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Sommario del 21/01/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Attacchi ai cristiani in Niger. Papa: no a guerra in nome di Dio

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“Non si può fare la guerra in nome di Dio”. A conclusione della udienza generale, Papa Francesco ha espresso la sua accorata vicinanza al dramma dei cristiani in Niger, colpiti dalle violenze compiute da estremisti islamici in seguito alla nuove vignette su Maometto pubblicate dal giornale satirico francese Charlie Hebdo. Il servizio di Giancarlo La Vella

Papa Francesco guarda alle sofferenze, troppo spesso dimenticate, dei suoi fratelli più lontani e il dolore dei cristiani in Niger viene messo in evidenza nelle invocazioni del Pontefice, che pone nuovamente l’accento su temi – le persecuzioni dei cristiani, la libertà religiosa, la riconciliazione – già affrontati nel recente viaggio apostolico in Sri Lanka e Filippine. Nel suo saluto ai pellegrini di lingua araba il Santo Padre ha subito rivolto il suo pensiero a tutti i cristiani perseguitati nel mondo. Poi l’invito ai fedeli a pregare insieme per le vittime delle manifestazioni avvenute in questi ultimi giorni nell’”amato Niger", sfociate in inspiegabili atti di violenza anticristiana:

“Sono state fatte brutalità verso i cristiani, i bambini e le chiese. Invochiamo dal Signore il dono della riconciliazione e della pace, perché mai il sentimento religioso diventi occasione di violenza, di sopraffazione e di distruzione. Non si può fare la guerra in nome di Dio!”.

Quindi l’invocazione di Francesco a Maria, affinché il bene prezioso della pace torni in Niger:

“Auspico che quanto prima si possa ristabilire un clima di rispetto reciproco e di pacifica convivenza per il bene di tutti”.

L’invocazione giunge dopo giorni di sanguinosi attacchi avvenuti durante le manifestazioni di protesta islamiche contro le nuove vignette su Maometto di Charlie Hebdo. Dieci i morti, decine i feriti, 45 chiese cristiane letteralmente distrutte costituiscono il bilancio di una violenta follia che non accenna a fermarsi e i cui effetti sono stati evidenziati ai nostri microfoni dall’arcivescovo di Niamey, mons. Michel Cartatéguy:

“Nous sommes, nous communauté chrétienne, encore sous le choc. …
Noi, come comunità cristiana, siamo sotto shock. Tutte le nostre chiese sono state completamente saccheggiate, profanate. Tutto è bruciato. Forse ci stiamo accingendo a  vivere l’agonia di Gesù sulla nostra carne. Abbiamo avuto forti testimonianze di solidarietà da parte della comunità musulmana”.

Ma come far fruttificare oggi quei semi di fratellanza e condivisione, purtroppo ora nascosti, ma che evidentemente sono presenti anche in Niger? Sentiamo padre Giulio Albanese, missionario comboniano, direttore delle riviste delle Pontificie Opere Missionarie:

“Io credo che il ruolo delle Chiese cristiane sia fondamentale in questo frangente. Si tratta davvero di fare tesoro di quello che dice la Dottrina Sociale, capire e comprendere con il cuore e con la mente che il dialogo è fondamentale e soprattutto la moderazione, anche perché lo scontro delle civiltà, lo scontro tra le religioni porta inevitabilmente morte e distruzione. Bisogna sicuramente evitare di gettare benzina sul fuoco. Il dialogo, da questo punto di vista, è fondamentale, se non altro perché riesce a far germinare quei semi di speranza che, comunque, in una maniera o nell’altra, sono presenti nel tessuto dell’intero popolo nigerino”.

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Papa: famiglie numerose danno speranza, cultura scarto crea povertà

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Ha ripercorso il suo viaggio in Asia, “continente di ricche tradizioni culturali e spirituali”, Papa Francesco all’udienza generale di oggi, in Aula Paolo VI. Ed è tornato sui temi già toccati in Sri Lanka e nelle Filippine, di fronte a folle a tratti “oceaniche” il cui ricordo - ha detto - conserverà “sempre nel cuore”: dal ruolo delle famiglie nella società al dialogo per la pace, ricordando anche la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Il servizio di Giada Aquilino

Famiglie numerose danno consolazione
Le famiglie sane sono “essenziali” alla vita della società. E’ tornato su uno dei temi principali del suo recentissimo viaggio in Asia Papa Francesco, ricordando la tappa nelle Filippine:

“Dà consolazione e speranza vedere tante famiglie numerose che accolgono i figli come un vero dono di Dio. Loro sanno che ogni figlio è una benedizione Ho sentito dire da alcuni che le famiglie con molti figli e la nascita di tanti bambini sono tra le cause della povertà”.

Povertà causata da cultura dello scarto
Questa, ha affermato il Pontefice, appare “un’opinione semplicistica”:

“Posso dire, possiamo dire tutti, che la causa principale della povertà è un sistema economico che ha tolto la persona dal centro e vi ha posto il dio denaro; un sistema economico che esclude, esclude sempre: esclude i bambini, gli anziani, i giovani, senza lavoro … - e che crea la cultura dello scarto che viviamo. Ci siamo abituati a vedere persone scartate. Questo è il motivo principale della povertà, non le famiglie numerose”.

Famiglie minacciate da colonizzazioni ideologiche
Occorre dunque proteggere le famiglie, “che affrontano diverse minacce”, ha ricordato il Pontefice, affinché esse “possano testimoniare la bellezza della famiglia nel progetto di Dio”:

“Occorre anche difendere le famiglie dalle nuove colonizzazioni ideologiche, che attentano alla sua identità e alla sua missione”.

La corruzione ruba ai poveri
Ai giovani, poi, il Papa ha affidato il “rinnovamento della società”, specialmente attraverso il servizio ai poveri e la tutela ambientale; la cura dei poveri - ha detto in particolare - “è un elemento essenziale” della nostra vita e della nostra testimonianza cristiana: comporta “il rifiuto di ogni forma di corruzione” che ruba ai poveri e richiede “una cultura di onestà”.

Solidarietà per vittime tifone 
Quindi il pensiero al “motivo principale” della visita nelle Filippine: esprimere la propria vicinanza alle vittime della “devastazione del tifone Yolanda” e ringraziare chi, “da ogni parte del mondo” in quei “giorni bui”, ha risposto con “una generosa profusione di aiuti”. A Tacloban, nella regione più gravemente colpita, ha reso omaggio “alla fede e alla capacità di ripresa della popolazione locale” di fronte alle avverse condizioni climatiche che proprio lì, in quelle ore, hanno causato un’altra vittima innocente: la giovane volontaria Kristel, travolta e uccisa da una struttura spazzata dal vento.

