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Sommario del 17/01/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa ai superstiti del tifone: non ho parole, guardiamo Cristo

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Ho voluto essere qui con voi per dirvi che non siete soli, che Gesù e sua Madre non vi hanno abbandonato. Sono le parole commosse che Francesco ha rivolto alle 200 mila persone che, sfidando una vera tempesta di vento e pioggia, hanno partecipato alla Messa a Tacloban, località duramente colpita nel 2013 dal tifone “Yolanda”. Il maltempo ha costretto il Papa a dimezzare il tempo di sosta sull’isola di Leyte e a ripartire per Manila, dove è rientrato quando in Italia erano le 7 del mattino. La cronaca di questa intensa giornata nel servizio del nostro inviato, Alessandro De Carolis

Fango, pioggia e tanta fede a Tacloban
Fango, pioggia battente e tiepida, e il vento che non smette mai e che la incolla addosso quasi senza accorgertene. Sembra l’ultimo posto per un altare all’aperto e una celebrazione di massa, che andrebbe sicuramente deserta in quelle parti del mondo dove anche per l’anima si chiede un po’ di comfort. Ma non c’è nessun confort e non è deserta l’area attigua all’aeroporto internazionale di Tacloban. C’è un altare allestito con amore, quasi una sfida al fortunale che imperversa. E c’è la folla, tanta, un’unica macchia gialla, perché quasi tutti si coprono con il sottilissimo impermeabile di plastica trasparente dello stesso colore. Una macchia meravigliosa e non perché abbia alcunché di estetico, ma perché se la fede avesse un colore, oggi sarebbe gialla.

“Dovevo venire qui”
Papa Francesco non ci pensa su un momento a vestirsi allo stesso modo. Appena sbarcato, sulla papamobile aperta, sferzata dall’acqua, accetta la cerata gialla che gli porgono, la tiene anche sopra i paramenti e quando sale sull’altare sembra davvero quello che forse il suo cuore gli suggerisce di essere lì e in quel momento tanto atteso: nient’altro che il pastore di quel popolo, uno del popolo, che 14 mesi fa – al passaggio del più devastante tifone della storia – ha perso tutto e che ora vuole sentire da lui che non tutto invece è perduto:

“Cuando yo vi desde Roma esta catástrofe, sentí que tenía que estar aquí …
Quando io ho visto da Roma questa catastrofe, ho sentito che dovevo venire qui. In quei giorni ho deciso di fare il viaggio qui. Ho voluto venire per stare con voi - un po’ tardi mi direte, è vero, ma sono qui. Sono qui per dirvi che Gesù è il Signore, che Gesù non delude. ‘Padre – mi può dire uno di voi – a me ha deluso perché ho perso la casa, ho perso quello che avevo, sono malato…’. E’ vero questo che mi dici, e io rispetto i tuoi sentimenti; ma Lo vedo lì inchiodato, e da lì non ci delude”.

“Non so cosa dirvi, ma guardiamo Cristo”
In un giorno come questo a parlare deve essere la lingua del cuore. Francesco usa lo spagnolo tradotto in simultanea in inglese. “Yolanda” se n’è andata alzando onde di sette metri che sono piombate su persone e cose ritirandosi e trascinando via come l’artiglio di un predatore. A poche dozzine di metri dall’altare sono visibili molte tracce dello sfacelo, carcasse e mozziconi di muri, piante divelte e una fila infinita di baracche rabberciate, con le pozzanghere a fare da zerbino.

“Tantos de ustedes han perdido todo. Yo no sé qué decirles…
Molti di voi hanno perso tutto. Io non so che cosa dirvi. Lui sì, sa che cosa dirvi! Molti di voi hanno perso parte della famiglia. Solamente rimango in silenzio, vi accompagno con il mio cuore in silenzio… Molti di voi si sono domandati guardando Cristo: ‘Perché Signore?’. E ad ognuno il Signore risponde dal suo cuore. Io non ho altre parole da dirvi. Guardiamo Cristo”.

Non siamo soli
Nel giorno dedicato ai superstiti, sembra che a non sopravvivere alla signoria degli elementi sia il tempo della compassione, evocata nel testo che il Papa aveva preparato. Tutto deve essere riprogrammato in velocità: la Messa, il pranzo con una trentina di persone che hanno avuto lutti a causa del tifone che diventa un pasto consumato in fretta. Ma Francesco non ha intenzione di farsi rubare dalla tempesta il giorno della speranza, voltare in fuga una visita attesa con tutto il cuore. Così, lungo la strada che lo porta all’arcivescovado per il pranzo, trova il tempo di un saluto a una famiglia di superstiti e forse ripete loro le parole di consolazione che in modo accorato ha detto a Messa:

“En silencio hagamos esta oración, cada uno digale lo que siente ...
In silenzio, facciamo questa preghiera, ciascuno le dica ciò che sente. Non siamo soli, abbiamo una madre. Abbiamo Gesù, nostro fratello maggiore. Non siamo soli. E abbiamo anche tanti fratelli che, nel momento della catastrofe, sono venuti ad aiutarci. E anche noi ci sentiamo più fratelli aiutandoci, perché ci siamo aiutati gli uni gli altri”.

Il Papa a Palo
La corsa riprende, l’aereo deve decollare entro le 13 locali. Così la benedizione del Centro per i poveri che porta il suo nome, costruito anche con la carità del Papa, viene fatta in transito dalla papamobile. E la pioggia non lava via dalle facce zuppe in attesa da ore a Palo – altra località colpita da Yolanda – la delusione per l’annuncio che Francesco arriverà nella cattedrale ricostruita nient’altro che per un breve saluto. Nelle sue parole a sacerdoti, religiosi, religiose, seminaristi c’è rammarico, una scusa impotente. E c’è spazio per un’Ave Maria.

Il Signore non ci lascia orfani
Dopo il Papa se ne va, ma Francesco resta. Resta ciò che avrebbe voluto dire ai governanti e ai benefattori: non stancatevi, “rimane ancora molto da fare”, anche se i giornali non parlano più questi posti. E resta la sua preghiera finale, che bagna tanti visi, ma non di pioggia:

“Gracias Señor porque siempre estas cercano a nosotros, aún en los momentos ...
Grazie, Signore, perché sei sempre vicino a noi, anche nei momenti di Croce. Grazie, Signore, per averci dato la speranza. Signore, possa la speranza non essere mai portata via da noi. Grazie, Signore, perché nei momenti più bui della tua vita, sulla Croce, Ti sei ricordato di noi e ci hai lasciato una madre, Tua madre. Grazie, Signore, per non lasciarci orfani”.

Morte giovane volontaria
Purtroppo un grave incidente ha funestato l'appuntamento di Tacloban: dopo la Messa del Papa, una giovane volontaria è rimasta uccisa quando le è caduto addosso, per il forte vento, un pezzo di attrezzatura mobile. Papa Francesco – ha riferito padre Federico Lombardi - appresa la notizia, ha incaricato Alberto Gasbarri, l'organizzatore dei viaggi papali, di prendere contatto con la famiglia della ragazza per poterla confortare e far sentire la sua vicinanza.

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A Palo il Papa chiede giustizia sociale e riscatto dei poveri

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A causa, dunque, delle avverse condizioni climatiche, Papa Francesco ha dovuto anticipare il suo rientro a Manila di almeno tre ore, riducendo i momenti che avrebbe dovuto trascorrere con alcune famiglie superstiti del tifone. Il Pontefice ha potuto benedire solo dall'esterno il Centro per i poveri a lui dedicato e ha salutato brevemente i sacerdoti, religiose, religiosi, seminaristi e altre famiglie superstiti del tifone che lo attendevano all'interno della Cattedrale di Palo, consegnando loro il discorso che aveva preparato. Ce ne parla Roberta Barbi

“Il criterio con cui trattiamo i poveri sarà quello con il quale verremo giudicati”. Parafrasando le parole del Vangelo di Matteo, Papa Francesco ha riportato l’attenzione sui più deboli, parlando nella cattedrale della Trasfigurazione del Signore a Palo, ricostruita con molti sforzi dopo la devastazione del tifone Yolanda, che nel novembre 2013 causò in tutte le Filippine oltre seimila morti.

