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Sommario del 06/07/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa in Ecuador: dialogo e partecipazione senza esclusioni

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Con la prima tappa in Ecuador è iniziato il viaggio in America Latina di Papa Francesco che nei prossimi giorni lo vedrà in Bolivia e Paraguay. L'aereo dell'Alitalia è atterrato ieri all'aeroporto di Quito alle 14.45 ora locale (le 21.45 in Italia). Sceso dalla scaletta, il caloroso abbraccio con il presidente dell'Ecuador, Rafael Correa, accompagnato dalla consorte. Nel suo primo discorso in America Latina Papa Francesco ha invitato al dialogo e alla partecipazione senza esclusioni. Il servizio di Giada Aquilino

Le “chiavi” per affrontare le sfide di oggi sono nel Vangelo. Al suo arrivo a Quito, in quella che ha definito la “bella terra dell’Ecuador”, Papa Francesco si è presentato “come testimone della misericordia di Dio e della fede in Gesù Cristo”. Salutando il presidente della Repubblica, Rafael Correa, le istituzioni, la Chiesa locale e i fedeli che lo hanno accolto aprendogli – ha affermato – “le porte del loro cuore, della loro famiglia e della loro Patria”, il Pontefice ha detto di essere già stato in Ecuador “per motivi pastorali” e ha voluto ricordare la fede che “per secoli ha plasmato l’identità” della popolazione locale. Quindi, un tributo alle “figure luminose” di quella terra che, “praticando la misericordia”, hanno contribuito “a migliorare la società ecuadoriana del loro tempo”: Santa Marianna di Gesù, San Michele Febres, Santa Narcisa di Gesù e Mercedes di Gesù Molina, beatificata a Guayaquil trent’anni fa durante la visita di san Giovanni Paolo II:

“En el presente, también nosotros podemos encontrar en el Evangelio...
Oggi, anche noi possiamo trovare nel Vangelo le chiavi che ci permettono di affrontare le sfide attuali, apprezzando le differenze, promuovendo il dialogo e la partecipazione senza esclusioni, affinché i passi avanti in progresso e sviluppo che si stanno ottenendo garantiscano un futuro migliore per tutti, riservando una speciale attenzione ai nostri fratelli più fragili e alle minoranze più vulnerabili, che sono il debito che ancora ha tutta l’America Latina. Per questo scopo, signor presidente, potrà contare sempre sull’impegno e la collaborazione della Chiesa, per servire questo popolo ecuadoriano che si è alzato in piedi con dignità”.

Solo Gesù brilla di luce propria
In questa missione, Francesco ha assicurato costantemente l’impegno e la collaborazione della Chiesa. Poi, ha confidato di cominciare “con attese e con speranza” la settimana che lo attende in America Latina, osservando che “il punto più vicino allo spazio esterno del mondo” si trova proprio in Ecuador, è la cima del Chimborazo, nelle Ande, che è “il punto più vicino al sole, alla luna e alle stelle”, ha aggiunto:

“Nosotros, los cristianos, identificamos a Jesucristo con el sol...
Noi cristiani paragoniamo Gesù Cristo con il sole, e la luna con la Chiesa e la luna non ha luce propria e se la luna si nasconde dal sole diventa buia. Il sole è Gesù Cristo, e se la Chiesa si allontana o si nasconde da Gesù Cristo diventa oscura e non dà testimonianza. Che in queste giornate si renda più evidente a tutti noi la vicinanza del ‘sole che sorge dall’alto’ e che siamo riflesso della sua luce, del suo amore”.

Difesa dei più deboli e fiducia nei giovani
“Dalla cima del Chimborazo, fino alla costa del Pacifico, dalla selva amazzonica fino alle isole Galapagos”, l’abbraccio e la benedizione all’intero Ecuador:

“Nunca pierdan la capacidad de dar gracias a Dios...
Non perdete mai la capacità di rendere grazie a Dio per quello che ha fatto e fa per voi, la capacità di difendere il piccolo e il semplice, di aver cura dei vostri bambini e anziani, di avere fiducia nella gioventù e di provare meraviglia per la nobiltà della vostra gente e la bellezza singolare del vostro Paese”.

Il programma della visita a Quito e Guayaquil
Dopo la cerimonia di benvenuto, il Papa si è diretto tra due ali di folla festante, alla Nunziatura apostolica di Quito per la cena ed il pernottamento. Domani si trasferirà da Quito a Guayaquil dove visiterà il Santuario della Divina Misericordia, celebrerà la Messa al Parque de los Samanes e si trasferità al Collegio Javier dei Gesuiti per il pranzo. Nel pomeriggio tornerà a Quito per la visita di cortesia al presidente della Repubblica, Rafael Correa, e come ultimo atto della giornata la visita alla cattedrale di Quito.

