa come se fosse un dio: ‘Io mi arrangio da solo’. E questo finisce male, finisce senza nome, senza vicinanza, senza cittadinanza”.

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Le tappe della visita di Francesco in Turchia a novembre

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La Sala Stampa vaticana ha reso noti gli appuntamenti che scandiranno la visita apostolica che Papa Francesco compirà in Turchia dal 28 al 30 novembre prossimi. Prima tappa sarà ad Ankara, dove il Papa giungerà alle 13 di venerdì 28, atteso da una visita al Mausoleo di Atatürk e da una serie di incontri istituzionali con il presidente turco e le autorità del Paese.

La mattina del giorno dopo, 29 novembre, Papa Francesco decollerà alla volta di Istanbul, dove visiterà il Museo di Santa Sofia e la Moschea Sultan Ahmet per poi presiedere la Messa nella Cattedrale dello Spirito Santo, seguita dalla Preghiera ecumenica nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio e da un incontro privato con il Patriarca ecumenico ortodosso, Bartolomeo I.

Domenica 30 novembre, Papa Francesco sarà presente alla Divina Liturgia nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio, conclusa dalla Benedizione ecumenica e dalla firma della Dichiarazione congiunta con il Patriarca Bartolomeo I. Il rientro a Roma avverrà nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, con atterraggio previsto allo scalo di Ciampino per le 18.40.

La presenza del Papa a Istanbul, il 30 novembre, coincide con la festa di San'Andrea, Patrono della Chiesa di Costantinopoli, giorno in cui una delegazione vaticana è solita prendere parte alle celebrazioni del Patriarcato. In modo analogo, una rappresentanza ortodossa ogni anno è presente a Roma nel giorno della solennità dei Santi Pietro e Paolo, il 29 giugno. (A.D.C.)

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Sinodo. Card. Ravasi: la Chiesa prima di tutto è casa che accoglie

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A poche ore dalla chiusura del Sinodo straordinario sulla famiglia, continua sui mezzi di comunicazione il dibattito sui temi sollevati dall'assemblea ecclesiale. Per un bilancio sull'esperienza sinodale, Fabio Colagrande ha intervistato uno dei partecipanti: il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, che nell'occasione ha presieduto la commissione per il Messaggio: 

R. – Sì, per me era questo il terzo Sinodo e sicuramente l’impressione di tutti i Padri sinodali è stata anche la mia: la vivacità. Questo sostantivo non è espressione di una atmosfera, modalità esterna. Era veramente anche la manifestazione di una interiorità profonda: questa libertà e questa vivacità mostravano anche che il tema da una parte era interessante e dall’altra parte che l’assemblea ne era coinvolta.

D. – Il messaggio conclusivo del Sinodo afferma che Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse una casa con la porta sempre aperta, nell’accoglienza, senza escludere nessuno…

R. – Sì, io credo che possa essere una sorta di asse portante del Sinodo. Anche perché il messaggio si apriva con una immagine, una scena che è espressa attraverso un versetto solo, nell’interno del libro dell’Apocalisse, dove Cristo si rivolge a una Chiesa, la Chiesa di Laodicea in Asia minore, che per molti aspetti è affine alla società contemporanea. Questo aspetto dell’indifferenza, della superficialità, qualche volta persino della volgarità. In quel versetto, si dice che Cristo passa per le strade delle nostre città, bussa alla porta e se una famiglia racchiusa nell’interno, con la sua libertà, apre la porta, Cristo si siede a tavola e cena con i membri di questa famiglia. Direi che questa immagine è significativa della Chiesa. La Chiesa deve essere pronta ad accogliere il Cristo che entra e ad accogliere tutti coloro che sono seduti alla mensa di una casa con tutte le diversità perché la Chiesa è prima di tutto e soprattutto una casa. Tanto è vero che all’inizio la stessa famiglia era la sede dove si celebrava l’Eucaristia.

D. – La relazione conclusiva del Sinodo suggerisce di cogliere gli elementi positivi presenti nei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, nelle convivenze. Questa è una novità importante…

R. – Come insegnava l’antica teologia, già medievale, la "sopra-natura", la grazia, non prescinde dalla natura. Ora, due persone che si impegnano seriamente - soprattutto quando si ha un impegno di matrimonio ufficiale, civile, oppure si è insieme attraverso una lunga vicenda personale - si ha un valore naturale e questo valore naturale non può essere considerato come se fosse un elemento da ignorare. E’ anzi una base sulla quale costruire poi la bellezza, la superiorità, la soprannaturalità della grazia di Cristo e dell’adesione attraverso la fede.

D. – Secondo lei, che immagine della fede ha offerto al mondo questo Sinodo?

R. – Devo dire che le relazioni che ci sono state anche sulla stampa estera sono state molto attente e per certi versi anche abbastanza fedeli. Alla fine, l’immagine di Chiesa risultante è una Chiesa che dialoga, con le sue fatiche anche, perché la Chiesa è incarnata, è nell’interno della storia. Cristo stesso presenta nell’interno del suo messaggio anche elementi che sono legati al contesto in cui egli si trova. Quindi, io credo che anche agli occhi dei non credenti, la Chiesa - pur avendo avuto questi risultati, in alcuni casi non così univoci, quasi come cristallizzati in una sorta di limbo perfetto - ha dimostrato invece una vivacità e un volto che è forse più seguito con attenzione anche dal mondo non credente.

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Papa, tweet: fede sana se nutrita sempre dalla Parola di Dio

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “La fede, per essere sana e robusta dev’essere nutrita costantemente dalla Parola di Dio”.