Annuncio del Vangelo e rispetto verso gli altri
Dello Sri Lanka il Santo Padre ha voluto ricordare la canonizzazione del grande missionario Giuseppe Vaz. Il cui “esempio di santità e amore al prossimo” può essere preso a “modello per tutti i cristiani, chiamati oggi a proporre la verità salvifica del Vangelo in un contesto multireligioso”, con rispetto verso gli altri, con perseveranza e con umiltà. Soprattutto dopo un lungo e drammatico conflitto civile, come quello che ha sconvolto il Paese asiatico fino al 2009, ricordato pure nelle preghiere al santuario mariano di Nostra Signora di Madhu:

“Ho sottolineato l’importanza del dialogo, del rispetto per la dignità umana, dello sforzo di coinvolgere tutti per trovare soluzioni adeguate in ordine alla riconciliazione e al bene comune”.

Cooperazione tra le religioni
E le diverse religioni hanno un ruolo significativo da svolgere al riguardo:

“In tale contesto ho voluto incoraggiare la cooperazione già intrapresa tra i seguaci delle differenti tradizioni religiose, anche al fine di poter risanare col balsamo del perdono quanti ancora sono afflitti dalle sofferenze degli ultimi anni”.

Unità dei cristiani: approfondire dialogo
Nei saluti nelle varie lingue, poi, il Pontefice ha ricordato la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, in corso fino a domenica prossima, ispirata quest’anno alla richiesta che Gesù fece alla Samaritana, “Dammi da bere”:

“La contemplazione di questa scena evangelica sia per voi un’occasione per poter conoscere ancora meglio la tradizione delle chiese sorelle, per approfondire il dialogo, la preghiera comune e la piena unità dei testimoni di Cristo”.

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Presentati al Papa gli agnelli nella festa liturgica di Sant’Agnese

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Prima dell’udienza generale, nell’atrio di Casa Santa Marta, sono stati presentati al Papa due agnelli benedetti in mattinata nell’omonima Basilica sulla via Nomentana, in occasione della memoria liturgica di Sant’Agnese.

La lana di questi agnelli sarà utilizzata per confezionare i pallii dei nuovi arcivescovi metropoliti. Il pallio è un’insegna liturgica d’onore e di giurisdizione che viene indossata dal Papa e dagli arcivescovi metropoliti nelle loro Chiese e in quelle delle loro Province. Il pallio è costituito da una stretta fascia di stoffa, tessuta in lana bianca, decorata da sei croci in seta nera. Il rito dell’imposizione dei pallii ai metropoliti è compiuto dal Papa il 29 giugno, nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo.

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Mons. Scicluna presidente Collegio ricorsi sui delitti più gravi

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Sono stati nominati i membri dello speciale Collegio istituito nel novembre scorso da Papa Francesco all'interno della Congregazione per la Dottrina della Fede per garantire un più rapido esame dei ricorsi relativi ai delitti riservati alla competenza del dicastero. Si tratta dei delitti contro la fede e dei delitti più gravi commessi nella celebrazione dei sacramenti o contro la morale, tra cui l’abuso di minore da parte di un esponente del clero.

Presidente del Collegio è Mons. Charles J. Scicluna, Vescovo tit. di San Leone, Ausiliare di Malta.

Questi i membri: il Cardinale Zenon Grocholewski, Prefetto della Congregazione per l'Educazione Cattolica; il cardinale Attilio Nicora, Legato Pontificio per le Basiliche di San Francesco e di Santa Maria degli Angeli in Assisi, Presidente emerito dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica e dell'Autorità di Informazione Finanziaria; il Cardinale Francesco Coccopalmerio, Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi; il Cardinale Giuseppe Versaldi, Presidente della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede; Mons. José Luis Mollaghan, Arcivescovo emerito di Rosario; Mons. Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru, Vescovo tit. di Civitate, Segretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi.

Membri supplenti sono: il Cardinale Julián Herranz, Presidente emerito del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi; Mons. Giorgio Corbellini, Vescovo tit. di Abula, Presidente dell'Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica e della Commissione Disciplinare della Curia Romana. 

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Nomina episcopale negli Stati Uniti

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Il Santo Padre ha nominato Vescovo Ausiliare di Austin (U.S.A.) il Rev.do Daniel E. Garcia, del clero della medesima diocesi, Vicario Generale e Moderatore della Curia, assegnandogli la sede titolare vescovile di Capso. Il Rev.do Daniel Elias Garcia è nato il 30 agosto 1960 a Cameron (Texas), nella diocesi di Austin. Dopo aver frequentato la C.H. Yoe High School a Cameron e il Tyler Junior College a Tyler, ha ottenuto il Baccalaureato in Filosofia (1984) e il Master of Divinity (1988) presso la University of Saint Thomas a Houston (Texas). Successivamente ha ottenuto il Masters in Liturgical Studies presso la Saint John’s University a Collegeville (Minnesota) (2007).

È stato ordinato sacerdote per la diocesi di Austin il 28 maggio 1988. Dopo l’ordinazione sacerdotale, ha ricoperto i seguenti incarichi: Vicario Parrocchiale della Saint Catherine of Siena Parish (1988-1990), della Cristo Rey Parish (1990-1991) e della Saint Louis Parish (1991-1992) sempre ad Austin, e della Saint Mary Magdalene Parish a Humble (1992-1995); Parroco della Saint Vincent de Paul Parish ad Austin (1995-2014); Decano della Austin North Deanery (2007-2014). Attualmente è Membro del Consiglio Presbiterale (dal 2003), Consultore diocesano (dal 2007), Membro del Priests’ Personnel Board (dal 2011), Vicario Generale e Moderatore della Curia (dal 2014). Oltre all’inglese, conosce lo spagnolo.

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Di Ruzza direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria

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Il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin ha nominato direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria il dott. Tommaso Di Ruzza, finora vice-direttore ad interim della medesima Autorità di Informazione Finanziaria.

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Card. Filoni in Vietnam: si rafforza il dialogo con la Santa Sede

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Il card. Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, è in visita pastorale in Vietnam. Dopo aver accompagnato Papa Francesco nel suo viaggio apostolico nello Sri Lanka e nelle Filippine, il porporato si è recato nel Paese asiatico per il 400° anniversario dell’evangelizzazione e sta avendo diversi incontri con tutte le realtà della chiesa locale che rappresenta quasi il 10% della popolazione. Una chiesa viva, nonostante le limitazioni che continua a subire. Accompagnato dal presidente della Conferenza episcopale vietnamita, dal rappresentante pontificio Mons. Girelli e dall’arcivescovo di Hanoi, il card. Filoni ha incontrato nella capitale le massime autorità del Vietnam tra cui il Primo ministro. Al microfono di Roberto Piermarini l’impressione del porporato sulla Chiesa locale e gli incontri con le autorità vietnamite: 

R. - È una chiesa vivissima. Ho già incontrato - qui ad Hanoi e poi anche questa mattina in una parrocchia nella diocesi di Hung Hoa - una chiesa estremamente bella, vivace, molto affettuosa, molto entusiasta. Oggi in questa parrocchia ho battezzato oltre 200 cristiani  - adulti – oltre a bambini, mamme e papà. Si tratta di persone che sono per lo più tribali, i "montagnari" (al confine con Laos e Cina), cioè quelli che abitano nelle comunità della montagna. È stata una cerimonia molto bella, perché dopo il Battesimo hanno ricevuto anche la Cresima e la Comunione. Poi c’è stata una grande festa da parte di tutta la comunità per accogliere questi fratelli e queste sorelle che ora si uniscono a questa  chiesa locale. Dunque, elementi questi molto sintetici per spiegare la bellezza, la vivacità di questa chiesa e tutta la disponibilità di portare avanti con Papa Francesco l’impegno missionario.

