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Sommario del 02/01/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Sant'Egidio: pace si costruisce coi mattoni della preghiera

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“La pace è sempre possibile”: questo il centro del messaggio lanciato ieri dal Papa all’Angelus. Parole che hanno toccato i cuori di tutti, perché tutti possiamo essere operatori di pace facendola germogliare, con la preghiera, nelle nostre famiglie e poi costruendola tra le nazioni. Al microfono di Roberta Barbi, il segretario generale di “Incontri internazionali Uomini e Religioni” della Comunità di Sant’Egidio, il prof. Alberto Quattrucci, riflette sul significato di questo messaggio e spiega perché il Papa è tornato a ricordarlo: 

R. – Il Papa ce lo ricorda in maniera molto forte. Purtroppo, negli ultimi tempi la guerra è tornata a diventare un modo per risolvere i conflitti come un fatto quantomeno inevitabile. Come un fatto naturale, invece, Papa Francesco in maniera forte – e noi della Comunità di Sant’Egidio ci sentiamo fortemente uniti a questo discorso, a questo messaggio – dice che la “pace è sempre possibile” e che la guerra, quindi, è sempre e comunque evitabile.

D. – Il tema della Giornata della Pace 2015 è stato: “Non più schiavi , ma fratelli”. La guerra crea sempre schiavitù, quindi combattere la guerra è combattere la schiavitù e costruire insieme la pace e la fraternità…

R. – Il messaggio è bellissimo, perché effettivamente quando si parla di schiavi sembra di usare purtroppo una parola vecchia, ormai superata. In realtà non è vero, perché esiste una schiavitù attuale, moderna, con dei volti diversi. Esiste anche la schiavitù tradizionale, perché in tanti Paesi del mondo esistono ancora gli schiavi venduti, e la guerra è uno dei fattori che genera schiavitù, perché l’uomo non è più libero ma crede di liberarsi lottando, uccidendo il cosiddetto nemico, quindi le guerre ci fanno schiavi e questo ieri il Papa lo ha ripetuto. Mi viene in mente l’esperienza della nostra Comunità di Sant’Egidio: in questi 19 negoziati di pace dal 1992 ad oggi svolti in tanti Paesi del mondo, abbiamo assistito a tante forme di schiavitù che riguardano sempre i deboli, i più poveri, i più esclusi. E poi tra schiavi e fratelli qui non guardare in faccia l’altro vuol dire sempre chiamarlo “nemico”: cominciare a guardarsi in faccia vuol dire ritrovarsi fratelli, come si era all’origine.

D. – Il Papa ha ricordato come la pace germogli dalla preghiera e quanto sia importante la pace nei cuori, in famiglia ancora prima che tra le nazioni. Cosa può fare ognuno di noi nel suo piccolo?

R. – Due cose. Prima cosa: il fatto che il Papa abbia ricordato questo che ha letto su due enormi cartelloni rendendoli il cuore del suo discorso sulla pace. Quindi, la preghiera è la radice della pace perché viene ascoltata davvero. La preghiera genera pace ed è un fenomeno, un fatto, un miracolo “verticale”, perché Dio interviene nelle storia attraverso la fiducia espressa dalla preghiera degli uomini. La preghiera anche “orizzontalmente” genera unità, perché è difficile che si preghi insieme per la pace con con i propri nemici: si diventa amici, si cambiano le attitudini. Pregare per la pace vuol dire essere aperti a queste meravigliose sorprese della storia come è stato, poco prima di Natale, l’annuncio della nuove relazioni tra Stati Uniti e Cuba. Quindi, la preghiera ha una sua efficacia perché trasforma la storia, quindi è davvero alla radice della pace.

D. – Papa Francesco ha incoraggiato le scuole della pace della Comunità di Sant’Egidio nel mondo a perseverare nel loro lavoro. Quanto è importante e attuale l’educazione alla pace?

R. – Educazione alla pace significa costruire davvero fin dalle origini un modo nuovo, diverso perché l’ignoranza è sfruttata, usata ed è il covo di ogni forma di violenza in realtà. Crescere insieme, parlare, dialogare, costruire una cultura nuova è un fatto fondamentale. Le scuole della pace sono davvero l’alternativa alla violenza per tanti bambini che vengono strappati alla forza tremenda di queste bande armate. Qui ritrovano un modo nuovo per vivere. Le scuole della pace aprono ai bambini una prospettiva di futuro, li strappano a forme di disperazione; sono davvero un modo di costruire concretamente giorno per giorno la pace in modo stabile.

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Mons. Tomasi: commercio armi e poteri privati ostacolano pace

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La violenza non costruisce, quindi da un conflitto non si potrà mai uscire armi in pugno. Lo ribadisce l’osservatore della Santa Sede alle Nazioni Unite di Ginevra, l’arcivescovo Silvano Maria Tomasi, che fa il punto sulle crisi internazionali tenute sotto osservazione dal Comitato Onu per i Diritti umani, in particolare Siria, Iraq e Repubblica Centrafricana. L’intervista al presule è di Xavier Sartre

R. – Nel contesto internazionale di Ginevra, dove la comunità internazionale si preoccupa di quasi tutte le questioni pratiche che toccano la vita di ogni giorno della gente, le emergenze che hanno preso più attenzione sono state il Medio Oriente, la questione dello sviluppo, la libertà religiosa, i rapporti tra Paesi, specialmente per quanto riguarda i flussi migratori, e le relazioni di una economia che abbia al centro la persona umana. In modo particolare, per il Medio Oriente ci sono state sessioni particolari del Consiglio dei diritti umani sull’Iraq, sulla Siria, ma questa preoccupazione è stata estesa anche all’Africa, con una sessione particolare sulla Repubblica Centrafricana. La preoccupazione alla radice di questi sforzi, di questi tentativi di trovare una strada per la pace, è di non sciupare vite umane e di non consumare tutte le risorse che sono disponibili in conflitti inutili e dannosi, invece di utilizzare queste forze positive per lo sviluppo della vita dei popoli. In Medio Oriente, in particolare, si è posto l’accento sulla necessità non solo di raggiungere un armistizio, in modo da facilitare l’aiuto umanitario, ma anche di garantire libertà alle persone di vivere i loro diritti umani in maniera degna. Questo sforzo si è tradotto in azioni operative, per esempio qui, nel cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso la presenza dei Patriarchi cattolici del Medio Oriente, e di alcuni vescovi delle comunità ortodosse, in modo da avere una testimonianza diretta della situazione sul terreno, e quali sono i punti fondamentali che dovrebbero essere affrontati per trovare soluzioni eque e costruttive.

