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Sommario del 12/01/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: cultura dello scarto genera guerra, l'accoglienza porta la pace

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Di fronte a tensioni e conflitti che lacerano il mondo contemporaneo, frutto di quella “cultura dello scarto” che non risparmia nessuno, il Papa ha rilanciato l’esortazione alla pace e alla riconciliazione: lo ha fatto nel tradizionale incontro per gli auguri di inizio anno col Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Sono 180, lo ricordiamo, gli Stati che attualmente intrattengono relazioni diplomatiche piene con la Santa Sede; a questi vanno aggiunti l’Unione Europea, il Sovrano Militare Ordine di Malta e una Missione di natura speciale, ovvero quella dello Stato di Palestina. Il servizio di Giada Aquilino

In “un’umanità ferita e continuamente lacerata da tensioni e conflitti di ogni sorta”, la parola che Papa Francesco fa risuonare ad inizio anno dinanzi al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede è “pace”. Riflettendo sull’immagine del presepe che, accanto alla pace, racconta anche la drammatica realtà del rifiuto, del “dramma di cui Gesù è oggetto”, il Pontefice denuncia quella ‘cultura dello scarto’ che “non risparmia niente e nessuno: dalle creature, agli esseri umani e perfino a Dio stesso”, finendo per “generare violenza e morte”:

“Ne abbiamo una triste eco in numerosi fatti della cronaca quotidiana, non ultima la tragica strage avvenuta a Parigi alcuni giorni fa”.

Gli altri, afferma, “non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti”:

“E l’essere umano da libero diventa schiavo, ora delle mode, ora del potere, ora del denaro, talvolta perfino di forme fuorviate di religione”.

Sono le “molteplici schiavitù moderne”, aggiunge il Papa, che nascono da un “cuore corrotto, incapace di vedere e operare il bene, di perseguire la pace”. La conseguenza è il “continuo dilagare dei conflitti”, visti – afferma – “come una vera e propria guerra mondiale combattuta a pezzi”. Ricorda quindi l’Ucraina:

“Auspico che, attraverso il dialogo, si consolidino gli sforzi in atto per fare cessare le ostilità”.

Il pensiero va poi al Medio Oriente. Ricorda il viaggio del maggio scorso in Terra Santa, “per la quale - dice - non ci stancheremo mai di invocare la pace”. La speranza è la ripresa del negoziato fra israeliani e palestinesi per giungere a una pace che permetta che “la ‘soluzione di due Stati’ diventi effettiva”. Papa Francesco volge lo sguardo anche al “dilagare del terrorismo di matrice fondamentalista” in Siria e Iraq, “conseguenza della cultura dello scarto applicata a Dio”, afferma:

“Il fondamentalismo religioso, infatti, prima ancora di scartare gli esseri umani perpetrando orrendi massacri, rifiuta Dio stesso, relegandolo a un mero pretesto ideologico”.

Si tratta, continua, di una “ingiusta aggressione, che colpisce anche i cristiani e altri gruppi etnici e religiosi” locali, come gli yazidi. Occorre, quindi, “una risposta unanime” che, nel quadro del diritto internazionale, fermi il dilagare delle violenze. Per quanto riguarda i cristiani, un Medio Oriente senza di essi – spiega - “sarebbe un Medio Oriente sfigurato e mutilato”:

“Nel sollecitare la comunità internazionale a non essere indifferente davanti a tale situazione, auspico che i leader religiosi, politici e intellettuali specialmente musulmani, condannino qualsiasi interpretazione fondamentalista ed estremista della religione, volta a giustificare tali atti di violenza”.

Simili forme di brutalità mietono vittime anche fra i più piccoli e gli indifesi in altre parti del mondo. Il Papa ricorda i recenti fatti del Pakistan e prega per gli oltre 100 bambini che sono stati trucidati con inaudita violenza. Ma non si ferma qui:

“Penso in modo particolare alla Nigeria, dove non cessano le violenze che colpiscono indiscriminatamente la popolazione, ed è in continua crescita il tragico fenomeno dei sequestri di persone, sovente di giovani ragazze rapite per essere fatte oggetto di mercimonio. È un esecrabile commercio che non può continuare"!

Poi i conflitti nelle altre parti dell’Africa, per i quali il Pontefice auspica un impegno dei singoli governi e della comunità internazionale: in Libia, in Repubblica Centroafricana, dove si incontrano ancora “forme di resistenza ed egoistici interessi di parte” che rischiano di vanificare gli sforzi di pace, in Sud Sudan e Sudan, nel Corno d’Africa e nella Repubblica Democratica del Congo. I conflitti, aggiunge, “portano con sé un altro orrendo crimine che è lo stupro”, perpetrato poi anche laddove non c’è guerra:

“È una gravissima offesa alla dignità della donna, che non solo viene violata nell’intimità del suo corpo, ma pure nella sua anima, con un trauma che difficilmente potrà essere cancellato e le cui conseguenze sono anche di carattere sociale”.

Vi sono poi altre forme di rifiuto, in relazione al modo con cui vengono spesso trattati i malati: tra “i lebbrosi del nostro tempo” il Papa ricorda le vittime dell’Ebola che in Africa “ha già falcidiato oltre seimila vite” e torna a ringraziare operatori sanitari, religiosi e volontari impegnati per le cure. Tra le vite “scartate”, il Pontefice annovera inoltre “quelle di numerosi profughi e rifugiati”, che lasciano la loro terra d’origine non tanto per un futuro migliore, ma semplicemente “un futuro, poiché rimanere nella propria patria può significare una morte certa”. Ricorda quindi le tante persone che hanno perso la vita “in viaggi disumani”, sottoposte alle angherie “di veri e propri aguzzini avidi di denaro”, e molti di quei migranti sono bambini soli. Alle incertezze della fuga, per tutti loro si aggiunge il dramma del rifiuto:

“È dunque necessario un cambio di atteggiamento nei loro confronti, per passare dal disinteresse e dalla paura ad una sincera accettazione dell’altro”.

Il Papa invita ad “agire sulle cause e non solo sugli effetti” di tali realtà, per consentire poi ai migranti “di tornare un giorno nella propria patria”. A loro si affiancano anche tanti “esiliati nascosti” nelle nostre case e nelle nostre famiglie: anziani, diversamente abili, ma anche i giovani, ritenuti un peso o scartati perché negate loro “concrete prospettive lavorative”. D’altra parte, prosegue il Pontefice, non esiste peggiore povertà “di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro e che rende il lavoro una forma di schiavitù”.

“La famiglia stessa è poi non di rado fatta oggetto di scarto, a causa di una sempre più diffusa cultura individualista ed egoista che rescinde i legami e tende a favorire il drammatico fenomeno della denatalità, nonché di legislazioni che privilegiano diverse forme di convivenza piuttosto che sostenere adeguatamente la famiglia per il bene di tutta la società”.