D. - Come  è stato accolto dalle autorità vietnamite? Questa sua visita può essere un ulteriore passo in avanti nei rapporti tra Vietnam e Santa Sede?

R. - Penso e spero di sì. Con gradita sorpresa da parte mia, sono stato prima ricevuto dall’Ufficio governativo degli affari religiosi, quindi dal direttore e dai suoi collaboratori, con i quali ho avuto un’ora di incontro e poi tre quarti d’ora di incontro - poco più tardi - con il primo ministro del Vietnam, una persona gradevolissima, che ha già incontrato il Santo Padre e quindi ha ricordato l’incontro con Papa Francesco.  Mi è sembrato di trovare molta apertura, molta disponibilità a portare avanti quel dialogo che è iniziato e che progressivamente può fare dei passi in avanti. Poi, questo pomeriggio, oltre tre quarti d’ora di colloquio con il Segretario del Partito comunista di Hanoi che è anche membro del Comitato centrale del partito comunista del Vietnam. Con lui abbiamo avuto uno scambio, un colloquio, un dialogo, molto piacevole, gradevole e anche di stima verso il popolo vietnamita, di impegno da parte dei cattolici. Ho ribadito che il dialogo è l’elemento fondamentale per la comprensione reciproca, ma che alla base del dialogo ci deve essere stima. E la stima che la Santa Sede ha per il popolo del Vietnam si traduce anche in amore, quindi non è solo un aspetto puramente formale di stima, ma che scende nel profondo e diventa affetto, amore. La Chiesa ha un profondo affetto, un profondo amore per il popolo vietnamita, in particolare per la sua comunità cristiana. Dunque mi è sembrato di cogliere elementi postivi che rafforzano quel dialogo che già c’è e che speriamo, naturalmente, possa ancora progredire. Questa mi è sembrata la linea.  Al mio colloquio erano presenti il presidente della Conferenza episcopale, il Rappresentante pontificio mons. Girelli, l’arcivescovo di Hanoi: tutti abbiamo avuto questa sorpresa e  piacevole impressione di una relazione che certamente può ancora crescere.

D. - Lei è stato al seguito del Papa nel viaggio recente in Sri Lanka e Filippine dove, tra l’altro, lei è stato anche nunzio. Che impressione ha avuto di questa visita papale?

R. - Personalmente devo dire che ho iniziato il mio servizio diplomatico proprio in Sri Lanka  e poi l’ho concluso nelle Filippine. Dunque per me è stato quasi un ripercorrere un po’ tutto il mio servizio alla Chiesa attraverso questo particolare e specialissimo servizio diplomatico. Naturalmente, questo è avvenuto anche con due speciali circostanze: essere al seguito del Papa, quindi avere proprio la percezione diretta del carisma che il Papa riesce a manifestare e che la gente riesce ad avere rispetto al Santo Padre sia in Sri Lanka, dove non mi aspettavo - trattandosi di un Paese dove la maggioranza e buddista e dove i cristiani sono poco meno dell’8% – la presenza di una folla immensa che ha preso parte alla canonizzazione del beato Joseph Vaz - oggi santo - che io già conoscevo; è stato veramente un grandissimo missionario. Credo che la chiesa in Sri Lanka deve a lui non solo la salvezza, ma anche l’ispirazione per portare avanti l’annuncio della fede. E questo per me è stata una grazia particolare, perché vedere che l’allora venerabile Joseph Vaz oggi è santo, mi ha dato un’enorme soddisfazione. Quindi una risposta straordinaria da parte della popolazione perché credo che non c’erano solo i cattolici; c’erano 400-500mila persone. Veramente, non mi aspettavo una presenza così vivace, così forte. Poi nelle Filippine, dove un oceano immenso di persone si sono volute stringere attorno al Papa per manifestare affetto, la loro profonda gioia nonostante le grandi sofferenze che questo popolo deve avere,  passando ogni anno attraverso decine di tifoni distruttivi che  creano tanta sofferenza. Poi la Messa della domenica, dove  nonostante la pioggia continua, con una straordinaria presenza di compostezza, la popolazione ha partecipato a questa conclusione del viaggio del Papa nelle Filippine. Poi ci sono stati tanti momenti straordinariamente toccanti come quello con i giovani, quello con i bambini, con gli ammalati … Devo dire che la mia  presenza in questi luoghi in una circostanza come questa mi ha anche arricchito profondamente e spiritualmente di tutti questi doni che ho avuto e di tutte queste bellissime impressioni che ho riportato.

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La Biblioteca Apostolica Vaticana in dialogo con la Cina

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Il dialogo tra Santa Sede e Cina percorre anche le strade della cultura. Saranno presentati domani a Roma, presso la Biblioteca Casanatense, i primi 44 volumi della "Collezione delle opere storiche e letterarie cinesi di epoca Ming ( 1368 - 1644) e Qing (1644 - 1911) contenute nella Biblioteca Apostolica Vaticana". Il progetto complessivo prevede la pubblicazione, in forma anastatica, di 44 volumi, ed è nato grazie alla collaborazione fra l'Università di lingue straniere di Pechino e la Biblioteca Vaticana, con l'ausilio dell'Università La Sapienza e dell'Istituto Confucio di Roma. Il prefetto della Vaticana, mons. Cesare Pasini, ne descrive la genesi al microfono di Fabio Colagrande: 

R. – Le prime intese sono iniziate nel 2008 e poi dopo siamo partiti a fare le fotografie dei volumi, cioè a digitalizzarli. Adesso con un editore che ha il nome curioso di Elephant Press, dalla Cina, si sta arrivando finalmente a questa edizione anastatica di 44 volumi, con questi 170 titoli.

D. – Allora questo progetto in cosa è consistito? Realizzare delle copie di questi pezzi?

R. – Certo. Prima è consistito nell’andare alla ricerca dei pezzi adeguati, perché la Biblioteca Apostolica Vaticana ha 3000 opere a stampa o manoscritte che vengono dalla Cina. Si dovevano scegliere, però, quelle che fossero utili al progetto, soprattutto quei volumi per i quali non ci fossero copie in Cina o copie migliori in altre parti del mondo, volumi cioè che, essendo unici, necessitassero di essere riprodotti per poterli studiare anche nella ripresa, che adesso si sta facendo di tutta la storia precedente della Cina.