D. – Su tutti questi temi, lei è fiducioso per il 2015?

R. – Come cristiani, dobbiamo sempre essere ottimisti, sapendo che la Provvidenza guida la Storia. Però, ci troviamo di fronte a una certa mancanza di volontà politica di risolvere soprattutto le situazioni di violenza, che vediamo evidenti in varie parti del mondo, ma specialmente nelle regione del Medio Oriente. La violenza non porta nessun risultato costruttivo. Dobbiamo andare al di là della mentalità secondo la quale se ci sono difficoltà e problemi, l’unica strada sia quella del conflitto violento per risolverli. Ci sono altri mezzi: bisogna costruire fiducia, in modo da potersi parlare e trovare compromessi ragionevoli che permettano a tutte le persone, di qualsiasi credo religioso, di qualsiasi opinione politica, di convivere senza farsi del male e creando una convergenza di sforzi per il bene comune. Questo mi pare l’obiettivo che dobbiamo porci per l’anno che sta per incominciare, e lo si può affrontare se mettiamo il commercio delle armi e gli interessi di vari poteri in secondo piano e mettiamo in primo piano gli interessi delle persone e le loro ispirazioni giuste.

D. – In quel contesto, la Santa Sede ha un ruolo da svolgere?

R. – La Santa Sede è un po’ la voce della coscienza, nel contesto internazionale. Non siamo un potere economico né un potere militare: le alabarde delle Guardie Svizzere non è che possano fare molto contro le armi  moderne, né vogliono farlo. Quindi, quello che è lo specifico della missione della diplomazia pontificia è di essere, appunto, la voce della coscienza che ricorda che i valori più importanti per il futuro comune della famiglia umana sono la pace, il rispetto reciproco, la solidarietà con i più bisognosi.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Alla radice della pace: Papa Francesco celebra la messa per la Giornata mondiale e all'Angelus esorta alla preghiera.

Per l'Italia una prova di maturità: il presidente Napolitano annuncia le dimissioni.

Quando è ora del tè: dallo Sri Lanka, Cristian Martini Grimaldi sulla fatica delle donne nelle piantagioni.

Un articolo di Melo Freni dal titolo "Cronaca di un'assenza": il Gattopardo sugli altari ignorato dal romanzo.

E' morto il vaticanista Desmond Fisher: la sua fama era legata ai reportage sui lavori del Concilio.

Abramo Lincoln e l'arca di Noè: Gabriele Nicolò sull'arte oratoria del sedicesimo presidente degli Stati Uniti.

In cammino: il mensile "donne chiesa mondo".

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Oggi in Primo Piano



Medio Oriente: l'Anp chiede di aderire alla Corte Penale Internazionale

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Il premier israeliano Benjamin Nethanyau è stato confermato leader del partito “Likud”, in vista delle elezioni parlamentari del prossimo 17 marzo. Intanto l’Autorità Nazionale Palestinese ha chiesto di aderire alla Corte Penale Internazionale, dopo il veto del Consiglio di sicurezza del’Onu sulla mozione che fissava nel 2017 il ritiro di Israele dalla Cisgiordania. Sulle ragioni di questa richiesta sentiamo il commento di Marcella Emiliani, storica del Medio Oriente e giornalista, al microfono di Michele Raviart: 

R. – Il Presidente dell’Autonomia Nazionale Palestinese, Abu Mazen, ha fatto ricorso a questa mossa per sensibilizzare il concerto internazionale, affinché prema su Israele perché si arrivi di nuovo ad un tavolo di negoziati. Quante possibilità ha di essere accolta questa richiesta, di incriminare Israele per l’occupazione dei territori? Oggettivamente le possibilità sono poche. Ma anche nel caso in cui questa richiesta venisse accettata, diciamo che il quadro si complicherebbe ancora di più. Perché? Perché Israele, in questo momento, è un Paese fondamentale nella lotta regionale e internazionale al terrorismo. Una eventuale condanna da parte della Comunità internazionale non farebbe che non solo indebolire Israele, ma anche il fronte che lotta contro questo tipo di terrorismo, che abbiamo visto è assai tentacolare. E Israele, che ci piaccia o meno, è uno dei pochi Paesi che ha le idee chiare su come si combatte il terrorismo islamico.

D. – Ma è possibile riaprire le trattative con Israele ora, a pochi mesi delle elezioni?

R. – Chiaramente il periodo non è propizio, perché – appunto, come ha detto – la campagna elettorale è praticamente iniziata. La cosa preoccupante dal punto di vista di chi sostiene un processo di pace da riavviare con i palestinesi è che in lizza contro Netanyahu ci sono personaggi come Lieberman, il ministro degli esteri uscente, e Naftali Bennett, il ministro dell’economia, che hanno nei confronti dei palestinesi un atteggiamento ancora più duro, ancora più difficile. Questo ci riconferma che se Abu Mazen ha fatto ricorso a questa mossa internazionale, lo ha fatto perché ormai non ha più strumenti in mano per poter riavviare il processo di pace.

D. – Gli Stati Uniti hanno votato no alla Risoluzione Onu sul ritiro di Israele dalla Cisgiordania e si sono espressi contro l’adesione dell’Anp alla Corte Penale Internazionale di giustizia. Qual è la posizione dell’America?

R. – Chiaramente gli Stati Uniti, in questo momento, hanno due enormi priorità, che sono date dalla lotta contro l’Isis in Siria e in Iraq e l’Afghanistan: non scordiamoci l’Afghanistan, perché anche l’Afghanistan è stata e continua ad essere una palestra di terroristi islamici. In questo momento Israele – secondo me – confida che gli Stati Uniti e gli Stati Uniti confidano che Israele riesca a mantenere la situazione sotto controllo.

D. – In questo momento la questione israelo-palestinese che priorità ha per la Comunità internazionale?

R. – La situazione generale è che la Comunità internazionale, in questo momento, non vuole farsi carico di questo problema, che è il più vecchio, il più incancrenito di tutto il Medio Oriente e molto probabilmente anche una delle radici di altre conflittualità della regione. Dopo di ché si vedrà chi vincerà le elezioni, si vedrà se sotto l’onda di questi – chiamiamoli – insuccessi per ora a livello internazionale di Abu Mazen, Hamas accetterà di continuare la strada con l’Autorità Nazionale Palestinese o tornerà, invece a fare il suo gioco 'suicida' all’interno della Striscia di Gaza. Quindi diciamo che gli interrogativi sono molti e le risposte sono poche.

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Il Fronte al Nusra conferma: “Abbiamo noi Vanessa e Greta”

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Il Fronte al Nusra, gruppo siriano legato ad al Qaida, ha confermato di tenere in ostaggio Greta Ramelli e Vanessa Marzullo; le due cooperanti italiane riapparse in un drammatico video il 31 dicembre dopo cinque mesi esatti dal loro rapimento. Immagini ritenute autentiche dall’intelligence e dai magistrati italiani che parlano di “fase delicata” e mantengono il massimo riserbo sulle indagini. Il servizio di Marco Guerra: 

“È vero, abbiamo noi le due italiane, perchè il loro Paese sostiene i raid in Siria contro di noi”, con queste parole, rilasciate all’agenzia tedesca Dpa, Abu Fadel, membro del Fronte al Nusra, conferma che Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono tenute in ostaggio dal gruppo affiliato ad al Qaeda. Notizia avvalorata anche dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, secondo cui le due cooperanti si troverebbero alla periferia occidentale di Aleppo. Dunque, le due donne non sono nelle mani del sedicente Stato Islamico, come si era temuto a lungo in questi cinque mesi di silenzio che hanno preceduto il drammatico video pubblicato il 31 dicembre, ma sul resto della vicenda le autorità inquirenti  italiane mantengono il massimo riserbo. “E' una fase delicata e deve essere caratterizzata da riservatezza e prudenza”, dice il pm di Roma, Sergio Colaiocco, titolare dell'inchiesta. Intanto sul terreno in Siria, non si fermano le violenze. Nel 2014 sono state più di 76mila le vittime, la metà delle quali civili. Proseguono anche i raid della coalizione internazionale sulle roccaforti dello stato islamico; 29 quelli effettuati nel primo giorno dell’anno.