Tra i motivi di tali fenomeni vi è “una globalizzazione uniformante”, causa di uno scoraggiamento tra molte persone, “che hanno letteralmente perso il senso del vivere”, afflitte pure dalla perdurante crisi economica, “che genera sfiducia e favorisce la conflittualità sociale”. In Italia, ad esempio, il Pontefice vede un “perdurante clima di incertezza sociale, politica ed economica”:

“Il popolo italiano non ceda al disimpegno e alla tentazione dello scontro, ma riscopra quei valori di attenzione reciproca e solidarietà che sono alla base della sua cultura e della convivenza civile, e sono sorgenti di fiducia tanto nel prossimo quanto nel futuro, specie per i giovani”.

In conclusione, parlando del suo nuovo viaggio apostolico in Asia, il Papa auspica la ripresa del dialogo tra le due Coree. Non vogliamo, aggiunge, che all’inizio di un nuovo anno il nostro sguardo sia “dominato dal pessimismo”: per questo pensa alla cultura dell’incontro che, assicura, “è possibile”. Un esempio è il riavvicinamento tra Stati Uniti e Cuba. Soddisfazione poi per la decisione statunitense di chiudere il carcere di Guantanamo. Un pensiero di speranza va inoltre al Burkina Faso, alle Filippine, alla Colombia e al Venezuela, come pure per “un’intesa definitiva” sul nucleare iraniano. Il Pontefice ricorda infine la nascita - dopo la Seconda Guerra Mondiale - dell’Onu, impegnato nei prossimi mesi con l’Agenda di sviluppo post-2015 e l’elaborazione di un nuovo "urgente" accordo sul clima.

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Card. Ranjith: Papa in Sri Lanka per portare la riconciliazione

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“Nel giorno in cui inizio il viaggio verso Sri Lanka e Filippine, vi chiedo di pregare con me per i popoli di quei Paesi”: è quanto scrive il Papa in un tweet sull’account @Pontifex. Papa Francesco partirà oggi poco prima delle 19.00 da Fiumicino alla volta di Colombo e ritornerà a Roma da Manila la sera del 19 gennaio. Sulle attese nello Sri Lanka, prima tappa del nuovo viaggio di Francesco in Asia, il nostro inviato Silvonei Protz ha sentito il cardinale Albert Malcolm Ranjith Patabendige Don, arcivescovo di Colombo: 

R. – Ci troviamo in un momento importante della storia del nostro Paese perché abbiamo avuto per 30 anni una guerra che ha causato molti morti, molta distruzione; ora è finita. Ma noi non abbiamo ancora la pace. Per questo il Santo Padre potrebbe fare un appello alla riconciliazione in questo Paese perché i cuori sono ancora lacerati, sono ancora feriti. C’è bisogno di una vera riconciliazione dei cuori. Per questo motivo la sua visita sarà molto importante per noi, perché lui è l’uomo conosciuto in tutto il mondo come uomo di pace di riconciliazione e di apertura verso l’umanità. Questo aiuterà molto ad arrivare a questa pace.

D. – Uno dei momenti importanti sarà la canonizzazione di Giuseppe Vaz …

R. – Certo, Giuseppe Vaz era il secondo fondatore del cattolicesimo in Sri Lanka perché dopo l’occupazione degli olandesi c’è stata una diminuzione dei cattolici a causa della persecuzione; i cattolici erano sospettati di essere spie dei portoghesi. Per questo motivo siamo stati duramente perseguitati: i cattolici hanno vissuto 30 anni senza sacramenti, e Giuseppe Vaz ha lasciato l’India per andare in Sri Lanka, dove ha fatto una vita veramente eroica qui.  Ha passato anche due anni in prigione a Kandy ma è riuscito a salvare la fede della gente.

D. – Ci sarà un altro momento importante: l’incontro interreligioso…

R. – Certo, perché qui noi cristiani cattolici siamo una minoranza - il 6,9%  - ; ci troviamo in mezzo a una marea di buddisti, induisti, islamici. Vivere con loro, condividere tutto quello che abbiamo è  il nostro pane quotidiano, perciò il dialogo interreligioso diventa una parte della nostra esistenza cristiana.

D. – Com’è oggi questo dialogo?

R. – Ci sono alti e bassi.  Tra la gente semplice, in particolare, non c’è nessun conflitto; il conflitto c’è quando si organizzano in gruppetti politici. Quando si politicizza la differenza arrivano i problemi.

D. – Un presidente ha invitato il Santo Padre e un altro presidente riceve il Santo Padre. Come si vive anche questo momento?

R. – Era un momento difficile, inizialmente si pensava che ci sarebbero stati momenti di violenza durante le elezioni; questo non è accaduto, abbiamo avuto fede in Dio: è stato quasi un miracolo. Credo che la visita del Santo Padre abbia dato l’impulso affinché le elezioni si svolgessero in un clima tranquillo; non c’è stata nessuna resistenza da parte del candidato presiedente che ha perso; lui se ne è andato. Questo è quasi un miracolo, perché nel passato le cose sono andate diversamente. Credo che la nostra preghiera costante abbia contribuito.

D. – Che Chiesa troverà qui in Sri Lanka il Santo Padre?

R. – Una Chiesa vivace, molto fedele a Gesù e molto amabile perché la nostra gente sa vivere bene con gli altri. Abbiamo buoni rapporti soprattutto con i buddisti, con gli induisti. Questo aiuterà la visita.

D. – Lei ha invitato il Santo Padre a venire a Colombo, in Sri Lanka. Si aspettava che avrebbe accettato? Che reazione ha avuto lei quando le ha detto: “Io arriverò”?

R. – L’ho invitato proprio il giorno della sua elezione poco prima che uscisse a salutare la folla dalla finestra. L’ho invitato ed ha accettato subito. Mi ha chiesto di inviare una lettera ed io l’ho fatto attraverso la Conferenza episcopale e il governo. Noi abbiamo insistito molte volte e ci siamo riusciti. Sapevamo che sarebbe venuto, perché gli ho detto: “Se lei vuole vedere l’Asia con tutti i suoi problemi e le sue religioni venga in Sri Lanka”. Lo Sri Lanka è una piccola visione di tutta l’Asia, perché qui i cattolici sono pochi. In tutta l’Asia siamo solo il 2,6 percento, perciò se voleva un Paese dove la convivenza diventa per noi una sfida, ma anche una possibilità, il Papa doveva venire qui: questa era la mia convinzione. L’ho invitato e lui ha accettato.

D. – La reazione dei fedeli quando l’hanno saputo …

R. – Erano molto contenti e ancora lo sono. Lo stanno aspettando con molta ansia e gioia e gli daranno una bella accoglienza. Sono sicuro di questo.