L’attenzione ai poveri
Ed è proprio da questo luogo di sofferenza, dove i poveri sono molti, che Francesco chiede si faccia di più per loro: “Che vengano trattati in maniera equa, che la loro dignità sia rispettata, che le scelte politiche ed economiche siano giuste e inclusive, che le opportunità di lavoro e di educazione vengano accresciute e che siano rimossi gli ostacoli all’attuazione dei servizi sociali”.

La vera felicità è aiutare gli altri
Questo ha chiesto il Santo Padre, unendo un ringraziamento ai giovani e a quanti si sono adoperati per la ricostruzione, ma anche per la cura dei malati e dei morenti, per il conforto dei sofferenti e per la sepoltura dei morti. Il dolore rende difficile vedere il modo di andare avanti, ma “la vera felicità viene dall’aiutare gli altri – sottolinea – offrendo loro noi stessi con sacrificio di sé, misericordia e compassione. Così sarete una forza potente per il rinnovamento della società”.

La Chiesa, sorgente di speranza
Un grazie particolare ai religiosi che si sono spesi per la popolazione così duramente colpita: “Mediante la vostra presenza e la vostra carità avete reso testimonianza alla bellezza e alla verità del Vangelo – afferma – avete reso presente la Chiesa come sorgente di speranza, di guarigione, di misericordia”. Quella misericordia che imita la misericordia di Dio, alla quale il Papa ha poi affidato le vittime, invocando consolazione e pace su coloro che ancora piangono.

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Suore Benedettine: Papa Francesco a Tacloban, dono di Dio

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L’appello a non dimenticare le vittime del tifone Yolanda a Tacloban era stato già raccolto a suo tempo dalla Chiesa filippina, che in molti casi si è mobilitata in forze per portare aiuti concreti e sostegno morale e spirituale. E’ il caso delle religiose Benedettine che vivono nel Paese, come racconta - al microfono del nostro inviato Alessandro De Carolis - suor Stella Matutina, che vive nella località di Tandag: 

R. – Adesso a Tacloban ci sono quasi 100 suore. Quando è arrivato il tifone Yolanda tutte noi siamo andate lì per aiutare. Il Papa voleva vedere questa gente che soffre. Ancora non hanno una casa dove poter vivere come tutti gli altri, non hanno da mangiare, non hanno lavoro. Allora, noi abbiamo portato con noi macchinari agricoli e abbiamo costruito qualche casa per aiutare la gente. Ma cosa possiamo fare? Come Benedettine, come Congregazione internazionale, abbiamo ricevuto tante donazioni. L’unico ospedale che ha funzionato dopo Yolanda è stato il nostro, il Divine Mercy. Essendo Benedettine abbiamo ricevuto tanti aiuti e tutto questo è andato al servizio dei poveri. Il nostro Papa è venuto come un dono di Dio, è caduto dal Cielo, ed è venuto per dirci le parole di Dio: “Non siete abbandonati: io sono con voi”. E questo è il sentimento della Chiesa.

D. – Papa Francesco invita sempre la Chiesa, in particolare i sacerdoti, i religiosi e le religiose, ad uscire fuori, ad andare in periferia. Come vivete voi questo invito del Papa?

R. – Come suora questa è veramente una grande sfida. La nostra vita, infatti, - di preghiera, in comunità – è molto bella, ma la chiamata del Santo Padre di andare a servire i popoli, questa - per me personalmente - è veramente una vocazione: andare dove è la gente, per sentire quello che sente, senza mangiare per tre giorni a volte; andare dalla gente che quando è malata non ha la possibilità di vedere un dottore. Ma c’è sempre Dio.

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Tweet: la con-passione di Dio dà valore a nostri sforzi e sofferenze

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Il Papa ha lanciato dalle Filippine un nuovo tweet: “La con-passione di Dio, il suo soffrire con noi, dà significato e valore ai nostri sforzi e alle nostre sofferenze”.

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Lombardi: solidarietà interreligiosa per i superstiti del tifone

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Sull’evento principale della giornata del Papa nelle Filippine ascoltiamo il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, al microfono di Alessandro De Carolis

Grande partecipazione alla Messa di Tacloban
R. – Direi, evidentemente la celebrazione dell’Eucaristia, di fronte a questa grande folla, sotto la pioggia e nel vento, che esprimeva veramente la situazione di vita di queste persone: perché qui sono settimane che sta piovendo e qui, in altre circostanze, il vento e la pioggia sono immensamente più forti di quest’oggi e portano grandi disastri. Oggi ne abbiamo avuto un lontano segno, un lontano modo di capire di che cosa si tratta quando in questa regione viene il tifone. E quindi, la partecipazione della gente e la partecipazione del Papa a questo momento sono state molto grandi. Io sono molto contento che si sia riusciti a realizzare questo, perché qualcuno poteva avere addirittura dei dubbi che fosse possibile, ma non solo è stato possibile, ma è stato possibile in un modo particolarmente significativo, anche se difficile. E l’intensità con cui la gente e il Papa hanno vissuto queste ore è molto grande, e rimarrà un segno profondo di questo, certamente.

L’incontro con la sofferenza
D. – Il Papa ha anche arricchito questa sua prossimità verso queste persone che hanno sofferto e soffrono ancora tanto, volendo fare anche un gesto particolare verso “una” famiglia, quasi volendo con essa abbracciarne idealmente tante …

R. – Sì … sono questi atti simbolici, e anche qui il tempo stretto ha fatto fare un po’ di corsa tutte queste cose. Però, l’incontro con una famiglia in particolare, lungo la strada, voleva essere appunto il segno della vicinanza, del condividere la situazione con i più poveri dei poveri. Ma poi c’è stato anche, importantissimo, il pranzo - un pranzo molto di corsa - con 30 persone, familiari che hanno perso i loro congiunti, quindi persone che hanno perso chi i figli, chi la moglie, chi il marito, chi tutti gli altri membri della famiglia … Storie assolutamente impressionanti a sentirle, che per pudore sono state tenute un po’ nel privato, ma che sono veramente molto dolorose. E il Papa – raccontava il cardinale Tagle che è stato con lui tutto il tempo, io l’ho visto un po’ da dietro, diciamo così, ma il cardinale Tagle vedeva le espressioni del volto del Papa mentre queste persone, brevissimamente, spiegavano la loro esperienza – e il Papa era assolutamente compreso e esprimeva un dolore, una partecipazione profonda, possiamo dire un turbamento, se così si può dire, ma il turbamento naturalmente consolato e sostenuto dalla fede. Ma l’impressione che queste esperienze tragiche di dolore ci danno è profondissima, e il Papa è un uomo che lo sente profondamente.

