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Sommario del 02/09/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa: è lo Spirito non le lauree a dare identità a un cristiano

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L’autorità del cristiano viene dallo Spirito Santo, non dalla sapienza umana o dalle lauree in teologia. E’ quanto sottolineato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice ha quindi ribadito che l’identità cristiana è avere lo Spirito di Cristo, non lo “spirito del mondo”. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

La gente era stupita dell’insegnamento di Gesù, perché la sua parola “aveva autorità”. Papa Francesco ha preso spunto da questo passaggio del Vangelo odierno per soffermarsi proprio sulla natura dell’autorità del Signore e, conseguentemente, del cristiano. Gesù, ha constatato, “non era un predicatore comune”, perché la sua “autorità” gli viene dall’“unzione speciale dello Spirito Santo”. Gesù, ha proseguito, è “il Figlio di Dio unto e inviato” a “portare la salvezza, a portare la libertà”. E alcuni, ha annotato, “si scandalizzavano” di questo “stile di Gesù”, della sua identità e libertà:

“E noi possiamo domandarci quale sia la nostra identità di cristiani? E Paolo oggi lo dice bene. ‘Di queste cose – dice San Paolo – noi parliamo non con parole suggerite dalla sapienza umana’. La predicazione di Paolo non è perché ha fatto un corso alla Lateranense, alla Gregoriana… No, no, no! Sapienza umana, no! Bensì insegnate dallo Spirito: Paolo predicava con l’unzione dello Spirito, esprimendo cose spirituali dello Spirito in termini spirituali. Ma l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: l’uomo da solo non può capire questo!

E per questo, ha ripreso, “se noi cristiani non capiamo bene le cose dello Spirito, non diamo e non offriamo una testimonianza, non abbiamo identità”. Per loro, ha proseguito, “queste cose dello Spirito sono follia, non sono capaci di intenderle”. L’uomo mosso dallo Spirito, invece, “giudica ogni cosa: è libero, senza poter essere giudicato da nessuno”:

“Ora, noi abbiamo il pensiero del Cristo e cioè lo Spirito di Cristo. Questa è l’identità cristiana. Non avere lo spirito del mondo, quel modo di pensare, quel modo di giudicare… Tu puoi avere cinque lauree in teologia, ma non avere lo Spirito di Dio! Forse tu sarai un gran teologo, ma non sei un cristiano, perché non hai lo Spirito di Dio! Quello che dà autorità, quello che ti dà identità è lo Spirito Santo, l’unzione dello Spirito Santo”.

Per questo, ha detto il Papa, “il popolo non amava quei predicatori, quei dottori della legge, perché parlavano davvero di teologia, ma non arrivavano al cuore, non davano libertà”. Costoro, ha aggiunto, “non erano capaci di far in modo che il popolo trovasse la propria identità, perché non erano unti dallo Spirito Santo”:

“L’autorità di Gesù - e l’autorità del cristiano - viene proprio da questa capacità di capire le cose dello Spirito, di parlare la lingua dello Spirito. Viene da questa unzione dello Spirito Santo. E tante volte, tante volte noi troviamo fra i nostri fedeli, vecchiette semplici che forse non hanno finito le elementari, ma che ti parlano delle cose meglio di un teologo, perché hanno lo Spirito di Cristo. Quello che ha San Paolo. E tutti noi dobbiamo chiedere questo. Signore donaci l’identità cristiana, quella che Tu avevi. Donaci il Tuo Spirito. Donaci il Tuo modo di pensare, di sentire, di parlare: cioè Signore donaci l’unzione dello Spirito Santo”.

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Il saluto del Papa alla partita per la pace dell'Olimpico

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Sport e religioni insieme per la pace nel mondo. Questo in sintesi il significato che Papa Francesco ha voluto dare alla Prima Partita Interreligiosa di calcio per la Pace, un evento fortemente voluto da Papa Francesco e promosso dall’argentino Javier Zanetti. Si è giocato ieri sera allo Stadio Olimpico di Roma di fronte a 20 mila spettatori. L’incasso è stato devoluto alle due organizzazioni di Buenos Aires, “Scholas Occurrentes" e “P.U.P.I. Onlus”, impegnate nell’educazione dei giovani anche attraverso lo sport. prima del fischio di inizio i raprresentanti delle religioni hanno piantato un piccolo ulivo, simbolo della pace Il servizio del nostro inviato all’Olimpico, Giancarlo La Vella

"Es un partido donde se resalta…
E’ una partita in cui risalta l’unione tra le squadre, l’unione di coloro che partecipano come spettatori, il desiderio di tutti che è la pace".

Il primo applauso è andato a Papa Francesco che, con un videomessaggio, ha ribadito i motivi di questa prima partita interreligiosa per la pace, fortemente voluta dal Pontefice e da Xavier Zanetti: religioni e sport insieme contro la guerra. Poi l’entusiasmo del pubblico per i campioni di ieri e oggi che hanno dato vita ad un evento dal compito arduo: dall’esiguo spazio di un campo di calcio, lanciare al mondo un messaggio universale di pace per dire mai più guerra. Un obiettivo che ha dato un significato particolare alle prodezze, sia pure a velocità ridotta, dei vari Shevchenko, Buffon, Baggio, Muslera, Simeone e, soprattutto Diego Armando Maradona. Il tutto raccontato dalla trasmissione speciale della Radio Vaticana:

“Calcio di rigore, Maradona protesta…”.

Il Santo Padre nel pomeriggio di ieri aveva incontrato in udienza partecipanti e organizzatori. Dalle parole di Francesco, per la platea dell’Aula Paolo VI motivi per meditare sulla realtà di uno sport che può fare molto, grazie alla sua potenzialità comunicativa, per la pacifica convivenza.

“E’ possibile costruire la cultura dell’incontro e un mondo di pace, dove credenti di religioni diverse, conservando la loro identità – perché quando ho detto “a prescindere” questo non vuol dire “lasciare da parte”, no – credenti di religioni diverse, conservando la loro propria identità, possono convivere in armonia e nel reciproco rispetto”.

Dunque sport e religioni chiamati a essere veicolo di pace. “In nome di Dio – ha sottolineato Papa Francesco – bisogna portare sempre e solo amore”.

“Religione e sport, intesi in questo modo autentico, possono collaborare e offrire a tutta la società dei segni eloquenti di quella nuova era in cui i popoli “non alzeranno più la spada l’uno contro l’altro”.

Sul campo vittoria 6 a 3 della Pupi Onlus sulla Schola Occurrentes, ma a vincere è stata il messaggio di pace che dall’Olimpico è stato rivolto a tutto il mondo: una partita difficile, appena iniziata, ma che è possibile vincere. Forse occorre una prodezza, ma in fondo è quello che il calcio ci insegna. Sulla partita della pace sentiamo Diego Armando Maradona, al microfono di padre Hugo Guillermo Ortiz, responsabile della nostra sezione ispano-americana.

