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Sommario del 05/07/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa in Ecuador, Bolivia e Paraguay con la gioia del Vangelo

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Al via il viaggio di Papa Francesco in America Latina. La partenza, stamane, dall'aeroporto di Fiumicino. Prima tappa è l’Ecuador. Da mercoledì sarà in Bolivia e infine venerdì si trasferirà in Paraguay, per poi far rientro in Vaticano lunedì 13 luglio. Il servizio di Giada Aquilino

Sono trascorsi due anni dal viaggio del Papa a Rio de Janeiro per la Giornata Mondiale della Gioventù 2013 e ora Francesco torna in America del Sud per il suo 9° viaggio apostolico internazionale. Ecuador, Bolivia e Paraguay le tappe: “nazioni sorelle” le ha definite nel videomessaggio diffuso alla vigilia e presentato contemporaneamente nei tre Paesi.

Un pellegrinaggio sulle orme di San Giovanni Paolo II che si recò nei tre Stati latinoamericani nell’85, Ecuador, e nell’88, Bolivia e Paraguay. E’ la prima volta che, in un suo viaggio, Papa Francesco visita tre Paesi: più di 24 mila i km che percorre in una settimana, variando altitudini e temperature ma anche vivendo situazioni e percorsi storici diversi.

“Voglio essere testimone della gioia del Vangelo”, rifacendosi al tema unitario del viaggio a sua volta ispirato all’Evangelii Gaudium, e portare - ha detto il Papa prima della partenza - la tenerezza e la carezza di Dio, specialmente “ai suoi figli più bisognosi, agli anziani, ai malati, ai detenuti, ai poveri, a quanti sono vittime di questa cultura dello scarto”.

L’Ecuador ha come motto: “Evangelizzare con gioia”. Il Paese è pronto ad accogliere il Papa: nei preparativi e nell’organizzazione, forte la coesione tra governo, forze dell’ordine e Nunziatura a Quito, con la collaborazione dei vescovi locali, affiancati quotidianamente nel loro impegno concreto da diverse Conferenze episcopali europee. Nei giorni scorsi ci sono state manifestazioni di protesta, al momento sospese, anche di attivisti in difesa dei diritti umani e comunità indigene, contrari ad estrazioni e trivellazioni petrolifere in Amazzonia. Ma il Paese ora pensa ad abbracciare Francesco. Le tappe del Pontefice sono Guayaquil e Quito. Nella prima, visita tra l’altro il Santuario della Divina Misericordia e celebra la Santa Messa nel Parco de Los Samanes. Nella capitale, tra gli appuntamenti in programma la grande Celebrazione eucaristica, dedicata all’evangelizzazione dei popoli, nel Parco del Bicentenario, una visita privata alla ‘Iglesia de la Compañia’ - dove Francesco si raccoglierà in preghiera davanti all’immagine della Madonna Addolorata - e alla Casa di riposo delle Missionarie della Carità, l’incontro con i religiosi al Santuario Nazionale Mariano ‘El Quinche’.

Quindi il trasferimento in Bolivia, con il motto: “Con Francesco annunciamo la gioia del Vangelo”. El Alto e La Paz, a 4.000 e 3.600 metri di altezza, attendono il Papa, che tra i tanti appuntamenti sosterà brevemente anche sul luogo dell’assassinio di padre Luis Espinal, gesuita ucciso nel 1980 ai tempi della dittatura. A Santa Cruz de la Sierra, nuovo centro economico del Paese, a 450 metri sopra il livello del mare, il Papa aprirà il V Congresso eucaristico nazionale e l’incontro mondiale dei Movimenti Popolari.

Infine Asunción e Caacupé in Paraguay, col motto: “Messaggero di gioia e di pace”. Prevista una visita all’ospedale pediatrico della capitale, come pure al Bañado Norte, zona povera e acquitrinosa della città; inoltre la Santa Messa al Santuario mariano di Caacupé: Francesco è molto devoto dell’Immacolata Concezione dei miracoli, qui venerata. E un’altra Celebrazione eucaristica al parco della base Nu Guazu, dove si stanno facendo gli ultimi ritocchi all’“altare di mais” realizzato con spighe di grano, piccole noci di cocco, migliaia di semi e ispirato alla cultura indigena. Le realtà autoctone saranno dunque alcuni dei caratteri di questo viaggio, assieme ai momenti mariani, gli incontri con i bambini malati, gli anziani, i carcerati, i poveri oltre che con le autorità e le Chiese locali. Un altro viaggio alle “periferie” del mondo, così centrali nel cuore di Papa Francesco.

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Telegrammi del Papa per il viaggio: porto messaggio di speranza

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Nel suo trasferimento in America Latina, il Papa ha inviato telegrammi di saluto ai capi di Stato dei Paesi sorvolati, com’è tradizione. In quello per il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, Francesco ha spiegato che il viaggio in Ecuador, Bolivia e Paraguay è “per sostenere la missione della Chiesa locale e per portare un messaggio di speranza”. Il Pontefice ha espresso pure auspici “per il benessere spirituale, civile e sociale del popolo italiano”, inviando la benedizione apostolica. Il presidente Mattarella, nel ricambiare il telegramma di saluto, ha evidenziato che “l’Italia e la comunità internazionale guardano con grande interesse” alla missione del Papa nel continente latino-americano, “in Paesi che, ciascuno con la propria specificità, vivono un periodo di grande fermento, sul piano politico, economico e sociale”. Si è detto inoltre certo che la presenza di Francesco “porterà un forte messaggio di fiducia per il futuro della Regione, cui l'Italia e l'Europa guardano con viva attenzione”, e al contempo “un atteso incoraggiamento per quanti, in quei Paesi, vivono ancora in condizioni di povertà, degrado sociale e incertezza coltivando la speranza di un domani migliore”.