Non dimenticare i poveri
D. – Un’ultima domanda: il Papa ha voluto parlare a braccio per far parlare il cuore. Ha scritto però un testo nel quale fa un appello forte a non dimenticare queste persone, delle quali ormai i giornali non parlano più …

R. – Esattamente. Le cose che il Papa ha detto nella sua omelia spontanea, sono largamente corrispondenti al senso del testo che aveva preparato. Però, naturalmente, anche il fatto che bisognava fare un po’ in fretta, data la situazione, ha fatto sì che ci siano dei particolari, magari delle espressioni, che il testo completo può garantire, può manifestare come significative e che vanno conservate. Per questo abbiamo detto che è da considerare pubblicato e come letto il testo integrale. E nel testo integrale c’è, appunto, questo invito a tutti a continuare a ricordarsi, perché qua la ricostruzione non si fa né in pochi giorni né in pochi mesi: la ricostruzione si fa in anni! E quindi c’è bisogno di accompagnare, di sostenere sia con risorse: molte agenzie hanno dato risorse materiali non indifferenti, anche dei buddisti … Attenzione: questa è una cosa interessante. C’è stata una solidarietà interreligiosa significativa … E però c’è anche, poi, la continuità dell’essere presenti accompagnando e qui, appunto, i volontari o le persone che si dedicano al servizio dei poveri o delle persone abbandonate o delle persone sofferenti, dimostrano la continuità, la profondità della loro carità. E questo va ricordato. Tra l’altro, proprio qui vicino alla casa episcopale è stato costruito con l’aiuto di Cor Unum, quindi con l’aiuto del Papa, diciamolo pure, un bel centro grande per i poveri e per i bambini in difficoltà che avrebbe dovuto essere inaugurato praticamente quest’oggi: è stato inaugurato un po’ passando di corsa, però è in grado di accogliere decine di persone in difficoltà e quindi di essere un po’ un centro di appoggio e di irradiazione di servizio in questo senso.

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Incontro del Papa con i gesuiti a Manila: il racconto di p. Spadaro

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Tra i fuori programma del viaggio apostolico di Papa Francesco nelle Filippine c'è da segnalare l'incontro di ieri con un gruppo di 40 gesuiti nella nunziatura di Manila. Testimone diretto del colloquio del Papa con i suoi confratelli è stato padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà cattolica. Fabio Colagrande lo ha intervistato: 

R. - Alla fine di una delle sue giornate qui, tornando in nunziatura ha trovato circa 40 gesuiti. Questa ormai è una tappa quasi abituale dei viaggi papali, per cui o come nel caso della Corea va a trovare i gesuiti nella loro comunità, oppure i gesuiti comunque vanno in nunziatura, come in questo caso, a salutarlo. È stata una tappa molto bella, molto importante, ovviamente di carattere privato, che in qualche modo elabora i contenuti più profondi di ogni viaggio in un contesto assolutamente rilassato, familiare, ordinario.

D. - Il Papa vi ha detto: “40 gesuiti, dunque 40 malattie”. Non ha rinunciato all’umorismo …

R. - È straordinario vedere come quest’uomo viva dei ritmi folli di attività e che riesca mantenere una serenità, una calma ed anche una grande capacità di ironia ed autoironia tra l’altro come abbiamo visto spesso. Ma il Papa ha detto tante cose molto importanti. Una delle cose che mi ha colpito, tra le tante ovviamente, in questo incontro con i gesuiti è stata la risposta ad un gesuita che gli ha chiesto: “Ma come si sente ad essere Papa?”. Papa Francesco gli ha detto che questa cosa non gli ha tolto la pace, che la avverte con una sorta di naturalezza che viene da Dio, quindi non una naturalezza di ordine psicologico o umano, quanto piuttosto come un rispondere ad una volontà di Dio che gli dà tanta pace. Ma, soprattutto, ha detto una cosa riguardo un’esperienza che ha vissuto personalmente che lo aiuta attualmente nella sua missione: l’esperienza di parroco. Cosa significa questo tipo di esperienza? Che il Papa ha bisogno di un contatto reale, effettivo con la gente e che quindi il suo non è un pontificato di ordine astratto del tutto teorico, o comunque legato ad una dimensione astratta rispetto alla vita reale concreta delle persone, della gente, ma si occupa e si fa carico pastoralmente del contatto con le persone, del contatto vivo dei problemi, dei casi concreti del vissuto che spesso hanno bisogno di tanta misericordia.

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Nomine

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Il Santo Padre ha nominato Vescovo Ausiliare di Radom (Polonia), il Reverendo Mons. Piotr Turzyński, finora Vice-Rettore del Seminario Maggiore di Radom, assegnandogli la sede titolare di Usula”. S.E. Mons. Turzyński è nato il 28 settembre 1964 a Radom. Dopo gli esami di maturità, nel 1982 è stato ammesso al Seminario maggiore in Sandomierz. Il 28 maggio 1988 ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale per la diocesi di Sandomierz-Radom e nel 1992, con la riorganizzazione delle strutture diocesane in Polonia, è stato incardinato nella diocesi di Radom. È stato Vicario parrocchiale a Ostrowiec Swiętokrzyski (1988-1989). Negli anni 1989-1992 è stato studente presso l’Istituto Patristico Augustinianum a Roma, dove ha ottenuto la Licenza in Teologia e Scienze Patristiche e dal 1992 al 1995 ha studiato presso la Pontificia Università Gregoriana, dove ha ottenuto il Dottorato in Teologia. Negli anni 1995-2006 è stato Direttore spirituale del Seminario maggiore di Radom e nel 2006 è stato nominato Vicerettore del medesimo Seminario. Attualmente è Professore aggiunto nell’Istituto di Storia della Chiesa e Patrologia dell’Università Cattolica di Lublin, membro del Consiglio presbiterale (dal 2002), Direttore del Consiglio diocesano per la formazione permanente del Clero (dal 1999) e del Consiglio per la Vita consacrata (dal 2006), docente presso il Seminario di Radom (dal 1995) e Vicerettore del medesimo Seminario. Dal 2003 è Canonico del Capitolo di Skarżysko Kamienna.

Il Papa ha nominato l’Em.mo Card. Orlando B. Quevedo, O.M.I., Arcivescovo di Cotabato (Filippine), Suo Inviato Speciale alle celebrazioni del 150° anniversario della scoperta dei "cristiani nascosti del Giappone", previste a Nagasaki dal 14 al 17 marzo 2015.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, un editoriale del direttore dal titolo "La forza più potente".

Lotta senza confini al terrore: oltre venti arresti nel quadro di una maxi operazione in Francia, Belgio, Germania, Gran Bretagna e Irlanda.

L'ecumenismo spirituale della conversione: il cardinale Kurt Koch sulla settimana di preghiera per l'unità dei cristiani.

Controcorrente, invertendo le priorità: Silvia Gusmano sul fondatore dell'Arca e gli ultimi in un mondo sempre più indifferente.

Un articolo di Gabriele Nicolò dal titolo "Quale arte senza un briciolo di follia?": da Durer a Van Gogh l'insidioso discrimine tra ragione e talento.

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Oggi in Primo Piano



P. Albanese e Ovadia su libertà espressione e rispetto fedi

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In questi giorni è sempre vivace il dibattito sul rapporto tra libertà di espressione e rispetto delle religioni, in un contesto di accresciuta tensione e allerta terrorismo. In vari Paesi musulmani si registrano proteste per le nuove vignette di Charlie Hebdo. Fausta Speranza ha intervistato a questo proposito padre Giulio Albanese, direttore delle riviste delle Pontificie opere missionarie, e Moni Ovadia, scrittore, drammaturgo e cantante ebreo. Sentiamo padre Albanese: 

R. - Ho ricevuto proprio in questi giorni una mail davvero affettuosa da parte di un missionario che lavora in un Paese mediorientale, il quale esprimeva a chiare lettere la sua sofferenza, il suo disagio, perché chiaramente quello che sta succedendo in Europa, soprattutto a seguito di questo attentato terroristico infame, qualcosa davvero di aberrante e che va sempre stigmatizzato. Purtroppo la reazione di certa satira, di certa vignettistica, non fa altro che gettare benzina sul fuoco, e poi a pagarne le conseguenze in certi Paesi - dove comunque delle componenti di intransigenza, di fondamentalismo sono radicate anche a livello culturale - sono coloro che comunque vengono dall’Occidente. Dato che l’islam - non dimentichiamolo - ha una valenza anche teocratica in cui l’aspetto politico è intimamente connesso a quello religioso, spesso si fa di tutte le erbe un fascio. Credo che oggi la vera sfida sia sul piano dialogico: il giornalismo, da questo punto di vista, a mio avviso, è davvero la prima forma di solidarietà, deve scuotere le coscienze. Quindi, per carità, assolutamente mai legittimare le scelte violente da parte di questi jihadisti, ci mancherebbe. Bisogna però anche avere buon senso e soprattutto evitare di radicalizzare il confronto tra Oriente ed Occidente. La sfida si gioca anche sul piano culturale in modo perspicace. In fondo, quello che ci chiedono i nostri missionari è, davvero, moderazione.