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Nomine

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Il Santo Padre ha nominato Rappresentante Permanente della Santa Sede presso l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), presso l’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa (OSCE) e presso la Commissione Preparatoria dell’Organizzazione per il Trattato sull’Interdizione Globale degli Esperimenti Nucleari (CTBTO), come pure Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale (ONUDI) e presso l’Ufficio delle Nazioni Unite a Vienna il Rev.do Mons. Janusz Urbańczyk, finora Consigliere di Nunziatura nella Missione Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite (O.N.U.) a New York.

Il Santo Padre ha nominato Vescovo Ausiliare di New Orleans (U.S.A.) il Rev.do P. Fernand J. Cheri, O.F.M., finora Direttore del "Campus Ministry" presso la "Quincy University" (Illinois), assegnandogli la sede titolare vescovile di Membressa. Il Rev.do P. Fernand J. Cheri, O.F.M., è nato a New Orleans (Louisiana) nell’omonima arcidiocesi il 28 gennaio 1952. Ha frequentato la "Saint John Vianney Preparatory Seminary" a New Orleans e ha svolto gli studi ecclesiastici presso il "Saint Joseph Seminary College" a St. Benedict (Louisiana) (1970-1974) e la "Notre Dame Seminary" a New Orleans (1974-1978). Successivamente, ha ottenuto il "Masters" in Teologia presso l’"Institute for Black Catholic Studies" della "Xavier University" a New Orleans (1997). È stato ordinato sacerdote per l’arcidiocesi di New Orleans il 20 maggio 1978. Dopo l’ordinazione sacerdotale ha prestato servizio come Vicario parrocchiale dell’"Our Lady of Lourdes Parish" a New Orleans (1978-1979) e della "Saint Joseph the Worker Parish" a Marrero (1979-1984); Amministratore parrocchiale della medesima parrocchia "Saint Joseph the Worker" (1984-1985); Parroco della "Saint Francis de Sales Parish" a New Orleans (1985-1991); Amministratore parrocchiale della "Saint Theresa of the Child Jesus Parish" a New Orleans (1990-1991). Nel 1992, dopo uno specifico discernimento vocazionale, è entrato nel noviziato dell’Ordine dei Francescani Minori (Provincia del Sacro Cuore) a Franklin (Indiana) e ha emesso i voti solenni il 26 agosto 1996. Come Padre francescano ha ricoperto i seguenti incarichi: Cappellano ed Insegnante della "Hales Franciscan High School" a Chicago (Illinois) (1993-1996); Parroco della "Saint Vincent de Paul Parish" a Nashville (Tennessee) (1996-2002); Membro del Consiglio provinciale (1999-2002); Insegnante dell’"Althoff Catholic High School" a Belleville (Illinois) (2002-2008); Direttore dell’"O.F.M. Office of Friar Life" (2008-2009); "Vocation Minister" dell’"O.F.M. Vocation Office" (2009-2010); Vice-Direttore della Cappellania Universitaria della "Xavier University" a New Orleans (2010-2011). Dal 2011 è Direttore del "Campus Ministry" presso la "Quincy University" a Quincy (Illinois).

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P. Lombardi: Vaticano, nessuna segnalazione di rischi specifici

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“Contrariamente a quanto diffuso da alcuni organi di informazione, non è vero che la Santa Sede abbia ricevuto segnalazioni di rischi specifici da servizi di sicurezza di altri Paesi”. E’ quanto afferma il direttore della Sala Stampa vaticana padre Federico Lombardi.

“Si conservano i normali e opportuni contatti fra servizi di sicurezza, che facendo riferimento alla situazione attuale invitano ad attenzione e ragionevole prudenza – ha proseguito il portavoce vaticano - ma non risultano segnalazioni di motivi concreti e specifici di rischio”.

“Non è quindi il caso di alimentare preoccupazioni non motivate – ha concluso - che possono inutilmente turbare il clima di vita e di lavoro, e ciò anche nell’interesse dei tanti pellegrini e turisti che quotidianamente frequentano il Vaticano”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, in apertura, “La cultura dell’incontro è possibile”. Papa Francesco ha incontrato il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede nel giorno della partenza per lo Sri Lanka e le Filippine. Sempre in prima pagina, "Giuramento per il futuro",l'editoriale del direttore, Giovanni Maria Vian.

A pagina due, in apertura “Spirale d’orrore in Nigeria”: stragi in due mercati del Borno e dello Yobe; ancora una volta bambine usate da Boko Haram per attentati suicidi.

Sotto, “Il mondo al fianco di Parigi”; milioni di persone nelle manifestazioni per dire no al terrorismo dopo l’offensiva jihadista in Francia. A pagina sei, un articolo del rabbino Abraham Skorka, “Argini di civiltà”; è compito delle religioni contenere le passioni distruttive dell’uomo.

A pagina sette “Con voce concorde; i vescovi come maestri della fede”, un'anticipazione della relazione che il cardinale Gerhard L. Müller leggerà a Esztergom, in Ungheria, in occasione dell'incontro tra i superiori della Congregazione per la Dottrina della Fede e i presidenti delle Commissioni dottrinali delle Conferenze episcopali europee che si svolgerà dal 13 al 15 gennaio. Sotto, “Nella lingua dei persiani”; il «Catechismo della Chiesa cattolica» tradotto in farsi.

A pagina 8 “Il latte e la Parola”, l'omelia del Papa che domenica 11 gennaio ha battezzato trentatré neonati nella Cappella Sistina e le parole dell'Angelus. «Questo è il tempo della misericordia» ha ricordato Papa Francesco dopo aver richiamato il significato della festa liturgica del Battesimo del Signore. Che per il cristiano — ha detto ai fedeli in piazza San Pietro — costituisce un invito a non restare “sordo” alla voce dello Spirito Santo, definito dal Pontefice «il grande dimenticato nelle nostre preghiere».

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Oggi in Primo Piano



Orrore in Nigeria: Boko Haram continua a usare bimbe kamikaze

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L’orrore in Nigeria non conosce limiti. Il nordest del Paese è ormai preda della follia degli estremisti islamici di Boko Haram, che colpiscono con i loro attentati prevalentemente obiettivi civili. Usate in 48 ore tre bambine kamikaze, mentre rimane drammatica la situazione a Baga dove 2000 persone sarebbero state massacrate. Alle Nazioni Unite, che hanno condannato queste violenze, si chiede anche un intervento urgente per le decine di migliaia di profughi in fuga dalla guerra, ai quali manca tutto per sopravvivere. Giancarlo La Vella ne ha parlato con padre Efrem Tresoldi, direttore della rivista dei Comboniani, “Nigrizia”: 

R. – E’ una cosa terrificante vedere che vengono utilizzati bambini innocenti per creare nuova distruzione e per portare avanti un piano criminale da parte di Boko Haram, che nuovamente ha avuto un’accelerazione in questi ultimi mesi proprio in vista delle elezioni presidenziali che si terranno il 14 febbraio. E pare che l’intento è proprio quello di creare instabilità nel Paese, insicurezza, in modo tale da impedire all’attuale presidente Goodluck Johnatan di essere rieletto per un secondo mandato. Questo terrorismo cosiddetto islamico sta prendendo di mira non soltanto i cristiani, ma ancora di più le stesse comunità musulmane del nord del Paese. E’ una campagna che va contro, direi, proprio i principi dell’umanità e quindi non ha niente a che fare con la religione: questi sono criminali, che però hanno sostegno, come sappiamo, anche all’interno dello Stato e quindi ci sono responsabilità politiche grosse all’interno. Ma sappiamo come Boko Haram abbia appoggi e finanziamenti anche dall’estero.