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La preghiera di Francesco alla Madonna, per il suo viaggio apostolico

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Come successo già in passato alla vigilia della partenza, il Santo Padre si è recato ieri sera intorno alle 19 a Santa Maria Maggiore per raccomandare alla Vergine il suo viaggio apostolico nell’America Latina. Ha deposto davanti all’immagine della Madonna un mazzo di fiori dei colori delle bandiere dei tre Paesi visitati, Ecuador, Bolivia e Paraguay. Si è trattenuto in preghiera per circa 20 minuti. Lo riferisce il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi.

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Francesco visterà il carcere di Palmasola, in Bolivia

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In Ecuador, Bolivia e Paraguay il Papa rivolgerà particolare attenzione al mondo degli ultimi e delle periferie esistenziali. C'è attesa per la visita di Francesco nel centro di rieducazione “Santa Cruz Palmasola”, in Bolivia: si tratta di una vera e propria cittadina di 10 mila quadrati suddivisa in padiglioni riservati a diverse categorie di detenuti sottoposti a regimi carcerari diversi. Tra i principali problemi di questo istituto vi sono la violenza, le scarse condizioni igienico sanitarie, i tanti detenuti in attesa di sentenza e il grave sovraffollamento. Lo conferma Mario Mazzoleni, un operatore sociale, responsabile del centro di rieducazione sociale per minori di Santa Cruz, al microfono di Paolo Ondarza

R. – La capacità del centro di riabilitazione Palmasola sarebbe intorno alle 800 persone, 600 uomini e 200 donne. In realtà noi abbiamo, secondo la statistica del 2012, 4.520 uomini e 572 donne.

D. - Senza considerare i bambini…

R. - Senza considerare i bambini, perché la legge boliviana prevede che i bambini minori di sei anni possano restare solitamente con la madre all’interno del carcere.

D. - Numerosissimi i reclusi in attesa di sentenza…

R. - Sì, in attesa di sentenza c’è quasi l’80 per cento delle persone detenute. Infatti è un triste primato che abbiamo in Bolivia.

D. - Peraltro è di un paio di anni fa l’orribile notizia di cronaca accaduta all’interno del carcere di Palmasola…

R. - Nel 2013 sono morte più di 30 persone per uno scontro fra bande rivali…

D. - C’è stato un incendio…

R. - Sì, un incendio. La cosa grave è che non si sa come tra le persone morte ci sia stato anche un bambino di due anni…

D. - Leonardito, il bambino che è diventato un po’ simbolo delle ingiustizie che si vivono a Palmasola…

R. - Sì, è una delle ‘punte di diamante’ più gravi che ci sono. La polizia ogni tanto fa perquisizioni all’interno del carcere e riescono sempre a trovare armi da taglio o cellulari, sempre qualcosa che non dovrebbe esserci.

D. - Perché questo è un luogo simbolo scelto dal Papa durante la sua brevissima visita in Bolivia?

R. - Perché è davvero l’espressione di dove la dignità umana viene calpestata e dove davvero i poveri sono i più poveri esistenti.

D. - Un emblema di quella cultura dello scarto più volte denunciata da Papa Francesco…

R. - Esattamente, è un simbolo dell’esclusione sociale. Ci sono un sovrannumero di persone, famiglie che vivono di espedienti, bimbi che crescono nella violenza. Palmasola è un quartiere, è una piccola cittadina. Il padiglione che si chiama PS4 (quello dove si svolge l’incontro con il Papa) è una cittadina dove vivono tante famiglie, dove ci sono negozi, dove ci sono attività commerciali, dove a fare il controllo sociale sono gruppi di detenuti che vengono eletti come rappresentanti e controllano che non ci siano violenze.

D. - La criminalità ha potere sul carcere di Palmasola?

R. - Gruppi di detenuti gestiscono la delinquenza esterna. Ad esempio, c’è stato un periodo in cui, quando ad una persona rubavano la macchina, gli davano il numero di un detenuto di Palmasola: quest’ultimo, dietro compenso, forniva informazioni su dove ritrovare l’automobile.