D. - In qualche modo l’espressione di Papa Francesco con il pugno all’insulto alla madre ci ha voluto ricordare che umanamente - certo non dovrebbe essere così - ma umanamente c’è da aspettarsi una reazione ad un insulto …

R. – Certamente. Non dimentichiamo che le culture sono diverse, le sensibilità sono diverse. E naturalmente proprio perché viviamo in un mondo villaggio-globale, dove questa umanità dolente di cui tutti noi facciamo parte sta vivendo le sue intrinseche contraddizioni, credo che la comunicazione sia davvero strategica. Ed è per questo che dobbiamo avere atteggiamenti radicalmente diversi da quelli di certa vignettistica, di certa propaganda e satira che certamente non fanno altro – lo si voglia o no – che acuire il divario tra Oriente ed Occidente.

D. - Bisognerebbe accompagnare una globalizzazione che è nei fatti, in quanto con grande velocità si va da un posto ad un altro, con una maturazione culturale: è così?

R. - Certo. Bisogna investire in modo perspicace soprattutto sulla società civile nel mondo islamico, perché deve essere questa e soprattutto i giovani nell’ambito universitario a rappresentare il volano di questa crescita, di questo sviluppo. Credo che questa sia una sfida che finora è rimasta disattesa, perché gli occidentali – non dimentichiamolo – hanno fatto poco o niente per promuovere gli intellettuali moderati che ci sono oggi nel mondo islamico per aiutare la società civile in questi Paesi in una maniera o nell’altra a sperimentare questo incontro con la modernità. Questo è il risultato. Allora credo che le responsabilità siano davvero reciproche da una parte e dall’altra. Guai a legittimare il jihadismo, guai a legittimare il fondamentalismo. Bisogna però, in una maniera o nell’altra, far si che quella che noi chiamiamo “la piattaforma dei diritti umani, dei diritti inalienabili della persona” possa esser rispettata davvero da tutti. Questo significa un impegno anche da parte di chi fa politica.

Ascoltiamo la riflessione di Moni Ovadia: 

R. – Dico una cosa: la libertà di espressione è uno dei punti più alti a cui si è arrivati nelle società democratiche. Come dicevo, sono contrario alle censure. Mi sembra che il primo emendamento della Costituzione americana dica che nulla ti deve essere fatto, prima che tu ti sia espresso, e quindi se poi ci sono le configurazioni della calunnia, della diffamazione, allora per quello ci sono i tribunali. Detto questo, una riflessione, una discussione aperta e un confronto se la satira debba o non debba avere limiti, questa è un’altra cosa. Nell’ambito di un confronto, però, è sul piano della coscienza, cioè sul piano di ciò che attiene alla coscienza della persona. Questo sì. Io faccio, infatti, un esempio estremo: se qualcuno irridesse le vittime della pedofilia, ne facesse cioè un’immagine sconcia, volgare, io credo che ci sarebbe una reazione di rifiuto. Allora, possiamo capire che la questione della fede è molto, molto delicata, perché per i credenti, i fedeli - quelli naturalmente veri, onesti, sinceri - attiene ad una dimensione molto, molto intima. L’autentico credente dedica alla fede la sua vita, mette cioè a disposizione le sue fibre più intime. Allora, ecco, bisognerebbe fare – io credo – una riflessione, aprire una discussione, possibilmente non lo starnazzare dei talk show.

D. – Secondo lei, chi fa satira dovrebbe porselo il problema che poi ci sono popoli magari lontani che possono rimanere vittime di una reazione esagerata, che non ci piace, è condannabile ma non possiamo dimenticare che esiste?

R. – Questa è una questione delicatissima. Tutti ci dobbiamo porre il problema. E il problema va posto in termini che ogni forma di espressione che naturalmente tocchi qualcun altro, ponga un problema ovviamente di riflessione e di coscienza a ciascuno di noi. Pensi che io sono stato accusato di raccontare storielle antisemite! Naturalmente questa cosa era falsa. Io racconto solo umorismo ebraico. Le storielle magari sono anche autodelatorie, anche molto molto sapide, però assolutamente non antisemite. E’ una questione delicata. Le ripeto, credo che vada aperta una discussione e un confronto, non censura, perché la censura porta sempre verso disastri, soprattutto se a priori: una riflessione che faccia appello alla coscienza di ogni persona. Naturalmente, ripeto, per dirimere comunque controversie, anche se c’è l’offesa e la calunnia, ci sono i tribunali. Questo vale anche all’interno della fede. Per esempio, nell’ebraismo ci sono i tribunali rabbinici. Non so come dire, si va a quelli laici e a quelli rabbinici. E credo che lo stesso valga per la Chiesa. Le questioni che attengono appunto alla percezione dell’offesa e al fatto di non accettarla, dovrebbero appunto essere sempre portate, comunque, nell’ambito della giustizia.

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Giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei

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Come ogni anno si celebra il 17 gennaio in Italia la Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. Anche quest’anno prosegue la comune riflessione dedicata ai Dieci Comandamenti e in particolare sulla nona parola dell’Esodo “Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo”. Il servizio di Roberta Barbi: 

È un appuntamento importante, la giornata che celebrano ebrei e cattolici, fecondi operatori di pace nella società in cui viviamo, approfondendo il tema biblico della falsa testimonianza, che ci chiama a non uccidere le relazioni tra di noi ponendole sotto il segno della falsità. Ma nel mondo di oggi questo comandamento si può attualizzare anche nel segno della libertà religiosa, come precisa il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna:

“Secondo me, se fosse rispettata la libertà religiosa altrui, cadrebbe uno dei presupporti per il quale un fedele di una religione diversa debba essere considerato un infedele o una persona pericolosa. Io insisto molto sul fatto che proprio la rinuncia al proselitismo dovrebbe essere accettata da tutti, come hanno fatto gli ebrei già secoli fa”.

Una giornata che vuole essere anche occasione di verifica dei passi fin qui fatti nel cammino di dialogo tra ebrei e cattolici, che ha una lunga storia, come ricorda ancora Gattegna:

“Il dialogo tra ebrei e cattolici continua a essere molto positivo. C’è stata 50 anni fa una svolta storica da Papa Giovanni XXIII: il Concilio Vaticano II e la dichiarazione Nostra Aetate hanno completamente cambiato i presupposti dei rapporti fra le due religioni. Quello che io ritengo che, forse, dovremmo fare è un maggiore sforzo perché non si cada in qualcosa di poco effervescente, di poco brillante, che ci si adattasse a una routine di rapporti buoni, ma che con il tempo rischiano di perdere un po’ di slancio. Sarebbe opportuno, quindi, uno sforzo di creazione, per poter rendere evidente a tutti la ricchezza che può scaturire da nuove iniziative di collaborazione fra i fedeli delle religioni che poi credono nello stesso Dio”.

La Nostra Aetate ha riconosciuto il valore dell’ebraismo all’interno del percorso cristiano, la radice santa alla base dell’albero cristiano. Del clima che si respirava prima di questo documento che ha fatto da spartiacque, ci dà una testimonianza mons. Mansueto Bianchi, presidente della Commissione episcopale per l’Ecumenismo e il Dialogo:

“Il clima dominante era il clima della diffidenza reciproca, era il clima del gelo nelle relazioni o, quando il clima si riscaldava, nella dimensione dell’opera di carità. Quel documento ha veramente cambiato il clima, perché ha dato una diversa connotazione, una diversa cifra teologica al rapporto tra cristiani ed ebrei. La fatica del dialogo in questo cinquantennio l’abbiamo misurata, l’abbiamo incontrata, ma direi che è prevalente l’orizzonte della speranza e anche la constatazione di una positività diffusa, che è cresciuta tra di noi in questi 50 anni”.

