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Sommario del 01/09/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa: annunciare il Vangelo non per convincere. La forza della Parola è Gesù

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Non si annuncia il Vangelo per convincere con parole sapienti ma con umiltà, perché la forza della Parola di Dio è Gesù stesso e solo chi ha un cuore aperto lo accoglie: è quanto, in sintesi, ha detto Papa Francesco che ha ripreso oggi, nella Messa mattutina di Santa Marta, le sue omelie dopo la pausa estiva. Il servizio di Sergio Centofanti

Commentando le letture del giorno, il Papa spiega cosa sia la Parola di Dio e come accoglierla. San Paolo ricorda ai Corinzi di aver annunciato il Vangelo non basandosi su discorsi persuasivi di sapienza:

“Paolo dice: ‘Ma, io non sono andato da voi per convincervi con argomenti, con parole, anche con belle figure … No. Io sono andato in altro modo, con un altro stile. Sono andato sulla manifestazione dello Spirito e della Sua potenza. Perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio’. Così, la Parola di Dio è una cosa diversa, una cosa che non è uguale a una parola umana, a una parola sapiente, a una parola scientifica, a una parola filosofica … no: è un’altra cosa. Viene in un altro modo”.

E’ quanto accade con Gesù, quando commenta le Scritture nella Sinagoga di Nazareth, dove era cresciuto. I suoi conterranei, inizialmente, lo ammirano per le sue parole ma poi s’infuriano e cercano di ucciderlo: “Sono passati da una parte all’altra – spiega il Papa - proprio “perché la Parola di Dio è una cosa diversa rispetto alla parola umana”. Infatti, Dio ci parla nel Figlio, “cioè, la Parola di Dio è Gesù, Gesù stesso” e Gesù “è motivo di scandalo. La Croce di Cristo scandalizza. E quella è la forza della Parola di Dio: Gesù Cristo, il Signore. E come dobbiamo ricevere la Parola di Dio? Come si riceve Gesù Cristo. La Chiesa ci dice che Gesù è presente nella Scrittura, nella Sua Parola”. Per questo – afferma il Papa – è così importante “leggere durante la giornata un passo del Vangelo”:

“Perché, per imparare? No! Per trovare Gesù, perché Gesù è proprio nella Sua Parola, nel Suo Vangelo. Ogni volta che io leggo il Vangelo, trovo Gesù. Ma come ricevo questa Parola? Eh, si deve ricevere come si riceve Gesù, cioè con il cuore aperto, con il cuore umile, con lo spirito delle Beatitudini. Perché Gesù è venuto così, in umiltà. E’ venuto in povertà. E’ venuto con l’unzione dello Spirito Santo”.

“Lui è forza – ha proseguito il Papa - è Parola di Dio perché è unto dallo Spirito Santo. Anche noi, se vogliamo ascoltare e ricevere la Parola di Dio, dobbiamo pregare lo Spirito Santo e chiedere questa unzione del cuore, che è l’unzione delle Beatitudini. Un cuore come è il cuore delle Beatitudini”:

“Ci farà bene oggi, durante la giornata, domandarci: ‘Ma, come ricevo, io, la Parola di Dio? Come una cosa interessante? Ah, il prete oggi ha predicato questo … ma che interessante! Che saggio, questo prete!’, o la ricevo così, semplicemente perché è Gesù vivo, la Sua Parola? E sono capace – attenti alla domanda! – sono capace di comprare un piccolo Vangelo – costa poco, eh? – comprare un piccolo Vangelo e portarlo in tasca, portarlo in borsa e quando posso, durante la giornata, leggere un passo, per trovare Gesù lì? Queste due domande ci faranno bene. Il Signore ci aiuti”.

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In udienza dal Papa i vescovi del Camerun in visita "ad Limina"

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Papa Francesco ha ricevuto nel corso della mattinata, in successive udienze, la granduchessa Maria Teresa di Lussemburgo, l’arcivescovo Luigi Pezzuto, nunzio apostolico in Bosnia ed Erzegovina e in Montenegro, e un gruppo di presuli della Conferenza episcopale del Camerun in visita “ad Limina”.

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A Roma la partita interreligiosa per la pace; i giocatori incontrano il Papa

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Questa sera, alle 20.45, allo Stadio Olimpico di Roma, si gioca la prima partita interreligiosa per la pace. L’iniziativa è nata da un incontro tra Papa Francesco e il giocatore argentino Zanetti. L’incasso sarà devoluto, in beneficenza, a due strutture educative giovanili (Scholas Occurrentes e Fondazione P.U.P.I. Onlus). Nel pomeriggio, alle 16, il Papa incontra i giocatori che partecipano all’evento: tra questi, Messi, Buffon, Zidane, Baggio, Eto'o e Pirlo, oltre allo stesso Zanetti. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Massimo Achini, presidente del Csi, il Centro Sportivo Italiano: 

R. - Questa non è semplicemente una partita, ma un qualcosa di molto più grande che credo regali a tutti gli sportivi, e più in generale a tutti gli uomini che oggi si sentono cittadini del mondo e che hanno a cuore il valore immenso della pace, un’emozione unica. Sono passati circa due mesi da quando Papa Francesco ha incontrato tutto il popolo del Centro Sportivo Italiano per i 70 anni, invitandoci a “giocare in attacco”: allora, a noi piace immaginare subito che il Csi riprenda questa sfida di uno sport al servizio della pace non solo in questa meravigliosa partita, ma in tutte le partite che si giocheranno quest’anno nei campetti degli oratori e delle periferie di tutta Italia.

D. - Dove lo sport ha quella marcia in più, se non altro per lanciare un messaggio di pace in modo più efficace, rispetto alle diplomazie e agli incontri che giornalmente vengono fatti a livello mondiale?

R. - Noi siamo fortemente convinti che lo sport rappresenti uno strumento educativo straordinario e dalle potenzialità incredibili. Mi piace immaginare, per esempio, che da questa meravigliosa partita nasca anche un’idea - che certo è simbolica, ma che dà un valore forte - di realizzare partite tra tutti quei Paesi che vivono quei momenti di conflitti, di tensione per testimoniare quello che tutti sanno e cioè lo sport può davvero avvicinare i popoli con una velocità impressionante.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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All'Angelus Papa Francesco mette in guardia i cristiani dal rischio di diventare mondani e chiede impegno per salvaguardare l'ambiente.

Nell'informazione internazionale, in rilievo la crisi irachena: rotto l’assedio dell’Is alla città di Amerli, segnalati nuovi combattimenti sui fronti siriani.

Capì per primo come tutto stava cambiando: in cultura, Gianpaolo Romanato sui cento anni dall'elezione di Papa Benedetto XV.

Storia di una battaglia: Emilio Ranzato sugli ottant'anni di Sophia Loren.

E i tiranni scoprirono il calcio: Gaetano Vallini sul rapporto tra le dittature e uno degli sport più popolari del Novecento.

L’avidità e il profitto porteranno all’ira della natura: nel servizio religioso, il patriarca ortodosso Bartolomeo per la giornata per la salvaguardia del creato.

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Oggi in Primo Piano



Il patriarca Raï: fermare jihadisti o si torna alla preistoria

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I patriarchi cattolici e ortodossi del Medio Oriente, riuniti in questi giorni a Bkerké, in Libano, hanno lanciato a tutto il mondo un appello a intervenire con urgenza contro la minaccia dei jhadisti del sedicente Stato Islamico. Ascoltiamo il cardinale libanese Béchara Boutros Raï, patriarca di Antiochia dei Maroniti, al microfono di Manuella Affejee

R. - Quello che sta succedendo per mano dello Stato islamico e di altri gruppi fondamentalisti, ci riporta alla preistoria, ci riporta al tempo in cui ancora non c’era alcuna legge. Faccio un esempio. Arriva un bel giorno lo Stato Islamico ed emette un decreto per i cristiani: o vi convertite all’Islam o pagate la tassa, perché non siete musulmani, o lasciate subito le vostre case. Avete due giorni, altrimenti … la spada. Le vostre case e le vostre proprietà sono ormai nostre! E vedere che il mondo intero osserva in silenzio assoluto, vuol dire che siamo tornati all’era della preistoria! Questo è un grande scandalo! Questa è una piaga nell’umanità. Quindi abbiamo fatto questo appello affinché la Comunità internazionale, il mondo arabo e l’Unione Europea si assumano la responsabilità di mettere fine a questi gruppi fondamentalisti per salvare la dignità stessa dell’umanità e salvare la pace nel mondo: questi gruppi minacciano il mondo intero, perché sono ricchi, sostenuti finanziariamente e con tutte le armi sofisticate date dai diversi Stati… Costituiscono una minaccia enorme! Noi abbiamo parlato fortemente alla coscienza mondiale: lo abbiamo detto; l’ho detto io stesso ai parlamentari cattolici internazionali durante l’incontro a Frascati di questi giorni; lo diremo, noi Patriarchi, a Washington, dove dal 9 all’11 settembre si terrà un convegno dal titolo “In difesa dei cristiani del Medio Oriente”.