D. – Il fatto che nella Biblioteca Vaticana ci siano così tanti pezzi che riguardano la cultura cinese è una prova dell’apertura universalistica, che questa istituzione ha avuto fin dalla sua fondazione nel 1400…

R. – Sì, quell’apertura, che è partita ovviamente con il latino e il greco e poi è arrivata all’ebraico e alle altre lingue, già nel ‘500 si apriva anche al cinese. Pensiamo, fra l’altro, a tutti i missionari – Ricci e tanti, tanti altri – che andando in Cina prendevano opere o traducevano opere letterarie o scientifiche della Cina e, a loro volta, producevano in lingua cinese per la catechesi, ma anche per l’informazione che portavano in Cina di tutte le conquiste occidentali. Sono opere che indicano questo dialogo, questa mutua conoscenza tra gli uni e gli altri.

D. – Fra i libri di provenienza cinese, quelli di maggiore interesse – come accennava – quelli più studiati sono proprio le opere dei missionari: gesuiti, francescani, dominicani…

R. – Esatto. Pensi che ho davanti a me la riproduzione di un foglio di un volume a stampa del 1674 di un gesuita, Ferdinand Verbiest, e si vede in questa doppia pagina l’immagine del tetto dell’Osservatorio imperiale di Pechino, perché fu attrezzato proprio da questo gesuita e poi ne fu fatta una raffigurazione per vedere le strumentazioni astronomiche.

D. – Possiamo dire che i volumi pubblicati in Cina e in Europa furono in quell’epoca uno strumento essenziale per la comunicazione tra Oriente ed Occidente?

R. – Sì, certo, e proprio per una conoscenza reciproca ai più svariati livelli: teologico, filosofico, ma anche scientifico e di conoscenza letteraria. Quindi è un dialogo fra culture, fra popoli. In genere i missionari sono capaci di questo, da cui poi nasce tutto quell’aspetto positivo di conoscenza che costruisce percorsi buoni.

D. – Ecco, quindi, voi pensate che questa opera di digitalizzazione di gran parte del materiale della Vaticana e la pubblicazione poi su carta - quest’opera che dovrebbe contare poi alla fine quattro serie di volumi con 700 titoli - sia in qualche modo la continuazione di questa comunicazione tra Oriente ed Occidente…

R. – Certo, la modalità con cui si fanno questi contatti si evolve, cambia, con i secoli e con le strumentazioni che abbiamo, ma lo spirito è ancora quello. Spesso mi viene da dire: la cultura conosce le vie del dialogo e qui siamo ancora a fare questa intesa reciproca per aiutare a conoscerci meglio.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Nessuna guerra in nome di Dio: all’udienza generale l’appello del Papa per la fine delle violenze in Niger.

Un ordine arrivato dall’alto: Grazia Loparco sui monasteri romani aperti agli ebrei ricercati dai nazisti durante l’occupazione.

Libri che non hanno bisogno di viaggiare: Ambrogio M. Piazzoni illustra un progetto nato dalla collaborazione tra Pechino e la Biblioteca vaticana.

Algebra, fede e matematica: José G. Funes ricorda il gesuita Andy Whitman.

Più spaventoso di un film dell’orrore: Gaetano Vallini sulla Shoah raccontata da Alfred Hitchcock in un documentario che nessuno aveva mai visto.

La storia di Teju: Claudio Toscani su splendori e miserie della Nigeria contemporanea.

Dall’incontro alla riconciliazione: Hyacinthe Destivelle sulle relazioni con le Chiese ortodosse nell’Europa centro-orientale.

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Oggi in Primo Piano



Malaysia: confermato divieto a cristiani di usare la parola Allah

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La Corte federale malese, confermando una precedente sentenza, ha negato al giornale cattolico Herald la possibilità di utilizzare la parola “Allah” per indicare Dio. La controversia va avanti dal 2007 ed è diventata emblematica nell’ambito dell’impegno per la libertà religiosa in Malaysia. Soddisfati i gruppi integralisti musulmani mentre c’è delusione nella comunità cristiana che ora teme anche per distribuzione dei testi sacri, come testimonia un recente sequestro di oltre 300 Bibbie. Marco Guerra ha intervistato il direttore di Asia News, padre Bernardo Cervellera: 

R. – Questa cosa era abbastanza prevista perché ci sono stati in passato tantissimi tentennamenti sia della Corte, sia della polizia, sia del governo, su questo uso della parola “Allah” per il giornale cattolico. Il problema è che adesso hanno cominciato anche a bloccare Bibbie e bloccare libri religiosi che contengono la parola “Allah” perché secondo le autorità malaysiane non si può usare la parola “Allah” nei libri cristiani. Invece, la parola “Allah” era usata dai cristiani malaysiani molto prima che arrivasse l’islam sia in Medio Oriente che in Malaysia.

D.  – C’è ancora spazio per un’azione legale o questa è l’ultima parola?

R.  – Temo di no. I cristiani e i cattolici, ormai, sono impossibilitati e anzi vista la situazione di tensione che c’è nel mondo islamico dopo la pubblicazione delle vignette su Maometto e anche questa tensione verso il terrorismo, naturalmente, questa sentenza alimenta il timore del governo di andare contro la comunità musulmana per non creare ancora più ire e ancora più violenze. E anche da parte della comunità cristiana ci tocca accettare questa sentenza sebbene sia di una profonda ingiustizia e di una profonda ignoranza dal punto di vista storico, però per la pace nella penisola malaysiana  bisogna continuare così.

D.  – Ci sono state reazioni da parte della comunità cristiana e da parte della Chiesa cattolica?

R. – Il direttore del giornale che adesso non potrà più usare la parola “Allah”, padre Lawrence Andrew, ha detto: “Siamo molto dispiaciuti e molto contrariati da questa cosa ma dobbiamo rispettare quanto dice questa sentenza. Speriamo che almeno ci rimanga la libertà di professare la nostra fede e che non ci siano violenze verso le minoranze”. Bisogna tener conto che negli anni scorsi proprio a causa di sentenze che sembravano facilitare l’uso della parola “Allah” ci sono stati attacchi a chiese, a cristiani. Quindi ci sono tentazioni di violenze molto forti.

D. – Adesso cosa rischiano i cristiani e cosa comporta questa sentenza? La libertà religiosa è sempre più a rischio?

R. – La libertà religiosa dal punto di vista delle pubblicazioni. Cioè, il problema è che il governo e le autorità malaysiane islamiche non vogliono che i cristiani usino la parola “Allah” soprattutto nei libri in lingua malysiana perché dice che questo confonde i musulmani. Penso che abbiano paura di un possibile proselitismo da parte dei cristiani. Questo fatto di non poter usare la parola “Allah” creerà dei ghetti: cioè, i cristiani devono stare da una parte e i musulmani devono stare dall’altra, senza potere dialogare anche dal punto di vista culturale, storico e teologico.