R. - Creo que todos tenemos…
Credo che tutti noi abbiamo un qualcosa nel nostro cuore quando vediamo guerra, quando vediamo morti… Dovremmo mettere da parte moltissime cose e cercare la pace. Credo che questa partita rompa un po’ l’idea che noi giocatori non facciamo niente per la pace: è tutto il contrario! Quello che noi auspichiamo è che la gente prenda coscienza che il meglio per tutti è la pace!

 D. – Credi quindi che lo sport possa contribuire alla pace?

 R. – Es fundamental! Es fundamental! Creo que una pelota vale más que 100 fusiles…E’ essenziale! E’ essenziale! Credo che un pallone valga più di 100 fucili. Questo per me è molto chiaro! Lo sport è quello che ti fa pensare a non arrecare danno ad altri.

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Mons. Kleda: Chiesa del Camerun cresce, tutela diritti è la sfida

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Una comunità “ottimista” sul suo presente e il suo futuro, che registra un aumento di battezzati e di vocazioni. E insieme, una comunità in prima linea sulla frontiera dei diritti umani e della giustizia. Così, in sintesi, si presenta la Chiesa del Camerun, i cui vescovi sono da ieri in Vaticano per la visita ad Limina. Il loro presidente, mons. Samuel Kleda, delinea al microfono di padre Jean-Pierre Bodjoko quali siano le sfide pastorali più attuali:

R. – Le nostre sfide pastorali si inseriscono nel quadro della Nuova evangelizzazione: ossia come annunciare il Vangelo in modo che esso tocchi il cuore di ogni fedele e che ciascun fedele si lasci trasformare. Per realizzare questo obiettivo dobbiamo insistere sulla catechesi e sulla pastorale in generale perché tutti si impegnino ad essere dei veri testimoni di Gesù soprattutto nella società. Le sfide, o preferirei piuttosto parlare di preoccupazioni pastorali, evidentemente sono numerose: dalla giustizia, ai diritti, alla situazione della famiglia. Per risolvere tutti questi problemi occorre innanzitutto partire dall’annuncio di Gesù Cristo in Camerun perché tocchi il cuore di ogni fedele.

D. – Voi preferite parlare di preoccupazioni: tra queste ci sono anche le sètte?

R. – Sì è vero ci sono dei fedeli cattolici che lasciano la Chiesa ed entrano nelle sètte. Le sètte di per sé, a mio avviso, non sono una minaccia. Tuttavia alcune, come la “Rose Croix” [sètta esoterica pseudo-cristiana ndr] e la Massoneria, che fanno proseliti tra i quadri, possono diventare un problema in quanto inducono alcuni cristiani a condurre una doppia esistenza. Quindi, il nostro lavoro è di radicare i fedeli nella sola fede in Cristo perché evitino questa doppia vita.

D. – La Seconda Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per l’Africa aveva come tema “La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Qual è l’impegno della Chiesa in Camerun per mettere in pratica questi valori?

R. – Lavoriamo molto sul fronte della giustizia e della riconciliazione. Per quanto riguarda la riconciliazione, cerchiamo innanzitutto di entrare in dialogo con la società. Ad esempio, nelle elezioni politiche la Chiesa svolge un ruolo attivo attraverso la formazione di osservatori cristiani che lavorano in questo senso. Inoltre, la Conferenza episcopale pubblica regolarmente lettere pastorali e i vescovi cercano di dialogare con i dirigenti politici per promuovere la riconciliazione e quando ci sono conflitti intervengono con l’obiettivo di aiutare a trovare una soluzione pacifica.

D. – Qual è l’impegno della Chiesa in Camerun per la famiglia e come si sta preparando al Sinodo di ottobre?

R. – Per quanto riguarda il Sinodo, che è stato preparato molto bene, abbiamo risposto al questionario, ma la Provvidenza ha voluto che i vescovi dell’Africa Centrale riuniti nell’Acerac [l’Associazione regionale delle Conferenze episcopali di Camerun, Congo, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana e Ciad - ndr] abbiano dedicato due sessioni a Libreville [nel 2013] e a Brazzaville [6-13 luglio 2014) proprio alle sfide alla famiglia in Africa oggi. Ci stiamo impegnando seriamente perché la famiglia africana diventi veramente quella “Chiesa domestica” proposta dal primo Sinodo per l’Africa.

D. – La situazione socio-politica della vostra regione è segnata dall’avanzata degli islamisti di Boko Haram in Nigeria, con cui il Camerun confina. Che impatto ha questa situazione sull’opera della Chiesa nel vostro Paese, dove alcuni agenti pastorali sono stati rapiti?

R. – In effetti, la situazione in Nigeria è preoccupante, perché ci sono ormai attacchi regolari anche in Camerun, in particolare nel nord. Da qualche tempo, quasi tutti i missionari di nazionalità straniera hanno lasciato la regione. Quindi il conflitto ha conseguenze gravi anche sulle attività missionarie e questo preoccupa tutti i vescovi del Camerun, dove ci sono anche rifugiati dalla vicina Repubblica Centrafricana. Di recente [il 19 luglio a Douala - ndr] abbiamo organizzato una giornata di preghiera per la pace in Camerun, perché la situazione non è buona.

D. – Si può dire che la Chiesa in Camerun è ormai autosufficiente?

R. – In effetti, la Chiesa in Camerun ha lavorato molto per diventare autosufficiente e molti progressi sono stati compiuti, sia per quanto riguarda l’annuncio del Vangelo – cresce il numero dei cristiani e delle vocazioni sacerdotali locali – sia per quanto riguarda l’autosufficienza economica, anche si tratta di un obiettivo che non si può raggiungere in un giorno. Siamo ottimisti, stiamo cercando di promuovere una pastorale che aiuti i fedeli a essere dei veri testimoni. La nostra gioia è di potere raggiungere l’obiettivo di annunciare ovunque Gesù Cristo.

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Papa, tweet: un cristiano che non sente Maria come madre è un orfano

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Papa Francesco ha lanciato oggi un tweet dal suo account @Pontifex. Questo il testo: “Un cristiano che non sente la Vergine Maria come madre è un orfano”.

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Mons. Tomasi: fermare l'Is, rischiamo effetti devastanti

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In Iraq, i jihadisti sunniti dello Stato islamico avrebbero iniziato a ritirarsi da una serie di villaggi situati a sud di Kirkuk. Intanto Amnesty International denuncia che gli estremisti hanno lanciato una campagna di "sistematica pulizia etnica nel Nord del Paese rendendosi responsabili di crimini di guerra" contro le minoranze etniche e religiose. Di fronte a questa situazione il Consiglio Onu dei Diritti Umani ha deciso ieri di inviare una missione in Iraq. Sentiamo l’Osservatore permanente della Santa Sede presso l’ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra, mons. Silvano Maria Tomasi, intervistato da Alessandro Guarasci 

R. - La comunità internazionale parla del dovere di proteggere i diritti fondamentali di queste persone attraverso quei mezzi che la comunità internazionale si è data, come le Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza, il Consiglio dei diritti umani e così via. Si è conclusa qui a Ginevra la sessione speciale del Consiglio dei diritti umani sull’Iraq, per consenso è stata approvata una risoluzione che chiede che sia inviata una missione di investigazione in Iraq per documentare le violenze fatte, in modo da poter portare in tribunale i colpevoli e non accettare l’impunità che potrebbe poi favorire altri gruppi a commettere le stesse atrocità.