D. – Un intervento immediato e urgente occorrerebbe per portare aiuti alle migliaia di persone che stanno fuggendo dalle violenze nel nord della Nigeria: una sorta di dramma nel dramma…

R. – E’ urgente creare corridoi umanitari, perché si parla di oltre un milione di sfollati nel nord della Nigeria in una realtà che è già molto, molto povera: oltre il 70 per cento della popolazione nel nord della Nigeria vive in estrema povertà, quindi questo non fa che aggravare la loro situazione. Occorre veramente che la comunità internazionale intervenga per creare corridoi umanitari, in modo da far passare gli aiuti, medicinali primari, destinati a queste popolazioni nel bisogno. E poi direi che occorre proprio una sensibilità a livello internazionale per porre definitivamente fine al commercio di armi, che è una cosa atroce. Questi conflitti non hanno mai finee l’industria delle armi continua a fare profitti sulla morte di tante persone. Bisogna vedere anche quali sono le responsabilità nostre in tutto questo giro di affari che sta dietro alle aggressioni e alle offensive di questi criminali che si dicono islamici.

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Francia: caccia a complici killer. Margelletti: più coordinamento

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Uniti contro il fondamentalismo e la violenza. Oltre due milioni di persone, tra cui capi di Stato e di governo di tutto il mondo, hanno partecipato ieri a Parigi alla marcia contro il terrorismo, organizzata dopo i drammatici attacchi nella sede del settimanale satirico “Charlie Hebdo” e nel negozio ebraico costati la vita a 17 persone. Sul luogo dell'attentato nel supermercato kosher è arrivato, stamani, il premier israeliano Benyamin Netanyahu. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

A Parigi, definita da Hollande capitale del mondo libero che respinge il fondamentalismo e il fanatismo, prosegue la caccia ai complici dei terroristi. Nella capitale francese e soprattutto davanti alle scuole ebraiche è stata rafforza la sicurezza. Si accende, intanto, il dibattito sull’efficacia dei servizi di intelligence. Prima di essere uccisi nei blitz compiuti dalle forze di sicurezza, i responsabili degli attacchi sono stati individuati grazie anche alle molte informazioni raccolte in passato dai servizi segreti. Perché non stato possibile, allora, prevenire ed evitare queste atroci azioni? Risponde Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali:

R. – Perché i sistemi per quanto ben oliati non sono mai perfetti e, purtroppo, le lezioni si imparano sempre attraverso le esperienze più dure.

D. – C’è il rischio che, in nome della sicurezza, vengano erosi spazi di democrazia?

R. – Io direi proprio di no, per lo meno in Italia. La nostra forza è quella di essere una società aperta e democratica. Non possiamo derogare ai nostri principi fondamentali.  

D. – Cosa non ha funzionato e cosa va cambiato nei sistemi di sicurezza dei Paesi esposti all’incubo del terrorismo?

R. – Occorre parlarsi di più all’interno dei vari servizi di informazione e di polizia; occorre parlarsi all’interno del proprio Paese; serve maggiore coordinamento. In questo fortunatamente, in Italia, siamo all’avanguardia in ambito europeo.

D. – Quali le misure più efficaci da adottare proprio nei luoghi definiti obiettivi sensibili?

R. – Occorre una qualificazione maggiore delle forze di polizia, che sono le prime a doversi confrontare sull’immediato con eventuali attentatori, e poi prevenzione e intelligence.

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Terrorismo. Europa si interroga su chiusura frontiere

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Come misura antiterrorismo l’Europa si interroga sulla revisione del trattato di Schengen sulla libera circolazione dei paesi membri. Aperture in tal senso sono state espresse da Francia e Spagna. “L’accordo non è in discussione – secondo la cancelliera tedesca Angela Merkel -  è "importante" che attraverso Schengen "si scambino le informazioni”. Sulla stessa linea l’Italia che dice no a passi indietro. Ad oggi i paesi aderenti a Schengen sono 29. Paolo Ondarza: 

Spagna e Francia per revisione Schengen
La possibilità di sospendere o rivedere l’accordo di Schengen, con il ripristino dei controlli alle frontiere, divide l’Europa. A fronte dell’alta probabilità di nuovi attentati di terroristi islamici, paventata dai servizi segreti, Spagna e Francia chiedono una messa in discussione del trattato a cui hanno aderito ormai 29 stati europei e firmato nell’85 nella cittadina sudorientale del Lussemburgo. Bruno Nascimbene, docente di diritto dell’Unione Europea all’Università di Milano:

R. – L’importanza di Schengen è storica nell’ambito della realizzazione degli scopi, degli obiettivi dell’Unione Europea: libertà di circolazione delle persone all’interno  dello spazio Schengen e quindi controlli  - che restano - all’esterno dell'area perché la frontiera esterna è unica. Le perplessità che sono state manifestate di recente sono certamente giustificate, perché gli eventi sono assolutamente tragici.

Schengen già sospeso in casi particolari
D. – Quindi potrebbe trattarsi, vista la contingenza, di una misura utile e non sarebbe una novità. Già in passato Schengen è stato sospeso in talune circostanze…

R. – E’ vero, in talune circostanze è stato sospeso. Una la ricordo in modo particolare, perché riguardava l’Italia. Queste misure di controllo alle frontiere, infatti, sono state ripristinate quando si è tenuto il G8 a Genova e alla frontiera italiana venivano fatti dei controlli, che normalmente non vengono fatti, se non in casi eccezionali e per determinati periodi di tempo. Alla luce degli eventi che si sono verificati, dunque, non c’è dubbio che possano essere ripristinati dei controlli.

Difendere diritti persone
D. – Chi critica una eventuale sospensione o revisione parla di un passo indietro nelle politiche comunitarie dell’Unione Europea…

R. – Se fosse in misura assoluta – una revisione vera e propria – direi che sarebbe assolutamente sconsigliabile e non solo, difficile, perché significherebbe fare una revisione dei trattati esistenti, significherebbe quindi modificare il diritto dell’Unione Europea. Ripristinare delle misure di controllo ai confini e per una durata determinata è senz’altro possibile. Ma, soprattutto, credo che in un momento come questo è necessario che sia l’Unione Europea ad avere una reazione comune. La divisione all’interno dell’Unione Europea, di fronte a tragici eventi, come quelli che si sono verificati, sarebbe un grave segno di debolezza. Quello che non è auspicabile, quindi, è veramente una manifestazione a voci distinte. Qui si tratta di difendere i diritti delle persone, i diritti fondamentali, la vita. Un atteggiamento comune è imprescindibile.