Ma per un commento sulle strategie del gruppo al Nusra e sulla situazione della sicurezza in Siria, sentiamo Domenico Quirico, inviato della Stampa che ha vissuto oltre 150 giorni di prigionia proprio nelle mani della formazione qaedista: 

R. – Conosco al Nusra per essere stato suo prigioniero, ma forse bisogna fare una piccola precisazione sulla situazione siriana. Le formazioni jihadiste sono formazioni spesso autonome, per cui l’atteggiamento, la loro strategia e le loro idee possono cambiare a seconda del comandante, dell’emiro di quella formazione. Per cui, dire “al Nusra” è dire una parola; poi ci sono tante brigate di al Nusra, alcune più fanatiche, altre meno, alcune formate esclusivamente – chessò – da ceceni piuttosto che da afghani, altre formate da siriani o da libici, o da combattenti di altri Paesi musulmani … Per cui, la situazione è talmente scomposta, in quella guerra civile, che dire “sono prigioniero di al Nusra” vuol dire tutto e non vuol dire niente. Dipende da chi sono gli uomini di al Nusra che ti detengono. In Siria, oggi, è impossibile fidarsi di chiunque …

D. – Qual è lo scopo di questa strategia dei sequestri?

R. – La strategia dei sequestri ha scopi diversi a seconda di chi li compie: ci sono gruppi banditeschi che usano i sequestri per fare denaro e sequestrano non solo gli stranieri. Ci sono, invece, formazioni jihadiste, come ad esempio l’Isis o il Califfato che dir si voglia, che sequestrano stranieri per strategie di comunicazione che nulla o quasi nulla hanno a che fare con l’estorsione. Per cui, anche qui siamo a livello di frammentazione, di diversi scopi. Spesso possono esserci anche dei piani in cui i due scopi si mescolano: c’è lo scopo del sequestro per dimostrare il proprio potere in una certa zona, e allo stesso tempo per ottenere denaro.

D. – Rispetto a un anno fa, alla vicenda che tu hai vissuto, come è cambiato il contesto siriano?

R. – E’ radicalmente cambiato, perché c’è un attore che un anno fa non esisteva neanche sul piano linguistico, cioè il Califfato. Un anno fa, la Siria era una guerra civile in cui c’erano numerosi attori – da una parte, ovviamente, Bachar e il regime, dall’altra c’erano formazioni dell’armata siriana libera che era, come dire, di tipo laico; c’erano anche formazioni islamiste come al Nusra, che era già presente sul terreno – e ora tutto questo è stato in qualche misura omogeneizzato dall’irrompere del Califfato, che è nato in Siria e non in Iraq. La rapidità con cui questo è cambiato, dovrebbe farci riflettere, nel senso che la vittoria dell’Isis è avvenuta in modo quasi fulmineo. Ripeto: io sono stato liberato a settembre del 2013 e quando parlavo del Califfato mi ridevano dietro. In un anno, tutto questo è diventato uno Stato che – mi spiace constatare – nonostante i bombardamenti, i raid, i droni e le chiacchiere, nessuno è riuscito ancora a spostare di un millimetro.

D. – Quindi, ora la Siria è da considerare off-limits per qualsiasi soggetto straniero che intenda operare sul terreno?

R. – Assolutamente sì. L’irrompere del Califfato ha cambiato completamente lo scenario, lo sfondo. Cioè, una volta uno andava in Siria e si rivolgeva ai contatti, con l’armata siriana libera entrava e aveva un ragionevole margine di sicurezza. Gli islamisti hanno i loro progetti, ma tra questi progetti non c’è certamente quello di aiutare gli stranieri a vedere chi sono! Hanno strumenti di comunicazione che sono loro, autonomi e lo vediamo dalle campagne di comunicazione che fanno; e tutto questo significa che andare lì equivale a un suicidio …

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Coree. L'esperta: "Passi avanti ma riunificazione difficile"

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Gli ultimi giorni hanno portato segnali di riavvicinamento tra le due Coree. In particolare il leader nordcoreano Kim Jong-Un ha aperto a “colloqui di alto livello” con Seul, prospettando un “grande cambiamento” nelle relazioni tra i due Paesi. Davide Maggiore ha chiesto qual è la portata di queste dichiarazioni a Rosella Ideo, esperta di Storia politica e diplomatica dell'Asia Orientale: 

R. - La portata di questa dichiarazione è grande, nel senso che effettivamente la risposta di Kim Jong-un all’apertura sudcoreana, “troviamoci e parliamo di tutto quello che è sul tavolo”, sembrerebbe un tentativo di distensione. In realtà la situazione della penisola coreana è talmente complicata che secondo me non va assolutamente messa in connessione con quello che è avvenuto tra Cuba e gli Stati Uniti; non ci sono paragoni né con questo, né con l’unificazione tedesca che sembra aver ispirato nell’ultimo anno la Presidente della Corea del Sud, la signora Park.

D. - Ma cosa cerca Pyongyang riaprendo questi possibili colloqui? Kim Jong-un vuole riaccreditarsi agli occhi della comunità internazionale per ottenere aiuti?

R. - Sicuramente. Teniamo presente che la Corea del Nord ormai è il “paria” della comunità internazionale sia dal punto di vista politico che economico. Oltre a questo, la Commissione indipendente dell’Onu nel febbraio del 2014 ha messo a punto un rapporto sulle violazioni dei diritti umani della Corea del Nord; violazioni veramente gravissime. E soprattutto, c’è lo spettro della possibile incriminazione al Tribunale Internazionale dell’Aja di Kim Jong-un per la gravissime violazioni dei diritti umani compiuti in Corea del Nord, in quanto è venuta fuori una situazione veramente drammatica.

D. - Colloqui di alto livello addirittura tra i due Presidenti erano già avvenuti nel 2000, ma poi non si era arrivati ad una soluzione. Quali possono essere gli ostacoli su questa strada della pacificazione e della possibile riunificazione?

R. - Gli ostacoli sono enormi. Come esempio di riunificazione abbiamo quello tedesco: la differenza tra Germania Ovest e Germania Est era 3 a 1; quella tra i due Stati coreani è 18 a 1. Dal punto di vista economico la Germania dell’Est era in condizioni decisamente migliori sotto tutti gli aspetti rispetto alla Corea del Nord; in secondo luogo, non c’è un quadro di sicurezza – che sarebbe necessario - in Asia nordorientale. In questo senso abbiamo visto tutte le dispute tra Giappone, Cina e Paesi del Sud-Est asiatico per questioni territoriali.