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P. Lombardi: comunione del Papa con un grande popolo che lo capisce

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Al termine della prima giornata del Papa Francesco in Ecuador, il nostro inviato a Quito, Mario Galgano, ha intervistato il direttore della nostra emittente e portavoce vaticano padre Federico Lombardi, al seguito del Papa: 

D. – Padre Lombardi, innanzitutto, com’è andato il viaggio, il volo di 13 ore, da Roma a Quito?

R. – E’ stato un viaggio molto sereno, secondo lo schema che il Papa usa durante il viaggio di andata: ha un incontro con i giornalisti, che però non è un incontro del tipo “conferenza stampa con risposte a domande comuni”, ma è un passaggio a salutare ognuno da vicino, personalmente. Lo trovo un momento molto bello e importante perché crea comunità, crea comunione tra il Papa e i comunicatori che, in qualche modo, sono chiamati alla “missione” di aiutare il Papa nella sua missione, moltiplicandone le voci, moltiplicandone i messaggi. Il Papa riesce a suscitare questo molto bene con questo rapporto personale, che è molto gradito e che entra nei cuori. Questo è stato il momento, dal punto di vista comunicativo, principale di questo lungo viaggio, in cui poi il Papa ha anche potuto riposare, preparare i suoi discorsi, pregare, come fa in questi casi.

D. – C’è già stato un primo discorso di benvenuto ovviamente del Presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, e il ringraziamento da parte del Santo Padre. Può dirci qualcosa su questo primo discorso e su quello che si è detto e sottolineato, che metterà i paletti – se vogliamo – su questo primo viaggio dei tre Paesi che visiterà?

R. – Il Papa è molto consapevole del momento storico che questi Paesi vivono e della importanza di aiutarli a orientarsi bene su una via di vero sviluppo - nella dignità umana, nel bene comune - uno sviluppo che sia ispirato dalla fede cristiana. Il Papa ha detto che il Vangelo offre delle chiavi per affrontare i problemi che questi Paesi hanno. Naturalmente il Papa pensa alla crescita nella giustizia, alla crescita nell’integrazione comunitaria delle minoranze o delle persone emarginate o dei gruppi che sono svantaggiati e così via. Quindi il Papa dà un messaggio e un impulso molto forte, che può aiutare a trovare la direzione giusta, a mettere a punto, quando le direzioni magari sono giuste ma hanno bisogno di essere corrette per diversi aspetti. Una prospettiva, quindi, molto positiva, direi. Il Papa ha detto delle belle parole per il popolo ecuadoriano, che “si mette in piedi con dignità”. Riconosce cioè che sta facendo uno sforzo, sta raggiungendo dei risultati. Naturalmente è un cammino che deve essere continuato, perfezionato, perché lo sviluppo sia pieno, degno della persona umana, della partecipazione comunitaria di tutti e così via.

D. – E’ arrivato da poche ore e ovviamente non ha visto tantissimo, ma c’è qualcosa che forse a lei - o anche al Santo Padre - ha colpito in questo arrivo, qualcosa forse di inaspettato, che forse si immaginava diversamente?

R. – Mi ha colpito positivamente quello che, però, in qualche modo aspettavamo, per fortuna, cioè questo calore, questa gioia del popolo nel ricevere il Papa, che viene sentito come un Papa di famiglia, un Papa vicino, un Papa che parla a questo popolo in modo spontaneo, in modo semplice, in modo concreto. L’accoglienza, quindi, meravigliosa già lungo le strade di Quito questa sera (Iieri sera - ndr) manifesta quello che continueremo certamente a vedere nei prossimi giorni, cioè questo incontro profondo tra il Papa e il popolo: non un incontro superficiale, ma un incontro profondo. Questo lo si vede anche nei volti e negli atteggiamenti delle persone, nel loro sorriso e nelle loro lacrime di commozione. E credo che il Papa, che sente moltissimo il tema del “popolo” come esperienza comunitaria, anche nel vivere la fede, nel vivere la religiosità popolare, nel tradurre la fede in realtà concreta nella vita quotidiana, potrà vivere dei giorni molto incoraggianti per lui e per gli altri in questa comunità, in questa comunione del pastore con un grande popolo che lo ascolta e lo capisce.

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Ecuador. La Chiesa: il Papa ci aiuterà a fare la differenza

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Una Chiesa e in larga parte una nazione in attesa di seguire le indicazioni del suo Pastore universale. Il portavoce dei vescovi ecuadoriani, padre David de la Torre, parla al microfono di uno degli inviati a Quito, Oliver Bonnel, dell’auspicio che le parole di Papa Francesco possano aiutare anzitutto i cristiani a “fare la differenza” nel dialogo all’interno della società: 

R. – Tout le peuple équatorien, des gens humble de ce pays…
Tutti gli ecuadoriani, le persone umili di questo Paese, vogliono partecipare alle Messe del Papa, agli incontri previsti… Per noi è veramente una festa: una festa della fede ma anche una festa dell’umanità intera.

D. – L’Ecuador vive ina situazione politica difficile: il Paese è diviso tra sostenitori del governo e i suoi oppositori. Pensa che l’Ecuador possa dare prova di unità nell’occasione di questa visita del Papa?