Nel contesto odierno, con i fondamentalismi che sfociano in atti di terrorismo, cosa possono fare le religioni per costruire la pace? Ancora mons. Bianchi:

“Possono fare tantissimo, proprio partendo dal fatto che la radice dichiarata di questi fondamentalismi aggressivi e sanguinari pretende di essere una radice religiosa. C’è indubbiamente una strumentalizzazione pretestuosa dell’esperienza religiosa per arrivare a queste abnormità. Ma proprio lì dove questi fondamentalismi dicono di affondare le loro motivazioni, proprio lì le religioni dovrebbero trasmettere una testimonianza contraria alla strumentalizzazione che ne viene fatta”.

Infine, l’augurio del presule per questa Giornata dedicata al dialogo:

“Il mio augurio per questa Giornata è che questo dialogo tra l’ebraismo e il cristianesimo porti ad un reciproco riconoscimento, ma anche ad una reciproca accoglienza, creandoci dentro un atteggiamento di cuore che sia di fraternità”.

Un buon proposito per il lavoro futuro è l’augurio di Gattegna:

“Secondo me, questa Giornata dovrebbe essere dedicata alla creazione, al lancio di iniziative nuove e non limitarci solo ad amministrare bene le conquiste che abbiamo già fatto. Dovremmo essere più ottimisti, più aperti, dare dei segnali di una più profonda e completa fiducia reciproca”.

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Cpi indaga su crimini nei Territori palestinesi, Israele protesta

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Critiche da Israele, soddisfazione dell’Autorità nazionale palestinese. Queste le reazioni all’annuncio della procura della Corte penale internazionale dell'Aja (Cpi) di avere aperto una "inchiesta preliminare" sullo Stato ebraico e su alcune fazioni palestinesi per "crimini di guerra" nei Territori. Il procuratore capo della Cpi, Fatou Bensouda, ha promesso che l’indagine sarà condotta in "piena indipendenza e con imparzialità", esaminando la consistenza delle denunce palestinesi sulle pesanti perdite civili subite causate dai bombardamenti israeliani durante la guerra a Gaza dell’estate scorsa, sugli insediamenti ebraici nei Territori occupati, ma anche su crimini di guerra compiuti da Hamas, che controlla la Striscia di Gaza dal 2007, e sul lancio di razzi contro Israele. L’annuncio dell’Aja segue di pochi giorni la notizia dell’ammissione della Palestina nella Cpi, che diventerà effettiva dal 1° aprile. Sul perché dell’inchiesta dell’alta Corte, Giada Aquilino ha intervistato il giornalista libanese Camille Eid, che segue le vicende mediorientali: 

R. – In virtù della firma da parte della Palestina del Trattato di Roma alla fine dell’anno scorso - dal 1° aprile ufficialmente avrà effetto questa adesione della Palestina alla Corte - hanno ritenuto giusto avviare questa inchiesta preliminare, anche in base ad una richiesta palestinese. Bisogna vedere poi se si rivelerà ‘un’arma a doppio taglio’ questa inchiesta, perché è ovvio che la Corte non indagherà soltanto sulle violazioni da parte israeliana, ma anche sul comportamento delle diverse fazioni palestinesi.

D. – Che reazioni sta suscitando, sia tra gli israeliani, sia tra i palestinesi, ma anche tra i loro alleati?

R. – Fra i palestinesi c’è entusiasmo, riflesso nei titoli di stamattina della stampa palestinese. Anche da parte di Hamas: per ora, quindi, escludono un’indagine sul lancio di razzi da Gaza sulle città israeliane. I palestinesi chiedono di accelerare i tempi: ci sono altri casi presentati a questa Corte che giacciono nel cassetto da anni, riguardanti l’Afghanistan, l’Iran. Soprattutto sperano – ma questa è una speranza comunque difficile da realizzare – di vedere i responsabili o i soldati israeliani comparire proprio davanti alla Corte. Da parte israeliana, ovviamente, c’è una condanna che già si è espressa in passato, anzi: il dibattito è già in corso da un paio d’anni, da quando la Palestina ha cercato di aderire all’Onu, perché era chiaro che questa adesione avrebbe significato diventare membri d’ufficio di tutti gli organismi dell’Onu. Poi la Palestina non è stata accettata come membro a pieno titolo dell’Onu, ma solamente come osservatore, anche se questo le dà diritto comunque di diventare membro se non della Corte internazionale di giustizia almeno della Corte penale internazionale.

D. – Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno criticato la decisione dell’Aja…

R. – Gli Stati Uniti difendono il loro alleato israeliano, che ha giudicato “scandalosa” questa cosa. Israele ha anche già preso dei provvedimenti e minaccia di prenderne altri. Per esempio, ha congelato il trasferimento delle tasse previste per l’Autorità Nazionale Palestinese – oltre 100 milioni di euro – e gli Stati Uniti potrebbero seguire questa strada, congelando circa 400 milioni di dollari come aiuti finanziari all’Autorità Palestinese.

D. – L’operazione israeliana a Gaza dell’estate scorsa ha causato oltre 2.000 morti tra i palestinesi – molti di questi bambini – e centinaia di migliaia di sfollati. Qual è ora la situazione a Gaza?

R. – E’ migliorata solamente dal punto di vista politico, nel senso che si è giunti ad un accordo per la formazione di un governo di unità palestinese tra il governo in essere a Gaza e quello di Ramallah. Ma dal punto di vista umanitario è cambiato pochissimo, nel senso che gli aiuti fanno fatica a raggiungere il territorio. Parlando comunque di quello che è successo, delle vittime e del bilancio, c’è questo numero sproporzionato di vittime palestinesi: 2.200, in maggioranza civili, contro una settantina di vittime israeliane, in maggioranza soldati. Inoltre, la Corte penale internazionale ha il dovere di intervenire con un’indagine per quanto riguarda l’attacco che ha subito una scuola dell’Onu e che ha provocato vittime. Chiaramente, adesso si pone anche il quesito se la Corte possa indagare su fatti precedenti alla data in cui uno Stato sia effettivamente entrato come membro.

D. – Oltre agli sviluppi di questa inchiesta, potrebbero esserci altri confronti tra le parti alla Corte dell’Aja?

R. – Ammesso che vadano avanti, io continui a ritenerlo più che altro un mezzo di pressione, perché traduce una certa esasperazione da parte dei palestinesi di fronte al blocco dei negoziati. L’obiettivo finale da parte palestinese è quello di ritornare alle trattative. Ma io la vedo un po’ dura in particolare in questo momento, in cui Israele è molto preso dalle elezioni. E quindi penso che per un paio di mesi almeno, fino a quando si capirà chi vincerà e chi formerà il nuovo governo, tutto rimarrà bloccato.