D. – Come cristiani del Medio Oriente cosa volete dire al mondo?

R. - Vogliamo dire al mondo intero che noi cristiani del Medio Oriente non siamo una minoranza: lo statuto di minoranza non si applica ai cristiani, si applica ai gruppi etnici, ai gruppi politici, ai gruppi culturali. Noi siamo la Chiesa di Cristo presente in Medio Oriente. Quindi, non siamo una minoranza! Siamo cittadini di tutti questi Paesi del Medio Oriente da duemila anni, 600 anni prima dei musulmani. Abbiamo vissuto con i musulmani 1400 anni e abbiamo trasmesso loro i valori del Vangelo, i valori e la dignità della persona umana, la sacralità della vita umana; ma abbiamo anche ricevuto dalle tradizioni e dai valori dei musulmani: abbiamo costruito una cultura insieme, una civiltà insieme. Devo dire al mondo intero che la Siria, l’Egitto, la Giordania, la Palestina, l’Iraq sono culture cristiane, con un fondamento interamente cristiano. Non possono venire qui e demolire tutto quello che nell’arco di 2000 anni e di 1400 anni abbiamo costruito!

D. – Si parla di riforme politiche …

R. - Basta parlare di riforme politiche e di democrazia. Loro non cercano questo e lo dico chiaramente, perché ormai nessuno lo ignora: gli Stati fanno i propri interessi politici ed economici! Ormai sappiamo tutto nel dettaglio. Quindi bisogna dire la verità: questa è la Radio Vaticana che porta la voce del Papa, la voce della verità. Il mondo ha bisogno di verità! Le coscienze umane hanno bisogno di essere toccate dalla Parola del Vangelo. Bisogna che l’umanità riprenda la sua dignità e si assuma le sue responsabilità a livello internazionale e locale. Noi cristiani sopportiamo tutto con i nostri fratelli, che sono vittime in Medio Oriente, e portiamo con loro la Croce della Redenzione. E non rinunceremo!

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Iraq: offensiva governativa contro l’Is, curdi e sciiti prendono Amerli

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In Iraq, prosegue l’offensiva governativa col sostegno dei raid americani contro le milizie del sedicente Stato islamico (Is). Dopo due mesi, è stato rotto l’assedio dei jihadisti alla città turcomanna di Amerli. Le forze curde e i miliziani sciiti hanno inoltre riconquistato la città di Sulaiman Bek sempre a scapito dell’Is. Il servizio di Marco Guerra: 

I soldati del governo centrale iracheno, affiancati dai combattenti curdi e miliziani sciiti e appoggiati dai bombardamenti aerei americani, sono riusciti a spezzare l'assedio dei jihadisti intorno alla città di Amerli, abitata dalla comunità turcomanna, che durava da  circa due mesi. I turcomanni, una delle tante minoranze del mosaico iracheno, sono finiti nel mirino dei ribelli integralisti sunnti, come era già avvenuto per gli yazidi e cristiani nel nord dell’Iraq. Sempre nel nord del Paese, l’alleanza di diverse forze irachene ha riconquistato la città di Sulaiman Bek. A poca distanza si combatte poi per la riconquista del villaggio di Yankaja. Si tratta della più vasta operazione governativa dall’avanzata del sedicente Stato islamico nel giugno scorso. E anche nelle ultime ore proseguono i raid dell’aviazione Usa sulle postazioni dell’Is, oltre 120 quelli realizzati dall’avvio dell’intervento lo scorso 8 agosto. Secondo l’Onu, almeno 1.420 persone hanno perso la vita solo nel mese di agosto in Iraq per l'avanzata dell’Is. Intanto non si attenua l’emergenza per il milione e 600mila a sfollati interni. Anno scolastico a rischio a causa delle miglia di scuole occupate e usate come rifugio. Ma sui motivi di questa collaborazione inedita tra curdi e sciiti sentiamo Andrea Plembani, docente all'Università Cattolica di Milano e ricercatore dell’Ispi: 

R. – Questa alleanza va letta nell’ottica di un rafforzamento degli interessi delle parti che ostacolano, appunto, l’ascesa dello Stato islamico. E’ la chiara percezione che ci sia una minaccia ben più significativa di quanto ci si aspettasse in passato e quindi di quanto sia necessario rispondere con un intervento congiunto – che è anche, tra l’altro, quello che gli Stati Uniti hanno sempre richiesto. Un intervento congiunto che questa volta ha messo assieme componenti differenti, tra cui le forze regolari dello Stato iracheno, almeno quelle che sono sopravvissute al disastro di Mosul, i peshmerga, ovvero i guerriglieri curdi – che dal nord hanno avuto un ruolo sempre più fondamentale nel rispondere alla sfida dello Stato islamico – e le milizie sciite, che hanno risposto all’appello delle principali autorità religiose sciite irachene. E’ quindi il tentativo di mettere assieme forze molte diverse, che hanno agende significativamente molto differenti, ma hanno un interesse comune almeno in questo momento.

D. – Il fatto che siano tutti minacciati dallo Stato islamico potrebbe ricomporre le fratture dell’Iraq?

R. – In parte potrebbe contribuire a ricomporre tali fratture, ma solo se lo sforzo militare attuale sarà sostenuto da uno sforzo politico locale e anche a livello internazionale. Le fratture di questo tipo di Iraq sono sempre state presenti. Il problema è cercare di ricreare un tessuto sociale condiviso, di dare una progettualità a quello che era lo Stato iracheno sorto dalle ceneri del regime di Saddam Hussein. Per quanto riguarda il nemico comune, e quindi ricomposizione delle fratture, bisogna anche notare una tattica molto interessante da parte dello Stato islamico: il tentativo cioè di colpire dei gruppi ben selezionati, ben scelti, delle minoranze. Non è un caso che si colpiscano minoranze: in questo caso i turcomanni, quindi popolazioni di etnia turcica, ma in particolare ad Amerli, una comunità turcomanna di fede sciita. Il tentativo delle forze dello Stato islamico è quello di colpire nemici che possano rientrare all’interno della sua propaganda: gli sciiti rappresentano per le forze dello Stato islamico degli apostati.

D. – L’Occidente proseguirà questa guerra per procura, con gli Usa direttamente interessati con l’aviazione o dobbiamo attenderci un’ulteriore escalation?

R. – Temo che dovremmo accontentarci di un sostegno esterno alla lotta che è stata ingaggiata dalle forze regolari irachene, dai peshmerga, oltre che da queste minoranze sciite. Dico temo perché, a mio parere, non si tratta sicuramente di un intervento decisivo: si tratta di cercare di spostare indietro, di ricacciare le forze dell’Isis per rompere questa offensiva. Questo non significa però sconfiggerle. Per sconfiggere questa minaccia, bisogna intervenire sul doppio fronte iracheno con un numero di forze ben superiori a quelle e molto più addestrate di quelle che al momento stanno combattendo – il che richiede per forza di cose un intervento statunitense – ma anche l’azione di attori regionali di primissimo livello. Mi riferisco in particolar modo alla Turchia, ma anche all’Iran stesso, per poi estenderci all’Arabia Saudita e al Qatar che hanno interessi ben differenti tra l’altro. In realtà, sarebbe necessario un intervento sul territorio concertato. Finché non si colpiranno le due teste di questo movimento, in parte siriana e in parte irachena, non si potrà assolutamente averne ragione, perché il confine tra questi due Stati, la Siria e l’Iraq, è ormai un confine tracciato sulla carta, ma di fatto inesistente.