R. – Nous croyons que oui, parce-que le peuple équatorien…
Noi crediamo di sì, perché il popolo ecuadoriano è un popolo religioso, un popolo che ama il dialogo. E secondo me, il movimento che vediamo in questi giorni risponde alla dinamica della democrazia. Quindi, non bisogna credere che il Paese sia diviso: ciascuno ha le proprie idee e tutti i pensieri politici devono mettersi in dialogo per costruire, per edificare una società migliore.

D. – Sappiamo che il motto di questo viaggio apostolico è “La gioia di evangelizzare”. Lei ha percepito questa gioia di accogliere il Santo Padre?

R. – Oui. Le peuple équatorien, tout le peuple équatorien…
Sì, il popolo ecuadoriano, tutto il popolo ecuadoriano – anche oltre le frontiere della Chiesa cattolica – vuole veramente che la parola del Papa e la sua presenza fra noi possano fare la differenza a livello personale, ma anche a livello di tutta la nazione. È un fatto che da due mesi, ovunque, veramente si percepisca questa gioia di accogliere il Papa: nelle chiese, nella società… Non c’è stata nemmeno una voce di critica nei riguardi della visita. Al contrario, tutti vogliono che questa visita possa aiutarci a fare la differenza.

D. – Come si pone la Chiesa in questo contesto di tensione politica?

R. – L’Eglise a une mission fondamentale…
La Chiesa ha una missione fondamentale, che è quella di favorire il dialogo e la comunione di tutti i partiti, di tutte le posizioni ideologiche e politiche. A mio avviso, siamo consapevoli del fatto che la Chiesa debba partecipare a quei dibattiti nella società che sono in corso in questa epoca. La Chiesa non può limitarsi ad atti liturgici o religiosi: la fede deve essere vissuta nel concreto della realtà sociale, politica, culturale. E a mio avviso, la visita di Papa Francesco mette la Chiesa ecuadoriana al centro della dinamica della società. E questa cosa a volte, negli ultimi anni, si era persa.

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Telegrammi Papa a Venezuela e Colombia: prego per pacifica convivenza

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Durante il volo che lo ha portato a Quito, Papa Francesco ha indirizzato un telegramma al Presidente del Venezuela, Nicolas Maduro Moros e uno al Presidente della Colombia, Juan Manuel Santos Calderón. Nel telegramma al capo di Stato venezuelano, il Pontefice manifesta il suo affetto e la sua vicinanza al popolo del Paese latinoamericano e chiede al Signore che possa “progredire ogni giorno di più nella solidarietà e nella pacifica convivenza”.

Nel telegramma al Presidente colombiano, il Papa rinnova la sua vicinanza al popolo di Colombia per il quale chiede al Signore abbondanti grazie affinché possa progredire “nei valori umani e spirituali che lo caratterizzano, nella riconciliazione e nella convivenza pacifica” augurando al tempo stesso una “crescente prosperità”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Il sole e la luna: in prima pagina, un editoriale del direttore sul viaggio del Papa in Ecuador.

L'occasione che nasce dal "no": Luca M. Possati illustra gli scenari dopo il referendum greco.

Un articolo di Felice Accrocca dal titolo "I cavoli di Salimbene": cronache e aneddoti sul cibo dell'Italia del XIII secolo.

Baluardo per gli emarginati: da Durham, Cristian Martini Grimaldi sulla cattedrale tra storia e leggenda.

Un mondo claudicante: Cristiana Dobner su positivo e negativo in Haim Baharier.

Le ferite (mai rimarginate) di Kafka: Gabriele Nicolò su una nuova biografia dello scrittore praghese.

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Oggi in Primo Piano



Grecia: dopo il no al referendum, Europa col fiato sospeso

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Dopo la vittoria del no al piano europeo – con il 61 per cento dei voti - al referendum in Grecia, l'Europa con il fiato sospeso. A sorpresa le dimissioni del ministro delle Finanze Varoufakis, mentre il premier Tsipras pensa a una squadra nazionale di negoziazione. Se la Commissione Ue “prende atto” del risultato, facendo sapere che non potrà agire senza il mandato dell’Eurogruppo, che si riunirà domani e che attende proposte da Atene, Putin chiede un immediato colloquio a Tsipras. Roberta Barbi ha raccolto il commento del prof. Antonio Villafranca, responsabile del Programma Europa dell’Istituto degli studi di politica internazionale (Ispi): 

R. - La situazione è molto complicata; il default della Grecia è dietro l’angolo. La prima decisione importante spetta alla Bce che deve decidere se continuare a fornire liquidità straordinaria alle banche greche che altrimenti continuerebbero a rimanere chiuse. Io credo e spero che la Bce non interrompa completamente il suo programma con la Grecia, magari anche in attesa delle decisioni dell’Eurogruppo di domani e dei prossimi giorni. Una data però è certa: quella del 20 luglio, quando scade la trance di debito che la Grecia deve alla Bce. Nel caso in cui questa non venga pagata, allora è evidente che la Bce non potrebbe più fornire liquidità aggiuntiva.