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Mons. Auza all'Onu: più sforzi per promuovere diritti popoli indigeni

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Mettere in campo maggiori sforzi per promuovere i diritti dei popoli indigeni in molte parti del mondo ed evitare ogni discriminazione. Lo ha affermato l’arcivescovo Bernardito Auza, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, intervenuto ieri a New York nell’ambito della 69.ma Assemblea generale dell'Onu. Il servizio di Paolo Ondarza

Molto resta ancora da fare nella salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali dei popoli indigeni in varie parti del mondo. Per questo mons. Auza chiede all’Assemblea generale delle Nazioni Unite maggiori sforzi a livello internazionale, nazionale e locale nella definizione di politiche di sviluppo che coinvolgano veramente tali popolazioni rispettandone identità e culture specifiche.

“La Santa Sede – spiega il presule – è convinta che nessuna discriminazione basata su razza, sesso, religione o etnia dovrebbe essere tollerata: dunque accoglie con favore gli sforzi nei vari Paesi volti a promuovere una piena ed effettiva partecipazione dei popoli indigeni al processo decisionale, in particolare per le questioni che li riguardano”. “Promuovere la specificità e le culture indigene – spiega mons. Auza – non significa tornare al passato. Anzi, vuol  dire favorire il diritto di questi popoli ad andare avanti, guidati dai loro valori custoditi nel tempo, come il rispetto per la vita e la dignità umana”.

La globalizzazione, l’industrializzazione e l’urbanizzazione – avverte il presule – non devono schiacciare questi valori. I popoli indigeni hanno, come ogni persona o nazione, la prerogativa di veder riconosciuto il diritto allo sviluppo nel rispetto dei loro valori e identità. Inoltre – evidenzia mons. Auza – essi devono avere voce in capitolo circa il proprio sviluppo e va dunque evitata la tendenza a imporre politiche per loro inaccettabili senza che vi partecipino attivamente. Tutto ciò – avverte l’Osservatore permanente della Santa Sede – potrebbe fare più male che bene. 

La raccomandazione è quindi a evitare di far loro riferimento solo o principalmente per l’aspetto del folklore. Inoltre, mons. Auza raccomanda leggi giuste per regolare i rapporti tra i popoli indigeni e le industrie estrattive che operano nelle loro terre di origine, le quali hanno spesso un grande valore culturale e ambientale.

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Il card. Parolin inaugura i nuovi laboratori del Bambin Gesù

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Oltre 5.000 metri quadrati per indagini genetiche e cellulari e un’officina farmaceutica per terapie avanzate. Sono alcune delle straordinarie peculiarità del nuovo polo per la ricerca dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù presentato stamani, a Roma, nella sede di San Paolo Fuori le Mura. Alla cerimonia di inaugurazione ha partecipato il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

“Se l’Ospedale Bambino Gesù – ha detto il cardinale Pietro Parolin – è certamente un’azienda che deve funzionare in modo virtuoso, è importante soprattutto, anche per le ricadute nell’opinione pubblica, che esso realizzi in primo luogo la sua missione di essere una straordinaria opera di carità del Papa”:

“C’è un aspetto scientifico di eccellenza legato a questo nuovo centro. Tutto questo nasce dalla vocazione fondamentale che ha l’Ospedale Bambino Gesù: quella di curare i sofferenti e soprattutto i bambini, che meritano una attenzione speciale, e farlo in nome del Papa e quindi essere espressione della carità e dell’attenzione del Papa nei confronti dei più deboli”.

“Il grado di civiltà di una società – ha spiegato il cardinale segretario di Stato – si misura soprattutto dalle attenzioni che essa riserva e dalle energie che spende a favore della categorie più deboli: i malati, i carcerati, i disoccupati, i profughi”. “La Chiesa da sempre si è impegnata in questi ampi settori di apostolato”. I nuovi laboratori sono un’eccellenza. Il nuovo polo per la ricerca, attrezzato con le più moderne tecnologie, ospita laboratori di genetica medica e citogenetica, diagnostica integrata oncoematologica e biobanche. I 150 ricercatori impiegati si occupano di genetica e malattie rare, immunoterapia e farmacoterapia. L’investimento supera i 26 milioni di euro a cui si aggiungono 15 milioni di euro di budget annuo per progetti di ricerca e per servizi scientifici. “Si tratta probabilmente – ha detto Giuseppe Profiti, presidente dell’Ospedale Bambino Gesù – del più grande investimento nella ricerca fatto in Italia negli ultimi anni”.

“L’aspetto più innovativo, al di là del contenuto scientifico di questo nuovo polo di ricerca, è quello di essere integrato con una realtà assistenziale direi unica in Europa. La combinazione di queste due realtà realizza un modello che credo ponga il nostro Paese assolutamente all’avanguardia. Un modello in cui ricerca e assistenza sono integrati. In tal modo, si rendono più efficienti quelle che sono le ricerche e quindi i risultati dal laboratorio al letto del malato, si risparmiano risorse e si dà un servizio migliore in termine di esito”.

L’applicazione delle recenti conoscenze mediche – ha aggiunto Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’Ospedale Bambino Gesù – consentirà “un balzo in avanti, in campo pediatrico, verso la medicina personalizzata” per prevenire specifiche malattie:

“La nostra è una ricerca traslazionale. Questo significa che quello che noi facciamo arriva al letto del paziente. Noi stiamo sviluppando tecniche genomiche per fare diagnosi per malattie che oggi non sono diagnosticabili. I protocolli che stiamo mettendo a punto, probabilmente, fra sei mesi e un anno diventeranno routine della diagnostica degli ospedali che fanno ricerca avanzata e diagnostica avanzata”.