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Obama: recessione finita. Franco Bruni: ripresa precaria

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"Se l'Europa è solo burocrazia è la fine". Così il premier italiano Matteo Renzi dal palco del Forum economico globale a Davos, in Svizzera, ha sollecitato l'Ue a puntare sulla crescita. "Abbiamo davanti 12 mesi importanti - ha aggiunto - e il vero spread non è quello tra titoli di Stato e Bund tedeschi ma
riguarda i sogni e le aspettative dei cittadini". Sullo sfondo degli incontri tra governi, banche e imprese ci sono i
 possibili interventi da parte della Bce e la fine della recessione negli Usa annunciata da Obama. Fausta Speranza ne ha parlato con Franco Bruni, docente di Politiche monetarie all’Università Bocconi: 

R. - L’importante è cercare di sottolineare l’urgenza che i politici tornino a dare una maggiore attenzione al fatto che siamo tutti sulla stessa barca, che dobbiamo cooperare molto di più in tutti i settori e che tutti i settori sono collegati a partire dalla politica economica, energetica, estera, di sicurezza… È tutto uno stesso tema. Il mondo deve dimostrare di essere unito, non diviso, altrimenti viene travolto dalla sua stessa evoluzione che è sempre più complessa.

D. - Lei dice: “Tutti sulla stessa barca”. Però gli Stati Uniti in qualche modo hanno cambiato barca… hanno segnato la fine della recessione…

R. - Sì, la fine della recessione ... Loro stanno bene, nel senso che il Pil sta salendo, così come l’occupazione. Però, è un equilibro molto precario, gonfiato da una liquidità molto forte, gonfiato da una fortissima concentrazione sul settore dell’estrazione del gas, che ha poi un indotto molto significativo, ma che può esser facilmente interrotto dall’andamento dei prezzi del petrolio. Rischiano di mettere fuori mercato parecchi progetti di investimento che hanno a causa  del grado del loro indebitamento ancora molto alto in questo e in altri settori. Quindi, è un’economia che va abbastanza veloce, ma che rischia sempre di esplodere.

D. - Sullo sfondo di Davos ci sono i possibili interventi della Banca centrale europea (Bce). Si parla di quantitative easing che significa, in sostanza, l’acquisto di titoli di Stato. Che dire al proposito?

R. - Sì, certamente ci si aspetta qualcosa di rilevante dalle prossime riunioni della Banca centrale europea. Magari saranno decisioni prese a tappe. L’obiettivo statutario della Banca centrale è di tenere l’inflazione vicino al 2 per cento, mentre questa 'balla' intorno allo zero e qualche volta va verso il negativo. La Bce ha fatto tutto il possibile per mantenere questi parametri e adesso le resta questa ultima arma, ovvero acquisti massici di titoli di Stato in giro per l’Eurozona. Vediamo come questo viene organizzato. Credo che sia un provvedimento che da solo non serve a niente. Serve solo a creare liquidità pericolosa. Ma invece serve se è accompagnato, nei governi nazionali e nel governo del Consiglio europeo e della Commissione, da provvedimenti di riforma strutturale di cui abbiamo bisogno per crescere davvero indipendentemente dalle iniezioni di liquidità. E poi da programmi di investimento pubblico e privato di grande rilievo come quelli che la Commissione ha iniziato a disegnare. Allora, se si mette tutto questo insieme, il fatto di mettere in movimento una serie di titoli pubblici,che oggi sono nei portafogli delle banche e ristagnano in modo infruttuoso, può dare risultati, ma guai se si pensa che il presidente della Bce Draghi possa risolvere da solo il problema.

D. - Quando si parla di acquisto di utitoli di Stato, si parla di acquisto di debiti. Siamo pronti a questo?

R. - Vuol dire che la Banca centrale si assume il rischio di insolvenza dei governi nazionali, che non è un grande rischio ma esiste. Facendolo “mutualizza”, cioè fa sì che questi rischi siano condivisi all’interno della Banca centrale europea che è un’istituzione europea, dove ci sono dentro capitali di tutti i Paesi. Questo sul piano del principio della condivisione dei rischi potrebbe essere, da un lato, uno degli aspetti più positivi e più avanzati di una manovra in genere in sé molto più importante del fatto stesso dell’acquisto dei titoli e della liquidità che ne segue. Dall’altro, potrebbe essere uno degli ostacoli maggiori perché alcuni Paesi, tra cui la Germania, sono fortemente contrari a questa condivisione dei rischi fino a che essa nonn venga prevista ufficialmente da una riforma dei trattati.

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Avvertimento iraniano a Israele dopo il raid sul Golan

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Israele ha innalzato il livello di allerta anche a seguito delle forti dichiarazioni da parte dell’Iran dopo l’uccisione domenica scorsa di un generale dei Pasdaran, la Guardie rivoluzionarie iraniane, in un raid attribuito ai caccia dello stato ebraico su territorio siriano. Con l’alto militare iraniano è rimasto ucciso anche un comandante di Hezbollah, i miliziani sciiti libanesi. Da Teheran è arrivata violenta la reazione del capo dei Pasdaran: “I sionisti – ha detto - si aspettino fulmini devastanti”. Francesca Sabatinelli ha intervistato Paolo Maggiolini, ricercatore dell’Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale: 

R. – Non è tanto l’evento in sé, si erano già registrati momenti di tensione per delle operazioni militari, precedentemente, anche se sempre mai rivendicate pienamente. In questo caso, però, è stato colpito qualcosa di molto simbolico che tocca direttamente la presenza di Iran e Hezbollah a sostegno di Damasco. L’operazione militare non è stata rivendicata da Israele, sebbene tutto faccia pensare che sia stata portata avanti sotto la sua responsabilità. E in questo momento, dove effettivamente da un punto di vista regionale delle relazioni e interazioni tutti gli attori sembravano essere più concentrati sul dialogo o ad abbassare la tensione per curare con più attenzione il dossier nucleare, le trattative e i negoziati con l’Iran, questo evento pone in qualche modo uno spartiacque: o rimbalza oppure alza la tensione nei confronti dell’Iran, chiamandolo direttamente a una reazione. Il punto più importante è effettivamente comprendere come l’Iran potrà uscire da quello che è un vero e proprio bivio, perché quello che in questo momento sembra essere molto più importante è il dossier sul nucleare, quindi qualsiasi risposta di rottura, o eccessivamente scomposta, potrebbe in qualche modo alzare la tensione a un livello insostenibile o comunque danneggiare la trattativa in corso.

D. – Tutto questo tenendo anche conto delle parole del presidente Obama che ha annunciato al Congresso il suo veto alle nuove sanzioni nei confronti di Teheran …

R. – Esattamente. E’ evidente che quella che si attende, e quello che probabilmente sarà da parte dell’Iran, è una risposta contenuta. Chiaramente Teheran non potrà, come del resto sta facendo, ignorare quello che è avvenuto, ma farà in modo di non sollevare troppi problemi nel negoziato stesso. Dall’altra parte, la “gravità” è che in una fase particolarmente importante questo evento desta un po’ di preoccupazione e tensione, riportando l’attenzione sul contesto siriano, sulla presenza di Iran e Hezbollah a sostegno di Assad, fatto abbastanza ormai acclarato, cosa che andrebbe evitata perché reintegrare l’Iran pienamente all’interno della questione mediorientale sarebbe più un fattore stabilizzante.