D. - Lei ha accennato al contesto internazionale e alla sicurezza. Sono ancora in programma le esercitazioni congiunte tra Sud Corea e Stati Uniti. Cosa potrebbero fare la Corea del Sud e la comunità internazionale, in particolare, per facilitare questo processo di dialogo?

R. - Queste esercitazioni sono massicce e questo spaventa veramente la Corea del Nord. Per facilitare una ripresa di dialogo occorrerebbe un gesto di buona volontà da parte di Stati Uniti e Corea del Sud attraverso la sospensione - magari - per una volta di queste massicce dimostrazioni  di forza. Dal punto di vista internazionale per esempio l’Unione Europea che si è sfilata un po’ da anni dalla questione della politica coreana avrebbe un gran peso: l’Unione Europea è molto ascoltata in Asia Orientale.

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2015 e gli Obiettivi del millennio: fame e povertà restano

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Sradicare la fame e la povertà, raggiungere l’istruzione primaria per tutti, ridurre la mortalità infantile, combattere l’Hiv e la malaria, assicurare la sostenibilità ambientale. Sono alcuni degli Otto Obiettivi del Millennio sottoscritti nel 2000 da 191 capi di Stato e di governo per un patto tra Paesi ricchi e poveri su un reciproco impegno a costruire un mondo più equo per tutti entro il 31 dicembre del 2015. Ma a un anno dalla fine del termine prefissato, a che punto sono questi Obiettivi? Marina Tomarro lo ha chiesto Massimo Caneva, esperto internazionale di cooperazione universitaria e affari umanitari: 

R. – Chi partecipò, come capi di Stato e di governo degli Stati membri dell’Onu, cercò in quella data di affrontare alcune tematiche prioritarie. In quel momento, nessuno pensava che la situazione fosse diversa da quello che loro credevaio, rispetto agli Obiettivi del Millennio in sé. Si può dire che lo sforzo delle Nazioni Unite sia stato un sforzo concentrato su questi otto obiettivi e posso dire che alcuni risultati, per lo meno di coesione sul raggiungimento di obiettivi, ci sono stati per quello che riguarda alcuni aspetti. Purtroppo, rimane profondo il divario tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri e ancora ci sono un miliardo di persone che vivono in estrema povertà con 800 milioni di affamati. Bisogna rivedere alcune idee di fondo e stabilire alcuni criteri per cui si rispetti di più la persona umana, i suoi valori, anche nei programmi di educazione.

D. – Alla luce della società attuale, oggi ci sarebbero altri obiettivi da aggiungere, secondo lei, o restano sempre questi otto, i principali?

R. – Il punto di vista personale mi porta a confermare alcuni punti di questi otto obiettivi. Certamente, l’attenzione alla povertà, certamente l’attenzione alla salute materna e infantile, certamente l’attenzione a quello che riguarda l’ambiente, di cui dobbiamo preoccuparci sempre più. Ma io credo che attualmente le Nazioni Unite debbano preoccuparsi di due grandi fenomeni. Il primo è l’instabilità dei Paesi relativamente collegati alle crisi interreligiose e geopolitiche e l’altro di come nei Paesi occidentali le nuove generazioni siano capaci e attente a risolvere questi problemi. C’è l’emergenza di creare figure che sappiano gestire ma anche prevenire le crisi, e non solo inseguirle nelle sue conseguenze.

D. – Questi altri obiettivi erano rivolti soprattutto ai Paesi del Sud del mondo. Dove questi obiettivi sono stati raggiunti maggiormente e dove invece c’è un maggior bisogno di continuare a operare?

R. – Fondamentalmente, io credo che l’Africa sia un continente che ha bisogno ancora di molta attenzione, perché è un continente in cui si cerca di sperimentare nuove tecniche, sia nel settore ambientale, sia nella salute; però, l’interesse primario molte volte, purtroppo, non solo da parte dei Paesi occidentali ma anche della Cina, che è emergente, è quello di sfruttare le loro risorse naturali. Un altro punto dolente ma su cui dobbiamo intervenire è tutto il rapporto con i Paesi del Medio Oriente e del Mediterraneo, dell’Asia… Ecco, noi dobbiamo cambiare completamente il concetto di cooperazione e una delle cose più importanti è investire nella formazione. L’università è un punto centrale: dobbiamo investire in questo. La cultura della cooperazione affronta e risolve i temi alla radice di tutti gli obiettivi: non solo gli otto del Millennio, ma di quelli che l’uomo deve affrontare nel prossimo futuro.

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Fortress Europe: migrazioni, non basta pattugliare le coste

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E’ in navigazione verso il porto di Crotone, il mercantile "Ezadeen", battente bandiera della Sierra Leone, individuato ieri al largo delle coste greche con circa 400 migranti a bordo. L’arrivo, maltempo permettendo, è previsto nel pomeriggio. Sul cargo si era registrato un black-out elettrico forse dovuto alla mancanza di carburante. La nave, abbandonata dall'equipaggio in prossimità della Grecia, è ora governata da sei uomini delle Capitanerie di porto di Gallipoli e Taranto giunti a bordo con un elicottero dell'Aeronautica militare. Solo il 31 dicembre scorso, un altro cargo il "Blue Sky M", battente bandiera Moldava, grazie all’intervento della Marina militare italiana era approdato nel porto di Gallipoli con a bordo 796 profughi. Anche in questo caso l’imbarcazione si trovava alla deriva. Ma è possibile parlare di strategie e di rotte di immigrazione nuove? Adriana Masotti lo ha chiesto a Gabriele Del Grande di "Fortress Europe": 

R. – E’ un po’ presto per parlare di nuova rotta e di una nuova strategia. Sicuramente, è da inserire quello che è accaduto nel contesto della crisi siriana, una guerra che oltre a 300 mila morti ha causato 10 milioni tra rifugiati e sfollati, più di un milione di siriani sono rifugiati in Turchia. E non a caso queste due imbarcazioni dalla Turchia erano partite, quindi hanno attraversato praticamente tutto il Mediterraneo su questo cargo e poi l’equipaggio, per non essere arrestato, è scappato in mare con una seconda imbarcazione. All’interno di questo contesto, che è la crisi siriana, si tenta ogni strada: c’è questa rotta, c’è la Bulgaria, c’è la Grecia e c’è l’Italia, perché anche in Italia continuano comunque ad arrivare imbarcazioni sia dalla Libia che dall’Egitto.

D. – Riguardo alle imbarcazioni che partono dalla Turchia, chiaramente ci saranno arrivi di immigrati ad esempio afghani, cioè di nazionalità di cui ultimamente non si era parlato…

R. – Il fatto che non se ne parli non significa che le cose non accadano! Sono almeno 10 anni che va avanti questa storia… La Grecia è uno dei punti di ingresso dell’Unione Europea, così come l’Italia, come la Spagna, per chi viaggia senza documenti: per andarsene via dalla Grecia spesso la gente si nasconde sotto i camion e molti sono afghani. La Turchia chiaramente è un punto di passaggio obbligato – mi viene da dire – per gli afghani, oltre ai curdi e oltre ultimamente ai siriani. C’è sicuramente da aspettarsi che continueranno a viaggiare da lì, a meno che l’Europa non decida di pensare seriamente a delle alternative e non, invece, semplicemente ad aumentare i pattugliamenti.