Questo progetto – ha affermato inoltre il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti – conferma il prezioso contributo del sistema sanitario religioso all’Italia e all’Europa. Un progetto di ricerca rivolto al futuro e saldamente legato al presente dell’Ospedale Bambino Gesù, che risponde attualmente a quasi il 45% della domanda ospedaliera pediatrica in Italia. A margine della cerimonia, il cardinale Pietro Parolin rispondendo ai giornalisti ha ricordato che il Sinodo ha espresso un’attenzione pastorale che deve riguardare tutti, nessuno escluso, ma senza arrivare a nessuna forma equiparazione tra unioni di persone dello stesso sesso e la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, in apertura, soccorso curdo; consentito dal Governo turco il passaggio di rinforzi ai difensori di Kobane, mentre i miliziani jihadisti dell’Is tentano di guadagnare terreno in Iraq.

Sotto, L’Organizzazione mondiale della sanità dichiara la Nigeria libera dal virus.

Nelle pagine del servizio internazionale, l’ombra della guerra civile nello Yemen; oltre sessanta morti negli scontri tra ribelli sciiti  e tribù sunnite.

A pagina 4, vengono pubblicate la prefazione e l'ultimo ultimo capitolo del volume "Se ti leggo amerò per sempre" del vicedirettore dell’Osservatore Romano, Carlo Di Cicco.

Nella pagina seguente, “Quei gesti che testimoniano  la grandezza della vita”, di Jürgen Moltmann, sul valore profetico della carità, e “Ritorno all’abc” di Emilio Ranzato, sulla retrospettiva del Festival del cinema di Roma in cui si ricorda il genere gotico italiano.

A pagina 8 un articolo è dedicato al 22 ottobre, per la prima volta memoria di san Giovanni Paolo II.

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Oggi in Primo Piano



Turchia apre i confini ai curdi per difendere Kobane dall'Is

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Svolta nella lotta contro l’avanzata del sedicente Stato Islamico in Siria e Iraq. Il via libera della Turchia ai combattenti curdi ad entrare nel proprio territorio, per andare a difendere la città siriana di Kobane, da settimane al centro degli scontri tra jihadisti e peshmerga curdi, potrebbe causare un cambiamento negli esiti del conflitto. Si tratta di una decisione storica, che va oltre le difficoltà che da sempre dividono Ankara ed entità curda. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Alberto Rosselli, esperto di area mediorientale e anatolica: 

R. – Il cambio di linea del governo turco apre un capitolo nuovo. La paura dell’Isis supera la tradizionale diffidenza e ostilità reciproca tra Ankara e peshmerga. Bisogna vedere quali saranno i risvolti. Sicuramente, questo comporta un riavvicinamento tra Ankara e Washington: gli Stati Uniti avevano insistito nel far sì che la Turchia desse la possibilità ai peshmerga curdi di intervenire nella zona di Kobane. Vorrei aggiungere che in effetti il fatto che la Turchia abbia concesso ai peshmerga curdi di uscire dal suo territorio ed entrare in territorio siriano può far pensare anche a una doppia finalità di Ankara: quella di allontanare dal proprio territorio le truppe peshmerga.

D. – Qual è il rischio reale, concreto, che può nascere per la Turchia dall’avanzata del sedicente Stato Islamico?

R. – La Turchia, ovviamente, tiene alla sua integrità. Lo stesso amalgama del popolo turco, pur essendo islamico, rappresenta un po’ un’eccezione, se vogliamo, nello scacchiere mediorientale anatolico. Non a caso, sia la Nato sia Washington hanno sempre in qualche modo sostenuto i governi turchi, proprio anche in funzione antifondamentalista. Diciamo che potrebbe essere intesa anche come una manovra preventiva: il governo di Ankara si vuole tutelare anche da quelli che potrebbero essere movimenti interni di matrice fondamentalista.

D. – Sullo sfondo di questa grande crisi, torna il problema curdo…

R. – Sì, sono decenni che si parla della questione curda... Ricordiamo che i curdi sono un popolo, una nazione, un’etnia, una cultura che non ha nulla a che fare con le Nazioni nelle quali è insediata. La cosa auspicabile sarebbe quella di istituire un governo regionale di un Kurdistan indipendente, almeno sotto il profilo amministrativo. Ma non credo che in questo momento le Nazioni che accolgono il popolo curdo siano predisposte per un’operazione di questo tipo, che comporterebbe inevitabilmente la cessione a un eventuale Stato curdo anche di fonti di approvvigionamento energetico: ricordiamo i pozzi di petrolio di Mosul, i gasdotti… Quindi, non credo che i tempi siano ancora maturi.