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L'Avana: partono i colloqui tra Usa e Cuba, i primi del disgelo

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Prendono il via oggi all’Avana due giorni di colloqui tra le autorità di Cuba e una delegazione Usa. Gli incontri, i primi a così alto livello da oltre 50 anni, si inseriscono nel quadro della normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi, e verteranno soprattutto sulla riapertura delle ambasciate nelle rispettive capitali. Nel discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente Obama ha chiesto al Congresso di mettere fine all’embargo imposto all’Avana. Si procede quindi a passi spediti, dopo l’annuncio del disgelo del 17 dicembre scorso del presidente Usa Obama e di quello cubano Castro. Lo conferma a Francesca Sabatinelli il giornalista argentino Alfredo Somoza, presidente dell’Icei, Istituto Cooperazione Economica Internazionale: 

R. – La notizia è che l’accordo tiene, che si stanno facendo dei passi in avanti e che soprattutto non ci sono stati dei contraccolpi, né a Cuba né negli Stati Uniti. Va ricordato che negli Usa questa apertura è stata fortemente caldeggiata dagli imprenditori statunitensi, i settori economici che contano negli Stati Uniti da tempo la stavano chiedendo, così come parallelamente il cosiddetto “esilio cubano”, soprattutto quello di Miami, quello più radicale contro il regime di Fidel Castro. Ormai siamo già alla seconda o alle terza generazione di questo “esilio cubano” e ovviamente non c’è più lo stesso fervore, non c’è più la stessa radicalità da parte dei figli e dei nipoti di coloro che sono andati via da Cuba che anzi, in questa fase, sicuramente erano piuttosto interessati a poter riallacciare rapporti con Cuba.

D. – Dopo l’annuncio del cosiddetto disgelo tra Stati Uniti e Cuba si sono avviati dei passi concreti: i primi sono stati l’apertura al turismo degli Stati Uniti a Cuba così come l’invio delle rimesse degli immigrati. Cosa ci si deve aspettare come passo successivo? La definizione dei rapporti diplomatici con l’apertura delle rispettive ambasciate?

R. – Questo sarebbe il passo centrale, quello cioè di tornare a uno status di ambasciate, cosa che attualmente non esiste, ci sono semplicemente degli incaricati di affari. Questo vorrebbe dire il riconoscimento reciproco dello status di Paesi indipendenti in grado, appunto, di relazionarsi. C’è anche un altro punto collegato a questo, che è la fine dell’ostracismo di Washington nei confronti di Cuba all’interno delle associazioni regionali, come l’Organizzazione degli Stati America, che negli anni Sessanta aveva espulso Cuba e che è ora l’unico Paese americano escluso da questa associazione regionale, che va dal Canada all’Argentina.

D. – Ciò che avviene in questi giorni, e ciò che avverrà nel prossimo futuro tra Stati Uniti e Cuba, avrà non poco peso su quello che è il conflitto più annoso dell’America Latina, quello colombiano. All’Avana sono in corso i negoziati di pace tra governo e guerriglia delle Farc…

R. – Sì, sarebbe un grande traguardo. La Colombia rappresenta un conflitto storico, con radici molto profonde, che poi nel corso dei decenni è mutato con l’ingresso in campo anche dei narcotrafficanti, così come degli Stati Uniti stessi, che hanno avuto una partecipazione al fianco del governo colombiano non indifferente. Pare che questa sia la volta buona e che quindi si possa risolvere. Da più di un anno sono in corso dei negoziati proprio all’Avana sotto gli auspici di Cuba, ma con l’accordo tacito degli Stati Uniti, altrimenti la Colombia non sarebbe mai arrivata a questo punto. Il negoziato sta andando molto bene, praticamente siamo all’ultimo punto che non è certo da poco, perché riguarda proprio la fine della violenza e quindi la consegna delle armi e il rinserimento dei guerriglieri nella vita politica democratica della Colombia. Sicuramente il clima che si viene ad instaurare tra Stati Uniti e Cuba aiuta, perché così come gli Stati Uniti avevano sostenuto nel tempo il governo colombiano, Cuba aveva sostenuto la guerriglia. Quindi non è un caso che a 24 ore dall’annuncio di Barack Obama, le Farc, la guerriglia colombiana, abbiano annunciato un cessate-il-fuoco unilaterale, che rappresenta il passo precedente per la conclusione di questo accordo, che avrebbe il significato storico di chiudere l’ultimo conflitto dell’intero continente americano.

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Vescovi francesi: no eutanasia, ma estendere a tutti cure palliative

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Al via il dibattito al Parlamento francese sul “fine vita”. Un rapporto stilato dai deputati Claeys e Leonetti chiede una revisione dell’attuale legge che regola dal 2005 l’eutanasia in Francia e l’introduzione del diritto dei pazienti “a una sedazione profonda e continua” in caso di malattia giudicata incurabile e “con prognosi infausta a breve termine”. I vescovi francesi, con una dichiarazione presentata ieri a Parigi da un pool di esperti, guidato dall’arcivescovo di Rennes mons. Pierre d’Ornellas, ha lanciato un appello alla “fraternità” verso le persone più vulnerabili. Gli esperti della Conferenza episcopale lanciano nella dichiarazione un “grido d’allarme” sullo stato della medicina palliativa e dei trattamenti nel Paese e parlano in questo senso di “una causa nazionale prioritaria”. “Rispondere in modo insufficiente a questa urgenza - si legge nel testo - è rendersi complici del male di morire attuale in Francia ed è anche favorire le domande sempre dolorose di eutanasia”. Jean-Baptiste Cocagne ha intervistato mons. Pierre d’Ornellas:

Sì a sedazione che attenui dolore

R. – Nous voulons dire que la proposition de loi qui a été déposée à l’Assemblée Nationale …

Noi vogliamo affermare che la proposta di legge depositata all’Assemblea nazionale dai deputati Jean Leonetti e Alain Claeys può trovare tutto il suo significato soltanto se la si legge calata nella cultura palliativa, cioè nell’ambito della formazione di tutti gli operatori sanitari alla cultura palliativa e dell’estensione a tutti i pazienti delle cure palliative. Questa proposta di legge avrà senso soltanto se la sedazione sarà prescritta con competenza – ovviamente – e se questa sedazione, praticata con competenza, non sarà forzatamente una sedazione profonda: potrebbe essere anche una sedazione intermittente, ma comunque una sedazione che abbia lo scopo di alleggerire la sofferenza. E’ questa la giusta maniera in cui leggere questa proposta di legge e in cui va precisata. Ad esempio, bisogna re-introdurre nella proposta di legge il principio del duplice effetto in maniera tale che i medici siano costretti a indicare chiaramente l’obiettivo che perseguono, e cioè procurare sollievo dalle sofferenze e mai facilitare la morte. Questo è il punto essenziale.

Promuovere cultura palliativa
D. – Come seguirete il dibattito? Pensate di esercitare un certo peso?