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Ucraina: Lavrov chiede il cessate-il-fuoco. Ue pronta a sanzioni

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Non intendiamo intervenire militarmente in Ucraina e siamo per una soluzione pacifica della crisi. Lo ha detto il ministro degli Esteri russo, Lavrov. Mosca auspica che dai colloqui di oggi a Minsk del Gruppo di contatto arrivi un cessate-il-fuoco senza condizioni. Ma sul terreno l’esercito di Kiev è stato costretto alla ritirata dopo ore di combattimenti all’aeroporto di Lugansk, roccaforte dei separatisti filorussi: sette i militari ucraini morti, 680 quelli catturati. Cecilia Seppia: 

Se ieri Putin si era lasciato scappare un “se voglio, posso prendere Kiev in due settimane” – oltre all’ipotesi di creare un'entità statale nel sud dell’Ucraina, che ha alimentato così una pioggia di polemiche – questa mattina ci ha pensato il suo ministro degli Esteri, Lavrov, a placare gli animi assicurando che all’orizzonte di Mosca non c’è alcuna intenzione di intervenire militarmentea, anzi si pensa e si lavora ad una soluzione pacifica della crisi e ad un dialogo inclusivo. Auspicio questo con cui si svolge a Minsk, in Bielorussia, il vertice del Gruppo di contatto sull’Ucraina che riunisce rappresentanti di Mosca, Kiev e dell’Osce (Organizzazione per la cooperazione e la  sicurezza in Europa) e dal quale si spera possa venir fuori un cessate-il-fuoco condiviso e immediato. Il leader russo, Vladimir Putin, si leva intanto anche contro l’Ue, pronta a nuove sanzioni, e chiede che a prevalere sia il buon senso e che “si evitino misure reciprocamente distruttive”. Ma il neopresidente del Consiglio Ue, Donald Tusk sembra risoluto: mette in guardia dalla guerra in Ucraina e non solo e da "atteggiamenti di ingenuo ottimismo in Europa". Dal canto suo, la Nato assicura che la sua presenza sarà più visibile ad est e verrà rafforzata la capacità di intervento delle sue forze di pronto impiego. Sul terreno, però, infuria la battaglia: l’esercito di Kiev è stato costretto alla ritirata dall’aeroporto di Lugansk. Missili a Mariupol, mentre gli sfollati dell’est superano quota 230 mila

A questo punto della crisi, qual è l’obiettivo prioritario del presidente russo Putin? Cecilia Seppia lo ha chiesto ad Orietta Moscatelli, caporedattore Esteri di "Aska News" ed esperta dell’area: 

R. – Putin ha un obiettivo – certamente a brevissimo termine e sul quale sta spingendo verbalmente anche sul terreno – di arrivare forse a un tavolo negoziale se sarà inevitabile anche per gli ucraini. Ma certamente di arrivare a un appuntamento elettorale in cui Poroshenko e colleghi si ritrovino a dover ammettere che non sono stati in grado di mantenere le promesse, per quanto riguarda questa parte del Paese.

D. – Altra affermazione di Putin, poi celermente smentita, è quella di avviare negoziati sul sistema statale e per dar vita a un’entità statale, appunto la cosiddetta “Novorossia”, nell’est dell’Ucraina. Ipotesi questa che riapre il dibattito sul federalismo, di fatto…

R. – Assolutamente sì. Ci ritroviamo, dopo mesi di guerra, al punto di partenza sul piano politico e la Russia si ritrova a chiedere che questa zona, la "Novorossia" – la "Nuova Russia", che in passato, quando c’era lo Stato zarista era parte integrante della Russia – abbia delle sue specificità a livello di ordinamento, a livello di leggi, a livello di tutela degli interessi di questa minoranza russa, che poi minoranza non è, e di questa maggioranza russofona.

D. – Il premier polacco Tusk, da poco nominato presidente del Consiglio Ue, ha messo in guardia dalla guerra in Ucraina e anche da atteggiamenti di ingenuo ottimismo in Europa. Sappiamo anche che l’Europa in questo momento è spaccata sul fronte delle sanzioni alla Russia. Allora, quale deve essere il suo ruolo? Quale la sua strategia in questa crisi?

R. – Adesso, l’Europa dovrebbe avere un ruolo importantissimo ma io, in tutta sincerità, non credo che ancora nell’Unione Europea ci sia la forza per una politica estera indipendente. E' basilare il ruolo degli Stati Uniti che spacca abbastanza il fronte europeo e continuerà a farlo. Si è venuta a creare, con questo giro di nomine e con la formazione del nuovo esecutivo europeo, un assetto abbastanza equilibrato: la politica estera ufficialmente è in mano a Federica Mogherini, che è a capo di un Paese storicamente propenso al negoziato con la Russia. Il presidente del Consiglio Ue diventa Donald Tusk, che invece rappresenta un Paese che, con il rapporto pessimo con la Russia, ha attraversato secoli di storia. Quindi, a questo punto, c’è una situazione di potenziale equilibrio che potrebbe – potrebbe – quanto meno consigliare alla Russia, a un ministro degli esteri come Lavrov, la possibilità di un negoziato. Io purtroppo sono convinta semplicemente che il regime di sanzioni in quanto tale non porti a soluzioni.

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Tregua a Gaza: la testimonianza di una focolarina che vive in Israele

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La ricostruzione della Striscia di Gaza richiederà almeno 20 anni. E' la valutazione a cui è arrivato il Coordinamento di una trentina di organizzazioni umanitarie, tra le quali la Croce Rossa e l'agenzia Onu per i rifugiati. Circa 17.000 le unità abitative che sono state distrutte o gravemente danneggiate dalle recenti operazioni israeliane contro Gaza. Intanto, in attesa di nuovi negoziati, si continua a sperare che la tregua raggiunta possa diventare una pace duratura tra palestinesi e israeliani. A questo proposito, Adriana Masotti ha sentito Kasia, di origine polacca, appartenente al Movimento dei Focolari, che da oltre 10 anni vive in Israele: 

R. - Sicuramente con la tregua si è tirato un sospiro di sollievo, perché la tensione è stata grande. Però, c’è anche la sensazione che nessuno abbia vinto e anche amarezza per tutto quello che è successo.

D. - Quanto forte è la speranza che questa tregua si trasformi in una pace duratura?

R. - Io, vedendo e sentendo le persone, ho la sensazione che da un lato ci sia una forte speranza di pace, perché tutti vogliono la pace; dall’altro lato ci si chiede: “A questo punto, come fare? E’ veramente possibile?”. C’è un po’ di scoraggiamento, però dobbiamo avere sempre la speranza, perché senza la speranza non si può andare avanti.

D. - Alla fine di quei 50 giorni di violenze, hai l’impressione che sia rimasto più l’odio per l’altro, oppure la costatazione che la guerra sia un male assolutamente da evitare?

R. - Mi sembra che ci siano un po’ tutte e due le cose: la convinzione più forte è che la guerra sia sicuramente la cosa più importante da evitare, soprattutto dopo quello che è successo. Però, ci sono stanti tanti segni di solidarietà, anche da parte ebraica come la marcia a Tel Aviv, quando gli ebrei sono scesi in piazza per protestare contro quanto succedeva; oppure, aiuti concreti come quelli di una ditta farmaceutica che ha aperto le porte all’ospedale cristiano per fornire medicine; inoltre è stata portata alla Caritas anche una macchina piena di medicine. Adesso che si è calmata la situazione, la gente torna alla quotidianità della convivenza, perché è cosciente che, sì, da un lato forse c’è questo “vorremmo vincere”, dall’altro lato ci si rende conto sempre di più che non si può vivere senza gli altri.

D. – E’ indubbio, che i danni maggiori della guerra li abbia subiti la Striscia di Gaza, quindi i palestinesi. C’è ora la volontà di aiutare la ricostruzione di quel territorio?