D. - Alla vigilia del referendum la posizione dell’Europa in caso di vittoria del “no” era che la credibilità della Grecia ne sarebbe uscita terribilmente indebolita in vista di una nuova trattativa, mentre i sostenitori della politica del governo erano convinti del suo rafforzamento …

R. - Credo che sia stata una grande scommessa, quella fatta da Tsipras. Non sono convintissimo che sia stata vinta; bisogna vedere come reagiscono gli altri leader europei, perché una cosa è certa: prima c’erano sette miliardi "sul piatto" che avrebbero permesso alla Grecia di non andare in default. È chiaro a tutti che il debito greco, comunque, è insostenibile e che una sua ristrutturazione, intorno al 30-40 percento almeno, sarà necessaria. Con la vittoria del “no” è tutto assolutamente nebuloso. I rischi per la Grecia in realtà sono più alti. Certo, quando si scommette e si rischia tantissimo si può anche guadagnare molto, ma si può anche andare in bancarotta.

D. - Ora è verosimile un’uscita della Grecia dall’Euro?

R. - Con la vittoria del “no” le probabilità sono sicuramente più alte. Questo non vuol dire che debba necessariamente avvenire. Io spero in un senso di responsabilità politica da parte di tutti i leader europei.

D. - Le dimissioni di Varoufakis gioveranno alla trattativa?

R. - Gioveranno sicuramente. Era chiaro ormai che Varoufakis era diventato un po’ una "persona non grata", perché non ritenuto più affidabile. Lui devo dire che - questo con un atto di responsabilità politica che gli va riconosciuta – ha fatto un passo indietro, e questo sicuramente gioverà alle trattative.

D. - Tsipras si è seduto al tavolo con gli altri partiti e sta valutando l’ipotesi di una squadra negoziale nazionale. Anche questo gioverà?

R. - Assolutamente sì, è chiaro che la Grecia si trova in una situazione di emergenza nazionale e che non può essere solo risolta da Syriza. Qui è necessario coinvolgere gli altri partiti. Si fanno già, tra l’altro, dei nomi sui possibili sostituti di Varoufakis; si parla del moderato Dragasakis che è uno dei moderatori, o quello che ha posizioni un po’ più estreme di quest’ultimo che è Tsakalotos, però potrebbe anche – ad esempio – sostituirlo Stournaras che è l’ex ministro delle Finanze del governo di Samaras. Quindi sono delle alternative sicuramente valide, meglio di Varoufakis.

D. - I mercati ne hanno già risentito?

R. - I mercati ne stanno risentendo ma non in maniera drammatica. Quello che prevale è un atteggiamento di attesa. Ovviamente le decisioni importanti riguardo la Bce, il fatto che mantenga o meno la liquidità straordinaria per le banche greche. È stato fatto un calcolo secondo il quale sarebbero immediatamente necessari altri 60 miliardi; ricordiamo che la Bce aveva alzato il tetto fino a 89 miliardi, poi ovviamente la decisione dell’Eurogruppo sul da farsi, cioè se veramente concedere ad esempio quei 30 miliardi che aveva chiesto il governo greco per i prossimi due anni e avviare appunto una discussione sulla ristrutturazione del debito greco. Questo che cosa vuol dire in termini molto pratici? I soldi che gli altri Paesi europei hanno già prestato alla Grecia – non dimentichiamo che l’Italia ha già dato 36 miliardi – non verrebbero restituiti in toto e che eventualmente ulteriori soldi dovrebbero essere dati alla Grecia.

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Boko Haram attacca chiese e moschee. Kaigama: uniti contro violenza

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Terrore in Nigeria, dove in meno di 24 ore il gruppo terrorista “Boko Haram” ha sferrato una serie di attentati contro una chiesa nel Nord Est del Paese e contro una moschea e un ristorante nella città di Jos. Cinque le vittime tra i fedeli che ieri assistevano alla Messa domenicale, mentre il bilancio del doppio attentato di oggi è di almeno 44 morti. Su questa ennesima strage contro civili inermi, Alessandro Gisotti ha raggiunto telefonicamente in Nigeria l’arcivescovo di Jos, mons. Ignatius Kaigama

R. – Io dico sempre che questo gruppo ha perso la razionalità. La vita, infatti, per loro è niente; non gli importa nulla della loro vita: è inutile. Prendono, però, altre vite, questo è il problema. Vanno in chiesa, vanno al ristorante, vanno al mercato, vanno a scuola e mettono le bombe. Ciò significa che la loro filosofia di vita è irrazionale. Una persona normale non può fare questo. E’ una brutalità impensabile.

D. – Nella moschea di Jos, dove c’è stato l’attentato, l’imam aveva condannato Boko Haram. Tante volte anche lei, insieme ad esponenti musulmani della Nigeria, ha condannato queste violenze…

R. - Sì, siamo sempre uniti in questo. Una volta dicevano che Boko Haram fosse un gruppo promosso dai musulmani, ed io rispondevo sempre: “No, è un gruppo fanatico”. E noi, con i musulmani moderati, lavoriamo insieme per superare questa violenza. La settimana scorsa sono stato in moschea per salutare un nuovo imam e sono andato in segno di fratellanza. Siamo sempre uniti, quindi, nel lavorare contro la violenza. Abbiamo molto a cuore tutto questo.