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Crisi ucraina: tregua non regge, saltano i negoziati

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Prosegue lo stallo nella trattativa per una soluzione diplomatica del conflitto in Ucraina. Sono falliti, infatti, i tentativi di riunire il gruppo di contatto Kiev-Mosca-Osce-miliziani filorussi e in settimana è saltato anche il vertice di Astana del ‘formato Normadia’ che vede impegnate anche Francia e Germania. Intanto, sul terreno, la tregua nei fatti non regge. Nelle regioni separatiste si segnalano scontri e almeno 11 vittime nelle ultime 48 ore. Il servizio di Marco Guerra: 

Accuse reciproche tra le parti in causa per il fallito incontro del gruppo di contatto, Russia- Ucraina- Osce – miliziani filorussi, che si sarebbe dovuto tenere ieri a Minsk. L’origine dello stallo secondo Kiev è dovuta al rifiuto dei leader separatisti di trattare senza intermediari. Ma in realtà nessuno è pronto a negoziare e a fare concessioni. In settimana è stato rinviato a data da destinarsi anche l’incontro a Astana, in Kazakistan, del vertice ‘formato Normadia’ tra Mosca, Kiev, Parigi e Berlino. La Merkel ha tenuto, tuttavia, colloqui telefonici con il premer ucraino Poroshenko e il presidente Russo Putin. Intanto sul terreno, da circa 10 giorni è riesploso il conflitto. Nelle ultime 48 ore si registrano almeno 11 vittime e violenti combattimenti nei pressi dell’aeroporto di Donetsk. Per un’analisi sentiamo Aldo Ferrari, responsabile ricerche Caucaso-Russia dell' Ispi, l'Istituto per gli Studi di politica internazionale:

R. – Lo stallo diplomatico non è soltanto nelle trattative, diciamo nell’aspetto tecnico delle trattative, ma piuttosto deriva dal fatto che manca l’atmosfera politica, la situazione politica generale, la volontà di risolvere la questione da parte di entrambi i contendenti: vné la Russia né l’Ucraina sono disposti a cedere alcunché e chi dovrebbe fare da mediatore, in particolare la Comunità Europea, tende in realtà ad appoggiare esclusivamente la parte ucraina. Quindi non ha una vera funzione di mediatore, ma è percepita da Mosca piuttosto come un secondo fattore esterno e contrario rispetto alla sua posizione. Da questo punto di vista è molto difficile che - se non cambia l’atmosfera generale - le trattative, in qualsiasi formato e in qualsiasi sede, abbiano un esito positivo. Stiamo davvero di fronte ad uno stallo molto negativo, che non lascia adito a particolari ragioni di ottimismo.

D. – E, infatti, è saltato anche il Vertice di Astana, ovvero l’incontro nel formato Normandia, Russia-Ucraina-Francia e Germania…

R. –L'Europa ha perso – a mio giudizio – sin dall’inizio la sua possibilità di essere un mediatore onesto, perché - appoggiando sin dall’inizio le posizioni ucraine o meglio degli ucraini occidentali - si è posta in maniera antagonista alla Russia, che adesso ci percepisce come ostili, a torto o a ragione. Da questo punto di vista è molto, molto difficile sbloccare la situazione.

D. – Intanto sul terreno non si fermano i combattimenti: almeno 12 morti nelle ultime 24 ore. La rottura della tregua è nei fatti…

R. – Quando i belligeranti sono così armati, contrapposti e non c’è una prospettiva politica di soluzione, tutte le tregue sono precarie. Le scaramucce ci sono state quasi ogni giorno, le vittime quasi ogni giorno… Certo, negli ultimi giorni, c’è stato un aggravamento della situazione, in particolare intorno all’aeroporto di Donestk: le vittime sono numerose. Si tratta di un punto cruciale per il controllo della regione e quindi i combattimenti si sono intensificati. Ma questo è nella natura delle cose. Se non si arriva non dico ad una soluzione, ma neanche ai primi passi preliminari per una impostazione di soluzione politica del conflitto è inevitabile che le ostilità sul terreno proseguono e potenzialmente possono anche aggravarsi.

D. – Quali condizioni devono verificarsi per l’uscita da questa crisi?

R. – L’unica via che i posso intravvedere prevede un cambiamento degli atteggiamenti di tutte le parti in causa, perché l’Ucraina – sentendosi appoggiata fortemente da Stati Uniti e Europa - vuole fare di tutto per recuperare i territori perduti; la Russia, in particolare la sua dirigenza, si sente impegnata in una lotta per la sopravvivenza e quindi ad essere intransigente; l’Unione Europea e gli Stati Uniti, appoggiando così nettamente l’Ucraina non sono plausibili come mediatori. Dovrebbe cambiare il quadro politico generale: i diversi contendenti dovrebbero procedere verso una soluzione, che però deve prevedere da parte di tutti delle concessioni. Ognuno deve concedere qualcosa, ma nessuna delle parti sembra disposta a farlo! Da questo punto di vista è difficile immaginarsi, senza un mutamento di prospettive, che la situazione possa migliorare in tempi brevi.

D. – Che cosa dobbiamo aspettarci nelle prossime settimane, nei prossimi mesi?

R – Probabilmente uno stillicidio di azioni belliche quotidiane, un aggravamento delle perdite e – se non ci sarà da parte delle forze politiche coinvolte un cambiamento di prospettiva – presumibilmente un ulteriore peggioramento della situazione, che può arrivare anche a livelli molto gravi a livello globale, perché la Russia si sente sempre più minacciata dall’Occidente e quindi aumenta la tendenza a rivolgersi verso Est, verso la Cina, che può cambiare radicalmente, e in maniera negativa per l’Occidente, il quadro politico internazionale.

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Detenzione femminile in Italia: necessari radicali cambiamenti

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E’ stato presentato a Roma 'Women in Prison', l’indagine condotta dall’Università degli Studi di Brescia sulla detenzione femminile in Italia che pone l’attenzione sulla componente meno considerata della popolazione penitenziaria, quella della donna. Ce ne parla Davide Dionisi: 

La detenzione al femminile è emotivamente e fisicamente diversa rispetto a quella maschile. Per questo è quanto mai urgente una radicale trasformazione dell’attuale sistema penitenziario attraverso processi di natura politica ma, soprattutto, di azione amministrativa. E’ quanto è emerso dall’indagine condotta dall’Università degli Studi di Brescia sulle detenute in Italia, presentata ieri a Roma, nel corso di un forum sulla situazione carceraria femminile promosso da ACAT, Azione di cristiani per l’abolizione della tortura. Della condizione delle donne in carcere ne ha parlato Mauro Palma, vice capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia:

R. - Le donne vivono un doppio livello di difficoltà: innanzitutto, la difficoltà in sé, data dal fatto che il carcere, proprio come sistema, come regole, come concezione, è una punizione pensata per i corpi maschili e stentatamente adattata poi anche alle donne. C’è una falsa neutralità diciamo in questo atteggiamento, che fa pensare che il principio ugualitario si debba tradurre in un principio neutrale. Invece il principio ugualitario si deve tradurre sempre in un principio molto differenziato, perché diversi sono i bisogni dei soggetti, a partire dalle diversità di genere. Quindi questo è il primo livello di difficoltà. Il secondo livello di difficoltà sta nel fatto che le donne sono numericamente una porzione molto ridotta della popolazione detenuta: siamo intorno al 4,3 per cento. Questo comporta o scegliere la soluzione di avere istituti femminili totalmente per donne: ce ne sono cinque in Italia e allora, però, naturalmente, tali donne spesso sono distanti dal proprio luogo familiare. Avendo cinque istituti in tutta la penisola, è ovvio, infatti, che in molti casi ci sia una distanza. Oppure si sceglie l’altra soluzione: di avere sezioni femminili dentro un carcere, che è prevalentemente maschile. Allora in questo caso si ha maggiore vicinanza, però si ha anche una maggiore marginalizzazione. Essendo, infatti, una sezione all’interno di un carcere concepito per maschi, la minorità gioca un ruolo negativo.

Ma esiste un’emergenza carcere al femminile? Lo abbiamo chiesto a Massimo Corti, Presidente di Acat Italia:

R. - L’emergenza carceri al femminile non è la solita emergenza carceri, per cui si parla di sovraffollamento. Secondo me, l’emergenza carcere al femminile è adeguare il sistema carcerario alla specificità delle donne in prigione. La specificità delle donne in prigione è relativo al fatto che sono sicuramente meno pericolose degli uomini, che sono molto spesso vittime in precedenza di soprusi o violenze di vari tipi. Pertanto hanno bisogno di stare in prigione in maniera diversa, perché la loro sensibilità è fortemente diversa. Poi, c’è il problema della maternità, che è un problema enorme, per cui da affrontare in maniera specifica. Questa è l’emergenza delle donne.   