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Sud Sudan. P. Tresoldi: cauto ottimismo su accordo di pace

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Nuove speranze per la pace in Sud Sudan, dove dal 15 dicembre scorso è in corso un conflitto tra le truppe del presidente, Salva Kiir, e le milizie ribelli guidate dall’ex vicepresidente, Riek Machar. Ieri, sotto la mediazione della Tanzania, è avvenuto il primo incontro diretto tra i due protagonisti della crisi, Kiir e Machar, che hanno firmato un accordo teso a risolvere le cause di una guerra costata la vita a migliaia di civili. Marco Guerra ha raccolto il commento del direttore responsabile della rivista dei Comboniani, "Nigrizia", padre Efrem Tresoldi: 

R. – La reazione di tanti analisti, che seguono quello che sta avvenendo in Sud Sudan, è di un cauto ottimismo, dovuto al fatto che questo sarebbe il quinto accordo di pace, che viene siglato tra la fazione guidata da Riek Machar, ex vice Presidente di Salva Kiir, e lo stesso Presidente Salva Kiir, del partito al governo. E si spera appunto che questo sia un accordo diverso rispetto agli altri quattro, che sono stati sempre disattesi una volta firmati e quindi i conflitti sono ripresi puntualmente. Ottimismo, anche dovuto al fatto che è la prima volta che si sono incontrati faccia a faccia il Presidente Salva Kiir e il rivale Riek Machar, mentre nei precedenti accordi si trattava di delegazioni, e i due protagonisti della crisi non si erano mai incontrati direttamente. Forse questo dà senz’altro maggiore peso a questo accordo, rispetto ai precedenti. Paradossalmente, gli artefici di questa crisi, di questa ennesima guerra civile sono le stesse persone che oggi vogliono invece mettere fine a questa insensata guerra, che ha causato appunto più di centomila sfollati e decine di migliaia di morti, paesi interi distrutti e infrastrutture – le pochissime che c’erano – andate perse. Quindi queste persone oggi hanno in mano di nuovo la responsabilità di rimettere in sesto questo Paese.

D. – Le intese, firmate ieri, sono un accordo interno al Movimento di liberazione del popolo, il partito di governo. Quali sono le vere ragioni che stanno dietro a questo scontro che si potrebbe definire fratricida?

R. – Inizialmente sono state ragioni di lotte di potere. Il fatto che l’ex vice Presidente sia stato dimissionato da Salva Kiir, ha portato a un risentimento in Riek Machar, che alleandosi appunto alla sua etnia Nuer, si è contrapposto a Salva Kiir, invece facente parte dell’etnia maggioritaria dei Dinga. Ma questa lotta di potere, per avere poi il comando del Paese nelle prossime elezioni, che dovrebbero avvenire probabilmente ancora nel 2015, era senz’altro anche per mettere mano alle grandi ricchezze di questo Paese, soprattutto alla ricchezza del petrolio, che è particolarmente abbondante negli Stati a Nord del Paese, dove ci sono stati gli scontri più forti. Quindi era una lotta di potere finalizzata proprio al poter sfruttare queste ricchezze naturali e quindi per un arricchimento personale. Strumentalmente, dunque, viene utilizzata la carta etnica, ma il fine, senz’altro, è quello di un potere politico ed economico. Ma vorrei dire anche un’altra cosa importante, pur essendo un fatto nuovo quello dei due leader, che s’incontrano e firmano un accordo di pace, che questo accordo non avrà mai successo senza il coinvolgimento della società civile e in particolare delle Chiese. Il Consiglio ecumenico delle Chiese ed anche il Consiglio islamico del Sud Sudan si sono attivati da tempo per la riconciliazione e da tempo chiedono di essere ammessi a questi negoziati. Giustamente, infatti, dicono: “Noi siamo vittime di questa situazione, noi possiamo essere parte della soluzione del problema”.

D. – In che condizioni si trova il Sud Sudan ad oltre tre anni dall’indipendenza, sancita nel luglio del 2011?

R. – Le condizioni della gente – si sa – sono sicuramente molto, molto difficili, soprattutto, appunto, negli Stati sud-sudanesi del Nord, quelli confinanti con il Sudan, dove appunto ci sono state le più grandi distruzioni e sfollamenti degli abitanti del posto. La gente non ha potuto coltivare i campi. L’agricoltura rimane essenzialmente la fonte principale di approvvigionamento, ma questa è messa in crisi da ormai quasi un anno di combattimenti e di conflitti interni. Questo, quindi, pone soprattutto una questione umanitaria, che chiede senz’altro un aiuto alla comunità internazionale, per venire incontro a questa gente, che non ha cibo per potere continuare a vivere.

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Mons. Rudelli: grande attesa a Strasburgo per la visita del Papa

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A un mese dalla visita che Papa Francesco farà alle istituzioni europee il 25 novembre, a Strasburgo c'è grande attesa. L’invito è partito dal parlamento dell’Unione Europea ma poi è stato fatto proprio anche dal Consiglio d’Europa e dunque il Papa si recherà a parlare a entrambi le Assemblee. Da pochi giorni è arrivato il nuovo Osservatore Permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa, mons. Paolo Rudelli, che succede a mons. Aldo Giordano. Alla nostra inviata a Strasburgo, Fausta Speranza, che l’ha incontrato, mons. Rudelli ha innanzitutto sottolineato quanto la visita di Francesco rappresenti un dono particolare a inizio del suo mandato: 

R. – Io sono arrivato a Strasburgo da pochi giorni; certamente, è un grande regalo la visita del Papa, e in tutte le istituzioni del Consiglio d’Europa ho trovato una grande attesa, un grande interesse per la visita. Tutti aspettano anche di sentire il messaggio che Papa Francesco vorrà dire all’Europa.

D. – Nel 1988 è venuto Giovanni Paolo II; l’Europa è tanto cambiata, sotto tanti punti di vista. Non solo l’economia, che sempre sembra stare in primo piano. A questa Europa, secondo lei, in questo momento cosa serve di più?