R. – Dans la République française, les députés ont une possibilité de débattre entre eux …

Nella Repubblica francese i deputati hanno la possibilità di dibattere tra di loro e noi non possiamo intervenire che con interventi pubblici o tramite il contatto personale. Io personalmente ho tutte le intenzioni di discutere con qualunque deputato voglia farlo, come ho già fatto, per attirare l’attenzione su alcuni punti; confido anche nel fatto che vi siano prese di posizione pubbliche, al fine di incoraggiare e rendere omaggio a tutti gli operatori sanitari e a tutti i volontari che con competenza, accuratezza e amore accompagnano i nostri fratelli e sorelle che si avvicinano alla morte. Vorrei anche calmare le inquietudini e le angosce dei francesi riguardo alla morte. Credo che la nostra presa di posizione pubblica sia volta a spiegare ai deputati e ai senatori, all’opinione pubblica, affinché nella nostra società si formi una cultura palliativa, cioè una pacificazione nei confronti della morte.

Parlare della morte è tabù
D. – Lei ha l’impressione che il dibattito in seno alla società sia all’altezza dell’argomento? Ha l’impressione che i francesi siano informati sulla questione del fine-vita?

R. – Non, parce qu’il y a un non-dit qui est évident et qui est normal …

No, perché ci sono delle cose non dette, e questo è evidente e normale visto che si parla della morte. Come lo ha espresso molto bene il Rapporto Sicard del dicembre 2012, è necessario re-introdurre la porola "morte" nella nostra società, come una parola di cui si può parlare, mentre oggi questo argomento è tabù. E’ più facile assimilare un argomento sociale che riguardi la vita – che sia in campo bioetico, nel campo dell’istruzione, della famiglia o del matrimonio – che informarsi su un argomento sociale che è estremamente delicato e che provoca grandi emozioni, perché è capitato di accompagnare una persona cara, perché c’è stato un lutto in famiglia … Per tutte queste ragioni è molto delicato il compito di affrontare in maniera serena e tranquilla questo argomento. Io percepisco che nella nostra società ci sia oggi anche una sorta di angoscia. Dove stiamo andando? Cosa succederà di noi? E bisogna ricostruire, all’interno della società, la fiducia nei riguardi del corpo medico. Credo che anche i politici debbano avere fiducia nel corpo medico e non limitarsi ad imporgli quello che ritengono opportuno. La legge Leonetti, nel 2005, ha suggerito un quadro legislativo – secondo me notevole – volto a rispettare le linee guida per le buone pratiche che il corpo medico aveva elaborato proprio per essere sempre in condizione di rispettare il giuramento d’Ippocrate.

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Nella Chiesa e nel mondo



India: rapporto 2014 sulle persecuzioni contro i cristiani

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Sono 5 i cristiani, tra i quali un bambino di 11 anni, uccisi dall’odio religioso in India nel 2014. Insieme con loro, oltre 300 fra sacerdoti, Pastori e leader delle comunità cristiane sono stati aggrediti, percossi e feriti. Tra le vittime di violenze vi sono, poi, più di 2.000 fra donne e bambini cristiani. Gli autori sono i gruppi estremisti indù. Sono le cifre che danno il quadro della violenze sui cristiani indiani, avvenute lo scorso anno e contenute nel “2014 Persecution Report”, diffuso dall’organizzazione cattolica “Catholic Secular Forum” (Csf), grazie a fonti, documenti e testimonianze raccolte nella rete delle organizzazioni cristiane indiane. “Questo elenco è solo indicativo e non esaustivo”, precisa a Fides Joseph Dias, laico cattolico, responsabile del Csf.

Chhattisgarh lo Stato indiano più a rischio
Nel Rapporto, presentato ieri a Bombay e inviato all’agenzia Fides, si nota che attualmente è il Chhattisgarh lo Stato indiano in cui “è più pericoloso essere un cristiano”, dato che è il territorio in cui si registra il picco di violenza. Il giudice Michael Saldanha, cattolico, ex magistrato dell’Alta Corte del Karnataka, ha detto che il Rapporto è stato inviato al card. Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay, presidente della Conferenza episcopale dell’India e responsabile di turno della Federazione delle Conferenze episcopali dell’Asia.

7mila i casi censiti
Il Rapporto nota che nel 2014 si è registrato in India “almeno un incidente al giorno”, in cui persone, luoghi o leader cristiani abbiano subito violenza. Gli Stati in cui gli abusi sono più diffusi sono Chhattisgarh, seguito da Maharashtra, Madhya Pradesh, Uttar Paradeshm, Karnataka, Kerala e Orissa ma, in forma meno estesa, sono coinvolti anche altri Stati dell’Unione. Gli episodi censiti sono in totale oltre 7.000, da quelli più gravi (i 5 omicidi) a quelli in cui sono rimaste coinvolte oltre 1.600 donne, molte molestate e violentate, e 500 bambini.

In aumento l'estremismo indù
Fra le cause e gli attori della violenza il Rapporto cita i gruppi estremisti indù come “Rashtriya Swayamsevak Sangh” (Rss, “Corpo nazionale dei volontari”) che si conferma la maggiore Ong esistente in India, promotrice di una ideologia nazionalista indù che vorrebbe eliminare dal Paese le minoranze religiose. Secondo il testo inviato a Fides, il Rss registra una costante crescita anche grazie alla nuova stagione politica che vede il partito “Baratiya Janata Party” al potere nell’Unione, con il premier Narendra Modi: se nel 2013 sono nate 2000 nuove tra sezioni e cellule locali del Rss, nel 2014 ne sono nate oltre 5.000, per un totale di oltre 5 milioni di membri attivi. Il Rss ha preso possesso di 60 chiese, sconsacrandole e trasformandole in proprie basi.

La complicità delle istituzioni
Il documento solleva anche il problema della complicità delle istituzioni: “Spesso la polizia rifiuta di registrare atti di violenza anticristiana come tali e anche i mass-media tendono a ignorare gli abusi, non riportando le notizie”. In altri casi la persecuzione non viene alla luce perché le vittime hanno paura di essere uccise e non denunciano le violenze. In pochi casi gli abusi sono giustificati da cause diverse dall’odio religioso, come malattia mentale, ubriachezza, rapina.

I cristiani uccisi
Tra i cinque morti, si ricorda un ragazzo di 11 anni, Govind Kuram Korram, sequestrato e lasciato morire di fame e di stenti in Chhattisgarh da suo zio, che si opponeva al fatto che la famiglia del ragazzo fosse divenuta cristiana. Il Pastore protestante Sanjeevulu è stato accoltellato in Andhra Pradesh. Un laico cristiano è stato ucciso in Orissa dopo il rifiuto di riconvertirsi all'induismo, mentre i coniugi Dominic (45 anni) e Christina (35 anni) Bhutia, convertitisi dal buddismo al cristianesimo in Bengala Occidentale, sono stati assassinati sotto gli occhi della figlia dodicenne. (P.A.)