 D. - Le donne in carcere spesso vivono un doppio dramma: quello della detenzione e quello dell’essere mamme non in grado di svolgere il proprio ruolo. In che modo deve cambiare il sistema, per venire incontro alle loro esigenze e per alleviare le loro sofferenze?

R. - I modi per alleviare la doppia sofferenza delle madri sono tanti e molti sono allo studio. Tipico, per esempio, è avere delle case dentro l’istituto carcerario, delle abitazioni per la famiglia oppure delle detenzioni alternative alla normale prigione. Un’idea che è stata ventilata ieri durante il convegno, e che viene attuata in India per esempio, è di avere visite quotidiane delle famiglie alle madri in carcere. In alcuni Stati i figli possono andare in prigione a fare i compiti insieme alla madre e in uno Stato addirittura ci sono delle scuole dentro la prigione, cui partecipano non soltanto i figli dei carcerati, ma i figli dei secondini, i figli degli addetti, i figli dei paesi vicini. Il bambino, quindi, non si sente isolato, prigioniero o ghettizzato.

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Il commento di don Ezechiele Pasotti al Vangelo della Domenica

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Nella seconda domenica del Tempo ordinario la liturgia ci propone il Vangelo in cui due discepoli di Giovanni Battista chiedono a Gesù dove abiti. Il Signore risponde:

«Venite e vedrete».

Su questo brano evangelico ascoltiamo il commento di don Ezechiele Pasotti: 

Gesù passa, guarda e chiama. E i discepoli di Giovanni lo seguono. Alla loro domanda: “Rabbì, Maestro, dove dimori?” Risponde loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove egli dimorava… E l’incontro con Gesù è così definitivo che diventa la notizia da comunicare agli altri: “Abbiamo trovato il Messia”. Il Vangelo, la Chiesa, ci ha detto Papa Benedetto – e ci ripete Papa Francesco (Evangelii Gaudium, 14), “non cresce per proselitismo, ma per attrazione”. Ma perché possiamo diventare capaci di attrarre gli altri è fondamentale essere stati con il Signore: essere andati ed aver visto. Gesù continua anche oggi a passare per le nostre strade e a ripetere: “Venite e vedrete”. Continua a chiamare. Ci invita ad andare a vedere nella fede la mensa domenicale, a mangiare il pane della Parola insieme con i fratelli, a divenire suoi commensali al banchetto del Suo Corpo e del Suo Sangue. Ci invita a pregustare il cielo, dove Egli è ora, alla destra del Padre per intercedere per noi, nella gloria del Padre, gloria alla quale siamo stati predestinati, per essere per sempre uno con lui. Questa esperienza di comunione fraterna, questa contemplazione gloriosa, può dare senso alla nostra vita quotidiana, può riempirla di gioiosa speranza e farci veramente cristiani, farci appartenere davvero a Cristo Gesù, così da contagiare chi ci sta accanto e da suscitare in loro una santa invidia. “Abbiamo trovato il Messia”, abbiamo trovato Dio, il Cielo.

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Nella Chiesa e nel mondo



Rimpatriati dal Niger i nigeriani in fuga da Boko Haram

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L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) esprime forte preoccupazione per i rimpatri dal Niger alla Nigeria di centinaia di rifugiati, rimpatri avvenuti il 14 gennaio nel contesto di un'operazione congiunta organizzata dal Governatore dello Stato di Borno in Nigeria e dalle autorità in Niger. Secondo le informazioni ricevute dall’Unhcr, i rifugiati sono stati trasportati in 9 autobus a Maiduguri, la capitale dello Stato di Borno in Nigeria. Considerate le condizioni di insicurezza presenti nello Stato di Borno e i recenti attacchi dei ribelli, l'Unhcr esprime preoccupazione per la natura di questi ritorni e ha chiesto alle autorità di fermare l'operazione fino a quando non vi saranno garanzie adeguate e un accordo giuridico condiviso tra Nigeria, Niger e Unhcr.

Storie strazianti di morte e distruzione
I rifugiati in fuga dal brutale conflitto nel nord-est della Nigeria continuano ad arrivare in Niger e Ciad, raccontando storie strazianti di morte e distruzione. I team dell’Unhcr hanno riferito che i rifugiati hanno raccontato l'estrema violenza che hanno subito o di cui sono stati testimoni durante gli attacchi contro la città di Baga il 3 e il 7 gennaio. Una donna, che è scappata da Baga con i suoi cinque figli e il marito, ha detto di aver visto i ribelli che correvano con le proprie auto sopra donne e bambini, che sparavano alle persone e che usavano i coltelli per tagliare la gola delle persone in strada. Si stima che a Baga ci siano stati centinaia di morti.

In fuga sul lago Ciad
Complessivamente, circa 13.000 rifugiati nigeriani sono arrivati in Ciad occidentale dall’inizio di questo mese, quando sono iniziati gli attacchi a Baga. Fino a questo momento l’Unhcr e la Commissione governativa nazionale per l’accoglienza e il reinserimento di rifugiati e rimpatriati (Cnarr) hanno registrato oltre 6.000 rifugiati. Ogni giorno continuano ad arrivare decine di rifugiati, molti dei quali in canoa sul Lago Ciad in direzione di aree come Ngouboua e Bagasola, circa 450 chilometri a nord-ovest della capitale ciadiana N'Djamena. Considerato anche l'ultimo afflusso, sono circa 16.000 i rifugiati nigeriani che sono arrivati in Ciad dal maggio 2013. 

153mila i nigeriani fuggiti nei Paesi limitrofi
Da quando nel maggio 2013 è stato dichiarato lo stato di emergenza negli Stati di Adamawa, Borno e Yobe nel nord-est della Nigeria, si stima che 153.000 persone siano fuggite nei paesi limitrofi. Ad oggi, l'Unhcr ha registrato oltre 37.000 rifugiati nigeriani in Camerun, circa 16.000 persone sono arrivate in Ciad, e le autorità in Niger stimano che più di 100.000 persone - sia rifugiati nigeriani e che cittadini del Niger – siano arrivate dal nord-est della Nigeria devastato dalla guerra. Nel solo 2015, la violenza ha provocato l’esodo di 19.000 persone. (R.P.)

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Malawi: muore in un incidente mons. Mukasa Zuza

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Mons. Joseph Mukasa Zuza, vescovo della Diocesi di Mzuzu (Malawi) e presidente della Conferenza episcopale del Malawi, è tragicamente morto in un incidente d'auto il 15 gennaio. Aveva 59 anni. A dare la notizia in un comunicato stampa inviato all'agenzia Fides, il segretario per le comunicazioni della Conferenza episcopale, padre Andrew Kaufa, che ha confermato la morte di mons. Mukasa Zuza.

Pastore impegnato nel sociale
Era un pastore molto attento alle questioni sociali. In un colloquio con Fides, nel corso dell'ultima visita ad limina nel novembre scorso, mons. Mukasa Zuza aveva segnalato che "in Malawi la gente muore per la mancanza di medicine e di assistenza sanitaria, perché non ci sono fondi sufficienti da destinare alla sanità”. Il presule ricordava che questa è una delle conseguenze più terribili del cosiddetto “cashgate”, lo scandalo che ha travolto buona parte dell’amministrazione statale e della politica del Malawi, provocato dalla malversazione dei fondi donati dalla comunità internazionale (in particolare dall’Unione Europea) che coprivano il 40% del bilancio statale.

Conseguenze del cashgate sul settore sanitario
“A causa del cashgate – spiegò il vescovo a Fides - i partner internazionali hanno bloccato l’invio di ulteriori fondi, fino a quando non saranno sicuri che il denaro da loro versato sia utilizzato per i fini ai quali è destinato. Il settore più colpito dalla mancanza degli aiuti dei nostri donatori è quello sanitario. Alcuni farmaci diventano sempre più costosi e non ci sono risorse per acquistarli. Ci sono persone che muoiono per la mancanza di cure adeguate”. In questa fase difficile, disse "la Chiesa fa quello che può per aiutare i più bisognosi, ma non possiamo far fronte a tutte le necessità, visto che lo Stato stesso non è in grado di farlo”. (R.P.)