R. – Bè, serve come i Papi hanno detto, riscoprire un po’ il senso della propria identità e della propria missione sia verso i propri cittadini che nel mondo. Il Consiglio d’Europa, se vogliamo, rappresenta un po’ l’Europa nella sua estensione, come si diceva una volta, dall’Atlantico agli Urali, e dunque rappresenta anche un po’ la diversità dei popoli europei che, allo stesso tempo, però, hanno anche una profonda unità tra di loro. Ora, riscoprire questa unità e quindi cosa li rende europei e cosa li fa “comuni” nella loro diversità, questo è il compito dei Paesi europei, oggi. In questa ricerca di identità, certamente riscoprire le proprie radici, le proprie origini – chi siamo, come europei – questo senz’altro è molto importante.

D. – Il Papa verrà al Consiglio d’Europa, organismo a 47 Stati membri, ma sarà anche al Parlamento Europeo, cioè all’Unione europea dei 28 …

R. – Sì: il Papa ha risposto all’invito del presidente del Parlamento Europeo, quindi della istituzione dell’Unione Europea, e allo stesso tempo, poi, ha accolto anche l’invito del segretario generale del Consiglio d’Europa, che sono due istituzioni diverse, che lavorano in contesti diversi ma che si adoperano per il bene dell’Europa. Naturalmente, il Parlamento risponde ai Paesi dell’Unione e dunque è un’istituzione di tipo prettamente politico, di parlamentari eletti dai cittadini, mentre il Consiglio d’Europa è un’organizzazione intergovernativa, dunque un organismo composto dai 47 Stati membri. Quindi i funzionamenti sono diversi, ma c’è un po’ questa vocazione al servizio dell’Europa che viene da Strasburgo che, per la sua storia, è anche una città simbolo della riconciliazione europea.

D. – Simbolo dell’Unione Europea sono le 12 stelle che richiamano la Vergine Maria della cattedrale: un simbolo fortemente religioso. Poi c’è stato il caso Lautsi, cioè quasi la messa in discussione del crocifisso come simbolo religioso, ma c’è stata anche una fortissima risposta dell’Europa. Qualcosa matura, e forse l’Europa sta davvero ripensando quelle radici che ha messo in discussione?

R. – Certamente, è un momento di grande riflessione da parte di tutti i Paesi. Dunque, in questo aspettiamo davvero il messaggio che il Santo Padre vorrà dare.

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Migranti e polemiche. Oliviero (Caritas): allarmismo politico

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Dopo le dichiarazioni di Beppe Grillo, leader del Movimento 5 stelle, secondo cui “i cosiddetti clandestini devono essere rispediti nei loro Paesi”, e la manifestazione della Lega Nord, sabato scorso a Milano, contro l’operazione “Mare Nostrum”, si riaccende in Italia il dibattito politico sull’immigrazione. Al microfono di Elvira Ragosta, il responsabile dell'Ufficio immigrazioni della Caritas italiana, Oliviero Forti, parla di allarmismo politico e ricorda che i protagonisti degli sbarchi sulle coste siciliane sono persone che sfuggono da guerre e carestie: 

R. - Innanzitutto, l’identificazione è un obbligo cui si sta già ottemperando. Usare poi categorie come “profughi” o “clandestini” ha veramente poco senso: bisogna conoscere la materia per capire che qui stiamo parlando di persone richiedenti la protezione internazionale. Evidentemente l’ingresso, proprio perché categorie vulnerabili, avviene senza documenti e quindi, se intendiamo clandestini persone che arrivano senza documenti, probabilmente lo sono. Ma sono persone che fuggono dalla guerre, dalle carestie e da situazioni di grave sfruttamento nei loro Paesi. Quindi, non farei distinzioni, ma direi accogliamo le persone che hanno diritto di essere accolte e poi valuteremo perché esistono poi delle Commissioni che fanno questo mestiere e quindi ci sarà chi avrà diritto alla protezione e chi no. Purtroppo, la politica spesso coglie l’occasione di particolari momenti, nei quali il Paese viene sollecitato dalla presenza di cittadini stranieri - come è stato nell’ultimo anno - e quindi l’idea di uno straniero visto come pericolo per il nostro Paese incomincia non solo a serpeggiare, ma adesso è anche affermata. Non ultimo il caso, appunto, dei pericoli collegati all’arrivo nel nostro Paese di presunti portatori di malattie, come nel caso dell’Ebola.

D. - A proposito dell’Ebola, esiste un fondamento nella paura che il virus possa arrivare in Italia con gli sbarchi dei migranti sulle coste siciliane?

R. - In questo caso, non vi sono mai certezze. E’ altamente scorretto creare l’allarmismo, perché questo non aiuta veramente nessuno. Le persone che giungono sulle nostre coste vengono da Paesi dell’Africa subsahariana dove nessuno può escludere che il virus sia arrivato. Ma questo non si può escludere neanche per coloro che arrivano dalle centinaia di aeroporti europei o africani…  Quindi, è un problema globale cui si sta cercando di porre rimedio. Assolutamente non identificare le persone che arrivano nel nostro Paese, nelle condizioni che noi sappiamo, come possibili "untori": questo è scorretto per tutti, ma soprattutto per chi diventa vittima di questa idea, perché vive delle paure infondate.

D. - Si parla sempre più spesso del fatto che l’arrivo dei migranti in Italia tolga il lavoro, soprattutto ai cittadini italiani…

R. - Oggi come mai, questa è veramente una favola. Se così fosse, noi diremmo “per fortuna”, perché vorrebbe dire che ancora un po’ di lavoro c’è nel nostro Paese. Oggi il lavoro manca per tutti, per gli italiani e per gli stranieri. Gli stranieri che oggi si trovano a lavorare, lo fanno in condizioni di sfruttamento elevato. E penso solo al caso delle persone impiegate in agricoltura… Quindi, in situazioni e in condizioni di para-schiavismo: un lavoro che certamente e giustamente gli italiani non vogliono fare … Direi proprio che non c’è nulla di più sbagliato nell’affermare che gli stranieri oggi possano rubare, in qualche modo, il lavoro agli italiani.