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Sud Sudan: appello dei religiosi a riconciliazione nel Paese

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Perdono e riconciliazione: è l’auspicio che l’Associazione dei Superiori religiosi del Sud Sudan (Rsass), guidata dal comboniano fra’ Daniele Moschetti, chiede per il Paese, in una Lettera indirizzata a tutti i religiosi e missionari in occasione dell’Anno della vita consacrata, attualmente in corso. Indetto da Papa Francesco per celebrare il 50.mo anniversario della promulgazione del decreto conciliare "Perfectae caritatis" sul rinnovamento della vita religiosa, l’evento proseguirà fino al 2 febbraio 2016. Nella missiva, in particolare, si fa riferimento al conflitto scoppiato in Sud Sudan nel dicembre 2013 e che ha visto contrapposti i miliziani di etnia dinka, fedeli al Presidente Salva Kiir, e l’esercito regolare di etnia nuer, guidato dall’ex vice Presidente Riek Machar.

Conflitto insensato, necessario porvi fine
“Abbiamo sofferto atroci violenze – si legge nella lettera – che hanno portato via le vite di migliaia di fratelli e sorelle”, provocando anche la distruzione di “strutture sociali e di relazioni tradizionali e culturali esistenti nelle nostre comunità”. Ed è “tragico”, sottolinea la Rsass, che le parti in causa non abbiano ancora raggiunto un accordo per porre fine al conflitto, “nonostante i continui e disperati appelli dei cittadini, della Chiesa e della comunità internazionale”. Di qui, l’esortazione forte lanciata dai religiosi: “Questo è un conflitto insensato e deve finire immediatamente. Come religiosi, continuiamo a pregare e ad impegnarci per la pace e la riconciliazione, invitando i leader militari e politici a porre il bene della nazione e della popolazione al di sopra degli interessi personali di potere”.

‘Combattere’ la battaglia non violenta dell’evangelizzazione
“Cerchiamo di perdonare il passato e di iniziare un nuovo cammino come un’unica nazione ed un unico popolo – prosegue la missiva – tanto più che la guerra civile è chiaramente una lotta per il potere e gli interessi di pochi”, e non per il “bene comune”. Al contrario, “la battaglia da combattere – sottolinea la Rsass – è quella dell’evangelizzazione e dello sviluppo del Paese”, divenuto indipendente dal Nord nel 2011, ed è una battaglia “non violenta, da portare avanti insieme, come popolo di Dio in Sud Sudan”.

Diventare fermento di gioia e speranza
Guardando, poi, nello specifico, all’Anno della vita consacrata, i religiosi si richiamano alla Lettera apostolica di Papa Francesco a tutti i consacrati, resa nota il 21 novembre scorso, ed esortano a “mettere a servizio del mondo i carismi ed i doni ricevuti liberamente dal Signore”. Essenziale, dunque, “la creatività della carità, capace di trovare innumerevoli modi per annunciare la novità del Vangelo ad ogni cultura ed in ogni angolo del mondo e della società”. Diventare “fermento di gioia, speranza, fratellanza e giustizia, in una realtà di scoraggiamento e divisioni”: questo è il ‘mandato’ che la Rsass consegna a tutti i suoi membri.

Cura pastorale dei giovani, futuro del Paese e della Chiesa
Particolare attenzione pastorale viene richiesta per i giovani del Sud Sudan, “pari ad almeno il 70% della popolazione” e che “rappresentano il presente ed il futuro del Paese e della Chiesa”. Per questo, “la loro vocazione deve essere molto curata e la testimonianza dei religiosi deve rappresentare una sfida per le loro scelte di vita, affinché siano sempre a servizio del Vangelo”. Non solo: l’auspicio è che il 2015 sia anche un anno in cui vengano rafforzati i rapporti tra le diverse congregazioni”, poiché “la solidarietà e la fraternità sono una priorità per chiunque voglia essere testimone dell’amore di Gesù”.

A fine gennaio, triduo di preghiera per consacrati
Quindi, la Rsass informa che dal 31 gennaio al 2 febbraio si terrà uno speciale triduo di preghiera dedicato alla vita consacrata. Ricco ed articolato il programma degli eventi: il primo giorno si terrà un pellegrinaggio a piedi, aperto a tutti i fedeli, dalla Cattedrale Santa Teresa di Kator alla Chiesa di Ognissanti a Rejaf, durante il quale verrà celebrato anche il centenario dell’arcidiocesi di Juba. Il primo febbraio, poi, l’arcivescovo della città, Paolino Lukudu Loro, presiederà una Messa di ringraziamento in Cattedrale, mentre il 2 febbraio, Giornata della vita consacrata, si terrà un momento di preghiera nella Comboni House. Inoltre, la Plenaria della Rsass, in programma dal 28 al 30 aprile 2015, sarà dedicata alla formazione permanente dei consacrati in Sud Sudan.

Pace duratura, il sogno di tutti
La lettera si conclude ricordando “il grande bisogno di spiritualità, formazione umana, risanamento dai traumi passati e presenti” che tutti hanno, siano essi “vescovi, religiosi, sacerdoti o comuni cittadini”. Ma c’è anche “il sogno comune di una pace duratura che deriva da Dio, ma che necessita di laici, giovani ed agenti pastorali, che ne siano strumento”. Infine, la missiva affida l’Anno della vita consacrata alla Vergine Maria, Regina d’Africa, ed ai Santi africani Daniele Comboni e Giuseppina Bakhita. (I.P.) 
 

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Centrafrica: rapiti operatrice umanitaria e un religioso

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Si chiamano Claudia Criste e Gustave Reosse la cooperatrice francese e il religioso centrafricano della Congregazione dello Spirito Santo che sono stati rapiti la mattina di lunedì scorso a Bangui, mentre si trovavano a bordo di un veicolo adibito al trasporto di medicinali. I due sequestrati - riferisce l'agenzia Fides - erano impegnati nelle attività umanitarie dell'Ong cattolica Coordination diocesaine de la santé (Codis), collegata all'arcidiocesi della capitale centrafricana. Secondo la testimonianza di padre Elkana Ndawatcha – sacerdote spiritano che era alla guida della vettura - quattro uomini armati hanno sbarrato la strada al mezzo, hanno fatto scendere il sacerdote, e dopo averlo rapinato dei suoi beni personali ed essersi impossessati del veicolo si sono allontanati in direzione del quartiere Boy-Rabe, portando con sè i due operatori.

Atto di ritorsione per l'arresto del gen. Andjilo
I sequestratori sarebbero legati al leader della “milizia anti-balaka” (anti-machete) Rodrigue Ngaibona, conosciuto come generale Andjilo. Le bande armate degli anti-balaka si contrappongono agli ex ribelli Séléka. Il sequestro viene interpretato come un atto di ritorsione, dopo che lo scorso 18 gennaio il generale Andjilo – accusato di atti criminali – è stato arrestato dalle forze Onu stanziate in Centrafrica.

Mons. Nazapalainga si è attivato per le trattative
Fonti locali contattate dalla Fides riferiscono che l'arcivescovo di Bangui, Dieudonné Nzapalainga, anch'egli appartenente alla Congregazione dello Spirito Santo, è personalmente coinvolto nelle trattative messe in atto per giungere alla liberazione dei due rapiti. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 21

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.