D. – C’è bisogno, ovviamente, di più sicurezza, perché sembra che ogni luogo sia ormai putroppo un bersaglio...

R. – Sì, ma quale sicurezza non saprei, perché ci sono i soldati, c’è la polizia e un po’ tutto intorno alla città. Queste persone, però, che mettono le bombe non sono distinguibili tra la gente, perché vanno in bicicletta e tengono le bombe nascoste. Non si può dire, dunque, ed è difficile sapere chi sia pericoloso e chi no.

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Vertice dell'Africa Orientale sulla crisi in Burundi

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La crisi politica in Burundi è al centro del summit della Comunità dell’Africa Orientale che si apre oggi in Tanzania. Nel Paese, intanto, continuano le violenze dopo la decisione del capo di Stato uscente, Nkurunziza, di presentarsi, in violazione della Costituzione, per la terza volta, alle presidenziali del 15 luglio, mentre un generale dell’esercito in esilio ha promesso che il presidente Nkurunziza sarà cacciato con la forza. Ma cosa dobbiamo aspettarci dal vertice dei Paesi della regione? Marco Guerra lo ha chiesto Raffaello Zordan, della rivista comboniana Nigrizia: 

R. – La ragione fondamentale del vertice è che questi presidenti devono capire se le elezioni presidenziali previste per il 15 luglio in Burundi si possano svolgere in maniera minimamente lineare oppure no. Sappiamo, però, che possiamo rispondere già adesso a questa domanda: “No”. Del resto, anche la missione elettorale delle Nazioni Unite, che ha già monitorato le legislative e le comunali che si sono svolte il 29 giugno, ha detto che si sono svolte in un ambiente che non è propizio a uno scrutinio libero, credibile e che tenga insieme il Paese. Credo che i presidenti faranno il gioco delle parti. A questo punto, cioè, dobbiamo tenere conto che alcuni di loro, come Museveni, il presidente dell’Uganda, e Paul Kagame, il presidente del Rwanda, che fanno parte dei Paesi dell’Africa dell’Est, hanno lo stesso problema di Nkurunziza, cioè vogliono presentarsi per un terzo mandato, anche se la Costituzione dei loro Paesi non lo prevede. Quindi, faranno il gioco di Nkurunziza, perché è il loro stesso gioco. A questo aggiungiamo il fatto che il partito al potere in Burundi – che si chiama Consiglio nazionale per la difesa della democrazia – ha chiesto le dimissioni dell’inviato noto, perché dice che quando si è presentato non ha osservato il cerimoniale, e quindi non si è presentato al presidente Nkurunziza e al suo partito, ma ha dialogato con i diplomatici e con le opposizioni. Di fronte a questo scenario, le elezioni si faranno in un clima di tensione e Nkurunziza verrà eletto per la terza volta, anche se la Costituzione – che lui stesso ha votato – non lo prevede.

D. – Con queste premesse si terranno le presidenziali del 15 giugno in un clima di tensione, immagino…

R. – Le elezioni si tengono sicuramente in un clima di tensione. Dobbiamo ricordarci che dal 25 aprile scorso, quando è diventata ufficiale la candidatura di Nkurunziza per la terza volta, nel Paese ci sono state manifestazioni. La stessa Conferenza episcopale del Burundi, che di solito è abbastanza diplomatica, ha detto con chiarezza che, con il terzo mandato del presidente Nkurunziza, si rischia di mettere a repentaglio il cammino di pace. Stiamo parlando infatti di un Paese che ha avuto – ha alle spalle – un quindicennio di guerra civile. Sotto sotto, c’è sempre il tema Hutu-Tutsi – le due etnie principali – e quindi i vescovi hanno detto: “Attenzione, perché se non si rispettano le regole, si rischia di cadere nella confusione, nella violenza e nella guerra un’altra volta”.

D. – La crisi ha portato alla fuga 140 mila burundesi nei Paesi limitrofi. Quali sono le conseguenze umanitarie di questa crisi politica?

R. – Non dimentichiamo mai che sia la Repubblica democratica del Congo sia la Tanzania, sia anche il Rwanda, sono Paesi che subiscono una forte pressione. Se la Tanzania la può subire con un certo "fair play", nel senso che è il Paese messo meglio da quelle parti, anche dal punto di vista dell’ammortizzamento dei flussi di rifugiati, questo non si può dire della Repubblica Democratica del Congo e anche del Rwanda. Il Congo è, infatti, un posto già destabilizzato dai fatti rwandesi non da oggi. Il Rwanda, invece, ha già una popolazione molto forte – 12 milioni di abitanti sono tanti per quelle dimensioni – e quindi questo creerà ulteriori tensioni e ulteriore preoccupazione. La comunità internazionale credo che si limiterà a fare quello che ha sempre fatto, cioè istituire dei campi profughi e mettere un po’ di soldi. Tali questioni, però, poi devono risolverle questi Paesi, le comunità, appunto, dell’Africa dell’Est e i vari presidenti.