R. - Sì, quando sarà più chiaro il da farsi, sicuramente si attiveranno - anzi già ci sono - proposte e progetti, anche da parte ebraica…

D. – Da parte delle comunità di cristiani, ci sarà qualche iniziativa in questo senso?

R. - Sono già in corso alcune raccolte per fornire aiuti; tanti sono i progetti a Gerusalemme con varie Chiese e le istituzioni per aiutare a ricostruire Gaza. Però, sia sugli aiuti - ma soprattutto per la situazione stessa - c’è questa impressione per cui non si sa come andare avanti, come cambiare la situazione, come si può raggiungere la pace. Vanno bene le trattative e la politica, però bisogna trovare un modo nuovo di convivere. Io inviterei veramente tutti a leggere sul sito della Custodia di Terra Santa il discorso che ha fatto a Rimini il Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, proprio sulla situazione vista dalla prospettiva cristiana: siamo invitati tutti a vivere questi avvenimenti guardando a Cristo.

D. - Cosa significa vivere in mezzo a conflitti, incertezze, in un contesto come il Medio Oriente, guardando a Cristo?

R. - Soprattutto avere la coscienza che Gesù è risorto - quindi, guardare da questa prospettiva - però, è anche morto sulla croce. La resurrezione nasce dalla croce, perciò bisogna prendere tutto quello che succede dalle mani di Dio, però sempre con la speranza che la pace è possibile, una soluzione è possibile. Si stanno facendo anche tante cose per avvicinare i due popoli, ci sono tante organizzazioni, tante iniziative e anche noi, come Movimento dei Focolari, cerchiamo di agire in questa direzione. Soprattutto conoscersi, perché sono mondi diversi che magari non si conoscono: c’è un punto di vista ebraico, un punto di vista palestinese… Ognuno ha le sue ragioni e non necessariamente vuole cedere, perché è stato educato così; succede anche che non ci sia tanto interesse, o che non si è educati ad interessarsi all’altro punto di vista.

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Pakistan: manifestanti anti-Sharif occupano tv di Stato

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Nuove tensioni in Pakistan. La sede della tv di Stato "Ptv" è stata assaltata a Islamabad da circa 400 oppositori che, guidati dal politico ed ex giocatore di cricket, Imran Khan, e dall’imam, Tahir ul-Qadri, da due settimane manifestano per chiedere le dimissioni del premier, Nawaz Sharif, vincitore delle legislative del 2013. Interrotte per più di un'ora le trasmissioni. Sono intervenuti i soldati dell'esercito, che hanno allontanato i manifestanti e l’emittente ha così ripreso i programmi. Il capo dell’esercito, il generale Raheel Sharif, ha poi incontrato il primo ministro a Rawalpindi e ha esortato il governo a risolvere la situazione di stallo politico senza far ricorso alla forza. Da sabato scorso, si contano almeno tre vittime e 500 feriti nelle proteste. Perché questa degenerazione delle manifestazioni? Risponde Elisa Giunchi, docente di Storia e istituzioni dei Paesi islamici all’Università Statale di Milano ed esperta dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). L’intervista è di Giada Aquilino

R. - Il problema è che nessuna delle parti coinvolte è disposta, al momento, a un compresso. Quindi, ci si trova in una situazione di stallo che presenta dei pericoli. Lo stallo c’è perché, da una parte, Nawaz Sharif ha annunciato la creazione di una commissione che investigherà sulle accuse di brogli elettorali, ma non ha fatto ulteriori e concessioni, dall’altra Imran Khan e Tahir ul-Qadri rifiutano sostanzialmente il dialogo e il compromesso con il governo, chiedendo delle misure che sono in realtà in parte estremamente vaghe - la formazione cioè di un governo nazionale di tecnocrati che introdurrebbero una nuova Costituzione, i cui termini però sono ancora indefiniti e in parte non realizzabili al momento: ad esempio le dimissioni di Nawaz Sharif, che per diversi motivi non sono probabili nell’attuale contesto, anche strategico, che caratterizza il Pakistan.

D. - Quali sono i pericoli di questa situazione di stallo?

R. - Innanzitutto, che gli estremisti possano approfittare della situazione. Perché non sono semplicemente presenti nelle aree tribali e nella fascia Pashtun, ma hanno delle cellule anche a Islamabad, a Lahore, a Karachi, che potrebbero approfittare delle situazioni di disordine per degli attentati, col risultato di destabilizzare ulteriormente il governo e di indebolire la situazione militare nel nord Waziristan. Un altro pericolo è dato dal ruolo dell’esercito: per ora, l’esercito ha assunto un ruolo di mediazione, un po’ come era stato il ruolo delle forze armate egiziane a Tahrir, nella fase iniziale delle proteste nel 2011. Ma potrebbe avere la tentazione di intervenire in maniera diretta, presentandosi - come spesso ha fatto nel corso della storia pachistana - come l’attore che salva un po’ la situazione e il Paese dal disordine, dall’ulteriore destabilizzazione.

D. - Secondo alcuni analisti, le proteste sarebbero di fatto mosse proprio dai militari. Ci sono rischi di un colpo di Stato?

R. - I militari non amano Nawaz Sharif, perché non vi è una coincidenza di strategie e di visioni per ciò che riguarda il dialogo con i talebani, il rapporto con l’India. E soprattutto perché Nawaz Sharif oggi - così come negli anni Novanta - cerca di ridurre il peso politico delle Forze armate pachistane, le quali - come sotto il periodo 2008-2013 di Zardari - controllano ancora alcuni settori di cruciale importanza - il nucleare, la politica regionale, in particolare verso l’Afghanistan e l’India - e hanno una decisa autonomia, soprattutto per le decisioni di difesa nazionale. Da qui, l’impossibilità, tra l’altro, di ridurre le spese dedicate alle Forze armate, spostando così delle risorse allo sviluppo sociale e allo sviluppo umano. Quindi, l’esercito non ama Sharif ma, detto questo, probabilmente è molto riluttante a intervenire perché ormai anche la sua immagine nei decenni di regime militare - l’ultimo è quello di Musharraf - è stata notevolmente oscurata in quanto i regimi militari si sono rivelati incapaci di risolvere i problemi più pressanti e più strutturali del Paese. Si rendono poi anche conto che se andassero direttamente al potere, si troverebbero a dover gestire dei problemi grandissimi, dovendosi assumere delle responsabilità molto forti per ciò che riguarda in particolare la campagna miliare contro gli estremisti e il rapporto con gli Stati Uniti. Un altro scenario è, invece, quello appunto del colpo di Stato, che probabilmente qualcuno sta anche prendendo in considerazione. Ma è uno scenario che comporta dei pericoli: gli Stati Uniti probabilmente non gradirebbero. E a ciò sono legati gli aiuti di cui il Pakistan ha assolutamente bisogno per sopravvivere: aiuti di cui hanno bisogno anche i vertici delle forze armate.

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Minacce Riina. Don Ciotti: lotta a mafia atto di fedeltà al Vangelo

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L’impegno contro la mafia è un atto di fedeltà al Vangelo. Lo ha affermato don Luigi Ciotti dopo le minacce di morte ricevute da parte del capomafia, Totò Riina. Nelle intercettazioni di conversazioni in carcere risalenti a un anno fa, il boss di “Cosa Nostra” paragona il fondatore di “Libera”, Associazione impegnata nella lotta contro la criminalità organizzata, al Beato don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia il 15 settembre del 1993. Il presidente italiano, Giorgio Napolitano, ha telefonato al sacerdote al quale ha espresso solidarietà. Il servizio di Amedeo Lomonaco

Le minacce sono rivolte anche a tutte le persone che in vent'anni di “Libera” si sono impegnate per la giustizia e la dignità. “Queste minacce – spiega don Luigi Ciotti – sono la prova che l’impegno è incisivo, graffiante, gli toglie la terra da sotto i piedi”. “Ma ci sono provvedimenti urgenti da prendere e approvare senza troppe mediazioni e compromessi”. “La politica – aggiunge don Ciotti – deve sostenere di più questo cammino”. L’azione coraggiosa e intelligente del fondatore di Libera – si legge inoltre del comunicato della presidenza della Cei – si è allargata ai tanti volti del degrado e del disagio sociale: dalla lotta alla criminalità organizzata fino alla cura da varie forme di dipendenza. L’auspicio è che, seguendo l’esempio di don Ciotti, luoghi e situazioni di violenza e di morte “si trasformino in azioni di vita nuova e di speranza”. Questo grave episodio – scrive infine la presidenza nazionale dell’Azione Cattolica italiana – deve suonare come “un richiamo alle istituzioni e alla politica perché non si abbassi mai la guardia nella lotta alla criminalità organizzata”.