D. – In questi ultimi tempi sono aumentati i pericoli per chi si mette in mare?

R. – Più che aumentati i pericoli, che sono sempre gli stessi, sono diminuite le opzioni di salvataggio: col fatto che si è deciso di chiudere l’operazione “Mare Nostrum” - che nello scorso anno ha salvato più di 150 mila persone in alto mare - ci sono meno possibilità di essere salvati o si potrà essere salvati non più in alto mare, ma solo sotto costa italiana. E questo significa veramente mettere a repentaglio la vita di migliaia di persone... Da un punto di vista legale, del diritto marittimo internazionale, c’è l’obbligo di soccorso. Se però la nave della Marina parte da Augusta, anziché essere già lì in alto mare, significa che arriva sul posto dopo 12 ore… Detto questo, i salvataggi e i pattugliamenti sono una risposta più di emergenza, che non di soluzione. L’Europa dovrebbe seriamente porsi la seguente questione: come evitare che queste persone si imbarchino con il contrabbando; come fare sì che queste persone possano viaggiare su dei canali legali? Non parliamo di milioni di persone, parliamo di 100 mila persone l’anno che attraversano il Mediterraneo… Possibile che non si riesca a trovare una soluzione per farli viaggiare in aereo, con dei regolari documenti, attraverso le nostre ambasciate? Basterebbe riscrivere le regole sulla mobilità. L’Europa lo ha fatto con l’Est, lo ha fatto con i Balcani… Non si capisce perché ci si ostini a non volerlo sperimentare con i Paesi del Mediterraneo.

D. – C’è chi, però, si lamenta perché dice che l’operazione “Triton”, quella che ha sostituito “Mare Nostrum”, sia la sua esatta fotocopia e che quindi l’Italia sarebbe rimasta ancora da sola a provvedere alle operazioni di soccorso e da sola a farsi carico poi dell’accoglienza…

R. – Sono parole, queste, che servono più a trovare consenso elettorale che non ad analizzare la questione. L’Italia è stata lasciata sola? E’ molto relativo: più del 50% delle persone che sbarcano a Lampedusa da due anni a questa parte lasciano l’Italia nel giro di 48 ore. Alla Stazione Centrale a Milano ogni giorno arrivano 100-200-300 siriani di quelli che sbarcano nel Sud Italia, i quali – una volta trasferiti nei centri di accoglienza del sud – la prima cosa che fanno scappano, prendono un biglietto del treno per Milano e a Milano poi pagano un posto in macchina ai contrabbandieri, che da Milano li portano in Germania, in Svezia, in Norvegia… L’Italia di oggi è un Paese in crisi, è un Paese che non è più attraente nemmeno per i rifugiati politici che sbarcano sulle nostre coste. Da Milano se ne sono andati, l’ultimo anno, più di 50 mila siriani di quelli sbarcati sulle coste italiane. Vorrei anche dire che il numero dei rifugiati, accolti da Paesi come la Svezia o come la Germania, per quanto possa sembrare strano, lo scorso anno è stato maggiore di quelli che sono sbarcati in Italia lungo le nostre coste. Si fa presto ad ingigantire i problemi per parlare alla pancia e alla paura della gente, piuttosto che analizzare invece quelle che sono le reali questioni.

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Draghi dice no al Quirinale: "Non voglio essere un politico"

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"Io non voglio essere un politico". Cosi' si è espresso il presidente della Bce, Mario Draghi, sulle dimissioni del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, affermando che il suo mandato a Francoforte proseguirà fino al 2019. Alessandro Guarasci ha sentito Roberto Mazzotta, del Comitato d'indirizzo dell'Istituto Sturzo

R. – Io sono confortato dal fatto che Draghi resti dove è. Poi, le motivazioni appartengono o alla fretta del momento o anche ad opinioni personali. La cosa di fondo è che in questo momento alla guida della Bce è bene che resti un uomo che ha le idee di Draghi. E questo nell’interesse sia italiano sia europeo: non è soltanto un interesse particolare… Al vertice della Bce è necessario che resti un uomo con largo prestigio e lungimiranza. Non sono frequenti persone del genere in questo periodo.

D. – Dott. Mazzotta, il prossimo capo dello Stato dovrà dare un impulso alla riforma della legge elettorale e soprattutto aiutare il superamento del bicameralismo perfetto?

R. – Io credo che il prossimo capo dello Stato dovrà dare concordia a un Paese inquieto e molto disordinato come il nostro e quindi ci vorrà il piccolo miracolo di un’intesa costruita un po’ prima dell’inizio delle votazioni. E in secondo luogo, una persona che intanto conosca la politica italiana, che conosca poi l’Europa e che dia un senso di sicurezza e di credibilità soprattutto nell’area delle decisioni vere, che sono quelle europee.

D. – Allora dovrà in qualche modo frenare le spinte centrifughe di alcuni movimenti e partiti che vogliono l’Italia fuori dall’unione monetaria?

R. – Questo momento è una fase difficile un po’ in tutta Europa, perché il ritardo nei passaggi istituzionali e contemporaneamente una crisi economica e sociale grave crea evidentemente malformazioni politiche. Ormai, un po’ in tutti i Paesi c’è uno scontro tra una realtà politica che ha interessi di governo e realtà politiche che hanno interessi a rappresentare la protesta. Poi, normalmente, chi ha interessi a rappresentare la protesta non è tanto portato a capire i problemi di governo.

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Matera: inaugurato il più grande presepe vivente al mondo

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Si inaugura oggi a Matera – città scelta come capitale del cultura europea 2019 – il grande presepe vivente che fino al 5 gennaio sarà allestito nei celebri Sassi e nella città vecchia. Con cinque chilometri di itinerario e 400 figuranti la rappresentazione è la più grande al mondo di questo tipo. Il suo valore spirituale è stato sottolineato, al microfono di Luca Collodi, dall’arcivescovo di Matera e Irsina, mons. Salvatore Ligorio

R. – Il  presepe vivente ha questo richiamo soprattutto alla stella cometa come espressione di luce e la luce, quindi dà la possibilità di mettersi in cammino come questa comunità in questi ultimi decenni. E mi piace richiamare soprattutto l’espressione già di Paolo VI, quando sottolineava che la vera civiltà diventa la civiltà dell’amore. E la civiltà dell’amore conta, in questa comunità, per le relazioni profondamente umane nell’accoglienza che sa dare, e per come sa vivere nei grandi valori umani e cristiani. D’altra parte, non può essere improvvisato questo presepe: se è stato scelto non è soltanto per una coreografia che presentano i Sassi; ma è un’espressione vivente che vuol richiamare la profonda religiosità di questo popolo.