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Croazia. Neoeletta presidente Kitarovic fa appello unità

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Per la prima volta una presidente donna in Croazia: Kolinda Grabar Kitarovic, 46 anni, cattolica, candidata del centrodestra, è stata eletta, a sorpresa, vincendo di stretta misura - lo 0,8 per cento in più - nel ballottaggio contro lo sfidante, il presidente uscente, il socialdemocratico Ivo Josipovic. Il servizio di Roberta Gisotti: 

46 anni, cattolica, conservatrice moderata, già ministro degli Esteri dal 2004 al 2008, poi ambasciatrice a Washington e segretario aggiunto della Nato. Assente dalla scena politica e mediatica del suo Paese da ben 7 anni, Kitarovic è riuscita a conquistare 17.300 voti in più rispetto allo sfidante Josipovic, favorito nei sondaggi precedenti il primo turno e che ha pagato il diffuso malcontento verso il suo partito socialdemocratico al governo. La Croazia è in recessione da sei anni, con un debito pubblico all’80% del Pil. E sebbene il capo dello Stato non abbia poteri in campo economico, il voto alla Kitarovic palesa una volontà di cambiamento e di ripresa. “Basta con le divisioni ora bisogna lavorare insieme per una Croazia migliore e prospera”, ha esordito la neoeletta presidente, citando il fondatore del suo partito e primo presidente croato Tudjman, scomparso nel 99, e richiamando i valori del patriottismo, della famiglia della fede. Difficile si prospetta – dopo il giuramento a metà febbraio - la coabitazione tra la Kitarovic e il primo ministro Milanovic, tanto che gli osservatori prevedono accese dispute verbali.

Un voto che rivela un crescente malcontento dei croati verso la politica, che non offre risposte alla crisi sociale del Paese, come spiega Giovanni Vale, corrispondente dell’"Osservatorio Balcani e Caucaso": 

R. – Rivela soprattutto una volontà di cambiare da parte dei croati. Grabar Kitarovic ha vinto perché è un volto nuovo della politica croata. Non fa parte dell’establishment politico con il quale i croati hanno avuto a che fare. Malgrado l’HDZ, il suo partito, che bene o male è molto impopolare, così come l’SDP, Kitarovic ha vinto soprattutto perché i croati vogliono un cambiamento, vogliono la fine di questa recessione che dura dal 2009.

D. - Kitarovic ha vinto con un margine minimo, appena 17.300 voti in più. Questo peserà sulla sua possibilità di rilanciare la Croazia a livello economico interno ma anche sulla scena internazionale?

R. – Penso che la prima cosa che Kitarovic dovrà tenere a mente, adesso, è che la metà del Paese non la voleva presidente della Repubblica. Va però detto che ci sarà soltanto un anno di ‘coabitazione’ con il governo di centro-sinistra, perché a fine 2015 si andrà di nuovo alle urne e questa volta per eleggere il parlamento e quindi il governo. Dato che questa è la quarta vittoria consecutiva per il centro-destra, penso che alle prossime elezioni di fine anno, il partito, l’HDZ, si aggiudicherà anche il governo. In quest’anno Kitarovic dovrà gestire la coabitazione cercando di non rovinare la propria popolarità in vista delle politiche di fine anno.

D.  – Sappiamo che il presidente della Repubblica in Croazia non ha potere in campo economico direttamente e sappiamo che la Croazia è in recessione da ben sei anni. Quali potranno essere i primi passi politici per risollevare il Paese?

R.  – Effettivamente il capo di Stato in Croazia ha una funzione rappresentativa. E’ vero anche che ha un forte potere mediatico. Quello che gli analisti criticavano di Josipovic è che non ha mai ‘punzecchiato’ troppo il governo di centro-sinistra di Milanovic, si è sempre tenuto a debita distanza; cosa che Kolinda Grabar Kitarović sicuramente non farà. Penso che i suoi primi passi saranno proprio quelli di criticare il governo, di metterlo in difficoltà e di esigere risultati concreti nella politica. Soprattutto perché il governo è di segno opposto e quindi per Kolinda non c’è problema a farlo. Ieri sera, al quartier generale dell’HDZ, ho parlato con un eurodeputato di centro-destra, Plenkovic, che mi ha detto che se non ci saranno risultati nei primi mesi, perché non andare a elezioni anticipate? Quindi, Kolinda Grabar Kitarović ha uno strumento per dare un ultimatum al governo di Milanovic e magari approfittare dell’ondata elettorale positiva per votare prima e vincere con un più certezza.

D. - Qual è la posizione della Kitarovic rispetto all’Unione europea?

R. – Kitarovic per la sua formazione, per il suo curriculum, è sicuramente a favore dell’Unione europea. E’ lei che era ministro dell’integrazione europea, quando si è preparato l’ingresso della Croazia nell’Ue, così come anche Josipovic è a favore dell’Unione europea. Il centro-destra lo accusa di essere jugo-nostalgico, di preoccuparsi troppo della regione, degli altri Paesi dell’ex Jugoslavia, ma in realtà anche lui è stato sempre presentissimo agli appuntamenti europei. Io penso che i più grandi cambiamenti sulla scena geopolitica saranno nella regione ma a livello europeo penso che la Croazia continuerà ad essere un membro attivo e soprattutto molto fiero di essere nell’Unione europea.

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Ucraina: combattimenti a Donetsk, diplomazia in stallo

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In Ucraina, intensi bombardamenti sono stati registrati ieri nella zona dell’aeroporto di Donetsk, nel territorio separatista filo-russo. Fonti militari di Kiev, riferiscono di almeno un soldato ucciso e dieci feriti e forti tensioni anche nelle città di Mariupol e Lugansk. I combattimenti si sono intensificati in questi ultimi giorni mentre i governi di Germania, Francia, Russia e Ucraina sono intenti a trovare una soluzione politica al conflitto. Stasera a Berlino si incontreranno i ministri degli Esteri dei quattro Paesi. Marco Guerra ha intervistato Danilo Elia, collaboratore dell’Osservatorio Balcani e Caucaso: 

R. – Da quello che abbiamo visto fino ad oggi - dalla tregua di settembre, al suo rinforzo, da quando è stata ribadita a dicembre - abbiamo visto che questa tregua tende molto spesso a non reggere. Allora, le due parti in guerra, naturalmente, si rimpallano le responsabilità. Dobbiamo ricordare che dalla parte separatista è vero che abbiamo una situazione non proprio unitaria nel comando, una catena di comando un po’ lasca, diciamo, ma certo è che le continue violazioni di questa fragilissima tregua sono un po’ anche il termometro dei rapporti sia tra parti in guerra - tra separatisti e governo di Kiev - sia anche dell’andamento del fronte diplomatico a livello internazionale. In questi giorni in cui la fase diplomatica segna un po’ il passo vediamo un intensificarsi di questi scontri.