Si tratta di minacce che confermano come la presa di coscienza, il sequestro di beni e l'attività di "Libera" siano strumenti importanti contro la criminalità organizzata. E' quanto sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco, don Luigi Ciotti

R. – E’ la cultura che dà la sveglia. La dimensione educativa fa prendere coscienza alle persone, una coscienza critica e di responsabilità. La confisca dei beni, certamente, è stata una conquista dalla base: milioni di firme, migliaia di cittadini e soprattutto, vedere migliaia di giovani che adesso lavorano sui beni confiscati sono un segno che morde un po’ i giochi criminali e mafiosi. Il lavoro con i testimoni di giustizia, quello con i familiari delle vittime… E quindi, è un “noi” che vince: è un insieme di scelte, di impegno, di responsabilità che devono porre delle domande. Ma sono dei segni di positività. E a qualcuno, evidentemente, tutto questo disturba…

D. – Queste minacce non frenano, anzi, rinnovano il suo impegno contro la mafia, un impegno che è un atto di fedeltà verso il Vangelo…

R. – Per me è fondamentale, perché nella mia vita ho due riferimenti: il primo come sacerdote, come cristiano, come uomo, è il Vangelo, la Parola di Dio. E’ una Parola difficile, una Parola scomoda, una Parola carica di responsabilità, che invita a lottare contro il sopruso, la violenza, le ingiustizie. Ci esorta a stare dalla parte di chi fa più fatica, di essere un segno di libertà e di liberazione per chi viene schiacciato da queste forme di violenza, e non solo. E poi, un altro riferimento che ho come cittadino italiano, è la Costituzione italiana. Il Vangelo per me è fondamentale. Il Vangelo parla, invita alla "parresia", che vuol dire “parlare chiaro” e che è il contrario di ipocrisia. Io ho avuto dei maestri, dal cardinale Michele Pellegrino al cardinale Ballestrero, che dicevano quello che pensavano ma in modo sempre ben radicato nella Parola di Dio, che ci insegnavano ad avere più forza e più coraggio, a non scendere a compromessi, a scegliere da che parte stare. E io sto dalla parte del Vangelo, da parte della Parola di Dio.

D. – Chi non scendeva a compromessi era il Beato don Pino Puglisi. Nelle intercettazioni del boss Totò Riina, lei viene paragonato proprio a don Pino Puglisi... 

R. – Ma io sono una piccola, piccola cosa, con tutti i miei limiti e le mie fragilità. Per me, certamente, avere le sue cose, le pagine prese dal suo diario, avere ascoltato le testimonianze di tanti amici che l’avevano direttamente incontrato e conosciuto, mi ha permesso di dire: “questa è la strada”. La strada è quella di un annuncio, illuminare le coscienze ma anche saldare la terra con il cielo e saldarla con delle cose molto, molto concrete che danno libertà e dignità alle persone. E non dimenticarci, anche, di telefonare a Dio: lì non paghiamo neanche la bolletta… E quindi, chiedere a Dio che ci dia sempre una bella pedata per andare avanti…

D. – Nelle intercettazioni è evidente anche tutta l’avversione della mafia nei confronti di Papa Giovanni Paolo II: quel “Pentitevi!” riecheggia ancora…

R. – Giovanni Paolo II, nella Valle dei Templi, lanciò in termini molto categorici un anatema senza sconti per dire che Vangelo e mafia sono incompatibili, ma anche per invitare i mafiosi a cambiare vita, a voltare pagina e anche per incoraggiare le meravigliose persone della terra di Sicilia, in quella circostanza, ad avere più forza, più coraggio; avere il coraggio di fare delle scelte, di non avere paura, di non temere. Ma devo anche dire che Benedetto XVI parlò di “mafia, strada di morte”, proprio in Piazza Politeama, a Palermo, e Papa Francesco, nell’incontro del 21 marzo fa un gesto importante, fondamentale, molto umile: “Io mi metto in ginocchio. Cambiate. Convertitevi”.

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Giornata Cei per il creato: ridurre sprechi e malcostume

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La salute dei nostri Paesi e delle nostre città è al centro dell’odierna Giornata nazionale per la custodia del Creato, giunta alla nona edizione, promossa dalla Conferenza episcopale italiana (Cei), che in questa occasione rivolge un messaggio di denuncia forte su violenze e sfregi al nostro ambiente, ai nostri territori, causate da attività umane, sovente illecite e criminali, spesso ignorate e talvolta perfino giustificate. Al microfono di Roberta Gisotti, il direttore dell’Ufficio per i problemi sociali e del lavoro della Cei, mons. Fabiano Longoni: 

D. – Mons. Longoni, come si spiega il perdurare di tanto degrado ambientale quando, scrivono i vescovi, “la coscienza ecologica è in consolante crescita”?

R. – Fondamentalmente, con il fatto che in tantissimi casi registrati in Italia – di recente penso a Taranto, a tutti gli aspetti dei rifiuti tossici in Campania, all’impianto chimico di Bussi sul Tirino, in Abruzzo, alla centrale di carbone di Vado Ligure, quindi faccio dei nomi molto precisi – le responsabilità che sono diffuse a livello di coscienza nella popolazione non sono poi state corrisposte da chi deve prendere le decisioni, cioè da coloro che dovevano in qualche modo responsabilizzarsi ad essere imprenditori, politici, amministratori pubblici che rispettassero veramente l’ambiente. Quindi, a una legalità formale non è corrisposta una coscienza etica. O meglio, la coscienza etica sembra essere stata offuscata da interessi più immediati, legati a quelle che poi vengono contrabbandate come necessità assolute, per cui la crescita economica fa sì che l’inquinamento sia un male assolutamente sopportabile.

D. – I vescovi parlano di “dolorose contrapposizioni tra ambiente e lavoro”...

R. – In realtà, io credo profondamente allo sviluppo sostenibile, credo alla convergenza del diritto a un ambiente sano con quella del lavoro, delle persone: ambiente e lavoro non sono due diritti contrapposti. Basta esercitare quell’immaginazione sociale che non è ancora presente nelle scelte quotidiane di coloro che hanno in mano sia la parte economica, sia quella politica dei nostri territori.

D. – Non resta dunque che promuovere maggiore sensibilità tra i cittadini perché possano poi affermare i loro diritti presso la classe politica...

R. – Certo. Ma non solo, perché evidentemente molte volte la classe politica può diventare uno specchio di un malcostume, di una moralità anche diffusa. Quindi, diciamo che la coscienza c’è, ma non è così largamente diffusa da diventare maggioranza. Significa essenzialmente che gli stili di vita, che la lotta allo spreco a cui tante volte Papa Francesco ci ha richiamato – ovvero questa capacità di ognuno di noi di essere una persona responsabile del territorio dell’ambiente in cui vive – è fondamentale soprattutto rispetto ai grandi temi che avremo con l’Expo a maggio prossimo. Il titolo “Nutrire il pianeta, energia per la vita” ci fa riflettere su cosa significhi non sprecare nelle scelte quotidiane. I dati di molte ricerche ci dicono che in Italia, ad esempio, lo spreco alimentare è terribile. E spreco alimentare significa spreco ambientale! Il messaggio della Cei per la Giornata si indirizza proprio su questo: una coscienza diffusa dipende da stili di vita che ognuno di noi adotta, diventa capacità di lottare contro ogni forma esagerata di spreco alimentare, e ambientale in generale, non scaricando le responsabilità l’un l’altro, dicendo: “I politici, gli attori economici sono i responsabili del degrado, noi lo subiamo soltanto”. Qualche volta siamo anche noi, purtroppo, i protagonisti di questa situazione.

D. – Quale iniziative mette in campo la Chiesa italiana a supporto di questa Giornata?

R. – Le iniziative sono fondamentalmente due: una di tipo più culturale, ed è quella che faremo a Torino il 12 e il 13 settembre con un Convegno dal tema “Il futuro della nostra Terra. Un’umanità nuova per una custodia responsabile”, che vede all’orizzonte anche il Convegno ecclesiale di Firenze nel 2015 come una tappa alla quale arrivare attraverso questa consapevolezza. La seconda iniziativa, anche questa importante, è quella promossa dalla diocesi di Aversa in collaborazione con l’ufficio che io dirigo. Si tratta di una celebrazione alla quale tutta la Campania, parteciperà attraverso diverse giornate dove la tutela della salute, la dinamica di superamento della contaminazione delle matrici ambientali – cioè quelle che sono appunto la "Terra dei fuochi" con tutto quello che questo comporta – va verso una capacità di ricostruire in tessuto sociale di paesi e di città come dice appunto il titolo del messaggio. Anche lì, avremo delle belle occasioni di incontro con le persone, momenti di preghiera, di sensibilizzazione continua rispetto a questo tema diventato centrale in quei luoghi, ma che, ripeto, è molto diffuso in tutta Italia.