D. - E intanto il ministro degli Interni, Alfano, ha annunciato che l’operazione “Mare Nostrum” chiuderà e dal primo novembre, invece, partirà “Triton”, che sostituirà il soccorso con il pattugliamento delle frontiere. Che cosa significa questo nello specifico?

R. - Anche su questo, purtroppo, le informazioni circolate negli ultimi mesi sono state molte e confuse, mi permetto dire. Un’operazione che nei fatti sarà molto più limitata sia in termini di mezzi che in termini spazi di intervento. L’esito - a nostro modesto avviso - sarà quello che di un ritorno al passato e quindi un dispositivo che non avrà certamente l’efficacia che sta avendo “Mare Nostrum”, il quale però - a quanto ha detto anche il nostro primo ministro - è destinato a chiudere a breve.

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Nella Chiesa e nel mondo



Gemelli: cappella intitolata a San Giovanni Paolo II

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Domani ricorre la prima memoria liturgica di San Giovanni Paolo II, fissata da Papa Francesco il 22 ottobre di ogni anno, giorno in cui nel 1978 Karol Wojtyla celebrò la Messa di inizio pontificato e pronunciò la storica frase, divenuto motto dei suoi 27 anni di papato (1978-2005): “Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!”.

Nell’occasione - riferisce l'agenzia Sir - nella cappella del secondo piano del Policlinico universitario A. Gemelli, alle ore 17.00, avrà luogo la Santa Messa di dedicazione a San Giovanni Paolo II del luogo di culto all’interno dell’ospedale dove il Papa santo fu accolto e curato durante i dieci ricoveri nel corso del suo pontificato. Nel corso dell'evento sarà collocata nella cappella una reliquia del sangue di San Giovanni Paolo II, custodita in una teca color argento con sfondo rosso.

La celebrazione di intitolazione, autorizzata dal cardinale Vicario del Santo Padre per la Città di Roma, Agostino Vallini, sarà presieduta da mons. Claudio Giuliodori, Assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica. Insieme a mons, Giuliodori concelebreranno i Padri cappellani dell’Ordine dei Frati Minori e gli Assistenti pastorali della Sede di Roma dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. È un evento atteso con emozione da tutta la comunità universitaria anche per lo speciale legame del Policlinico A. Gemelli con San Giovanni Paolo II.

«La testimonianza del Pontefice polacco nel corso dei numerosi ricoveri ha lasciato un segno indelebile nella storia e nel volto del Policlinico Gemelli - afferma mons. Giuliodori -. Con l’intitolazione della cappella e la collocazione della reliquia si vuole rendere ancora più profondo questo legame, affinché il suo esempio nell’affrontare la malattia e il suo insegnamento sul valore della sofferenza continuino a guidare le attività della Facoltà di Medicina e chirurgia della Cattolica e del Policlinico». (R.P.)

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Libia: raid governativi su Bengasi, uccisi almeno 40 jihadisti

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Libia ancora nel caos all’indomani del terzo anniversario della morte di Gheddafi.  Circa 40 jihadisti sono stati uccisi nei bombardamenti dell'aviazione governativa nelle ultime 24 ore a Bengasi. Lo riferiscono fonti militari libiche citate dai media locali. A Bengasi sono almeno 80 le persone rimaste uccise dal 15  ottobre, giorno in cui è partita l'operazione annunciata dal generale Khalifa Haftar per "liberare" la città dai gruppi islamisti armati. 

Il Paese intanto resta dilaniato dalla guerra civile, diviso  tra due governi e due parlamenti che sono stati forzatamente allontanati dai miliziani islamici per  occupare  i territori di Bengasi e Tripoli . E la situazione continua a preoccupare l’Unione  Europea: ieri i ministri degli esteri dell’ Ue hanno chiesto a tutti le parti in Libia “di osservare urgentemente un cessate il fuoco”.

La soluzione del conflitto risiede – si legge nella nota conclusiva del vertice - nella collaborazione dell’Onu per una misura  di mediazione  politica negoziata con il parlamento libico che viene esortato a cercare un dialogo tra i partiti per risanare l’unità nazionale. (M.G.)

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Congo: Chiesa denuncia massacri di civili a Beni

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“La situazione è disperata. Ormai la gente non ha più alcuna fiducia nelle autorità congolesi, politiche e militari, e ha perso ogni speranza per il presente e il futuro. Vogliamo risposte chiare sul perché di questa ondata di violenza ai danni dei civili. Non ci stancheremo di esercitare pressioni su chi deve proteggere la popolazione”: lo dice all'agenzia Misna padre Laurent Sondirya Kahindo, segretario cancelliere della diocesi di Butembo-Beni.

Nella città della provincia del Nord Kivu (est) in meno di un mese un’ottantina di persone sono state uccise in diversi attacchi attribuiti ai ribelli ugandesi delle Forze democratiche alleate (Adf-Nalu).

“Una recrudescenza di barbarie inspiegabile visto che da mesi le autorità locali e provinciali ci assicurano che la lotta contro le Adf-Nalu sta dando ottimi risultati e che i ribelli ugandesi sono stati quasi del tutto neutralizzati (l’operazione ‘Sokola’, pulire in lingua locale, è in corso dallo scorso gennaio, attuata dall’esercito congolese con il sostegno dei Caschi blu, ndr).