D. – Continua la forte mediazione di Berlino e Parigi. Le pressioni della comunità internazionale e la trattativa diplomatica a che punto sono?

R. – E’ interessante notare proprio quello che sta accadendo in questi giorni: il summit di Astana nel formato Normandia – così detto – il formato A4, con la mediazione di Francia e Germania sembra al momento che sia saltato per lo stesso volere di Angela Merkel, che ha richiamato la Russia agli impegni presi negli incontri a Minsk. Nello stesso tempo stiamo vedendo che all’incontro di oggi, a livello ministeriale, si incontrano i ministri degli Esteri. Una sorta, dunque, di downgrading del dialogo diplomatico. Sostanzialmente noi stiamo notando una cosa: i Paesi occidentali - in prima linea la Germania, ma anche la Francia – si stanno un po’ stancando di quello che notano nel comportamento della controparte russa. In particolare la Germania - Angela  Merkel – ha affermato che non si procederà a nuovi negoziati, nuovi incontri, a livello di capi di governo, se prima non saranno ottemperati tutti i punti del protocollo siglato a Minsk. Angela Merkel - la Germania - sembrerebbe dire: da lì non si va indietro, quella deve essere la base da cui partire per i futuri negoziati.

D. – In questo scenario può influire la crisi economica che sta passando la Russia?

R. – E’ molto probabile, anche se le dichiarazioni della diplomazia russa, del Cremlino, non sono in questo senso. E’ molto probabile che la condizione economica molto seria che sta attraversando la Russia possa spingere la leadership verso una linea morbida e quindi cercare appunto un accordo con i Paesi occidentali, con i partner occidentali per cercare di attenuare l’effetto delle sanzioni, per esempio. Una cosa è sicura, la crisi economica che sta vivendo anche l’Ucraina sta avendo un effetto. E’ molto ragionevole pensare che un forte interesse alla tregua sia dovuto non soltanto a ragioni nobili, per fermare la guerra, ma anche perché il governo di Kiev sta avendo un costo decisamente insostenibile nel proseguire l’azione militare di contenimento o di riconquista delle zone separatiste.

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5 anni fa il sisma ad Haiti. Rava: ancora fame e miseria

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Il 12 gennaio 2015, un terribile sisma devastava Haiti. A cinque anni di distanza, milioni di persone soffrono ancora fame, miseria e malattie, come racconta la presidente della Fondazione Rava, Mariavittoria Rava, che ha contribuito alla costruzione dell’ospedale pediatrico Saint Damien, punto di riferimento per tutta l’isola. Raggiunta al telefono da Roberta Barbi ad Haiti, dà una testimonianza della situazione in cui versa il Paese caraibico: 

Lo scandalo dei bambini che muoiono di fame

R. – Ora i bambini muoiono di fame e di sete ed è uno scandalo. Questo Paese era la perla dei Caraibi; è uno scandalo che ora sia un Paese senza nessuna struttura! In questi giorni in particolare – come accade da qualche anno - ho il privilegio e la fortuna di passare il Natale qui con la mia famiglia e anche con altri donatori e volontari. Abbiamo un campo di volontariato dove ci sono 15 persone provenienti dall’Italia che per due settimane dedicano le loro vacanze di Natale a lavorare con i bambini. È una delle vacanze più belle in assoluto, in quanto l’energia del bene ti entra nelle vene e ti dà la carica per un anno intero.

Un privilegio aiutare i poveri di Haiti
D. - Cosa sta facendo la Fondazione Rava ad Haiti?

R. – In questi giorni abbiamo passato il tempo con i bambini dell’orfanotrofio Foyer, che si trova vicino all’ospedale pediatrico Saint Damien. Abbiamo organizzato un talent show e, un po’ come se fosse X Factor, abbiamo fatto uno spettacolo: abbiamo votato gli spettacoli migliori… e pensare che questi sono i bambini che hanno perso la famiglia dopo il terremoto! Abbiamo lavorato nell’ospedale Saint Damien, nella stanza dei bimbi disabili più gravi che purtroppo passano tanto tempo in ospedale perché hanno bisogno di tantissime cure. Siamo passati nel reparto malnutrizione; alcuni volontari hanno lavorato, tra cui i miei figli, con padre Rick a Francsiville nel nuovo allevamento di pesci, e abbiamo portato i doni di Natale che ovviamente non avrebbero mai ricevuto perché vivono in discariche di immondizia. Abbiamo rastrellato, abbiamo creato un allevamento di polli, abbiamo seguito i funerali dei bambini che purtroppo tutti i giorni muoiono. Qui in Haiti si fa di tutto. Ritengo un grandissimo privilegio quello di venire qui ad aiutare.

Tanta tristezza nel vedere ancora tendopoli
D. - Sono ancora molti gli orfani del terremoto?

R. – Sì sono tanti! Quello che mi ha colpito è che per esempio il nostro ospedale pediatrico Saint Damien in questo momento è in grave difficoltà perché ha quadruplicato gli aiuti e siamo arrivati a 99mila bambini l’anno perché non ci sono altri ospedali pediatrici gratuiti nell’isola che possano aiutare. Siamo andati in questa tendopoli che sorge non lontano da Tabarre - dove è il nostro ospedale - dove abitano ancora migliaia e migliaia di persone. È una tendopoli che ho visitato subito dopo il terremoto e  dove noi abbiamo continuato ad aiutare, ma vederla allora era una cosa, perché era appena nata; vederla oggi - a cinque anni dal terremoto - ci ha colpito molto perché si è stabilizzata: ci sono persone che si sono stabilizzate nel vivere in queste tende che vi assicuro sono ormai consunte, in condizioni igieniche inesistenti. Fa molta tristezza, perché sono persone che hanno sperato tanto negli aiuti.

Continuare ad aiutare, c'è moltissimo da fare
D. - Cinque anni dopo la tragedia, c’è ancora una presenza attiva sul territorio? Qual è la situazione degli aiuti umanitari?

R. - Dal nostro punto di vista, come Fondazione Francesca Rava, posso dire che gli aiuti sono stati moltiplicati, un po’ come la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Io non so come facciano. Noi facciamo tantissimo, ma siamo comunque una fondazione piccola, non abbiamo mai lasciato il Paese. Moltissime organizzazioni hanno lasciato il Paese subito dopo l’emergenza. È un’emergenza  che c’era già – bisogna dirlo – e quindi il grande appello è di continuare ad aiutare. Continuano ad arrivare nuovi bambini nel nostro e negli altri orfanotrofi. Al Saint Damien ci sono liste di attesa di bambini che devono entrare; c’è il reparto per i malati di colera che hanno bisogno di reidratazione pieno di gente, perché qui a ondate arrivano tantissimi bambini disidratati che devono essere curati. Stiamo ricostruendo le case per chi le ha perse. È bello dire che poi le cose si fanno, però c’è moltissimo da fare. Con grande gioia, rimboccandosi le maniche, si può fare la differenza: noi siamo qui per questo. Perciò è un invito a tutti a venire a vedere per poi impegnarsi in prima persona.