D. – Questo presepe arriva come proposta culturale e come traduzione cristiana da una città del Sud, quindi è qualcosa che va oltre la dimensione religiosa e che guarda anche a una novità: cioè a una nuova proposta culturale che parte anche dalla società civile del Sud…

R. – Quando l’uomo vive profondamente la sua umanità, già diventa un’espressione di cultura. E questa comunità vuol dare profondamente questo messaggio, di questa umanità calorosa che esprime soprattutto il potenziale di relazioni e ha anche una capacità culturale che apre, nella espressione di una fede, a una maggiore capacità di vivere la sua cittadinanza.

D. – Che significato ha per lei Matera come capitale della cultura europea del 2019?

R. – Sono vive ancora le immagini, quando il 17 ottobre Matera è stata dichiarata capitale della cultura europea: la comunità ha saputo rispondere pienamente, nel coinvolgimento di tutti, veramente. I valori in questa comunità ci sono, bisogna saperli esprimere e testimoniare. Allora, è un passo di un cammino di un popolo che ha saputo valorizzare i veri valori che questa comunità possiede.

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Nella Chiesa e nel mondo



Terra Santa. Patriarca Twal: la pace non si impone con la forza

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“La Pace è un dono celeste che non si può comperare, né importare, e nemmeno imporre con la forza; è un dono affidato agli uomini che devono meritarlo per poterlo realizzare”. A ribadirlo - riporta l'agenzia Sir - il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, che ieri, a Gerusalemme, ha celebrato la solennità di Maria Santissima Madre di Dio e la Giornata Mondiale della Pace.

Cristiani: segno di fraternità in Medio Oriente
“Noi cristiani - ha detto - dobbiamo essere segno vivente di fraternità, soprattutto qui nel cuore del Medio Oriente tormentato e ferito. Essere fratelli richiede da noi una carità gratuita e una solidarietà senza confini. È quello che cerchiamo di vivere verso i nostri fratelli rifugiati in Giordania, venuti dalla Siria e dall’Iraq”. Una sfida, ha aggiunto Twal, “resa ancora più grande dal fatto che la nostra regione è in preda agli estremismi religiosi. Questa Terra la cui vocazione è così alta, è lacerata da politiche i cui problemi non sono quelli del nostro popolo”.

La Pace e la Giustizia hanno un nome: Gesù Cristo
Da qui l’appello del patriarca alla preghiera. “In mezzo a tutti questi fatti di grande violenza, soprattutto qui a Gerusalemme, Città Tre Volte Santa, non possiamo cedere allo scoraggiamento, né lasciare l’ultima parola agli estremisti. Dobbiamo continuare a credere alla Pace nonostante le ingiustizie che costituiscono la nostra dose di sofferenze quotidiane. La Pace ha un nome: è Gesù Cristo. Anche la Giustizia ha un nome: è Gesù Cristo”.

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Vescovi Calabria: 'ndrangheta, struttura di peccato

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“La ‘ndrangheta è una struttura di peccato che stritola il debole e l’indifeso, calpesta la dignità della persona, intossica il corpo sociale”. A scriverlo sono i vescovi calabresi nel documento “Testimoniare la verità del Vangelo. Nota pastorale sulla ‘ndrangheta”, pubblicato questa mattina dalla Conferenza episcopale calabra (Cec). Quattro capitoli - riferisce l'agenzia Sir - che, come spiega mons. Salvatore Nunnari, presidente della Cec e arcivescovo di Cosenza-Bisignano, “noi vescovi calabresi non ci siamo impegnati a scrivere ‘contro’ qualcuno, ma ‘per’ annunciare la Verità eterna del Vangelo di Gesù Cristo”. Una verità in una regione, quella calabrese, “terra meravigliosa”, che, recita il documento, “si trova dentro un “vuoto” che appare profondo. Un vuoto di certezze, di presenza, di fiducia, di impegno, un vuoto di ‘fatti’”, che “tocca le stesse Istituzioni, lacera il tessuto della politica, riduce la speranza dei giovani”.

'Ndrangheta: insieme anti-Stato e anti-religione
“Noi vescovi - afferma mons. Nunnari nel presentare la nota - facciamo riecheggiare l’eco di alcune parole indimenticabili, quali quelle di Papa Wojtyla ad Agrigento e quelle di Papa Francesco a Sibari; ma ricordiamo anche tante prese di posizione lungo questi ultimi 70 anni dell’episcopato calabrese”. Nel documento si presenta “il volto reale della mafia e della ’ndrangheta, senza mezze parole, ma con una chiarezza estrema, che va alla radice di questo fenomeno aberrante, che è in tutta evidenza opera del Maligno. Un fenomeno - osserva mons. Nunnari - che è insieme l’antistato, con le forme di dipendenza, che crea nei paesi e nelle città; e l’anti-religione, con i simbolismi e gli atteggiamenti utilizzati al fine di guadagnare consenso”. 

La 'ndrangheta tradisce il Vangelo
Il documento condanna fortemente il fenomeno mafioso cita “la disoccupazione, la corruzione diffusa, una politica, che tante volte sembra completamente distante dai veri bisogni della gente”. In una simile situazione, afferma mons. Nunnari, “è chiaro che questo annuncio diventa come una “spada affilata” e “trafigge chi si pone in una situazione opposta al Vangelo. Ed è qui che si radica il discorso sulla ‘ndrangheta. Chi ne fa parte non solo tradisce il Vangelo, ma è come se vivesse calpestandolo ogni giorno”.

L'idolatria della pietà popolare mascherata di religiosità
Nella nota i vescovi calabresi definiscono la 'ndrangheta un fenomeno “deleterio” che “ha infestato la nostra vita sociale ed è penetrato anche in certi scenari religiosi di alcune comunità ecclesiali locali”. “Possiamo affermare - scrivono - che lo stravolgimento subito dalle devozioni e dalle pratiche di culto della Chiesa ha portato, a volte, alcune belle forme di pietà popolare a diventare autentiche manifestazioni di idolatria, mascherata di religiosità”.

Chi fa parte della mafia, fuori dalla comunione ecclesiale
La nota richiama anche l’intervento di Papa Francesco durante la visita a Cassano il 21 giugno scorso, facendo concludere a mons. Nunnari che “chi fa parte della mafia - anche se non ha ricevuto una scomunica scritta - si pone automaticamente fuori dalla comunione ecclesiale” Per questo “il mafioso, se non dimostra autentico pentimento, né volontà di uscire da una situazione di peccato, non può essere assolto sacramentalmente, tantomeno può rivestire uffici e compiti all’interno della comunità ecclesiale”. A tal fine i vescovi calabresi hanno deciso di affidare “a un prossimo Direttorio gli aspetti della Celebrazione dei Sacramenti e della Pietà popolare, principi e linee guide, a cui ispirarsi e attenersi nelle nostre Diocesi di Calabria”. (R.P.)