D. - Le istituzioni stanno tentando di intervenire per risolvere la situazione?

R. - Stanno tentando, però è un problema che si trascina da diversi anni. L’intervento è oneroso e anche faticoso. Io penso che, con calma, qualcosa si stia facendo, anche se si potrebbe fare un po’ più velocemente, come ad esempio la questione delle detenzioni preventive: per tutte le persone che sono in attesa di una sentenza si potrebbe risolvere la questione facendo funzionare la giustizia…

D. - Sicuramente in questo contesto la visita del Papa porterà il carcere di Palmasola sotto i riflettori internazionali…

R. - Richiamerà l’attenzione sulla situazione carceraria in vari Paesi in via di sviluppo che hanno sistemi carcerari molto antiquati. Questo è quello che noi speriamo, anche perché io, ad esempio, lavoro in un centro per ragazzi di 14 - 15 anni che sono privati di libertà, però essendo un centro gestito dalla Chiesa cattolica è un modello: è un centro educativo e non punitivo, dove si lavora perché le persone riscoprano i valori che hanno perso nel cammino della loro esistenza. Dovrebbero essere così tutte le carceri. L’idea è questa. Le persone, non perché hanno compiuto un delitto, un’infrazione, si devono ritenere persone senza diritti.

D . - E’ con questa speranza nel cuore che chi come te è attivo nel sociale vive questa visita del Papa?

R . - Sì, siamo molto contenti della venuta del Santo Padre. Che la sua benedizione dia la possibilità a queste persone private della libertà di vivere un attimo di sollievo e di pace.

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Oggi in Primo Piano



Grecia: referendum sul piano dei creditori internazionali

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Oggi il referendum in Grecia sul piano proposto dai creditori internazionali. Voto in un clima di grande tensione. Ce ne parla Elvira Ragosta

Seggi aperti oggi in Grecia per i circa 10 milioni di cittadini greci chiamati ad esprimersi con un "sì" o un "no" al progetto di accordo presentato dall’ex troika: Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale. Non sono previsti exit poll, solo dopo la chiusura dei seggi attese le prime proiezioni. Affinché il referendum sia considerato valido, dovrà aver votato almeno il 40% degli aventi diritto. La sostanziale parità emersa dai sondaggi degli ultimi giorni contribuisce ancora di più a tenere l’Europa col fiato sospeso per una consultazione che potrebbe cambiare il destino politico ed economico della Grecia e dell’Unione. “Da domani apriamo la strada per tutti i popoli d’Europa” ha detto il premier greco Alexis Tsipras dopo aver votato "no". Sul versante del "sì", invece, l’ex premier, Antonis Samaras, leader di Nea Dimocratia, che uscendo dai seggi ha detto: “I greci decidono oggi il futuro del Paese. Sì alla Grecia, sì all’Europa”. Pronto a dimettersi, in caso di vittoria del "sì", il ministro delle finanze Yanis Varoufakis, che ieri ha usato toni forti contro i creditori internazionali, definendoli "terroristi". Quel che è certo è che i negoziati in sede europea riprenderanno dopo il referendum.

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Burundi. Padre Marano: Paese rischia nuova guerra civile

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Ancora molto difficile la situazione in Burundi a una settimana dalle elezioni amministrative e parlamentari, la cui validità è stata messa in dubbio da più parti, soprattutto dalle Nazioni Unite. Intanto, c’è attesa per il summit della Comunità dell’Africa Orientale che si apre questo lunedì in Tanzania, per cercare una soluzione alla crisi politica in cui è caduto il Paese dopo la decisione del presidente uscente, Nkurunziza, di presentarsi, per la terza volta, alle prossime presidenziali del 15 luglio, nonostante la Costituzione lo vieti. Elvira Ragosta ha intervistato padre Claudio Marano, missionario saveriano da circa 30 anni in Burundi che in questi giorni si trova in Italia: 

R. – La situazione è molto grave: c’è una paura continua un po’ dappertutto – soprattutto in città – perché all’interno del Paese la gente vive sulle colline e ha dei momenti di incontro, come possono essere quelli al mercato oppure durante la preghiera. In città ci sono dei quartieri che stanno diventando etnicamente chiusi, l’opposizione sta facendo manifestare solo in alcuni quartieri, mentre negli altri non ci riesce, dato che sono in mano alle milizie del partito che governa. La scuola, l’università, i posti di lavoro e i magazzini sono chiusi. Qualche volta – il sabato e la domenica – viene data libertà a tutti perché possano andare a rifornirsi. Di notte e di giorno si spara perché qualcuno ha violato la strada che conduce a un quartiere o ad un altro quartiere.

D. - Questi scontri nei quartieri hanno una base politica, più che etnica?

R. – Per adesso è ancora politica. Tutti hanno paura di questo: è molto probabile che la situazione piano piano si evolva in una guerra civile e di nuovo etnica.

D. – Lunedì inizia questo nuovo vertice della Comunità dell’Africa Orientale sulla crisi in Burundi. Che prospettive ci sono per una soluzione?

R. – Secondo diversi osservatori, le prospettive sono pari a zero, perché il presidente non vuole assolutamente trovare una soluzione. Nei tre-quattro mesi di tira e molla attuali sono più di 80 i morti, più di 500 i feriti, più di 1000 i prigionieri e più di 140.000 le persone che sono già scappate in Tanzania, in Rwanda e in Congo. Ci sono quindi delle cifre che parlano da sole e il presidente non vuole cedere perché dice: “Voi non potete venire a casa nostra e imporre delle leggi”; questo lo ripete all’Onu, all’Unione Africana... Ma gli Stati che si trovano accanto al Burundi sono nella stessa situazione: tra poco ci saranno le elezioni in Rwanda, il presidente Kagame vuole il terzo mandato e la Costituzione del Paese non lo permette. Il presidente del Congo l’anno prossimo avrà le elezioni e si trova anche lui nella medesima situazione; in Uganda la stessa storia. Quindi, consigliare al Burundi di fare marcia indietro è molto difficile, anche perché gli altri Paesi si trovano nella stessa situazione.