D. – Dunque, secondo lei, sta aumentando la consapevolezza della pericolosità dello Stato Islamico?

R. – Il fatto che ci sia questa reazione coordinata e universale di condanna, mi pare riveli che il pericolo non è semplicemente limitato al Nord dell’Iraq e alle comunità che sono attaccate direttamente, ma che lasciando andare avanti le loro conquiste sul terreno si pone una minaccia molto più ampia che addirittura potrebbe avere ripercussioni attraverso quei mercenari che sono venuti dall’Europa e da altri Paesi con effetti devastanti.

D. - Come sono stati accolti i ripetuti appelli del Papa per la pace?

R. – Credo che la forza con cui Papa Francesco ha richiamato pubblicamente invitando alla preghiera e a conoscere la situazione, abbia influito sull’opinione pubblica degli Stati di cominciare a muoversi, e a fare qualcosa di concreto che disarmi la mano dell’aggressore ingiusto.

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Oggi in Primo Piano



Golan: scontri tra al Nusra e Damasco al confine con Israele

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Continuano gli scontri sulle alture del Golan tra miliziani islamici di Al Nusra ed esercito siriano. La situazione preoccupa Israele per un possibile coinvolgimento negli scontri. Intanto, i miliziani hanno chiesto di essere cancellati dalla lista delle organizzazioni terroristiche dell’Onu, in cambio del rilascio di 45 caschi bl,u sequestrati la scorsa settimana al valico di Quneitra tra Siria e Israele. Sugli obiettivi del movimento fondamentalista, Giancarlo La Vella ha intervistato Giorgio Bernardelli, esperto di Medio Oriente: 

R. - L’obiettivo è quello di consolidare la loro posizione sul fronte sud, perché è una zona in cui contemporaneamente è in corso un’offensiva molto forte da parte delle truppe lealiste. La situazione è molto confusa nella zona. Anche il controllo del territorio è molto influenzato dalle ripercussioni di questi raid da parte, appunto, dell’esercito siriano.

D. - Secondo lei, c’è il tentativo di coinvolgere in qualche modo lo Stato di Israele e quindi di allargare il conflitto?

R. - Non credo proprio ci sia un’intenzione di coinvolgere in maniera diretta Israele, tanto meno credo che Israele abbia alcuna intenzione di volersi far coinvolgere. È certo che si tratta di una situazione un po’ paradossale che dice, secondo me, anche la difficoltà dell’Onu a far fronte ad una situazione completamente nuova. Abbiamo osservatori sul territorio, una forza di pace internazionale - che è lì dal 1974 - per controllare un cessate-il-fuoco tra due entità che ormai oggi non hanno alcun interesse a entrare in conflitto tra di loro, cioè lo Stato di Israele e la Siria. Dall’altra parte, però, le forze dell’Onu non hanno alcun mandato rispetto a una situazione che è incandescente.

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Libia: si combatte a Bengasi, Paese sempre più diviso

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In Libia, infuria la battaglia a Bengasi. E' di almeno 25 morti il bilancio degli scontri tra le forze speciali guidate dal generale ribelle Khalifa Haftar e le milizie islamiste, tra cui quelli di Ansar al Sharia, che stanno tentando di conquistare l'aeroporto. Nel mese scorso, le milizie islamiste avevano conquistato quasi tutti gli avamposti in mano agli uomini di Haftar, a Bengasi. Sulla situazione di caos che vive la Libia, Debora Donnini ha intervistato Gabriele Iacovino, responsabile di Medio Oriente e Nord Africa per il Centro Studi Internazionali: 

R. - La Libia, di fatto, è un Paese diviso e combattuto ormai da tre macrorealtà: le milizie più laiche da una parte, le milizie islamiste dall’altra e infine le milizie legate al panorama jihadista internazionale legate in parte anche ad Al Qaeda, ma di fatto vicine ad alcune ideologie operative anche con lo Stato Islamico di Iraq e del Levante. I fatti di Bengasi stanno a dimostrare proprio questa divisione.

D. - Guardando anche a quello che sta succedendo in generale in Africa – Nigeria, Mali, Nord Africa, Somalia – secondo lei, il continente è la seconda linea della questione jihadista nel mondo?

R. - Se vogliamo attualmente è la una seconda linea perché la Siria e l’Iraq sono il palcoscenico della jihad globale. Chiunque voglia andare a combattere il proprio jihad è portato ad andare in questi Paesi. Di fatto le minacce jihadista e qaedista - non ci dimentichiamo che la presenza di Al Qaeda è forte in Africa - comunque rimangono costanti, molto presenti, non solo territorialmente e socialmente, perché i gruppi legati al panorama jihadista internazionale sono sempre più legati in Africa al palcoscenico sociale e tribale del Paese.

D. - La Libia è di fatto in una situazione di caos: il parlamento ha dato al premier designato Abdullah Al Thani due settimane di tempo per formare un nuovo governo. Un nuovo esecutivo potrà realmente stabilizzare la situazione in Libia?

R. - Purtroppo le premesse non sono delle migliori, perché di fatto il dialogo tra le varie realtà - quindi tra quelle islamiste e quelle più laiche - in questo momento è abbastanza limitato. Sono più le milizie a combattersi che gli esponenti politici a dialogare. Quindi le premesse per un nuovo governo in questo non sono delle migliori. Sicuramente c’è bisogno di un piano politico e diplomatico importante, ma il solo governo libico senza l’aiuto forte della Comunità internazionale che si ponga come paciere, dialogare della situazione e delle varie realtà libiche potrebbe avere poche possibilità di riuscita.