Purtroppo i fatti degli ultimi giorni sono di segno totalmente opposto” prosegue con tono scettico la stessa fonte religiosa locale. A suscitare molti interrogativi e a scoraggiare ulteriormente gli abitanti di Beni, il fatto che uno degli ultimi villaggi attaccati dagli insorti ugandesi “dove donne e bambini sono stati massacrati, si trova a due passi da un campo militare della missione Onu (Monusco)”.

Alla Misna padre Kahindo riferisce anche dei “rinnovati timori di nuove possibili violenze ai danni di civili indifesi” dopo che quasi 400 prigionieri sono evasi dal carcere di Butembo lo scorso fine settimana, in seguito ad un attacco attribuito a “non meglio identificati uomini armati”.

In segno di solidarietà ma anche di protesta per le violenze patite dai civili di quella zona, uno sciopero generale è stato osservato ieri a Beni e nelle principali località del Nord Kivu – tra cui il capoluogo regionale Goma (350 km a nord), ma anche Butembo e Lubero – trasformate in ‘villes mortes’ sotto una pioggia battente. La crescente insicurezza alimentata dalle Adf-Nalu ha già spinto alla fuga centinaia di sfollati verso il distretto dell’Ituri, nella vicina provincia Orientale.

Alla popolazione di Beni, in attesa di un “rafforzamento delle operazioni militari” contro i ribelli ugandesi, il ministro dell’Interno Richard Muyej, in visita sul posto, ha assicurato che il governo e le forze regolari (Fardc) “dispongono delle risposte appropriate”. Muyej e il governatore del Nord Kivu Julien Paluku Kahongya hanno invitato “le forze di sicurezza, le popolazioni e la classe politica a lavorare insieme per annientare le forze negative che destabilizzano la regione”. (V.V.)

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Liberia: appello della Chiesa per le famiglie colpite da Ebola

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Non solo morte e fame, ma anche una rabbia crescente e la diffusa sensazione di essere stati abbandonati da Dio e da tutti: queste le drammatiche conseguenze dell’epidemia di Ebola in Liberia, uno dei tre Paesi più colpiti dall’epidemia, insieme alla Sierra Leone e alla Guinea Conakry, con almeno 2.400 vittime. E’ un grido di allarme quello lanciato da mons. Anthony Fallah Borwah, vescovo di Gbarnga, che in un’intervista telefonica all’agenzia Cns si appella ai confratelli in tutto il mondo ad usare la loro influenza presso la comunità internazionale per aiutare le famiglie colpite in Africa occidentale.

“Intere famiglie sono state decimate”, mentre il collasso di tutte le attività economiche in un Paese già povero e devastato da decenni di guerra civile le sta riducendo letteralmente alla fame, denuncia il presule che non ha potuto partecipare al Sinodo dei vescovi appena concluso, proprio a causa dell’emergenza sanitaria.

L’epidemia sta mettendo a durissima prova anche i rapporti umani all’interno delle stesse famiglie: per evitare il contagio non si celebrano più funerali, mentre la psicosi del contagio esaspera la diffidenza e impedisce di esprimere qualsiasi forma di affettività: “Di fronte ad Ebola stiamo perdendo la nostra umanità. Questa malattia rende impossibile la normale gentilezza umana, come mettere il braccio attorno a qualcuno che piange”, dice il presule. “Siamo un popolo distrutto dal dolore”.

Per mons. Borwah, è urgente cercare le cause della malattia per fermare le teorie del complotto che si vanno diffondendo tra la popolazione come il virus. “La chiave per sopravvivere è recuperare la nostra umanità, la nostra naturale gentilezza umana”, sottolinea. E la Chiesa in Liberia si sta muovendo anche su questo fronte, nella consapevolezza che occorre un approccio integrale alla crisi che non è solo sanitaria. “Come Chiesa dobbiamo puntare la nostra attenzione su soluzioni a lungo termine”, dice mons. mons. Borwah. (A cura di Lisa Zengarini)

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Centrafrica: episodi di violenza in tutto il Paese

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Case e terreni agricoli incendiati, saccheggi e furti su vasta scala: è il prezzo che stanno pagando quotidianamente gli abitanti della zona di Kouango, nella regione della Ouaka, al centro del Paese, ostaggi dell’ex coalizione ribelle Seleka e delle milizie di autodifesa Anti-Balaka. I due gruppi in lotta da mesi accusano i residenti di collaborare con la parte rivale, e così scattano vendette e rappresaglie.

Nei giorni scorsi almeno cinque civili sono stati pubblicamente giustiziati nei villaggi di Bangao e Bomballa, con l’accusa di “collaborazione con la Seleka”, da un gruppo di individui armati collegati agli Anti-Balaka, arrivati da Bambari. In un altro villaggio alle porte di Kouango, due giovani uomini sono stati uccisi da ex Seleka per “tradimento” e “appartenenza” alla milizia Anti-Balaka.

“Smarriti e impauriti dal clima di terrore, gli abitanti scappano nei campi o attraversano il fiume Oubangui per trovare rifugio nella confinante Repubblica Democratica del Congo. La gente viene perseguitata e cacciata come se fosse bestiame” ha riferito l’emittente locale Radio Ndeke Luka sulla base di testimonianze locali anonime.

Dallo scorso anno gli ex Seleka hanno preso il controllo della Ouaka e hanno stabilito il proprio feudo a Bambari, capoluogo regionale, abbandonato dalle autorità locali.