D. – Poi il 15 luglio ci saranno le tanto contestate presidenziali: è possibile che le violenze, la forte instabilità politica di un Paese che è già provato dagli alti tassi di malnutrizione infantile e povertà, debbano scoppiare per il prolungamento di un mandato?

R. – Se tutti fossero d’accordo nel ragionare, questo non sarebbe possibile; ma tutti sono convinti del fatto che il presidente non cederà e non lascerà nessuno al suo posto. Ed è per quello che si dice che, se l’Onu e l’Unione Africana non interverranno in maniera diversa, ci sarà una guerra civile. E tutti sono convinti che questa guerra non sarà come quella dei tredici anni dove ci sono stati 300.000 morti, ma sarà molto più difficile.

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Nucleare. Iran: accordo vicino, forse firma entro 7 luglio

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Si intensificano i negoziati a Vienna in vista di uno storico accordo tra le potenze mondiali e l’Iran sul programma nucleare di Teheran. L’intesa potrebbe essere raggiunta entro il prossimo 7 luglio. Mai stati così vicini alla meta, ha detto il ministro degli Esteri iraniano Zarif che ha anche promesso impegno per fronteggiare il sedicente Stato Islamico nella regione mediorientale. Eugenio Bonanata ne ha parlato con Matteo Bressan, analista politico ed esperto dell’area: 

R. - L’accordo per l’Iran ha un significato molto strategico. Il presidente Rohani ha puntato moltissimo su questo, tant'è vero che la politica iraniana si sta anche interrogando su che cosa possa accadere qualora non dovesse andare in porto. Dobbiamo tenere presente che il prossimo marzo ci saranno le elezioni del Parlamento iraniano e quindi Rohani ha bisogno di un accordo, ha bisogno di portare al suo popolo un risultato tangibile che però tuteli e rispetti gli interessi geopolitici iraniani. Quindi c’è tutto l’interesse a ottenere questo riconoscimento di un programma nucleare importante per l’Iran.

D. -  In caso di accordo l’Iran è pronto ad unire le forze contro lo Stato Islamico. Come valutare questa promessa?

R. - L’Iran offre la sua disponibilità come già militarmente è accaduto sul campo in Iraq con i militari iraniani che si sono fronteggiati contro la Stato Islamico. Quindi è importante avere l’Iran all’interno della coalizione in maniera più ufficiale - perché di fatto in parte già c’è - nonostante ci siano degli obiettivi strategici differenti. In Siria alcuni Paesi che fanno parte della coalizione - come Turchia e Arabia Saudita  - vogliono il rovesciamento del regime di Assad. E in questo caso gli interessi sono differenti, ma in Iraq c’è l’interesse a stabilizzare tutta l’area anche perché lo Stato Islamico può essere una minaccia per lo stesso Iran.

D. – Comunque per l’Occidente sarebbe un grande vantaggio…

R. - Indubbiamente la riapertura di relazioni con l’Iran è un vantaggio. Anche sotto il profilo economico, perché qualora si riuscisse a concludere questo negoziato si aprirebbero delle grandi prospettive per i Paesi occidentali, in quanto l’Iran potrebbe essere di fatto il catalizzatore di una serie di investimenti e dare molte opportunità. Quindi non solo un riequilibrio geopolitico nell’area, ma anche grandi prospettive di investimenti dei Paesi occidentali.

D. - E l’Occidente sarà pronto a revocare le sanzioni contro Teheran?

R. - Questo è uno dei punti che di fatto si trova all’ordine del giorno dell’accordo. E riguarda in particolare la tempistica circa la revoca delle sanzioni. È chiaro che gli iraniani dicono: ‘nel momento in cui noi fermiamo il programma e rispettiamo tutto quello che ci è stato chiesto, vogliamo avere la revoca immediata, contestuale e non progressiva', come sembrava all’inizio e come è stato uno dei temi critici di questo accordo. Le due cose dovrebbero coincidere e questo è un po’ l’abc della diplomazia e della negoziazione. Credo che sia anche un aspetto sul quale si capirà se si può raggiungere un accordo.

D. - Altro punto chiave: Teheran aprirà le porta agli ispettori dell’Aiea?

R. – La possibilità di aprire agli ispettori è una cosa, l’accesso a strutture militari è un’altra questione. Quindi bisogna capire bene qual è la sfumatura tra accesso ad un certo tipo di strutture e ad altre. Ovviamente una base militare è un qualcosa che rientra nella sovranità di uno Stato sul quale l’Iran potrebbe avere qualche resistenza. L’apertura di tutti i siti, anche quelli “top secret”, è un tema delicato.