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Congo. Appello dei vescovi: essere artigiani di pace

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Essere artigiani di pace: questo l’appello lanciato dalla Conferenza episcopale della Repubblica Democratica del Congo (Cenco) in un messaggio diffuso in occasione delle festività natalizie ed in vista del nuovo anno. Indirizzato a sacerdoti, religiosi, fedeli laici ed uomini di buona volontà, il documento è a firma di mons. Nicolas Djomo, presidente della Cenco, il quale sottolinea “la gioiosa speranza” del Natale e l’importanza di porre “la ricerca della pace e la testimonianza di una vita da artigiani di pace al cuore dell’azione pastorale diocesana”. Quindi, il presule ringrazia e loda “l’impegno degli agenti pastorali al servizio del Vangelo di pace”, evidenziando anche le condizioni “molto difficili” della loro missione, così come l’opera dei consacrati e dei laici “che contribuiscono a mantenere viva la fede nella vita quotidiana”.

Fermare le violenze e tutelare i diritti umani
Ma non mancano le pagine amare nella storia del Paese africani: i vescovi della Cenco elencano le violenze legate al contesto socio-politico ed elettorale, insieme alle tensioni causate da questioni economiche o dalla cattiva gestione dei terreni agricoli. E quindi puntano il dito contro la mancanza di sanzioni esemplari, di una giustizia davvero indipendente ed equa, di una vera autorità statale, evidenziando i rischi dell’esacerbarsi delle identità territoriali, del cattivo uso dei mass-media, delle violazioni dei diritti fondamentali dei cittadini, della povertà, della manipolazione e strumentalizzazione dei giovani, delle ingiustizie sociali. “Come Pastori – si legge nel messaggio – condanniamo tutte queste forme di violenza e ci facciamo portavoci di tutte le vittime senza voce che reclamano giustizia”.

Giustizia e verità alla base della pace
Di qui, il richiamo a tutti i cristiani a “testimoniare la fraternità universale di Gesù Cristo”, poiché “la violenza deforma le relazioni tra gli uomini e la loro relazione con Dio”, il quale “non può abitare dove c’è la violenza”. “La pace – continua la Cenco – si basa su quattro pilastri: giustizia, amore, verità e libertà” ed è per questo che “la Chiesa-famiglia di Dio, soprattutto in Africa, è chiamata a costruire una società pacifica in cui si vivano i veri valori di una vita familiare autentica”. In questa prospettiva, si legge ancora nel messaggio, “la Chiesa è chiamata a diventare per tutti un luogo di autentica riconciliazione, portando nel mondo il perdono di Cristo, Principe della pace”. Per un cristiano, ribadiscono i presuli, “non esistono barriere di razza, clan, tribù o territorio”

Educare i giovani alla riconciliazione
Allo stesso tempo, la Cenco ricorda che, oltre ad essere artigiani di pace, è necessario “intraprendere l’immenso compito di educare le comunità ed i bambini alla pace”, perché “è un dovere nobile educare le nuove generazioni agli ideali di verità, giustizia, amore e pace”, avviando così “la preparazione di tempi migliori per tutta l’umanità”. Ed una delle priorità di questa educazione alla pace, continuano i presuli, deve essere “l’educazione al rispetto della legge, fondamento della vita comune degli Stati moderni”. “La riconciliazione – continua ancora il messaggio episcopale – supera le crisi, restituisce la dignità alle persone ed apre la via allo sviluppo ed alla pace duratura tra tutti i popoli, a tutti i livelli”. (A cura di Isabella Piro)

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Ghana: i vescovi contro corruzione e immoralità

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Corruzione, diffusione della droga, comportamenti moralmente discutibili sono i mali che minacciano la nazione, secondo quanto afferma il messaggio di inizio anno dei vescovi del Ghana.

Corruzione diffusa
Il documento, firmato da mons. Joseph Osei-Bonsu, vescovo di Konongo-Mampong e presidente della Conferenza episcopale del Ghana, denuncia “i mali gemelli delle tangenti e della corruzione che continuano a devastare ogni nucleo della società ghaniana”. Nessuno è esente dal male della corruzione: politici, magistrati, agenti delle forze di sicurezza…fino ai pastori. Senza di essa, afferma il documento “il Ghana sarebbe un posto migliore di quello che è attualmente”. 

Lotta contro immoralità, droga e alcolismo
Altri mali che affliggono la nazione, secondo i vescovi, sono il permissivismo, il sesso occasionale (con gli altri mali che ne conseguono: aborti e trasmissioni di malattie come l’Aids), la diffusione di droghe, quali cocaina e canapa indiana, l’alcolismo, le frodi informatiche e “altre forme di truffa che stanno distruggendo la nazione”.

Prendere sul serio la propria religione
Per affrontare questi mali, nel loro messaggio i vescovi esortano i ghaniani a “prendere sul serio la propria religione”. “Che siamo cristiani, musulmani, hindu o buddisti, shintoisti o praticanti della religione tradizionale africana, applichiamo i principi della nostra religione alla vita quotidiana in modo da condurre una vita moralmente retta ed essere buoni cittadini” afferma il messaggio che invita anche a coltivare lo spirito del perdono, mettendo fine “alla diffusa pratica d’invocare maledizioni in santuari come quello di Antoa nella regione di Ashanti o quello di Nogokpo, nella regione di Volta, per uccidere coloro che ci hanno fatto del male”.

L'attrazione del denaro falsa il Vangelo
I vescovi ammoniscono infine i“sacerdoti, i pastori e i ministri di non approfittare di quelli che vanno da loro con fiducia alla ricerca di soluzioni ai loro problemi spirituali e di altro tipo. L'attrazione del denaro e di altri benefici materiali non dovrebbe portare preti, pastori e ministri a falsare il Vangelo di Gesù Cristo e a sfruttare economicamente e sessualmente le persone vulnerabili che vanno da loro in cerca di assistenza spirituale”. (R.P.)

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Taizè. Frere Alois: i giovani europei, portatori di speranza

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“Non è il successo che cerchiamo. Ma in un momento in cui il mondo è attraversato da tensioni, molti giovani europei vorrebbero essere portatori di una speranza nei luoghi in cui vivono. Incontri come quello di Praga non sono fine a se stessi. Sostengono i giovani in questa loro profonda aspirazione”. Risponde così frère Alois, priore della comunità di Taizé, a chi gli chiede il segreto del successo degli incontri europei di fine anno organizzati dalla comunità ecumenica fondata da frère Roger Schutz. 

A Praga insieme giovani cattolici, ortodossi, protestanti
30mila sono stati anche quest’anno i giovani che a Praga hanno scelto di trascorrere il Capodanno in preghiera. Gli italiani sono stati il gruppo più numeroso, dopo polacchi e ucraini. E ad invocare una luce di speranza per il nostro continente ci sono cattolici, ortodossi, protestanti, insieme.

Stare vicino ai giovani disorientati
In un intervista rilasciata all'agenzia Sir a bilancio dell’incontro di Praga, fr. Alois parla anche di quei giovani europei che hanno deciso di arruolarsi nelle file dell’Isis: “Oggi molti giovani sono trascurati, disorientati, non hanno lavoro, nessuna prospettiva futura. Non è la violenza ad attrarli, ma la ricerca di una causa che dia senso alla loro vita. Qualcosa per cui possano dire: ‘La mia vita ha un significato’. La domanda allora che ci assale è questa: come essere più vicini a questi giovani disorientati, come accompagnarli prima che prendano decisioni irrevocabili?”. (R.P.)