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Nella Chiesa e nel mondo



Terra Santa: delegazione internazionale di vescovi a Gaza

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E' iniziata con un incontro con le sofferenze e le speranze della popolazione di Gaza la visita in Palestina e Israele di 16 vescovi organizzata dall'Holy Land Coordination (Hlc), organismo che riunisce Vescovi e rappresentanti delle Conferenze episcopali di Europa e Nord America.

Mons. Fontana: a Gaza situazione devastata
“Il pomeriggio di domenica, dopo una sosta di 8 ore al valico di Erez” riferisce all'agenzia Fides l'arcivescovo italiano Riccardo Fontana, alla guida della diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro “siamo arrivati a Gaza, abbiamo celebrato la Messa e abbiamo subito incontrato alcune famiglie. Abbiamo avuto l'impressione di trovarci in una situazione devastata. Ci hanno raccontato dei tre bambini morti nelle ultime ore per il freddo. La corrente elettrica c'è solo per alcune ore al giorno. E colpisce vedere che tutti, a cominciare dai bambini, hanno molto chiaro di essere vittime di violenza, e di sapere chi sono i responsabili di tale ingiustizia. Una bambina di terza elementare ci ha detto: hanno distrutto le nostre case, ma soprattutto hanno tolto i bimbi alle madri e le madri ai bimbi. Un ragazzo più grande ci ha ammonito: tutti vengono qui a chiederci se abbiamo bisogno di cibo e di altri aiuti materiali. Ma noi abbiamo bisogno dell'unica cosa che nessuno ci promette: essere considerati come uomini, riconosciuti nella loro dignità”.

Difficoltà per entrare a Gaza
Per entrare nella Striscia di Gaza, la delegazione dei vescovi ha dovuto superare molte difficoltà: al valico di Erez, le autorità di Israele hanno negato alla delegazione il permesso per entrare nella Striscia. I presuli hanno allora iniziato una lunga trattativa, e alla fine hanno ottenuto il permesso di entrare a gruppi di tre. L'ingesso di tutta la delegazione si è concluso solo alle 16,30. Il programma della visita prevede anche un incontro con la popolazione di Sderot – l’insediamento israeliano raggiunto dal lancio di missili lanciati dalla Striscia di Gaza durante la campagna militare di luglio – e una puntata alla Valle di Cremisan, luogo interessato dal progetto di costruzione del Muro di Separazione voluto da Israele. (G.V.)

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Gaza: solidarietà israeliana per popolazione palestinese

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Ci sono anche molti israeliani tra coloro che, attraverso Caritas Jerusalem, inviano aiuti alla popolazione di Gaza dopo il conflitto del 2014. A rivelarlo all'agenzia Sir è il responsabile del fundraising dell’organismo caritativo cattolico, Harout Bedrossian. A margine di un incontro con i vescovi dell’Holy Land Coordination (Usa, Ue, Canada e Sud Africa) che ieri, da Gaza, hanno iniziato la loro tradizionale visita-pellegrinaggio, Bedrossian ha parlato di questo “fenomeno che non ha riscontro nelle passate guerre, 2008/2009 e 2012.

Aiuti israeliani un segno di speranza
“Una corsa a portare aiuto che rappresenta una novità per la società israeliana - dice l’operatore - e anche se non coinvolge la maggioranza della popolazione israeliana è da considerarsi come un segno di speranza, piccolo ma di grande significato che ci fa credere che un futuro migliore è possibile”. Tra i donatori israeliani si annoverano associazioni, scuole e singole persone.

Gli aiuti tramite Caritas Jerusalem
Tra i più attivi il gruppo “Hand in Hand”. “Sono studenti palestinesi e israeliani di istituti di Gerusalemme, Haifa e Tel Aviv, che credono nella convivenza e nella tolleranza - spiega Bedrossian - e che si stanno adoperando, con i loro insegnanti, per raccogliere aiuti da inviare a Gaza, soprattutto e acqua e latte per i bambini”. Particolarmente significativa è l’opera di un altro gruppo, “Mother to Mother”, composto da madri israeliane e palestinesi che hanno perso i loro figli nel conflitto”. L’impegno di questi gruppi, unito a quello di “molti studenti universitari e di singole persone ha fruttato, fino ad oggi, ben 8 tir carichi di aiuti entrati a Gaza attraverso la Caritas Jerusalem”. Quest’ultima è da sempre in prima linea nel portare aiuto alla popolazione, musulmana e cristiana.

I dati dell'ultimo conflitto a Gaza
Secondo stime fornite dal Cnewa, Catholic Near East welfare association, organismo papale per il sostegno umano e pastorale, l’ultimo conflitto a Gaza ha provocato la morte di 2.131 palestinesi, di cui 1.473 civili, inclusi 501 bambini e 257 donne. I feriti ammontano a 11.231, di cui 3.436 bambini, 3.540 donne e 418 anziani. 18mila le case distrutte e 37.650 quelle inagibili. (Daniele Rocchi)

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India: aumenta la violenza religiosa contro i cristiani

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"Nell'India laica, la libertà di culto per i cristiani si sta deteriorando. Due attacchi nello stesso giorno, in due Stati diversi del Paese, sono la prova che i gruppi estremisti senza le briglie della legge, si sentono incoraggiati ad attaccare i cristiani". È quanto denuncia all'agenzia AsiaNews Sajan K. George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), dopo che ieri una comunità protestante e una pentecostale sono state vittime di aggressioni da parte di gruppi radicali indù.

Aggredita una comunità protestante
Un episodio è avvenuto a Madhav Nagar (Stato del Bihar). "Militanti della sezione locale del Bajrang Dal - racconta Sajan George - hanno interrotto un servizio di preghiera, a cui stavano partecipando circa 50 cristiani. Il rev. Kamlesh, che guida la comunità da quasi sei anni, è stato strattonato e accusato di praticare conversioni forzate. Alcuni dei fedeli presenti sono stati picchiati. I radicali hanno anche danneggiato strumenti musicali e parte del mobilio". Secondo la polizia, i militanti del Bajrang Dal hanno aggredito la comunità perché il pastore "attirava con lusinghe" gli indù poveri, per spingerli a convertirsi. Tuttavia, spiega un agente, "non abbiamo trovato prove di queste accuse. I cristiani si recano lì ogni settimana per pregare e per socializzare gli uni con gli altri".