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Francia: sentenza aggira divieto utero in affitto

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Continua a far discutere in Francia il via libera della Corte di Cassazione all'iscrizione all‘anagrafe di bambini nati all'estero da madre surrogata, cioè con il cosiddetto "utero in affitto". L’alta corte era chiamata ad esprimersi sul caso di due bambini il cui concepimento era stato commissionato in Russia da una coppia gay francese. L’utero in affitto in Francia resta una pratica vietata. Ma le lobby che promuovono questa pratica già pensano al passo successivo:  la possibilità per le coppie omosessuali di adottare il figlio biologico del partner, sganciandosi definitivamente dalla donna che lo ha partorito dietro compenso. Sulla questione ascoltiamo il commento di Tugdual Derville, delegato generale di Alliance Vita, al microfono di Anne-Sophie Saint-Martin

R. – La classe politique française dans sa majorité …
La classe politica francese, nella sua maggioranza e su entrambe le sponde politiche, considera la pratica dell’utero in affitto come indegna. Indegna per il diritto del bambino che viene privato deliberatamente della relazione con la donna che lo ha portato in grembo per tutta la gravidanza; ma indegna anche perché è un attacco ai diritti della donna che viene strumentalizzata: l’essere umano stesso, qui, diventa oggetto di un contratto che esige un pagamento. Ecco perché la sentenza della Corte di Cassazione che approva “l’importazione” dei bambini nati attraverso questa pratica, approva di conseguenza questa pratica anche sullo stato civile, benché parzialmente. La Francia, al momento, è uno di quei Paesi che rifiuta la mercificazione del corpo, ma ecco che attraverso le istanze della giustizia sta andando esattamente sulla posizione opposta. E questo evidentemente è molto grave e può avere delle conseguenze riguardo ai diritti fondamentali della persona. Infatti, ora la Corte di Cassazione considera che gli atti dello stato civile possano essere trascritti, in certi casi, malgrado la violazione della legge che vieta la pratica dell’utero in affitto. Tutto questo, attraverso la politica dei piccoli passi, porterà alla distruzione dei principi fondamentali della famiglia, che sono in vigore in Francia, mettendo così a rischio i diritti fondamentali del bambino, che è il più debole e colui che non ha voce.

D. – Quali le conseguenze di questa decisione?

R. – Cet arrêt a deux conséquences: …
Questa decisione ha due conseguenze. La prima conseguenza è un messaggio che viene lanciato ai francesi che vogliono aggirare il divieto della pratica dell’utero in affitto, perché dice loro: “Non vi preoccupate! La Francia sarà obbligata a riconoscere i bambini che voi ‘importerete’ nel nostro Paese”… Mi spiace di dovere usare una tale espressione – “importare” - ma questo è quello che succede! La maternità attraverso la pratica dell’utero in affitto tratta la donna come un oggetto che si compra e il bambino come un qualcosa che si può comprare da donne che ne programmano l’abbandono e ancor prima il concepimento. La seconda conseguenza è che tutto questo non farà che alimentare la rivendicazione ossessiva della pratica dell’utero in affitto. Le lobby che la rivendicano affermeranno che in realtà tutto questo è una ipocrisia, perché si può fare all’estero e questo vorrà dire che soltanto i ricchi potranno farlo. E così,  se un desiderio degli adulti non viene regolato da una legislazione che protegge i più deboli e i più vulnerabili, passo dopo passo si arriverà a non rispettare più i diritti fondamentali della persona. Questo è quello succede oggi in Francia e nel mondo intero: quando la tecnica non è regolata da una etica, che sia al servizio dei più deboli e dei più fragili, questa tecnica diventa totalitaria! Io credo che la Francia sia percepita come modello ideale proprio per l’adozione di principi etici e per la sua lotta alla mercificazione del corpo, sia quello della donna che dell’essere umano, che è il bambino. Se la Francia molla su questo punto, credo che sia qualcosa di molto grave e con conseguenze veramente pesanti per altri Paesi, che aspettano – su questi temi - la posizione della Francia per prendere, a loro volta, una posizione.

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Belgio: eutanasia per depressione. Comitato bioetica: non arrendersi

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Un nuovo drammatico caso di “eutanasia” sta scuotendo il Belgio. Laura, 24 anni e una grande passione per il teatro e la fotografia, ha scelto di morire perché depressa sin da bambina. Accadrà quest’estate in data da stabilire. La legge lo prevede in quanto considerato caso di “sofferenza psichica insopportabile”. ”La mia famiglia - ha detto la giovane - sa che è la soluzione migliore per me”. Continua dunque a crescere nel Paese, come ha già denunciato la Conferenza episcopale belga, il clima eutanasico contrario alla fraternità e alla solidarietà. “Non possiamo arrenderci”, ha ribadito al microfono di Gabriella Ceraso, Assuntina Morresi membro del Comitato nazionale di bioetica: 

R. – Siamo arrivati al punto in cui la morte può essere una soluzione per ciascuno di noi, anzi lo Stato ce la deve somministrare se la chiediamo. Non possiamo pensare che la depressione di questa ragazza sia un caso eccezionale: se il dolore psicologico è un dolore insopportabile, ho il diritto di essere ucciso! Il dolore insopportabile nella vita, purtroppo, capita a tutti molto spesso.