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Vertice a Washington contro Is. Iacovino: coalizione "perdente" sui media

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Il presidente degli Stati Uniti, Obama, ha convocato oggi pomeriggio a Washington i vertici della Sicurezza nazionale per fare il punto sulla campagna intrapresa di lotta al sedicente Stato islamico, mentre proseguono i raid aerei della Coalizione a guida Usa. Solo ieri nel giro di poche ore – c’è stata la più intensa operazione - ben 16 bombardamenti su Raqqa, sorta di roccaforte del Califfato in Siria. Dall’altro lato i miliziani dell’Is continuano a mostrare con orgoglio su Internet gli orrori della loro folle guerra. Roberta Gisotti ha intervistato Gabriele Iacovino, coordinatore degli analisti del Centro Studi internazionali (Cesi): 

D.- Dott. Iacovino, è possibile tracciare un bilancio della strategia militare e non messa in atto dalla Coalizione internazionale per fermare l’Is? Vista dall’opinione pubblica non appare finora efficace…

R. - Sicuramente la campagna mediatica del sedicente Stato islamico è molto più forte rispetto a quella della comunità internazionale. Ogni qualvolta lo Stato islamico riesce a portare avanti un’azione militare in alcune parti della Siria o dell’Iraq il riverbero mediatico sulla stampa occidentale è molto più forte rispetto ai risultati ottenuti dalla Coalizione internazionale. Certo è che tracciando un bilancio di quasi un anno di attività militari contro lo Stato islamico ovviamente non si è risolto il problema, perché comunque con una campagna aerea che non vede sul terreno la presenza forte di una coalizione internazionale i risultati possono essere solo temporanei o comunque ristretti ad alcune zone della Siria e dell’Iraq. Ma i risultati ci sono stati: pensiamo solamente alla fermata dell’avanzata dello Stato islamico verso il Kurdistan iracheno o per esempio verso alcune parti della Siria più occidentale: pensiamo anche all’indebolimento della leadership dello Stato islamico con il sedicente califfo al Baghdadi che è stato ferito durante un bombardamento ed alcuni dei principali leader militari del movimento che sono rimasti uccisi in raid aerei. In più, ricordiamoci sempre l’importanza della Coalizione internazionale che riunisce non solo gli Stati Uniti ed altri Paesi occidentali tra cui anche l’Italia, ma anche molti Paesi arabi.

D. - Alcuni osservatori hanno invocato un ruolo più forte dei Paesi arabi ma anche della Turchia per risolvere un problema che è principalmente loro, perché la maggior parte delle vittime sono dei Paesi del Medio Oriente …

R. - Sì, un ruolo maggiore. La Turchia, ad esempio, deve fare attenzione agli equilibrismi da parte del governo tra la propria sicurezza e la necessità di portare avanti un’azione efficace contro lo Stato islamico. Finora le autorità turche – se vogliamo – hanno molto spesso chiuso un occhio rispetto alle attività sia degli altri gruppi più jihadisti dell’insurrezione siriana, sia nei confronti dello Stato islamico lungo i propri confini, proprio per non avere poi delle minacce dirette che potrebbero arrivare da questi gruppi sul proprio territorio. Lo stesso discorso, in parte, si potrebbe fare per gli altri Paesi arabi della Coalizione che rimangono ‘divisi’ tra la necessità di combattere lo Stato islamico, di portare avanti questa attività e la necessità dall’altra parte di non toccare troppi equilibri al proprio interno, da una parte per non farsi vedere troppo alleati ai Paesi occidentali e dall’altra per non andare a toccare le sensibilità più radicali nello loro comunità.

D. - I Paesi arabi potrebbero fare qualcosa di più – qualcuno lo ha chiesto – per sconfessare una lettura tanto sanguinaria dell’islam …

R. - Assolutamente sì, in questo momento la Coalizione internazionale è più attiva dal punto di vista militare se vogliamo; un intervento maggiormente politico da parte di alcuni Paesi arabi potrebbe avere degli effetti maggiori.

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Nucleare iraniano: potrebbero prolungarsi negoziati a Vienna

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Potrebbero estendersi fino alla sera di mercoledì o le prime ore di giovedì i negoziati per un’intesa sul nucleare iraniano, in corso a Vienna tra Teheran e il cosiddetto 5+1, cioè Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia, Cina, Francia e Germania. A rivelarlo sono i media iraniani. Nei giorni scorsi era circolata la data del 7 luglio per la firma dell’accordo. Il testo, di circa 80 pagine, una volta approvato dovrà passare al vaglio del Congresso Usa, che punta ad avere 60 giorni di tempo per esaminarlo: l'ultima data utile per chiudere il negoziato è il 9 luglio. I capi delle diplomazie sono riuniti da stamattina; sia il Segretario di Stato Usa John Kerry, sia il ministro degli Esteri della Repubblica islamica Mohammad Javad Zarif hanno però fatto riferimento a “numerose questioni critiche” e a “divergenze” ancora sul tavolo. Ce ne parla Dario Fabbri, analista della rivista di geopolitica ‘Limes’, intervistato da Giada Aquilino