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Somalia: raid Usa su Al Shebaab. L'Onu lancia l'allarme carestia

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Il raid della notte scorsa condotto da droni Usa sulla Somalia mirava a colpire i vertici dell’organizzazione islamica fondamentalista Al Shebaab, affiliata ad Al Qaida, riuniti nella città meridionale di Barawe. Tra gli obiettivi dei missili americani, soprattutto il capo Ahmed Abdi “Godane”, ritenuto essere la mente dietro l’attentato di Nairobi nel 2013 e del quale non si conosce la sorte. Nel frattempo, le Nazioni Unite continuano a lanciare una allarme finora rimasto inascoltato dalla comunità internazionale: la Somalia sta drasticamente scivolando verso la carestia, e un 1.025.000 persone versano in stato di “crisi” o di “emergenza”, con fame e siccità destinate a peggiorare. Francesca Sabatinelli ha intervistato Shukri Said, giornalista somala, portavoce dell’Associazione Migrare: 

R. – Il gruppo di Al Shebaab militarmente è stato indebolito. Per il momento, nelle sue mani sono rimaste ancora delle postazioni importanti. Ad esempio, la città di Barawe che è una delle città costiere che fanno da anello di congiunzione tra la capitale Mogadiscio e Kisimayo. Quindi, la città Barawe è una città portuale, strategia, ricca e molto importante. Gli Shebaab sono molto forti in quell’area. Quindi, conquistare Barawe permetterebbe fondamentalmente due cose: prendere la città più potente, che in questo momento è nelle mani di Al Shebaab, e permettere alle autorità federali e alla comunità internazionale di ricollegare di nuovo Mogadiscio a Kisimayo, un’area vastissima ed economicamente fertile.

D. – Questo drammatico conflitto si intreccia con una gravissima situazione umanitaria che ha portato oltre un milione di persone a versare in una situazione di crisi o di emergenza, quindi proprio ad un passo dalla carestia. E queste sono le cifre dell’Onu...

R. – Infatti, la stessa Onu non viene ascoltata. Il rappresentate dell’Onu per la Somalia ha lanciato questo appello all’inizio dell’estate e, in modo tardivo, anche le autorità somale a loro volta lo hanno fatto. Però, bisogna lavorare! Adesso tutto è stato avviato in Somalia: c’è la volontà delle persone, dei somali, che hanno deciso di andare avanti per recuperare i venti anni spezzati di questa nazione. La comunità internazionale deve aiutare, ma non dando denaro liquido senza criterio, ma per pagare i militari, gli insegnati, per consentire di poter vendere sul mercato tutti quei prodotti di cui la Somalia è ricca. Se non si fa così, anche se dovessimo riuscire a mandare via gli Shebaab, resterebbero le bande armate perché in Somalia non ci sono solo gli Shebaab. Nella maggior parte del territorio, ci sono queste bande di criminali – residuo dei "signori della guerra" che tutti noi conoscevamo – e che una volta morti hanno passato la loro eredità ai loro “figliastri” che comandano, che sono molto organizzati e che hanno armi. Il Paese ha bisogno di un disarmo, di una giustizia vera. Io invito la comunità internazionale a portare un tribunale internazionale in Somalia, perché la giustizia somala non funziona: è una giustizia ingiusta, dura con i deboli e debole con i forti.

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Il riscatto dei bambini di Beslan: oggi giovani studenti

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Sono oggi giovani adulti i bambini sopravvissuti all’orrore dei fatti di Beslan, l’agguato di terroristi ceceni nella scuola dell’Ossezia esattamente 10 anni fa. 186 loro coetanei sono pianti in quello che è stato definito il "Cimitero degli angeli". In tutto sono stati 334 i morti, tra i quali alcuni insegnanti e genitori. Morti anche i terroristi che per tre giorni hanno tenuto segregate 1.100 persone. Il dramma è cominciato durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno scolastico e si è concluso il 3 settembre con il blitz delle teste di cuoio russe. Ma dopo il blitz gli, scontri continuarono: alcuni ribelli in fuga, tra cui due donne con esplosivo addosso, cercarono di raggiungere i bambini che fuggivano per farsi saltare in aria con loro. In questi anni, l’Italia si è distinta per il supporto psicologico assicurato ai sopravvissuti da un’equipe di medici di Padova, grazie all’impegno dell’Associazione “Aiutateci a salvare i bambini”. Fausta Speranza ha intervistato il presidente dell’Associazione, Ennio Bordato: 

R. – La tragedia è presente tutti i giorni, in tutte le famiglie, nella popolazione della città di Beslan e dell’Ossezia e della Russia. Dove ci sono famiglie che alle spalle hanno una capacità di intervento e di gestione delle dinamiche di relazione, troviamo la situazione migliore. Laddove la famiglia non è in grado di fare questo, o purtroppo a causa dell’attentato la famiglia si è disgregata, i genitori sono morti, comunque la situazione è involuta negativamente, la situazione non è assolutamente migliorata. E’ una tragedia che permane tuttora ed è viva nella carne e nel sangue della popolazione osseta e della Russia intera.

D. – Nell’immaginario è una sorta di 11 settembre, di spartiacque del tempo?

R. – E’ una tragedia che ha colpito un popolo intero, un popolo che rappresentava all’interno della Russia un’isola cristiana in mezzo a un mare di popolazioni musulmane. Una popolazione, quella osseta, che ha sempre avuto rapporti geopolitici con Mosca. E’ una situazione di una complessità assoluta. Però, direi che la cosa importante è che dall’Italia noi siamo riusciti a intervenire e in effetti riscontriamo che l’intervento che l’Università di Padova ha compiuto è un intervento che è stato mirato e che è un intervento riuscito. Ora, seguiamo ancora la situazione, abbiamo rapporti, ma direi che da questo punto di vista possiamo dire che l’Italia è stata l’unica – ci è stato riconosciuto stamattina dal governo dell’Ossezia – che è riuscita a intervenire portando capacità di intervento vero all’interno di questa problematica terribile di una tragedia infinita.

D. – Sicuramente, nella popolazione della zona è stata fatta una riflessione profondissima al di là del dolore umano su quanto accaduto…

R. – L’Associazione “Madri di Beslan” andrà al tribunale dei diritti dell’uomo di Strasburgo perché vuole vedere riconosciuta la problematica della complessità e della grande pochezza delle strutture locali sull’intervento. Certo, su questo io non posso pronunciarmi perché la questione è stata complicata, anche dal punto di vista politico. Si sono riscontrate una serie di problematiche che credo però potrebbero sorgere in qualsiasi parte del mondo data la complessità della cosa: 1.200 persone in una scuola, in quelle situazioni di precarietà. Quasi un problema insuperabile. Comunque c’è dibattito, c’è anche il governo locale che è intervenuto, c’è la popolazione intera che discute a dieci anni dall’attentato.

D. – I bambini dei fatti di Beslan oggi sono adolescenti, giovani: cosa dire delle difficoltà di questi bambini di affacciarsi al mondo, alla realtà, alla positività, dopo aver visto tanto orrore?

R. – Sono diventati tutti grandi. Sono ragazzi, giovani che hanno cominciato, quasi tutti, l’università. Se ne sono andati di qui, dall’Ossezia, per motivi di studio. Sono andati a Mosca e San Pietroburgo. Di quanto è successo non ne parlano volentieri, questo mi sembra chiaro, ma laddove ci si ferma e si riflette l’umanità poi rinasce. Queste persone che hanno vissuto questi momenti che sono stati di assoluto male, hanno “razionalizzato” e sono oggi molto disponibili al futuro, molto disponibili al bene, ad andare avanti ma andare avanti in termini assai positivi. Non dimenticando, perché è impossibile dimenticare, ma dando un segnale che la vita continua in termini positivi: hanno fatto l’enorme sforzo di recuperare i momenti positivi e la capacità di essere “portatori” di bontà all’interno di questo drammatica esperienza. Credo  sia un messaggio molto bello quello che sta arrivando da Beslan, da chi ha vissuto i tre giorni in quella scuola maledetta.