D. – In Belgio, il caso di Laura rientra in una cinquantina l’anno, pari al 3 per cento di tutte le eutanasie effettuate in questo Paese, che l’anno scorso ha legalizzato le procedure di fine vita per i bambini e che sin dal 2002 va avanti molto rapidamente in questo tipo di legislazione. Perché questa prassi sempre più disinvolta?

R. – Il Belgio semplicemente è il primo che percorre tutto il percorso logico dell’eutanasia. Il fatto è che nel momento in cui si ammette che un medico possa dare anche la morte su richiesta, cambia pure la mentalità dei medici: cambia il modo di trattare e di affrontare la sofferenza, di rapportarsi con i pazienti. Ciò facilita, quindi, l’approccio a una morte su richiesta. E questo in Belgio è la novità più inquietante.

D. – Cosa manca o, invece, cosa ha acquisito una cultura o una civiltà per arrivare a fare queste scelte?

R. – C’è la paura a dire: “Io non ce la faccio”! Probabilmente siamo una società che non fa più figli, una società in cui le relazioni umane sono sempre più povere dal punto di vista non solo della quantità: abbiamo sempre meno fratelli, sempre meno parenti; le famiglie sono sempre più fragili e in questa fragilità di rapporto – in generale – in questo clima di sempre maggior solitudine, uno pensa sempre più spesso che non ce la fa… E se non ce la fa chiede allo Stato, che alla fine è l’unica istituzione presente, di farla finita.

D. - Se lo Stato non autorizzasse, forse si potrebbe non arrivare a questa decisione e quindi scegliere altre strade: Laura, per esempio, ha incontrato casualmente un’altra coetanea che stava organizzato proprio la sua eutanasia e da qui sembra essersi convinta che questa fosse la strada giusta…

R. – Sicuramente questo è vero: se addirittura fra i servizi che lo Stato offre c’è anche la possibilità di ucciderti su richiesta, è ovvio che è contemplata come soluzione.

D. – Però, vogliamo dirlo, tutto ciò succede anche quando ci si dimentica che la vita non è nostra: la vita ha un’origine che trascende da noi o no?

R. – Sì. Io credo che nel nostro continente, oltre ad una scristianizzazione, si sia proprio chiusa una domanda, un desiderio di qualcosa: si censura il fatto che noi passiamo la vita desiderando qualcosa di grande e prendendo sul serio questo desiderio. Ecco, questa cosa è come censurata, è come spenta, è come soffocata. Quindi se uno non ce la fa più, la fa finita. Ma non dobbiamo abituarci, perché l’assuefazione a questo clima di morte è quanto di peggio possa succedere.

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I medici volontari di 'Emergenza Sorrisi' in Iraq

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Undici medici volontari sono appena tornati da una missione chirurgica in Iraq, a Nassiriya: 19 i bambini operati, affetti da gravi malformazioni al volto. L'equipe di 'Emergenza Sorrisi', l'ong che opera da anni in contesti di guerra come l'Iraq, il Kurdistan, il Bangadlesh e il Benin, nell'ultimo anno ha operato 270 bambini e avviato altre missioni in realtà poverissime. Fabio Massimo Abenavoli, presidente dell'associazione, spiega al microfono di Maria Cristina Montagnaro che situazione abbiano trovato gli operatori in Iraq: 

R. – Siamo stati a Nassiriya, che è una città che conosciamo bene, perché ci andiamo due volte l’anno a operare i bambini. L’Iraq attualmente è in grossa difficoltà; la popolazione ha questa necessità: chiede la pace dopo dodici anni di sofferenze. È una popolazione che ha poche possibilità economiche e che si trova a fronteggiare questa nuova guerra, che – purtroppo – come al solito colpisce la popolazione indifesa e i bambini.

D. – Voi siete stati proprio a Nassiriya: lì fate anche formazione locale. Ci può raccontare cosa fate?

R. – Al di là dell’intervento chirurgico diretto dei nostri volontari, lavoriamo con i medici e con le strutture sanitarie locali, affinché poi continuino questa nostra azione. Per cui stiamo creando 'Emergenza Sorrisi - Iraq', che ormai è una realtà effettiva all’interno della quale lavorano i medici e gli infermieri iracheni e le strutture sanitarie sono ben conosciute.

D. – Come scegliete i bambini che andrete ad operare?

R. – È molto difficile, in effetti, perché noi ci troviamo ogni volta con centinaia di casi clinici; le famiglie portano i loro bambini e purtroppo noi dobbiamo in qualche modo dare una preferenza. La nostra preferenza - anche se è brutto questo termine - è verso quei bambini che hanno il labbro leporino: una deformità del palato che provoca l’impossibilità di alimentarsi; senza il nostro intervento morirebbero nei primi anni di vita.

D. – Da che cosa è provocata questa patologia?

R. – È collegata in parte a carenze anche nutrizionali della madre – carenze di acido folico – in parte a infezioni durante le prime settimane di gravidanza, una gravidanza che non è seguita come nei nostri contesti sociali: chiaramente è tutto collegato con la povertà.