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Serbia: aiuti agli alluvionati hanno unito cattolici e ortodossi

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“La grande tragedia delle alluvioni, nella quale più di 50 persone hanno perso la vita, ha suscitato un’immensa ondata di solidarietà”. Lo ha dichiarato l’arcivescovo di Belgrado, mons. Stanislav Hocevar, riflettendo sulle conseguenze dalle forti alluvioni che hanno colpito 38 comuni in Serbia lo scorso maggio.

Gratitudine degli ortodossi alla Chiesa cattolica
“Abbiamo sentito non solo le difficoltà causate dalle calamità naturali, ma soprattutto l’importanza dell’aiuto reciproco”, ha affermato il presule in una sorta di bilancio del 2014. È stata ricordata - riferisce l'agenzia Sir - anche la sinergia tra le autorità statali, diverse organizzazioni non governative, la Chiesa ortodossa, la Chiesa cattolica e i Paesi donatori. L’aiuto della Caritas ai colpiti dalle alluvioni ammonta a più di 2 milioni di euro. Il vescovo ortodosso di Sabac (una delle località più colpite), Lavrentije Trifunovic, ha espresso “una grande gratitudine ai fratelli cattolici dai quali possiamo imparare molto nel servizio di carità per il prossimo”. E ha aggiunto: “Questo esempio di applicazione della fede nella vita ci spinge a imitarli e a non dimenticare i poveri”.

Il segno dell'unità nell'aiuto ai bisognosi
Anche secondo il direttore di Caritas Sabac, Miroljub Nikolic, “quando le Chiese collaborano possono fare di più”. “Nell’aiuto ai bisognosi si vede concretamente che cosa possiamo fare quando siamo uniti”, ha concluso Nikolic. (R.P.)

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Brasile. Campagna di fraternità su Chiesa e società

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“Fraternità: Chiesa e società”: è questo il tema scelto dalla Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb) per la 52.ma Campagna di fraternità, la tradizionale iniziativa di solidarietà del tempo di Quaresima. Il versetto biblico di riferimento sarà “Sono venuto per servire”, tratto dal Vangelo di Marco (Mc 10,45). L’evento, che avrà inizio il 18 febbraio prossimo, Mercoledì delle Ceneri, vuole “ricordare la vocazione e la missione di ogni cristiano e delle comunità di fede, a partire dal dialogo e dalla collaborazione tra Chiesa e società, proposto dal Concilio Vaticano II”. L’apposito sussidio elaborato dalla Cnbb riflette “una dimensione della vita sociale che si basi sulla convivenza collettiva, con leggi e norme di comportamento, organizzata secondo criteri specifici e, soprattutto, con entità che curano il benessere di coloro che convivono”. 

Un’opportunità per tornare agli insegnamenti del Concilio
Nel presentare il sussidio, il segretario generale della Cnbb, mons. Leonardo Ulrich Steiner, sottolinea che la Campagna di fraternità 2015 sarà “un’opportunità per tornare agli insegnamenti del Concilio Vaticano II. Insegnamenti che ci portano ad essere una Chiesa attiva, partecipativa, consolatrice, misericordiosa, samaritana”. “Sappiamo – continua il presule – che tutte le persone che formano la società sono figli e figlie di Dio. Per questo, i cristiani lavorano affinché le strutture, le leggi e gli organismi sociali siano a servizio della collettività”.

Approfondire la Dottrina sociale
Il testo proposto dai vescovi brasiliani è suddiviso in quattro parti: nella prima, sono offerte riflessioni su “La storia delle relazioni tra Chiesa e società in Brasile”, “La società brasiliana attuale e le sue sfide”, “Il servizio della Chiesa nella società brasiliana” e “Chiesa-società: convergenza e divergenze”. Nella seconda parte, invece, vengono approfonditi i rapporti tra Chiesa e società alla luce della Parola di Dio, del magistero ecclesiale e della dottrina sociale.
E ancora: nel terzo capitolo si riflette sulla visione sociale a partire dal servizio, dal dialogo e dalla cooperazione tra la Chiesa e la società, per riflettere su “Dignità umana, bene comune e giustizia sociale”. In particolare, si offrono suggerimenti pastorali per vivere la Campagna di fraternità nelle diocesi, nelle parrocchie e nelle comunità. Infine, nell’ultima parte, il sussidio presenta i risultati della Campagna di fraternità del 2014, i progetti finanziati nelle singole regioni ed il percorso storico dell’iniziativa.

Nel 2016, Campagna di fraternità ecumenica
Intanto, è stato reso noto anche il tema della prossima Campagna di fraternità ecumenica (Cfe), ovvero “Casa comune, nostra responsabilità”. Programmata per il 2016, la Cfe è giunta alla quarta edizione ed è organizzata dal Consiglio nazionale delle Chiese cristiane del Brasile. La principale novità dell’edizione 2016 – ispirata al versetto biblico di Amos “Scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne” (Am 5,24) - sarà la sua caratteristica “transfrontaliera”, poiché vedrà la collaborazione di “Misereor”, l’organismo della Chiesa cattolica tedesca che lavora per lo sviluppo in Asia, Africa e America Latina. Il tutto con l’obiettivo di promuovere il progresso, la salute e la vita dignitosa per ogni persona.

Svoltasi per la prima volta nel 2000 sul tema “Dignità umana e pace”, la Cfe si tiene ogni cinque anni e vede la collaborazione di diverse confessioni cristiane, valorizzandone le singole specificità. (I.P.)

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Canada. 2 aprile: istituita “Giornata di Giovanni Paolo II”

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È stata istituita per legge, in Canada, la “Giornata di Papa Giovanni Paolo II”, con ricorrenza il 2 aprile, anniversario della morte del Pontefice. Lo rende noto il sito web della Conferenza episcopale canadese. “Il progetto di legge C-266, che riconosce in San Giovanni Paolo II un esempio di dignità umana e di libertà – spiegano i presuli – è ora divenuto legge nazionale, dopo aver ricevuto la terza ed ultima lettura in Senato il 16 dicembre scorso”. La prima edizione della Giornata verrà celebrata il 2 aprile 2015, proprio in coincidenza del decimo anniversario della scomparsa del Pontefice.

Ruolo cruciale nella promozione della pace
Nella nuova normativa si sottolinea che “Papa Giovanni Paolo II è largamente riconosciuto come una figura che ha segnato la storia della Chiesa cattolica romana e del mondo, giocando un ruolo cruciale nella promozione dell’armonia e della pace tra le nazioni”. Il Pontefice polacco, spiega la legge, “amava i giovani ed ha avuto parte attiva nell’istituire la Giornata mondiale della gioventù, al fine di ispirare i ragazzi ed incoraggiarli a vivere gli insegnamenti di Cristo”. Quindi, si ricordano le visite di Papa Wojtyla in Canada, svoltisi nel 1984, 1987 e nel 2002, così come i numerosi viaggi apostolici ed il suo contributo per “porre fine al comunismo nell’Europa dell’est”. Infine, si ricorda che il 2 aprile non sarà né una giornata festiva né un giorno non giuridico. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 2

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.