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Duemila sbarchi di immigrati. P. Borin: creare corridoi umanitari

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Quasi duemila migranti sono sbarcati stamani in Calabria e Sicilia, salvati in acque internazionali. Intanto, fra i governi europei ferve il dibattito su come gestire i flussi migratori. Le risposte non sono univoche e le responsabilità chi deve provvedere e come vengono rimpallate. A novembre partirà l’operazione Frontex plus, che sulla carta dovrà supplire alla chiusura del piano “Mare Nostrum”. Roberta Gisotti ha intervistato padre Gianni Borin, superiore regionale per l’Europa e l’Africa degli Scalabriniani, Congregazione dedicata in particolare all’assistenza degli immigrati: 

La lista dei profughi dall’Africa e dall’Asia, che approdano in Europa in cerca di salvezza o di una vita migliore, si allunga ogni giorno, carica di drammaticità, di cui la cronaca riporta solo in parte le vittime, le violenze e gli abusi. Padre Borin, gli immigrati via mare su barconi di fortuna più che un’emergenza sono ormai una realtà quotidiana….

R. – Già da molti anni siamo di fronte a questo fenomeno. Non possiamo rimanere sempre in atteggiamento di difesa e, in un certo senso, non dico di favoreggiamento – come qualcuno può accusare – ma comunque un atteggiamento che non affronta alla radice il problema dell’immigrazione: una immigrazione fatta e vissuta in questo modo, in mezzo a ingiustizie, dramma e tragedia.

D. – Cosa pensa del dibattito su "Frontex plus"?

R. – Quello che sembra positivo è un interesse maggiore da parte di più Paesi dell’Europa, che auspichiamo e che desideriamo. Quello che si teme è che abbia comunque sempre la logica di Frontex, che è di difesa più che di tutela dei diritti delle persone, primo fra tutti il diritto alla vita e l’aiuto ad affrontare un percorso protetto da chi ha intenzione di sfruttare il bisogno e le poche risorse di queste persone. Già il fatto di dire che li accoglieremo più vicini alle nostre coste, questo ci lascia molti interrogativi, perché naturalmente sono più esposti al pericolo del mare e delle organizzazioni che promuovono la partenza. La nostra sollecitazione è quella di alzare lo sguardo e provare a creare dei corridoi umanitari, dei punti di contatto con i Paesi di partenza e di transito, in modo tale da permettere all’immigrato, al rifugiato un cammino che sia protetto e libero da forme di sfruttamento sia nel Paese di partenza, che nei Paesi limitrofi, che nei Paesi di transito.

D. – Già da tempo si chiede all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati di aprire dei centri nei Paesi di partenza…

R. – Paesi di partenza o Paesi di transito… Sappiamo, ad esempio, che la situazione in Libia è estremamente esplosiva e mi risulta che sia molto difficile, se non addirittura bloccata e assente, l’opera delle Nazioni Unite. Questo è molto grave, perché richiama naturalmente – e non soltanto a livello europeo, ma anche a livello internazionale – un intervento ormai improrogabile nei confronti dei Paesi in crisi.

D. – Quindi, anche maggiore cooperazione per sconfiggere le reti di criminalità? La materia è complessa, l’importante è però che il dibattito rimanga in primo piano nell’agenda dei Paesi…

R. – Assolutamente sì e con un notevole impegno, senza prorogare delle realtà e dare delle mezze risposte legate soltanto ad una logica di protezione.

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Roma. Le religiose a servizio nelle carceri a confronto

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Sono 234 le religiose, appartenenti a 110 Istituti diversi, che in Italia prestano servizio negli Istituti di pena italiani. Da questa mattina, sono a Roma presso il Pontificio Collegio internazionale "Maria Mater Ecclesiae" per parlare di sovraffollamento, di tossicodipendenza, di abbandono, di povertà e di emarginazione. Problemi che interessano la quotidianità del detenuto e che lo condannano al di là dei suoi sentimenti e delle sue esigenze. Ma per chi ha scelto di stargli accanto, sa che qualunque luogo può diventare missione e che chi ha di fronte è comunque un essere umano che chiede aiuto. Come nasce l’iniziativa di un confronto tra religiose e consacrate al servizio delle carceri? Davide Dionisi lo ha chiesto a mons. Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane. 

R. - L’iniziativa dell’incontro e del convegno con le suore che lavorano in carcere nasce da una richiesta da parte delle religiose che desideravano confrontarsi sui loro percorsi e vedere quali prospettive condividere per lavorare un po’ più in rete e per essere persone che - insieme, naturalmente, agli altri, cappellani e volontari - possono oggi accettare la sfida che Papa Francesco ci dà: creare una missionarietà più creativa partendo dalle periferie. Il carcere è una delle periferie e - visto che ci siamo - ci si interroga assieme verso quali strade andare, verso quali tipi di servizi, con quale significato, riscoprendo anche il carisma di ciascun Istituto religioso rispetto alle persone che si trovano in difficoltà, in particolare le persone in carcere.

D. - Quali sono i problemi più diffusi denunciati dalle religiose che prestano servizio al fianco dei detenuti?

R. - Da un piccolo incontro che abbiamo fatto anche questa mattina con le referenti regionali, è risultato che molte delle persone che sono in carcere non dovrebbero stare in carcere: dovrebbero avere nella società strutture che le curino. Parlavano di tossicodipendenti, di malati mentali, di immigrati senza permesso di soggiorno che finiscono nell’illegalità semplicemente per poter “campare” e abbiamo convenuto che, in ogni caso, il carcere non può essere la soluzione ai problemi sociali. Chiaramente, la situazione delle carceri è su tutti i giornali, anche ultimamente. Ci sono alcune situazioni che sono migliorate rispetto a prima, perché si sono abbattute le presenze di persone detenute all’interno delle carceri, ma ce ne sono ancora alcune - soprattutto nelle grandi città - in cui il sovraffollamento è il problema maggiore.

D. - La religione all’interno del carcere, secondo lei, può avere una funzione rieducativa?

R. - Innanzitutto, bisogna tener conto che noi siamo presenti non solo come religiose e cappellani, ma come Chiesa per fare in modo che le persone che sono in carcere e che credono in Gesù Cristo abbiano la possibilità di professare liberamente la loro fede. Questo è un diritto! Non è una concessione dello Stato, ma è un diritto sacrosanto per ogni persona quello di esprimere la propria fede. L’esperienza di incontro con un Dio che ti vuole bene sicuramente può aiutarti nel momento in cui ti accorgi che c’è un “Papà” che, nonostante tutto - qualsiasi cosa tu abbia fatto nella vita - vuole sentirti ancora come figlio e questo naturalmente incoraggia molto. Papa Francesco, quando è andato a far visita nelle carceri, ma anche quando ha incontrato i detenuti in gruppo, rilancia continuamente questo discorsoe cioè  che, nonostante tutto, Dio ti vuole bene e se vuoi ti riaccoglie con molta gioia. Questo, naturalmente, per persone che tante volte sono considerate lontane da Dio - considerate lontane da possibili percorsi di riconciliazione e di cambiamento della propria vita - è un messaggio che incoraggia la speranza.