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Egitto-Etiopia: mediazione del patriarca Mathias su diga etiope

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Si è conclusa ieri la visita compiuta in Egitto da Abuna Mathias I, patriarca della Chiesa ortodossa d'Etiopia. Nei sei giorni di permanenza in Egitto, il primate della Chiesa etiope – che era stato invitato dal patriarca copto ortodosso Tawadros II – è stato ricevuto anche dal Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e dal Grande Imam di al-Azhar Ahmed al Tayyeb, a conferma della valenza non solo ecclesiale della visita patriarcale.

La controversa diga etiopica sul Nilo
Durante i colloqui col Presidente e con altre autorità politiche - riporta l'agenzia Fides - Abuna Mathias ha potuto discutere coi suoi interlocutori anche del futuro della Diga della Grande Rinascita, l'imponente opera idraulica sul Nilo iniziata dall'Etiopia e contestata dall'Egitto. Nella conferenza stampa tenuta a conclusione della visita, Abuna Mathias ha invitato gli esperti e i politici a “fare il loro lavoro” sulla questione controversa, confidando nella possibilità di trovare soluzioni condivise attraverso il dialogo. Nell'incontro avuto con il Patriarca etiope lunedì scorso, anche il Presidente al-Sisi aveva richiamato la necessità di trovare soluzioni politiche per preservare i diritti di entrambi i Paesi nell'utilizzo delle risorse idriche del Nilo.

Mediazione ecclesiale per sciogliere le tensioni
La visita del patriarca della Chiesa ortodossa d'Etiopia Mathias realizza il progetto – da tempo caldeggiato da più parti - di una “mediazione ecclesiale” per contribuire a sciogliere le tensioni tra Egitto e Etiopia sulla questione della diga. Una visita in Egitto del patriarca d'Etiopia, già programmata nel giugno 2013 (quando il governo egiziano era controllato dai Fratelli Musulmani) era stata annullata all'ultimo momento. Gli egiziani temono che il progetto etiope della grande diga possa avere impatto negativo sul volume delle acque del Nilo finora a disposizione dell'economia e dei bisogni primari della popolazione.

Sviluppi ecumenici 
La visita del patriarca Mathias ha avuto anche risvolti ecclesiali di rilievo, segnando un passo importante nel superamento di passati contrasti tra le due Chiese. La Chiesa ortodossa d'Etiopia è stata vincolata giurisdizionalmente al patriarcato copto di Alessandria d'Egitto fino al 1959, anno in cui è stata riconosciuta come Chiesa autocefala dal patriarca copto Cirillo VI. “Il patriarca Tawadros” riferisce all'agenzia Fides Anba Antonios Aziz Mina, vescovo copto cattolico di Guizeh “ha raccontato di essere rimasto felicemente colpito dalle parole di unità e comunione ascoltate dalle labbra di Abuna Matthias. Il patriarca etiope ha ripreso le parole di Gesù secondo cui l'uomo non può separare ciò che Dio ha unito, solitamente riferite al matrimonio, e le ha applicate ai rapporti tra le due Chiese, riaffermando così la piena unità tra la Chiesa ortodossa d'Etiopia e la Chiesa copta”. (G.V.)

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Usa: al via Novena di preghiera per la vita

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#9DaysforLife: questo l’hashtag lanciato dal Segretariato per la Vita della Conferenza episcopale statunitense in vista della “Novena di preghiera, pentimento e pellegrinaggio” che avrà luogo da oggi al 25 gennaio. L’iniziativa si tiene ogni anno in preparazione alla Giornata per la Vita nascente, che si celebra il 22 gennaio, nell’anniversario della sentenza della Corte Suprema che, nel 1973, legalizzò l’aborto. 

9 motivi per aderire all’iniziativa
Porre fine all’aborto, spiega il Segretario, non è l’unico obiettivo dell’iniziativa: si vuole anche “pregare per la vita in tutti i suoi stadi, come i bambini che necessitano di adozione, i nascituri abortiti, le persone in fin di vita”. Se, dunque, nove sono i giorni di preghiera, nove sono anche i motivi per i quali si deve aderire all’evento, sottolineano i vescovi statunitensi: innanzitutto, “è importante” non solo contro l’aborto, ma anche perché “un sempre crescente numero di Stati sta pensando di legalizzare il suicidio medicalmente assistito” e “uomini, donne, bambini sofferenti hanno bisogno delle nostre preghiere”.

App, sms, mailing list per non dimenticare
Poi, la Novena è “una tradizione di lunga data” che dimostra “la perseveranza dei cattolici che ogni giorno dedicano il loro tempo alla preghiera con Dio”. E ancora: grazie alle nuove tecnologie, sarà impossibile dimenticarsi dell’evento, dato che quest’anno la Novena può essere seguita tramite app, sms quotidiani e mailing list che ogni giorno suggeriscono spunti di riflessione e preghiere adatte all’occasione. Un altro motivo per aderire all’iniziativa, continua il Segretario, è il fatto che essa “risveglia l’attenzione”: “Il mondo sa che così tante persone danno valore e rispettano ogni vita umana dal concepimento e fino alla morte naturale?”, domanda la Chiesa di Washington.

Pregare insieme, in unità e solidarietà
Inoltre, #9DaysforLife è simbolo di “unità”, perché pregare insieme indica “l’universalità della Chiesa cattolica” e “la solidarietà nei confronti dei sofferenti”. Si tratta anche di vivere un’esperienza “spiritualmente arricchente”, sottolinea ancora il Segretariato, che insegna a “valorizzare tutta la vita umana”. Infine, gli ultimi due motivi ricordano che la Novena “spinge all’azione”, affinché la tutela della vita non si fermi mai, e che “offrire le nostre preghiere a Dio significa aprire i nostri cuori al Suo amore ed alla Sua grazia”. (I.P.)

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Francia. 25 gennaio: Marcia per la vita. Il sostegno del Papa

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Lavorare per costruire una civiltà dell’amore e una cultura della vita: questo il cuore del messaggio che Papa Francesco ha inviato agli organizzatori dell’annuale Marcia per la vita, in programma a Parigi domenica 25 gennaio. Il messaggio pontificio è stato affidato al nunzio apostolico nel Paese, mons. Luigi Ventura, il quale scrive: “Papa Francesco saluta cordialmente i partecipanti alla manifestazione”.

Costruire una cultura della vita
Quindi, facendo rifermento al discorso rivolto ai membri dell’Associazione dei medici cattolici italiani, ricevuti in udienza il 17 novembre scorso, il Pontefice ricorda che “la vita umana è sempre sacra, valida ed inviolabile, e come tale va amata, difesa e curata”. Quindi, prosegue mons. Ventura, “al di là di una legittima manifestazione in favore della vita umana, il Santo Padre incoraggia i partecipanti alla Marcia per la vita ad operare senza sosta per l’edificazione di una civiltà dell’amore e di una cultura della vita”.

No ad aborto ed eutanasia
“La Marcia per la vita – si legge sul sito web dell’iniziativa, www.enmarchepourlavie.fr – è l’occasione, per i cittadini, di manifestare la loro opposizione allo squilibrio bioetico iniziato con la legge sull’aborto e di ricordare che il principio del rispetto della vita umana fonda la nostra civiltà”. “Nel 2015 – proseguono gli organizzatori della Marcia – una minaccia in particolare grava sulle persone anziane, malate, disabili: la proposta di un progetto di legge per legalizzare l’eutanasia”. Di qui, l’invito a partecipare tutti all’evento, che avrà inizio alle 13.30, in piazza della Bastiglia. (I.P.)
 

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 17

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.