R. – Principalmente, riguardano l’annullamento o la sospensione delle sanzioni economiche nei confronti dell’Iran. La controparte iraniana, guidata nel negoziato allargato – quindi nel negoziato ideologico – dalla Guida Suprema, l’ayatollah Alì Khamenei, pretende l’annullamento immediato di tutte le sanzioni economiche nei confronti del Paese nel momento stesso in cui si raggiungesse un accordo definitivo. Ed è questa una richiesta – la principale – che gli Stati Uniti, in particolare, non possono garantire nell’immediato, perché invece preferirebbero una serie di ‘step’ che coincidessero con la verifica del rispetto dei termini per lo smantellamento - o almeno della conversione - del programma nucleare iraniano. Ricordiamo anche che non tutte le sanzioni dipendono dagli Stati Uniti: gli iraniani pretendono che sia Washington a garantire per ogni sanzione. Ma ci sono sanzioni che appartengono all’Unione Europea, alle Nazioni Unite, altre – sì – agli Stati Uniti e altre ancora – fondamentali – ai singoli Stati degli Usa che non hanno intenzione di togliere le sanzioni nei confronti dell’Iran, indipendentemente dalla Casa Bianca.

D. – Ciò che però fa pensare a un compromesso è che l’Iran ha assolutamente bisogno della cancellazione di queste sanzioni economiche e che gli Stati Uniti hanno necessità di appoggiarsi su Teheran per affrontare le crisi mediorientali. E’ quindi una questione geopolitica, economica?

R. – Spesso in questi negoziati, e ancora di più nei colloqui a margine che hanno avuto il Segretario di Stato americano e il ministro degli Esteri iraniano, si è parlato di questioni geopolitiche: il programma nucleare non è l’argomento principale. Gli Stati Uniti hanno intenzione di raggiungere un accordo con l’Iran anche per poter sfruttare un aiuto iraniano in Medio Oriente: in primis contro lo Stato Islamico e, in senso più allargato, per l’instaurazione di un equilibrio oltre il caos della regione, un equilibrio nel quale l’Iran dovrebbe giocare una parte fondamentale, assieme a Israele, Turchia e Arabia Saudita, almeno nel progetto di Obama.

D. – Ma le reazioni di Israele di questi giorni non vanno in questa direzione…

R. –Israele è fortemente contrario a un’apertura nei confronti dell’Iran, proprio perché non vuole abbandonare lo status di interlocutore privilegiato degli Stati Uniti.

D. – In questa fase ci sono quindi possibilità di accordo a Vienna?

R. – Senza dubbio sì: non vuol dire che si raggiungerà automaticamente, ma negli ultimi anni le parti non sono mai state tanto vicine a un accordo, proprio per le ragioni geopolitiche che le spingono. Da una parte, l’Iran ha necessità economica di un allentamento – se non di una sospensione assoluta – delle sanzioni e ha anche la necessità di tornare nel sistema internazionale, sebbene a guida statunitense; gli Stati Uniti, dall’altra parte, appunto vogliono l’Iran coinvolto in un Medio Oriente meno caotico di quello attuale. E queste ragioni geopolitiche spingono le parti verso un’intesa. Sappiamo però che il negoziato è sempre molto complicato. Quando trattano poi due Paesi come Stati Uniti e Iran, che di fatto non hanno relazioni diplomatiche dal 1979, può succedere qualsiasi cosa. Ma mai come adesso sono stati tanto prossimi a raggiungere un compromesso.

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L'arte islamica approda a Roma con la collezione al-Sabah

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Fino al 20 settembre, alle Scuderie del Quirinale di Roma, una mostra racconta l'Arte della civiltà islamica, grazie alle opere della collezione al-Sabah. L'esposizione prevede un percorso cronologico, che attraversa le principali fasi di sviluppo delle civiltà musulmane, e una sezione tematica nella quale il visitatore conoscerà aspetti specifici della cultura islamica: l'arte della calligrafia, la ricerca nell'ambito matematico-geometrico, la fantasia degli arabeschi, le rappresentazioni della figura umana e animale, le opere di oreficeria. Eugenio Murrali ha intervistato il curatore della mostra, Giovanni Curatola

R. – Il pubblico italiano, purtroppo, non conosce l’arte islamica e dunque abbiamo voluto dare alla mostra un taglio per una grande massa di pubblico che inizia a familiarizzare con un’espressione della civiltà artistica dei mondi islamici. Non parlo mai di islam al singolare, ma dei molti mondi islamici.

D. – Come dialogheranno in questa mostra lavori importanti e opere del quotidiano?

R. – Penso che una cultura, una civiltà, non si esprima soltanto attraverso i suoi momenti più alti, ma ci sia la necessità di far vedere accanto a opere che immediatamente coinvolgono ed emozionano lo spettatore, anche degli aspetti della vita quotidiana, dei tessuti, l’eleganza delle vesti ricche, vesti che potevano essere di un sultano, ma allo stesso tempo la coppa che veniva usata per mangiare, il vetro dove si teneva il profumo.