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A Stoccolma, la Settimana mondiale dell'acqua

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E' in corso a Stoccolma la “Settimana Mondiale dell’Acqua”. Tema di questa edizione “Acqua ed Energia”. Sull'importanza di questa risorsa e sulla necessità di un suo utilizzo consapevole, Antonio Elia Migliozzi ha intervistato Rosario Lembo presidente della “Associazione italiana Contratto Mondiale per l’acqua”. 

R. - Questa settimana è dedicata a questa importante risorsa: l’acqua. Il tema di quest’anno è: “Acqua ed Energia”. È opportuno ricordare che senza acqua non è possibile produrre cibo, quindi non c’è sicurezza alimentare e senz’acqua si riduce anche la possibilità di produrre energia, fonte indispensabile sia per la sicurezza alimentare, sia per soddisfare i nostri bisogni. Senza energia, infatti, non è possibile soddisfare molti importanti diritti come l’accesso all’acqua, al cibo, alla casa, alla salute, al lavoro, all’istruzione e alla stessa mobilità sociale. L’acqua è utilizzata per importanti processi di produzione dell’energia; ad esempio, è noto che il raffreddamento delle centrali nucleari necessita di acqua. Un rapporto della Commissione europea ricorda che il 44% dell’acqua estratta in Europa è destinata proprio al raffreddamento della produzione energetica, attraverso centrali nucleari. L’altra grande fonte di utilizzo dell’acqua per produrre energia, in termini di alimentazione, di cibo, quindi di energia per il nostro corpo, è l’agricoltura e anche questa non soltanto in Europa.

D. - Come evitare la mercificazione di una risorsa importante come l’acqua?

R. - La competenza e la responsabilità, che devono esser messe in gioco, non ricadono in primo luogo su noi cittadini. Oggi l’attenzione si concentra sempre di più sull’acqua: acqua non destinata a dissetare ma, al contrario, ad essere trasformata in merce. Il futuro dell’acqua è proprio questo: tentare di farne una merce come un’altra e, in questo senso, anche l’Unione Europea classifica l’acqua come una merce, non come le altre ma pur sempre una merce e l’orientamento prevalente è quello di far diventare l’acqua petrolio, "l’oro blu" del XXI secolo. La domanda di acqua cresce, nonostante le Nazioni Unite abbiano riconosciuto nel 2010 che l’acqua è un diritto umano. Ancora oggi, questo obiettivo non viene garantito dalla comunità internazionale.

D. - Quali gli strumenti per educare il cittadino ad un utilizzo consapevole dell’acqua?

R. - Bisogna accogliere questa sfida: l’acqua non è una merce; l’acqua è vita, rappresenta la sacralità della vita umana e quindi è un diritto. È il primo dei diritti. Senz’acqua non c’è vita, non può esserci pacifica convivenza tra le popolazioni. Poi, ci sono i conflitti che esplodono per l’acqua, tutte le guerre anche nel Mediterraneo hanno, di fondo, molto spesso l’accesso ad importanti risorse, per conquistare subito le grandi dighe presso importanti fiumi che attraversano diversi Paesi. Quindi, la consapevolezza come cittadino che l’acqua non è una merce, che l’acqua va risparmiata, conservata, va preservata soprattutto per le future generazioni. In secondo luogo, la responsabilità come cittadinanza quella, appunto, di non delegare ai governi, ai mercati la gestione di queste regole. Le regole devono essere condivise e soprattutto promosse dai cittadini. In questo senso, le iniziative di cittadinanza assumono importanza non soltanto sul piano della riduzione dei consumi, ma soprattutto sul piano della rivendicazione di una legislazione diversa rispetto all’acqua: rivendicando l’uso che ne fa l’Unione Europea, che considera l’acqua ancora una merce; rivendicando il tentativo di affidare la mercificazione dell’acqua - cioè la gestione dell’acqua come merce - alla tecnologia, ovvero, chi vuole molto spesso sostituirsi al ciclo naturale dell’acqua, quindi l’uomo che pensa di poter sostituire il ciclo naturale dell’acqua con un ciclo tecnologico. Sono questi i comportamenti ai quali dobbiamo ribellarci come cittadini italiani, come cittadini europei ma soprattutto come cittadini del mondo. Dobbiamo capire che senza acqua non c’è benessere individuale, non c’è benessere collettivo ma soprattutto non c’è vita, perché l’acqua rappresenta la serialità della vita umana e di ogni essere vivente del pianeta.

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Venezia. "Dancing with Maria", il ballo che unisce il corpo all'anima

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Presentato alla Settimana Internazionale della Critica “Dancing with Maria”, il film italiano dedicato alla straordinaria danzatrice argentina Maria Fux: una vita dedicata a fare della danza la medicina dell’anima e del corpo, una donna amata da tutti il cui ritratto ha commosso il pubblico della Mostra del Cinema di Venezia. Il servizio di Luca Pellegrini

Racconta come il suono diventa musica e, avvolgendo i corpi, può cambiare la vita. La vita di tutti: di chi sta bene e di chi sta male, di chi è felice e di chi soffre. Non fa preferenze di persone, si dona attraverso l’arte che fin da bambina è stata anche la sua ragione di essere e di esistere: la danza. Per lei davvero una missione. Per questo Maria Fux è amata da tutta l’Argentina, a novantatre anni è divenuta una icona. Ha insegnato come superare i propri limiti, ora è lei che ne porta il peso con un sorriso che non ha pari, la dolcezza della voce, la leggerezza dei movimenti, la carità dell’accoglienza. Una artista della quale il regista friulano Ivan Gergolet è rimasto affascinato, decidendo di dedicarle un film delicato e commovente pieno di suggestione, amore, bellezza. La danzatrice argentina, che della danza ha fatto una terapia, ha incantato il pubblico della Mostra del Cinema: una standing ovation ha accolto le immagini finali in cui i suoi allievi e i suoi amici danzano invadendo una “avenida” di Buenos Aires, come se con quella loro danza potessero cambiare il mondo. Abbiamo chiesto al regista che cosa rappresenta Maria Fux per l’Argentina.

D. – Chi è Maria Fux per l’Argentina?

R. – Maria Fux per l’Argentina è la pioniera della danza contemporanea, quella che ha rotto gli schemi. Ed è la danzatrice che dagli anni Sessanta nei suoi gruppi di danza ha cominciato a includere non solo danzatori e danzatrici professionisti, ma anche persone con limitazioni anche molto forti, psichiche, fisiche, e a includerli in gruppi di danza integrati senza fare differenza.