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A Milano il ricordo del cardinale Martini, a due anni dalla morte

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Celebrato quesat domenica il secondo anniversario della scomparsa del cardinale Carlo Maria Martini con una Messa in Duomo, a Milano, presieduta dal suo successore, l’arcivescovo cardinale Angelo Scola che, al termine, ha reso omaggio alla figura del Beato cardinale Ildefonso Schuster a 60 anni dalla morte. Il servizio di Fabio Brenna

Instancabile comunicatore della Salvezza attraverso Cristo: così il cardinale Angelo Scola ha ricordato l’arcivescovo che guidò la Diocesi di Milano per 23 anni, dal 1980 al 2002. Figura poliedrica e poderosa quella di Martini, gesuita, biblista e poi pastore che conquistò una fama che superava i confini ambrosiani con il suo continuo e forte riferimento alla Parola di Dio:

“Ora a me sembra che qui stia l’origine dell’indomita ansia pastorale del cardinale Martini che lo portava ad ascoltare tutti, tutti,  in modo criticamente aperto, vagliando gli argomenti. Ascoltava le resistenze, le fatiche, e ascoltava perfino i tratti di confusione che talora ci portiamo dentro”.

Un’ansia pastorale questa che deve tradursi oggi in una rinnovata testimonianza nell’evangelizzazione della metropoli, anche nell’ottica di Expo 2015 che sfida la fede a non rinchiudersi nei suoi confini. Nel corso della celebrazione, cui ha presenziato l’arcivescovo emerito cardinale Dionigi Tettamanzi,  il cardinale Scola ha portato la mitria  e il pastorale che furono di Martini, da lui donati al Duomo. Al termine, il cardinale Scola ha reso omaggio alla tomba di Martini, e successivamente a quella del Beato cardinale Ildefonso Schuster, che guidò la Diocesi dal 1929 al 1954, di cui ricorrevano sabato i 60 anni della scomparsa.

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Pellegrini da Assisi a Gubbio sul Sentiero di Francesco

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Al via oggi la settima edizione de “Il Sentiero di Francesco”: i partecipanti seguiranno i passi del Poverello da Assisi a Gubbio, ripercorrendo il cammino compiuto dal Santo nell’inverno tra il 1206 e il 1207. Si tratta di un evento promosso dalle diocesi di Assisi e Gubbio. Antonio Elia Migliozzi ne parlato con Daniele Morini addetto stampa dell’iniziativa: 

R. – Francesco di Assisi fece questo cammino di riconciliazione con se stesso, prima di farsi uomo di pace per gli altri. È costitutiva del messaggio francescano tutta questa esperienza che il “Poverello” di Assisi ha fatto da Assisi a Gubbio: era l’inverno fra il 1206 e il 1207 quando Francesco si spogliò in piazza, con un gesto eclatante; rinunciava alla ricchezza paterna per abbandonare tutto, per mettersi in cammino su una strada che neanche lui conosceva ancora pienamente. Era la strada della conversione, era la strada della riconciliazione. Non venne casualmente a Gubbio e di questo ne siamo convinti. Ci domandiamo spesso: perché lui partì da Assisi e venne a Gubbio? Perché Francesco di Assisi aveva vissuto qualche mese di prigionia a Perugia con un suo amico, Spadalonga: quella degli Spadalonga era una famiglia di commercianti di stoffe, proprio come Pietro di Bernardone, padre di Francesco. In quelle giornate di prigionia, Giacomello Spadalonga - doveva essere lui che visse in prigionia con Francesco – spiegò che a Gubbio un Santo – Sant’Ubaldo, che è il patrono di Gubbio – aveva già riformato la Chiesa: l’aveva resa accogliente, aveva predicato un linguaggio diverso da quello che la Chiesa predicava in quegli anni e Francesco probabilmente fu attratto da quella luce. Per questo decise di arrivare a Gubbio per riconciliarsi, innanzitutto, con se stesso.

D. – Come può questa riconciliazione interiore aiutarci a vivere meglio anche le relazioni interpersonali?

R. – Partendo proprio da questo bisogno delle persone di mettersi in cammino. Due sono le caratteristiche principali che le persone cercano quando si mettono in cammino, almeno da quello che rileviamo noi accogliendo i pellegrini a Gubbio, ad Assisi e lungo il sentiero che collega appunto La Verna con la città santa francescana di Assisi. Una è proprio quella del bisogno di sentirsi accolti, in maniera semplice e povera, come la definiamo noi. L’altra è quella della relazione: lungo il cammino si sperimentano tanti tipi di relazioni e, in particolare, a noi interessa il fatto che lungo questo cammino si sperimenta la relazione che educa alla custodia del Creato. Le relazioni che si costruiscono durante il cammino con gli altri sono tantissime e ci servono a trovare una dimensione diversa di relazione con noi stessi ma anche con il mondo che ci circonda, con il Creato, con la quotidianità, con la frenesia che solitamente caratterizza le nostre giornate lavorative.

D. – Quanto è importante il messaggio di San Francesco nella società del nostro tempo, spesso rivolta solo alla materialità delle cose?

R. – Il messaggio francescano è quanto di più universale la Chiesa possa proporre, anche in dialogo con il mondo laico e con i non credenti. Il messaggio di San Francesco ha una validità che ha attraversato davvero tutti questi otto secoli che ci separano dall’inizio della sua vocazione e del suo ministero di riforma, di riconciliazione. Sperimentare il messaggio francescano significa, oggi, toccare vari segmenti della vita di ognuno di noi: dicevamo la riconciliazione con noi stessi, la riconciliazione con gli altri, la riconciliazione con Dio e quindi l’esperienza mistica, spirituale di fede. Inoltre, la riconciliazione con il Creato, credenti e non credenti: l’ambiente da una parte e dall'altra, la custodia del Creato e la riconciliazione fra le persone, per dire la dimensione di una pace di cui bisogna essere operatori attivi ogni giorno.

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Venezia. Premio Bresson a Carlo Verdone: sua ironia è forma d'arte

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Consegnato questa mattina il Premio Bresson all’attore italiano Carlo Verdone, emozionato per questo riconoscimento che giunge dalla Chiesa cattolica italiana che gli riconosce la capacità di raccontare la famiglia italiana con grande umanità e un sorriso. Il servizio di Luca Pellegrini

La simpatia di cui si circonda precorre la sua meritata fama. E’ uno dei volti più amati e apprezzati del cinema italiano: Carlo Verdone. Questa mattina gli è stato consegnato un Premio particolare, quello intestato a Bresson, che ogni anno la Fondazione Ente dello Spettacolo e la Rivista del Cinematografo attribuiscono, nel corso della Mostra veneziana, a un regista che sia “significativo testimone della ricerca spirituale che anima ognuno di noi”. Potrebbe apparire singolare la scelta del comico italiano. Don Ivan Maffeis, Presidente dell’Ente, così la motiva.

R. – Quest’anno, abbiamo scelto di premiare Carlo Verdone come autore, come regista, come interprete, perché con le sue commedie ci aiuta a stare su quella realtà che viviamo nelle nostre famiglie, che viviamo nella società italiana: famiglie a volte disgregate, a volte attraversate dalla crisi e dalla sofferenza, ma insieme aperte alla speranza. I film e le commedie di Verdone hanno questa capacità di giudizio, a volte anche amaro, a volte graffiante, ma mai volgare, mai cattivo. Conservano quel colpo d’ala, quella disponibilità a calarsi anche nei problemi degli altri e a contribuire per quanto possibile ad affrontarli. Inoltre, premiando Verdone, l’intenzione della Fondazione è anche quella di cercare di sdoganare la commedia, che risente spesso di un pregiudizio intellettuale per cui l’opera d’arte appartiene ad altro: quando la commedia è di qualità, quando è interpretata con qualità, è opera d’arte e Verdone ce lo testimonia”.