Nel frattempo gravi episodi di violenza vengono denunciati nella diocesi settentrionale di Kaga-Bandoro, in particolare nella zona di Nana Gribizi. Lo scorso fine settimana è stato rapito per alcune ore da miliziani Anti-Balaka un religioso belga, padre Luc Delphes, responsabile della Caritas Internazionale a Kaga-Bandoro. Invece nella stessa zona manca ancora all’appello il prete polacco Mathieu Dziedzic, portato via 11 giorni fa dagli uomini del Fronte democratico del popolo centrafricano (Fdpc) del capo ribelle Martin Koumta-Madji, meglio noto come Abdoulaye Miskine.

Anche nella capitale Bangui la situazione è tornata instabile nelle ultime settimane. Al termine di una missione della mediazione internazionale nella crisi centrafricana, il Presidente congolese Denis Sassou Nguesso ha chiesto al Capo di Stato Catherine Samba Panza, al governo e al Consiglio nazionale di transizione (Cnt, parlamento) di “accelerare il processo di transizione, lavorando in modo sereno, inclusivo e consensuale”, ma anche di “aprire il dialogo politico”, “rispettare la scadenza elettorale del 2015” e”ristabilire la sicurezza a Bangui”. (V.V.)

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Chiesa pakistana: Giornata di digiuno e preghiera per Asia Bibi

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La Chiesa pakistana celebra oggi la Giornata di digiuno e preghiera per Asia Bibi, condannata a morte per blasfemia e in attesa del ricorso alla Corte suprema, ultimo passaggio per scongiurare l'uccisione di una innocente. Il vescovo di Islamabad-Rawalpindi Rufin Anthony - riporta l'agenzia AsiaNews - sottolinea che "preghiamo per Asia Bibi, la sua famiglia, per Zafar Bhatti e le altre persone imprigionate a causa delle leggi sulla blasfemia".

Maulana Muhammad Mehfooz Ali Khan, del Consiglio per l'ideologia islamica, ricorda che lo scopo delle leggi è quello di "proteggere la sacralità della religione e il profeta Maometto". Tuttavia, aggiunge, "nessun innocente dovrebbe essere vittima in nome della religione" e gli abusi compiuti "vanno condannati". 

Dal canto suo Haroon Barkat Masih, direttore della “Masihi Foundation”, impegnata in Pakistan per il miglioramento della vita dei cristiani e anche nella difesa di cristiani ingiustamente accusati di blasfemia, in un colloquio all'agenzia Fides afferma che “ci sono troppi interessi in gioco dietro al caso di Asia Bibi. Troppi poteri forti e troppe pressioni che, alla fine, coprono e finiscono per calpestare la verità dei fatti”.

All’indomani della sentenza di appello che ha confermato il verdetto di morte per la donna cristiana accusata di blasfemia, il direttore nota a Fides: “Continuiamo a sperare perché, da cristiani, la nostra fede alimenta la speranza. Continuiamo a pregare per Asia Bibi e per il suo rilascio, perché il Signore la protegga e la consoli”, dice Masih. “Ma ci sono molti elementi che non inducono all’ottimismo. Basti ricordare che sulla testa di Asia pende ancora una taglia, promessa da un imam, che premia chi la ucciderà”. 

Secondo Barkat, “le pressioni e la mobilitazione internazionale possono essere utili”, ma soprattutto “è necessaria la volontà politica del governo e delle massime autorità pakistane” se si vuole porre fine a un storia segnata da evidenti ingiustizie. Ma il Premier attuale, Nawaz Sharif, “in passato ha dato ampio spazio a gruppi estremisti e approvato la legge sulla blasfemia per calcolo politico: dunque non sembra quello più adatto a prendere posizione contro tali pressioni”. “La corruzione e il desiderio di sfruttare il caso per fini economici è un altro aspetto presente” aggiunge Haroon Barkat.

Il direttore ricorda infine che alla Corte Suprema la sentenza di condanna può essere ribaltata e che, anche in caso di condanna, il Presidente del Pakistan avrebbe sempre il potere di concedere la grazia. (R.P.)

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Messico: la Chiesa chiede verità sugli studenti scomparsi

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Continuate a cercare gli studenti di Ayotzinapa, Guerrero, e punite i colpevoli: questa l’esortazione del segretario della Conferenza episcopale messicana (Cem), mons. Eugenio Lira Rugarcía, alle autorità del Paese nel suo intervento al 14.mo Incontro nazionale di Pastorale della Salute, tenutosi a Merida (Messico). La nota inviata all'agenzia Fides riporta le sue parole: “queste cose non possono continuare ad accadere in Messico, non si può tollerare una situazione dove ci sono persone che scompaiono. Dobbiamo camminare insieme, come società e Paese sicuro, dove si riesca a vivere in pace".

Mons. Eugenio Lira Rugarcía, vescovo ausiliare di Puebla de los Ángeles, ha espresso solidarietà alle famiglie delle vittime e ha sottolineato che “tale situazione ci deve preoccupare tutti, perché: quando non si rispetta il diritto di uno solo, si mette a rischio il diritto di tutti". Inoltre ha ricordato che la Chiesa assiste e rispetta la richiesta di numerosi gruppi a favore della giustizia, ma senza politicizzare nessuna richiesta.

Il Messico vive momenti delicati in seguito alla vicenda degli studenti di Ayotzinapa, Guerrero. Mentre le autorità del governo centrale continuano a cercare gli studenti (vivi o morti), la popolazione organizza marce e manifestazioni contro le autorità locali corrotte e a favore della popolazione rurale, che ha sempre subito questo tipo di emarginazione ed ingiustizia. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 294

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.