D. – Come sei entrato in contatto con la storia e l’attività artistica di Maria Fux?

R. – Io sono entrato in contatto con Maria Fux tramite una storia, un episodio molto personale, nel senso che stavo accompagnando mia moglie che è una sua allieva a Buenos Aires per un seminario. Mia moglie mi chiese a quel tempo di fare un’intervista a Maria Fux che sarebbe dovuta rimanere un documento familiare, o comunque un ricordo di quel viaggio. In realtà, io rimasi folgorato. Qualche tempo dopo, feci vedere quell’intervista a Igor Princic, che era già il mio produttore, che convintamente mi rispedì a Buenos Aires per chiedere a Maria Fux se era d’accordo che facessimo un film insieme.

D. – Di lei, dopo aver girato il film, dopo averla studiata, dopo averla seguita nelle sue lezioni incredibili, che cosa alla fine ti ha veramente colpito?

R. – Io credo che mi abbia colpito e anche segnato quella che è la sua visione del mondo e il suo approcciarsi all’altro, all’altro soprattutto quando l’altro è diverso da noi, quando ha difficoltà o quando non vogliamo guardarlo, quando evitiamo lo sguardo sulle persone che ci danno fastidio. Maria Fux, nella danza ritrova quello che è un autentico scoprire la relazione con l’altro, quando egli è soprattutto è limitato nel fisico, quando è limitato nella mente, quando è limitato nell’udito. Quando ci è più comodo girarci dall’altra parte, invece, Maria si butta, entra con la mente e soprattutto col corpo dentro quel corpo dentro quel conoscersi nella diversità.

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Nella Chiesa e nel mondo



Visita di mons. Shomali a Gaza: una città devastata

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“Abbiamo visitato il quartiere di Sajaya, dove l'80% delle case e dei palazzi sono ridotti a un cumulo di macerie. Abbiamo visto cose paragonabili solo alla situazione delle città rase al suolo durante la Seconda Guerra mondiale”. Con questa immagine il vescovo William Shomali, vicario patriarcale del patriarcato di Gerusalemme dei Latini, sintetizza le impressioni raccolte nel corso della breve visita compiuta ieri nella città di Gaza insieme all'Amministratore generale del patriarcato, padre Imad Twal, e al cancelliere del patriarcato, padre George Ayoub.

Durante le poche ore trascorse a Gaza (il check point di Eretz viene chiuso dagli israeliani alle 15) la delegazione patriarcale ha potuto incontrare i membri della piccola comunità cristiana locale: oltre al vice-parroco e alle religiose delle tre congregazioni operanti nella Striscia (Istituto del Verbo Incarnato, Suore del Rosario e Suore di Madre Teresa) il vescovo e i due sacerdoti cattolici hanno visitato il vescovo greco-ortodosso Alexios, rimasto anche lui in sede durante tutto il periodo delle incursioni militari israeliane.

“Il vescovo ortodosso - riferisce all'agenzia Fides il vescovo Shomali - ci ha riservato un'accoglienza davvero fraterna, e ha elogiato il lavoro efficiente compiuto dalla Caritas, dalla Pontifical Mission e dal Catholic Relief Service per assistere la popolazione durante e dopo le settimane di operazioni militari”. La delegazione patriarcale ha effettuato un sopralluogo anche presso l'Ospedale Anglicano, che negli ultimi due mesi ha assistito più di 4mila feriti.

La situazione psicologica della popolazione descritta dal vescovo Shomali rivela molte ombre e poche luci:“Da un lato - spiega a Fides il Vicario patriarcale di Gerusalemme - la gente è sollevata dal fatto che il cessate il fuoco stia reggendo. I pescatori, che sono autorizzati a pescare entro sei miglia dalla costa, tornano ogni mattina con carichi di pesce imponenti, che alle otto sono già tutti venduti. La possibilità di poter trovare cibo con il lavoro delle proprie mani, e la prospettiva di poter trovare in futuro altro lavoro nell'opera di ricostruzione, aiutano a riaccendere un po' di speranza.

D'altro canto - aggiunge mons. Shomali - qui anche i giovani hanno già visto 3 campagne militari contro Gaza, e ogni volta la distruzione è peggiore delle volte precedenti. Ci vorranno anni per tornare alla situazione di prima. Questo alimenta sconforto, spegne la fiducia nel futuro. Anche all'interno della piccola comunità cristiana, molti sognano solo di andare via”.

I membri della delegazione patriarcale non hanno incontrato rappresentanti politici, ma nei colloqui avuti con cristiani e musulmani hanno potuto verificare che è aumentata l'ostilità verso Israele, perché - riconosce il vescovo Shomali – “la guerra non può certo far nascere l'amore”. Nello stesso tempo, il consenso verso Hamas – criticata per la sua strategia anche dal Presidente palestinese Abu Mazen - non appare certo unanime. Racconta ancora il Vicario patriarcale di Gerusalemme: “c'è stato anche chi, con amara ironia, mi ha detto: adesso Gaza è distrutta, e tutto quello che ci abbiamo guadagnato è poter mangiare un po' di pesce”. (R.P.)

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Vietnam: cattolici pregano con il Papa per la pace in Iraq e Ucraina

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Rispondendo all'appello lanciato da Papa Francesco, che chiede preghiere per i cristiani perseguitati in Iraq e per la pace in Ucraina, oltre 4mila fedeli della parrocchia di Thái Hà, ad Hanoi, hanno deciso di riunirsi secondo le intenzioni del Pontefice. Da domenica 31 agosto - riferisce l'agenzia AsiaNews - migliaia di cattolici della capitale partecipano ogni giorno a Messe e Veglie di preghiera, solidarizzando con le minoranze perseguitate, oppresse, vittime di abusi e massacrate dalle milizie del sedicente Stato islamico in Medio Oriente.

Le immagini di violenza e terrore dei jihadisti in Iraq e Siria - persone crocifisse o decapitate per essersi rifiutate di convertirsi all'islam - hanno scosso la comunità cristiana vietnamita, la quale risponde con preghiere e celebrazioni eucaristiche che diventano occasione per rivendicare il diritto alla libertà religiosa anche in patria.

Sui social network e in rete, anche sui siti web in lingua vietnamita, circolano senza sosta le immagini dei massacri che provengono dall'Iraq e dalla Siria. Cristiani e membri di altre minoranze uccisi a causa della loro appartenenza religiosa, per essersi rifiutati di cedere alla follia islamista, per aver scelto di "abbracciare la morte, piuttosto che rinnegare la fede".

Oltre alla pace in Ucraina (e nel mondo) e la fine delle persecuzioni in Iraq, la Messa celebrata il 31 agosto dalla comunità di Thái Hà è stata occasione per rivolgere un pensiero anche alla nazione vietnamita, minacciata in questi ultimi tempi dalla politica egemonica di Pechino sulle acque territoriali.