A consegnare il Premio, mons. Enrico Solmi, vescovo di Parma, presidente della Commissione per la famiglia e la vita della Cei. Eccellenza, come vive questa giornata per lei così singolare?

R. – Personalmente, vivo con grande sorpresa il fatto di essere stato scelto per dare questo Premio. Non sono un esperto di cinema, ma ho apprezzato molto quanto Verdone ha scritto della sua famiglia, della sua casa che credo sia il luogo dove abbia maturato la sua vocazione artistica unendo delle doti certamente grandi che lui ha coltivato anche quasi per osmosi, un apprendimento del linguaggio cinematografico con la frequentazione di grandi persone a partire da suo padre, che credo abbia proprio dato a Carlo un’impostazione molto importante, prima di tutto umana e poi artistica.

D. – Nella cinematografia di Carlo Verdone, e soprattutto nelle opere degli ultimi anni, un’attenzione particolare è data a famiglie che si aggregano e si disgregano e a personaggi che vivono situazioni sempre con ironia, ma anche drammatiche, della crisi italiana...

R. – Assolutamente. Credo che questo sia uno dei motivi per i quali Verdone sia stato scelto perché contatta, incontra queste tematiche con attenzione, con garbo, sottolineando un percorso che la famiglia sta compiendo, un percorso dove la famiglia si delinea chiaramente nell’incontro di un uomo e di una donna con la prospettiva generativa, con la vita insieme. Su questo tema le situazioni attuali, il mondo “liquido”, le problematiche economiche e sociali che stiamo vivendo e la cultura hanno inferto colpi importanti e hanno dato anche occasione di una sfida nuova. Carlo Verdone interpreta certamente questo percorso che è stimolante per tutti, in particolare, credo, per chi crede tanto alla famiglia, quindi i cristiani e la Chiesa.

D. – Le sue prime esperienze di cinema, eccellenza, risalgono agli anni del Seminario e a una passione in particolare per un regista americano...

R. – Non sono certamente un grande esperto di cinema e comunque mi appassiono sempre ai film di John Ford. Devo anche dire che ho ritrovato nella lettura del libro di Verdone alcuni tratti della sua trilogia sulla cavalleria americana: la figura dei padri in “Fort Apache”, la figura della madre in “Rio Bravo”... E poi, come sottolineò, figure secondarie che danno a queste tematiche una particolare umanità. Penso al sergente Quincannon nei “Cavalieri di Nord Ovest”, che si fa carico della situazione di bambini che hanno perduto la famiglia, tutto questo sempre con grande ironia. Alla fine, vorrei sottolineare, come traspaia dai suoi film questo senso di appartenenza religiosa e cattolica: pensiamo alla genuflessione in segno di croce fugace che un soccorritore fa in “Rio Bravo” quando porta fuori dalla chiesa una bambina che era prigioniera. Quel segno indica una sottolineatura di attenzione al sacro e di un’appartenenza alla chiesa cattolica.

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Nella Chiesa e nel mondo



A Siracusa mons. Twal ricorda la violenza religiosa in Medio Oriente

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“Non posso non pensare alla violenza religiosa, che si traduce in scritte offensive e minacce, che spesso si vedono sui muri delle chiese e dei conventi in tutta la Terra Santa; al processo di pace in Medio Oriente, che vede nel conflitto israelo-palestinese uno dei nodi più aggrovigliati; al terrorismo di Al Qaida e dell’Isis in Iraq e Siria, inizialmente supportato dalla Comunità internazionale e che ormai fa paura a tutto il mondo”. E’ uno dei passaggi dell’omelia che mons. Fouad Twal, patriarca latino di Gerusalemme, ha tenuto ieri sera alla basilica santuario della Madonna delle Lacrime per il 61° anniversario della Lacrimazione di Maria a Siracusa. Ad accoglierlo è stato l’arcivescovo di Siracusa, mons. Salvatore Pappalardo: “Siamo partecipi alle sofferenze del tuo popolo – ha detto – e lo affidiamo alle preghiere della Madonna delle Lacrime”.

“Come sono attuali le lacrime in questo tempo tanto tormentato! Tempo di crudeltà e malvagità. Tempo di violenza e prepotenza. «Siamo alla terza guerra mondiale», ha detto di recente papa Francesco". Il patriarca di Gerusalemme ha parlato della sua terra: “A noi Pastori del Medio Oriente, vedendo tutta la crudeltà degli uomini, vedendo i continui massacri di Gaza, la persecuzione dei cristiani per la loro fede, a noi che ci troviamo sulle orme di Gesù, non rimane che pregare, aspettare e piangere, guardando il mondo umiliato, perché incapace di fermare la violenza e tanto orrore. Oggi parlare di morte, di sofferenza, di malattie ci fa paura perché non abbiamo fede, e non avendo fede, non troviamo la risposta a tante domande. Anche oggi non mancano i cristiani, fedeli a Cristo, che nel Medio Oriente hanno preferito la morte, l’esodo e la spogliazione di tutto, ma mai hanno accettato di convertirsi all’Islam per aver salva la vita...

In Terra Santa - ha detto - viviamo un conflitto che non sembra trovare una soluzione a breve termine, e che pesa fortemente su tutti i suoi abitanti, compresi i cristiani. Questa dolorosa realtà solleva molte domande sul nostro futuro in questo paese, ed è fonte di profonda preoccupazione. Abbiamo bisogno della risposta della fede. La risposta non è né l’emigrazione, né il chiuderci in noi stessi. La risposta è rimanere, vivere e morire in Terra Santa. La nostra terra è santa - ha affermato il presule - e in quanto tale, le dobbiamo una risposta di fedeltà, perché la nostra permanenza è una vocazione divina, una benedizione, un privilegio".

Infine il patriarca ha fatto riferimento alla terra di Sicilia: "Molte lacrime vengono versate anche in questa amata terra. - ha detto mons. Twal - Sono le lacrime di coloro che sono arrivati in quest’Isola, in fuga dalla propria terra e ora sono lontani dalla loro patria. Molti di loro hanno scelto la cara Sicilia come luogo di transito e molti si trovano sepolti in questa terra e in questo mare. Quante lacrime sono versate da coloro che vengono rifiutati, respinti, non accolti! La Madonna di Siracusa piange con noi e su di noi! 

Noi, come Chiesa Madre di Gerusalemme - ha concluso il patriarca - oltre ai numerosi problemi sociali e politici che ci sommergono quotidianamente, siamo anche alle prese con le migliaia di rifugiati che hanno abbandonato le loro case in Siria e in Iraq, per scappare dai combattimenti che infuriano in quel Paese. La Caritas giordana, sostenuta anche dalla Caritas Italiana, è mobilitata per aiutare questi nostri fratelli. Abbiamo aperto le nostre scuole per accogliere i bambini siriani. Abbiamo aperto le porte del Centro Regina della Pace, per accogliere tante famiglie cristiane dalla Siria e dall’Iraq. (R.P.)

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Caritas: le crisi umanitarie azzerano le risorse degli organismi di aiuto

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“L'estate dei disastri umanitari” sta prosciugando i fondi degli organismi assistenziali internazionali, che presto non potranno più farsi carico delle popolazioni colpite in tutto il mondo dalle conseguenze di conflitti sanguinosi. L'allarme, lanciato da Cordaid (sezione olandese partner della Caritas) e subito ripreso da Caritas Internationalis, fa riferimento a “milioni di persone che in Siria, a Gaza, in Sud Sudan e in altre aree di conflitto stanno aspettando interventi di soccorso”, in un momento in cui anche le grandi reti di intervento umanitario come la Croce Rossa, Mèdecins sans Frontières e le agenzie assistenziali dell'Onu non riescono più a far fronte alle richieste di aiuto.

“In aggiunta alle crisi in Siria, Gaza e Iraq” si legge nell'appello, “ci sono le guerre civili dimenticate in Africa Centrale e Sud Sudan”. La stessa sezione olandese della Caritas negli ultimi tempi è stata costretta a modificare la destinazione dei fondi per farsi carico di nuove emergenze, dirottando verso i campi profughi sparsi in Siria e Libano risorse originariamente destinate alla Repubblica centro-africana.