D. – Avete anche un film su di voi, ora nelle sale, di Gianluca Tavarelli: come è nata l’idea?

R. – Sì, questa è una cosa molto particolare: Gianluca Tavarelli ci ha seguito alcuni anni fa con molta attenzione, insieme ad altri suoi colleghi, durante una missione che abbiamo realizzato proprio nella base americana – all’epoca c’era la base di Tallil – e noi abbiamo lavorato, seguiti dai suoi appunti, dalla sua macchina fotografica e dalla sua cinepresa. E poi abbiamo scoperto che lui stava inseguendo questo suo sogno. E devo dire che è un film fatto molto bene: lui è un grande regista. Il film, che è in tutte le sale cinematografiche, si intitola: “Una storia sbagliata” e racconta un po’ la vita di un volontario, le privazioni delle popolazioni, ma anche quelle dei volontari, l’ambiente dove noi svolgiamo la nostra attività. È molto veritiero.

D. – Per chi volesse saperne di più e magari anche aiutarvi…

R. – Abbiamo il nostro sito che è: www.emergenzasorrisi.it.

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Nella Chiesa e nel mondo



Nigeria, attentato Boko Haram in chiesa evangelica: 5 morti

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In Nigeria, ancora un attentato nello Stato di Yobe. A esplodere, in un’affollata chiesa evangelica durante la Messa domenicale, una donna kamikaze. Almeno 5 i fedeli uccisi nell'esplosione, tra cui una donna, con i suoi 2 bambini, un pastore e un’altra persona deceduta dopo essere stata trasportata in ospedale. Si tratta dell’ultimo di una lunga e sanguinosa serie di attentati, a opera del gruppo estremista islamico Boko Haram, che solo nella scorsa settimana hanno causato la morte di circa 200 persone. (E.R.)

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Siria: attentato Is a centrale elettrica Hasaka

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In Siria e Iraq non cessano le violenze del sedicente Stato islamico (Is). Un gruppo di miliziani si è fatto esplodere nei pressi di una centrale elettrica nella città curdo-siriana di Hasaka, nel nord-est della Siria, provocando vittime e danni materiali. Secondo la tv di Stato siriana, l’esercito di Assad è, invece, riuscito a respingere un secondo attacco alla centrale, che serve i quartieri meridionali della città. Ieri, invece, la diffusione dell’ennesimo video shock, da parte di alcuni siti internet vicini ai miliziani, in cui si vedono venticinque giovani uccidere con un colpo alla nuca altrettanti soldati siriani sullo sfondo dell’antico anfiteatro romano di Palmira. In Iraq, intanto, una serie di attentati ha colpito Baghdad e l’area circostante. Nove morti e ventiquattro feriti il bilancio dell’esplosione di un’autobomba nella periferia occidentale della capitale. Un altro ordigno è esploso alla fermata di un autobus, uccidendo tre persone e ferendone altre quindici. Altri due attentati esplosivi hanno colpito un mercato della città di Mhamoudiya e un ristorante di Balad Ruz.

Continuano, nel frattempo, i bombardamenti della coalizione internazionale a guida statunitense sulle zone di Iraq e Siria sotto il controllo jihadista. In uno dei raid sulla città di Raqqa, considerata la capitale dell’autoproclamato Califfato: ci sarebbero anche dei bambini tra le oltre venti vittime. Infine, è in buone condizioni di salute ed è stato trasportato in un edificio istituzionale curdo di Erbil il giovane italiano, attivista filo curdo, fermato ieri in Kurdistan dopo essere stato ferito ad una spalla. Alessandro De Ponti, 23 anni, di Treviglio, in provincia di Bergano, era arrivato in Kurdistan a fine aprile, attraverso la Siria. La situazione è monitorata dall’Unità di crisi della Farnesina. (E.R.)

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Tunisia: minaccia Is, Essebsi decreta stato di emergenza

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Stato di emergenza su tutto il territorio tunisino per il pericolo jihadista. A dichiararlo, ieri, durante un discorso alla Nazione, il presidente della Repubblica e comandante in capo delle forze armate, Beji Caid Essebsi. La misura resterà in vigore per trenta giorni, rinnovabili, e segue l’attentato, del marzo scorso, al Museo del Bardo, e la strage sulla spiagge di Sousse, lo scorso 28 giugno, in cui hanno perso la vita 38 turisti stranieri. Abbiamo lo Stato Islamico (Is) alle porte e nella vicina Libia ci sono milizie armate, ha dichiarato il presidente Essebsi, aggiungendo che lo Stato tunisino potrebbe crollare se fosse colpito da un nuovo attentato. Concretamente, lo stato di emergenza conferisce maggiori poteri a governatori e accorda poteri eccezionali alle forze dell'ordine, come il diritto di proibire scioperi e riunioni, compiere perquisizioni domiciliari e prendere tutte le misure necessarie per assicurare il controllo della stampa e le pubblicazioni di ogni natura.(E.R.)

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Yemen, inviato Onu a Sana'a per trattare tregua

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L'inviato dell'Onu in Yemen, Ismayl Ould Sheikh Ahmad, è a Sana'a per incontrare i vertici del movimento Ansar Allah dell'imam sciita Abdel Malik al Houthi. Obiettivo di questa visita è trattare una tregua umanitaria con i ribelli sciiti, a causa della situazione di emergenza in cui versa il Paese dopo il crollo del sistema sanitario. La tregua, che dovrebbe durare fino alla fine del Ramdan, consentirebbe alle Nazioni Unite la distribuzione di aiuti umanitari. Una tregua di cinque giorni, grazie alla mediazione dell’Onu, era già stata raggiunta lo scorso maggio per permettere la distribuzione di medicine e di carburante ai civili  intrappolati in zone di guerra. (E.R.)