Durante l'omelia della Messa domenicale padre John Lưu Ngọc Quỳnh ha ricordato che "solo l'amore di Gesù è in grado di vincere l'odio". Egli ha inoltre aggiunto che "di fronte alle crudeltà, non siamo soli" perché possiamo beneficiare del "riparo" offerto "dalla croce di Gesù", che è morto per "sradicare l'odio" dalla terra.

Al termine della celebrazione a Thái Hà, i sacerdoti Redentoristi di Hanoi e i 4mila fedeli presenti hanno pregato al santuario di Nostra Signora della giustizia per la pace in Iraq, in Ucraina e una vera libertà religiosa in Vietnam: "Nella storia dell'umanità, ogni tipo di dittatura e tutti i regimi atei hanno da sempre perseguito una politica di annientamento delle religioni; tuttavia, nessun potere può vincere la fede del popolo". (R.P.)

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Hong Kong: il card. Tong ordina tre vescovi ausiliari

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Nella cattedrale dell'Immacolata di Hong Kong il 30 agosto scorso, ordinazione episcopale per tre nuovi vescovi ausiliari del Territorio. Due di loro - mons. Stephen Lee Bun-sang (58 anni) e Joseph Ha Chi-shing (55 anni) sono nati a Hong Kong mentre mons. Michael Yeung Ming-cheung (68 anni) è nato a Shanghai.

La celebrazione è stata presieduta dal vescovo del Territorio, card. John Tong. Insieme a lui anche l'emerito, card. Joseph Zen, l'arcivescovo Savio Hon e diversi altri vescovi da Macao, Taiwan, Giappone, Corea del Sud, Essen (Germania) e San Francisco (Stati Uniti). Hanno concelebrato oltre 200 sacerdoti di Hong Kong e della Cina continentale. Oltre 2mila fedeli hanno partecipato alla Messa all'interno della cattedrale, e moltissimi altri l'hanno potuta seguire in diretta su internet sia a Hong Kong che fuori dal Territorio.

Nella sua omelia - riferisce l'agenzia AsiaNews - il card. Tong ha ricordato come la società odierna sia "piena di confusione, di valori morali dispersi. I nostri sono tempi selvaggi. Come pastore, sento l'urgente necessità di nuovi sacerdoti che possano prendersi cura degli oltre 500mila cattolici della nostra diocesi". Il cardinale, che lo scorso 31 luglio ha compiuto 75 anni, ha suggerito ai nuovi vescovi e a tutti i fedeli di pregare in maniera costante e di vivere secondo i valori del Vangelo e gli insegnamenti della Chiesa, anche davanti alle sfide e alle preoccupazioni della vita.

Inoltre, ha riaffermato le sue priorità pastorali dell'evangelizzazione, delle vocazioni sacerdotali, della cura pastorale per gli stranieri e quella di essere una "Chiesa ponte", promuovendo contatti fra la Chiesa cinese e quella universale. Infine, il card. Tong ha ricordato la propria ordinazione episcopale, insieme a quella del card. Zen, avvenuta nello stesso luogo nel 1996. (R.P.)

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Sri Lanka: famiglie tamil chiedono verità sulle sparizioni forzate

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"Il governo dello Sri Lanka fermi le atrocità contro i tamil e dica la verità sulle persone scomparse". È quanto chiesto dai familiari delle vittime di sparizioni forzate, avvenute durante e dopo la guerra civile. Provenienti da tutto il Paese, circa 700 persone - tra laici singalesi, tamil e musulmani, e leader religiosi cristiani e buddisti - si sono radunate  il 30 agosto scorso. a Vavuniya (Northern Province) per esprimere - riferisce l'agenzia AsiaNews - la loro solidarietà a queste famiglie.

"Noi crediamo che i nostri figli siano ancora vivi - racconta una madre, il cui ragazzo è stato preso dai militari mentre tornava a casa -, per questo piangiamo. Io esorto il Presidente Mahinda Rjapakasa a dare una soluzione alle nostre lacrime, e a fermare una volta per tutte questi brutali sequestri".

"Come cittadini di questo Paese - aggiunge un'altra madre - anche noi dobbiamo godere della stessa libertà di cui gode il Presidente. Non possiamo più vivere senza sapere che fine hanno fatto i nostri figli".

"Non possiamo accettare dei certificati di morte - sottolinea una donna - senza avere le prove di cosa è accaduto ai nostri cari".

Secondo la Croce Rossa internazionale, in Sri Lanka non si hanno più notizie di oltre 16mila persone. (R.P.)

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India: assalto immotivato ad una scuola cattolica a Raipur

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L’assalto immotivato ad una scuola cattolica ha generato sdegno e amarezza tra i cattolici dello Stato di Chhattisgarh, in India centro-settentrionale. Come riferisce all'agenzia Fides mons. Victor Henry Thakur, arcivescovo di Raipur, nei giorni scorsi la “Nirmal Rani English Medium Shcool” a Khursipar, nei pressi di Raipur, capitale dello Stato, è stata bersaglio di un attacco ingiustificato da parte di teppisti violenti vicini al partito nazionalista indù Baratiya Janata Party (Bjp), che è il partito del Primo ministro federale Narendra Modi.

I teppisti accusavano in modo del tutto pretestuoso il preside, il sacerdote padre Ligo Mathew, di aver insultato e parlato in modo violento ad alcune allieve. Per questo hanno fatto irruzione nella scuola, insultandolo e percuotendolo. Anche alcune docenti, accorse all’udire grida e rumori, sono state malmenate. La polizia, chiamata da altri docenti, ha condotto padre Ligo nella stazione di polizia locale, mentre una folla di estremisti di radunava e urlava slogan contro di lui.

Il sacerdote è stato condotto davanti a un magistrato che ha spiccato nei suoi confronti un ordine di detenzione per 14 giorni, confermando le accuse. La domanda di cauzione, presentata dalla Chiesa, è stata rifiutata. I teppisti si sono poi recati nuovamente alla scuola e, completamente ubriachi, hanno devastato l’ufficio del preside e altri locali.

La Chiesa locale, riferisce il vescovo, ha deciso di indire una Giornata di preghiera e digiuno come protesta non violenta, perché sul caso si apra una inchiesta giudiziaria imparziale, e di inviare una relazione alle autorità civili e alla Commissione governativa per i diritti umani.

“Come Chiesa riteniamo le accuse a danno di padre Ligo del tutto infondate e false. Padre Mathew guida da 16 anni la scuola ed è sempre stato un esempio di correttezza, rispetto e cura verso gli allievi, impegnandosi a promuovere un’istruzione di qualità”, conferma il vescovo a Fides, chiedendo di perseguire una strada di giustizia, dopo la violenza arbitraria subìta dai cristiani. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 245

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.