Il responsabile della Caritas Internationalis per le emergenze umanitarie Albert de Haan conferma le crescenti difficoltà trovate nella raccolta fondi, soprattutto quelli da destinare a situazioni conflittuali ormai oscurate dalle dinamiche del media system globale: “Stiamo ricevendo meno risorse” spiega de Haan nel breve resoconto consultato dall'agenzia Fides “per fornire aiuti in Mali, Niger e in altri Paesi africani segnati da conflitti. Siamo anche attivi sul fronte di disastri 'dimenticati' verso i quali i media hanno perduto interesse, come quelli del Myanmar e della siccità nel Sahel. Anche in queste regioni, le risorse disponibili sono insufficienti a coprire quello che vorremmo fare”.

Secondo il responsabile di Caritas Internationalis “i tagli drastici operati dai governi negli ultimi anni per le risorse destinate allo sviluppo e alle emergenze, stanno ora provocando una situazione di grande difficoltà”. (R.P.)

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Nigeria: violenze a Gamboru. Migliaia di civili in fuga

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Migliaia di nigeriani residenti nel nord-est, in particolare nella città di Gamboru Ngala, Stato di Borno, conquistata da Boko Haram la scorsa settimana, stanno scappando nel vicino Camerun. Un flusso inarrestabile a destinazione di Mora, provincia dell’Estremo Nord, dove in pochi giorni sono arrivate più di 10.000 persone, mentre altre 6.000 sono state registrate nella località di Kolofata. I civili fuggono anche nei vicini Ciad e Niger. Lo riferisce il quotidiano locale Vanguard citando non meglio precisate fonti governative e di sicurezza.

I residenti di Gamboru Ngala che sono riusciti a mettersi al riparo - riporta l'agenzia Misna - hanno raccontato che i combattenti estremisti “uccidono le persone come se fossero galline”, mentre all’inizio “colpivano soltanto poliziotti e militari”. Per il Vanguard almeno 29 persone sono state uccise negli ultimi giorni e 215 giovani sarebbero scampati al reclutamento forzato. Gli insorti starebbero uccidendo i giovani che oppongono resistenza e si rifiutano di combattere al loro fianco contro i soldati nigeriani e camerunensi.

Un altro duro colpo per gli abitanti di Gamboru Ngala, dopo l’occupazione della località dai combattenti estremisti, è stato il pesante bombardamento aereo attuato sabato sera. Non è chiaro se i raid siano stati compiuti dalle forze armate della Nigeria o da quelle del Camerun, che hanno incrementato i propri interventi nel nord-est del Paese vicino. Ieri il quotidiano nigeriano This Day, citando una fonte anonima, ha annunciato che i militari di Abuja sono riusciti a riprendere il controllo di Gamboru Ngala, ma per ora la notizia non è stata confermata da fonti ufficiali.

Le condizioni di vita quotidiana dei civili si stanno facendo sempre più precarie anche in altre zone del nord-est della Nigeria, nei pressi del confine col Camerun, tra cui Kerawa, soprattutto dopo che le forze di sicurezza si sono parzialmente ritirate nel Paese vicino. Mentre le autorità militari di Abuja assicurano che si è trattato di una “ritirata strategica”, fonti della società civile denunciano “l’indebolimento delle forze di sicurezza nigeriane” e si dicono “abbandonate al proprio destino”. Boko Haram controlla ormai tre distretti dello Stato di Borno e un distretto in quelli di Yobe e Adamawa. (R.P.)

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Israele sequestra 400 ettari di terra in Cisgiordania per le colonie

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Almeno 400 ettari di terreno nella zona di Gevaot da ieri sono requisiti nell'area della West Bank occupata, e sono stati dichiarati "terreno statale" che andranno a potenziare le colonie illegali israeliane di Etzion, vicino a Betlemme. Secondo gli attivisti di Peace Now è la confisca più estesa negli ultimi 30 anni.

La radio israeliana - riporta l'agenzia AsiaNews - ha dichiarato che tale sequestro è la risposta al sequestro e uccisione di tre giovani israeliani lo scorso giugno.

In realtà l'idea di costruire una colonia a Gevaot risale al 2000. Lo scorso anno il governo ha lanciato un'asta per la costruzione di 1000 abitazioni.

Peace Now, che combatte da tempo contro le colonie illegali di Israele e per la pace con i palestinesi, ha detto che i palestinesi proprietari - che coltivano olivi nella zona - hanno 45 giorni di tempo per appellarsi. Le speranze di vedere riconosciuti i propri diritti sono scarse.

La politica degli insediamenti illegali non si è mai fermata -pur essendo una delle condizioni per i colloqui di pace fra israeliani e palestinesi. Occupando terre dei palestinesi, Israele rende difficile la costituzione di una patria palestinese che abbia continuità territoriale.

Al presente vi sono circa 500mila israeliani nella West Bank e a Gerusalemme est, con centinaia di colonie che secondo le leggi internazionali sono illegali.

Il presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen ha chiesto a Israele di azzerare l'appropriazione: "Tale decisione - ha detto il suo portavoce - porterà a maggior instabilità. Essa infiammerà ancora di più la situazione dopo la guerra di Gaza". (R.P.)

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Hong Kong, Pechino esclude la democrazia. Sale la protesta

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Per protestare contro il diktat di Pechino, che ha di fatto eliminato la possibilità del suffragio universale per le elezioni del capo dell'esecutivo di Hong Kong, attivisti e deputati democratici hanno interrotto ieri il discorso di un alto funzionario cinese e hanno accusato il governo del territorio di aver "infranto le promesse fatte", comportandosi in maniera "vergognosa".

La protesta - riferisce l'agenzia AsiaNews - ha costretto Li Fei, vice Segretario generale del Comitato permanente dell'Assemblea nazionale del Popolo cinese, a fermare l'incontro con i funzionari di Hong Kong. I manifestanti sono stati portati via dalla polizia.

La questione nasce a causa della preponderante ingerenza della Cina continentale nella questione elettorale di Hong Kong. Protetta dalla "Basic Law", una piccola Costituzione democratica lasciata in eredità dai britannici e in vigore fino al 2047, l'ex colonia voleva per il 2017 un'elezione democratica e a suffragio universale dei propri funzionari.

Pechino, al contrario, si ritiene oramai il legittimo governo anche del Territorio: alle proposte dei democratici ha risposto con una votazione i cui candidati devono essere approvati da un piccolo gruppo di potere nelle mani dei cinesi. In questo modo, rispondono gli attivisti, il voto diventa una farsa.

Subito dopo lo sgombero degli attivisti da parte delle autorità, Li Fei ha ripreso il suo discorso e ha chiarito la posizione ufficiale: "Qualunque leader che voglia per Hong Kong un futuro da entità politica indipendente o che intende cambiare il sistema socialista della nazione non avrà alcun futuro politico". (R.P.)

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Polonia: Lettera vescovi su II Guerra mondiale e Ucraina

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L’episcopato polacco esprime preoccupazione per “la guerra non dichiarata in terra ucraina”. “Gli avvenimenti che minano il diritto dei popoli alla scelta di un proprio futuro fanno nascere delle ragionevoli preoccupazioni anche per la Polonia”, affermano i vescovi nella lettera pastorale per il 75° anniversario della Seconda Guerra mondiale che “svelò l’abisso del male delle ideologie e sistemi politici che voltano le spalle a Dio cancellando le sue leggi”.

Ricordando l’aggressione alla Polonia da parte del Terzo Reich del 1° settembre 1939 e la successiva invasione del Paese da parte dell’Urss (17 settembre 1939), i presuli - riferisce l'agenzia Sir - osservano che “non è possibile stabilire il numero delle vittime del misterium iniquitatis allora esploso sul territorio polacco e di cui simboli sono oggi Katyn e Auschwitz”, e rilevano “l’obbligo di perseguire la pace alla quale porta la via del perdono”.

I vescovi polacchi per l’Ucraina “attendono delle misure efficaci che permettano di fermare la tragedia della guerra” mentre ai fedeli ricordano la difficile riconciliazione tra polacchi e tedeschi, iniziata nel 1965 con lo scambio delle lettere tra le due conferenze episcopali, e che oggi rende possibile la commemorazione delle vittime del conflitto insieme al presidente dei vescovi della Germania, il card. Reinhard Marx. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 244

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.