Comunità pentecostale accusata di "conversioni forzate"
Il secondo episodio è avvenuto a Kushulanagar (Stato del Karnataka). Come accade da 15 anni, il rev. KJ Mathai, della Chiesa pentecostale Gospel in Action Fellowship, stava celebrando il servizio domenicale, insieme a una trentina di fedeli. All'improvviso, una jeep della polizia ha fatto irruzione. Gli agenti hanno spiegato che qualcuno aveva denunciato la comunità di "conversioni forzate". Dopo aver atteso la fine del servizio, le forze dell'ordine hanno scortato il pastore e alcuni fedeli in commissariato. Lì sono stati interrogati per diverse ore; intanto, all'esterno, un gran numero di estremisti indù manifestava contro i cristiani. Alla fine il leader religioso è stato rilasciato, ma la polizia gli ha suggerito di "essere cauto" nel continuare a condurre i suoi servizi di preghiera. (N.C.)

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Pakistan: tornano a scuola gli studenti di Peshawar

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I ragazzi sopravvissuti all’attacco della scuola di Peshawar, dove il 16 dicembre scorso un gruppo di militanti armati hanno ucciso circa 150 persone, tra questi 134 giovani studenti, sono ritornati oggi a scuola. Gli istituti erano rimasti chiusi in tutto il Paese per provvedimenti di sicurezza e per la pausa delle vacanze invernali.

Rimosse le tracce della strage
La scuola dell’attentato è stata totalmente ristrutturata per rimuovere ogni traccia e le mura di cinta di molte scuole della zona di Peshawar sono state rafforzate con recinzioni in filo di acciaio mentre i genitori di molti ragazzi hanno proposto di potersi sedere con i loro figli per sostenere moralmente il loro ritorno a scuola. “Guidare a scuola alla luce di un sole che sorge in un silenzio sommesso. C’è una strana quiete nell’aria, come di una preghiera silenziosa di un milione di mamme che lasciano il proprio figlio davanti alla scuola e che sembra dire: ‘Stai sicuro … stai sicuro’” ha scritto sul social network Istagram una mamma di Karachi.

Preoccupazione per ripristino pena di morte
Dopo l’attacco di Peshawar, il Pakistan ha rafforzato la sua offensiva contro i talebani e ha messo fine ai sei anni di moratoria sulla pena di morte. La scorsa settimana, il governo ha annunciato la formazione di nove tribunali militari per giudicare i casi legati al terrorismo, suscitando la preoccupazione di molti gruppi per i diritti. Secondo gli attivisti, l’esercito potrebbe usare la crisi per strappare più poteri al governo civile, allo stesso tempo, gli osservatori dicono che se il Pakistan vuole ottenere risultati contro gli estremisti deve cessare la sua politica che da una parte sembra sostenere i militanti “buoni” e dall’altra prende azioni contro i militanti ‘cattivi’. (R.P.)

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Venezuela. Appello card. Urosa per carenza generi alimentari

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Il cardinale arcivescovo di Caracas, Jorge Urosa Savino, ha invitato i venezuelani a mantenere la calma dinanzi alla situazione critica di carenza dei beni di primo consumo, esortando comunque il governo a risolvere il problema nel più breve tempo possibile. Dopo la celebrazione della Messa domenicale di ieri, il porporato ha sottolineato che il governo deve assicurare il rifornimento di cibo per tutti i venezuelani e fare attenzione al campanello d'allarme costituito dalle lunghe file nei supermercati e nei negozi, che si sono moltiplicate fin dai primi giorni di questo anno 2015. "Chiedo alle persone di mantenere la calma, perché arrabbiandoci non risolviamo niente. Ma il governo deve rendersi conto che la situazione deve essere risolta al più presto" ha detto il Cardinale ai giornalisti e alla comunità cattolica.

Appello all'umiltà del governo nel riconoscere i problemi
La nota inviata a Fides riporta l'invito all’umiltà rivolto dal Card. Urosa al governo: "dovete avere l'umiltà di riconoscere i problemi del Paese. Ci vuole umiltà. Il Venezuela ha molti problemi, è necessario riconoscerlo e cercare la soluzione a questi problemi".

Il governo parla di manipolazioni
La carenza di generi alimentari è così forte che in questo fine settimana il governo ha schierato la polizia nei supermercati per contenere eventuali disordini, dal momento che alcuni centri sono stati teatro di scontri. Nonostante le file di persone si siano allungate fin dall'inizio del 2015, il governo ha sempre negato l'autenticità delle fotografie di queste file che hanno inondato le reti sociali, sostenendo che si tratta di una campagna di manipolazione per danneggiare la propria immagine. (R.P.)

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Pechino: più di 30mila famiglie chiedono un secondo figlio

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Più di 30mila famiglie residenti nella capitale cinese si sono registrate nel corso del 2014 per poter avere un secondo figlio. I dati sono stati presentati dalla Commissione di Pechino per la salute e la pianificazione familiare, un anno dopo le concessioni alla famigerata "Legge sul figlio unico" in vigore in Cina dalla fine degli anni Settanta.

In 5 anni 270mila nuove nascite
Secondo i funzionari municipali - riferisce l'agenzia AsiaNews - la nuova lettura della legge - che rimane comunque in vigore - porterà circa 270mila nuove nascite nei prossimi cinque anni, ovvero più di 54mila l'anno. Secondo diversi esperti, citati dal The Beijing News, i numeri sono bassi "perché molte famiglie ancora si sentono legate all'osservanza della legge sul figlio unico".

Entro il 2015 i cinesi saranno 1,38 miliardi
Delle 30.305 famiglie che hanno presentato richiesta per un secondo figlio, 28.778 hanno ricevuto una risposta positiva. Il 97% delle coppie ha un'età compresa fra i 26 e i 40 anni, e ogni mese del 2014 ha visto fra le 2 e le 3mila domande. Secondo la Commissione, grazie alla nuova politica di pianificazione familiare la popolazione cinese dovrebbe arrivare a 1,38 miliardi di persone entro la fine del 2015.

Sterilizzazione forzata e aborti
Dal 1979 in poi la Cina ha attuato - spesso con violenza - la politica di un solo figlio per famiglia, per concentrare la nazione sullo sviluppo economico. In seguito si è permesso a gruppi etnici di avere due figli e ai contadini di averne due se il primo figlio era una bambina. L'attuazione della legge è stata spesso violenta, con multe esose contro i violatori e perfino sterilizzazione forzata e aborti fino a nove mesi di gravidanza. Il rispetto della legge e delle quote di popolazione era compensato con benefici verso gli impiegati e i dirigenti del family planning aprendo lo spazio a corruzione e soprusi.

La nuova legge beneficerà solo gli abitanti di Pechino
L'alleggerimento della legge varata nel dicembre 2013 permette invece alle coppie in cui uno dei due partner è già figlio unico, di avere due figli. In ogni caso, la nuova politica è stata limitata persino dal punto di vista geografico: i suoi benefici per il primo anno sono andati solo agli abitanti di Pechino, Tianjin, Shanghai e Chongqing e a quelli delle province del Zhejiang, Jiangxi, Anhui, Sichuan, Guangdong e Jiangsu. Con il 2015 si aprirà a nuove province, ma restano esclusi Tibet e Xinjiang. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 12

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.