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Argentina: in marcia per il diritto alla vita

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A Buenos Aires e in contemporanea in numerose altre città argentine si sono svolte diverse manifestazioni per il diritto alla vita. I manifestanti portavano cartelli e striscioni con le scritte "Dico sì alla vita", "La vita è sacra" e "La donna incinta ha bisogno di sostegno, non di un aborto", protestando per le modifiche apportate al disegno di legge sull’aborto che, secondo i vescovi, può portare alla legalizzazione della pratica.

La Chiesa contro la definizione di "diritto all'aborto legale"
La marcia, che secondo le informazioni raccolte dall’agenzia Fides in alcune province ha avuto il sostegno esplicito dei vescovi, aveva l'obiettivo di chiedere ai legislatori "il rispetto del diritto alla vita, dal concepimento alla morte naturale, e del matrimonio come unione tra un uomo e una donna".
Secondo il Comitato esecutivo della Conferenza episcopale argentina, il nuovo "Protocollo per la cura globale delle persone con il diritto all'aborto legale" del Ministero della Salute “prevede una modifica sostanziale rispetto al testo precedente, di eliminare cioè il concetto di aborti non punibili sostituendolo con 'diritto all'aborto legale'. Questa terminologia elude la realtà giuridica secondo cui non esiste nel nostro Paese un ‘aborto legale’ né un ‘diritto all'aborto’”.

Il Governo viola deliberatamente “la vita umana più vulnerabile”
​I vescovi sottolineano inoltre che in un'epoca come quella attuale, in cui si enfatizza il rispetto della natura e della vita in tutte le sue dimensioni, il governo stesso in questo modo viola deliberatamente “la vita umana più vulnerabile e i diritti umani fondamentali”. Così le autorità nazionali "obbligano a spingere per l'aborto", invece di proporre iniziative per “salvare la vita della madre e del bambino e di cercare le opzioni veramente terapeutiche e alternative". (S.L.)

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Egitto: aumentata protezione intorno al patriarca Tawadros

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Le forze di sicurezza egiziane, dopo l'attentato che è costato la vita al procuratore generale Hisham Barakat hanno aumentato le misure di protezione intorno a leader politici, istituzionali e religiosi nazionali, compreso il Patriarca copto ortodosso Tawadros II. Lo rendono noto gli organi d'informazione legati alla comunità copta ortodossa, ripresi dall'agenzia Fides. Il primate della Chiesa copta continua in ogni caso a svolgere il proprio ministero pastorale, che in questi giorni prevede una visita ad Alessandria con un programma fitto di incontri con le comunità locali.

Il patriarca Tawadros minacciato di morte
Nei giorni scorsi, indiscrezioni giornalistiche avevano fatto allusione a possibili attentati preparati da non meglio precisati “gruppi terroristici” contro il Patriarca copto ortodosso. Già nell'estate 2013, per motivi di sicurezza, Tawadros aveva dovuto sospendere le sue tradizionali catechesi del mercoledì. Il suo nome figurava in cima a una lista di alcune decine di persone "da eliminare" fatta trovare nell’agosto di quell’anno in una busta anonima dentro una moschea del Cairo. (G.V.)

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Libano: card. Rai interviene sul sondaggio per elezione presidente

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La proposta di un sondaggio tra i cristiani libanesi per individuare quale politico maronita avrebbe più sostegno popolare come candidato alla carica di presidente della Repubblica non convince del tutto il Patriarca maronita, il cardinale Boutros Bechara Rai. Secondo il primate della Chiesa maronita - riferisce l'agenzia Fides - tale eventuale sondaggio non rientra nelle procedure contemplate dalla Costituzione e, per essere realizzato, dovrebbe ottenere l'approvazione previa di tutti i legislatori cristiani. In un intervento comparso ieri sui media libanesi, il patriarca Rai ha riferito di aver comunicato ai rappresentanti delle formazioni politiche cristiane appartenenti a diversi schieramenti la sua disponibilità a ricevere, presso la sede patriarcale di Bkerkè, tutti i rappresentanti cristiani del Parlamento, allo scopo di valutare insieme la proposta del sondaggio.

Sondaggio gradito alle due formazioni politiche cristiane più influenti
Secondo le indiscrezioni circolanti sulla stampa libanese, l'idea di un sondaggio preliminare per individuare il candidato alla carica presidenziale più gradito tra i cristiani sarebbe appoggiata sia dal Movimento Patriottico Libero sia dalle Forze Libanesi, le due formazioni politiche cristiane più influenti, appartenenti a coalizioni contrapposte. Il complesso sistema istituzionale libanese riserva la carica di presidente della Repubblica a un cristiano maronita. La carica presidenziale è vacante da più di un anno, a causa soprattutto dei veti incrociati che impediscono alle formazioni politiche cristiane appartenenti a opposti schieramenti di trovare convergenze su un candidato comune. (G.V.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 186

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.