D. – La collezione al-Sabah ha anche una storia appassionante…

R. – Gli al-Sabah sono la famiglia regnante nel Kuwait e la collezione ha una storia importante. Nasce negli anni ’70 per volontà di Sheikh Nasser Sabah al-Sabah e di sua moglie la Sheikha Hussah, che hanno iniziato con passione a raccogliere opere di arte islamica proprio per documentare, per amore, per vedere quali erano le loro radici, la loro storia. Hanno comprato moltissime opere e poi hanno deciso di donare la collezione allo Stato, in prestito permanente, nel febbraio del 1983 in occasione del giorno festivo nazionale del Kuwait. Poi nell’agosto del 1990, con l’invasione da parte dell’Iraq, alcuni pezzi sono stati distrutti, ma il resto della collezione è stata portata a Baghdad e faticosamente, dopo la liberazione del Kuwait, riportata a Kuwait City.

D. – Quali luoghi comuni aiuta a superare questa mostra?

R. – Uno dei luoghi comuni che cerchiamo di sfatare, anche se è molto difficile, è quello dell’iconoclastia del mondo islamico. Cerco sempre di far comprendere come non esista un’iconoclastia islamica! Esiste una differenziazione nell’approccio artistico islamico fra uno spazio che è pubblico, come la moschea, la scuola coranica e altri edifici pubblici, e il privato. Lo stesso califfo o sultano o shah può ordinare la costruzione della moschea nella quale non troveremo alcun approccio figurativo, mentre nel suo privato, nella decorazione del suo palazzo, oppure negli oggetti, nei libri, nelle miniature, abbiamo una profusione, una massa straordinaria di bellissime immagini, in alcuni casi realistiche.

D. – Lei dice: “L’arte è la migliore ambasciatrice di culture e civiltà”. Quindi c’è bisogno di arte in questo momento?

R. – Sì, c’è bisogno di moltissima arte in questo momento nel quale c’è molta confusione sotto il cielo, c’è molta disinformazione, molta cattiveria, direi. Credo che il messaggio universale dell'arte sia un messaggio di pace e penso che debba essere mostrato e compreso sempre di più. La conoscenza ci porta al confronto – nella diversità, è bene che ci siano le diversità – ma in questa maniera non sottovalutiamo il nostro interlocutore, gli diamo pari dignità. Credo che lo strumento artistico sia per sua natura uno strumento di facile comprensione. Io ho sempre in mente l’idea di poter fare un’altra mostra che si potrebbe chiamare : “Tesori islamici nelle cattedrali d’Europa”, perché pochi sanno che moltissime opere – tessuti, cristalli di rocca, metalli – sono stati donati alle chiese, alle cattedrali e sono stati riutilizzati come reliquiari o in maniera diversa e sono uno dei patrimoni più importanti dell’arte islamica. Quindi le cattedrali hanno preservato quello che in altre circostanze sarebbe stato disperso.

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Nella Chiesa e nel mondo



Chiese in Europa: incontro a Praga su vocazioni e famiglia

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“Lo scopo prioritario di questo Convegno europeo è di rimettere al centro dell’attenzione e della prassi pastorale una essenziale priorità della Chiesa tutta e della stessa pastorale familiare e vocazionale: creare, cioè, le condizioni per una cultura vocazionale della famiglia, affinché la famiglia possa essere realmente un grembo fecondo di vocazioni”. Mons. Domenico dal Molin, direttore dell’ufficio vocazioni della Conferenza episcopale italiana e coordinatore della Commissione Ccee per le vocazioni - riferisce l'agenzia Sir - chiarisce gli intenti dell’annuale Congresso vocazionale europeo sul tema dell’accompagnamento dei giovani al sacerdozio e alla vita consacrata nel contesto culturale della famiglia oggi. 

L’appuntamento si svolge da oggi al 9 luglio a Praga 
“La famiglia - prosegue dal Molin - non è solo il luogo dove emerge con forza la crisi educativa di questo tempo, ma può, in sinergia con tutte le altre vocazioni, divenire gradualmente il cuore pulsante di una rinascita dei percorsi vocazionali”. “In questi giorni vorremmo quindi creare un focus particolare e mirato sul senso straordinario che le voci dei genitori possono avere, o potrebbero avere, se troppo spesso non abdicassero al compito loro affidato, in nome di altre agenzie educatrici, soprattutto quelle mediatiche sempre così invasive e straripanti”.

Delegazioni di 20 Paesi europei
L’incontro di Praga - precisa il Ccee - si svolge nell’Anno della vita consacrata e alla vigilia del Sinodo dei vescovi sulla famiglia. Nella capitale ceca sono arrivati 72 partecipanti, di cui 9 vescovi, assieme ai responsabili per la pastorale vocazionale e ai delegati delle Conferenze episcopali in Europa e delle Congregazioni religiose, provenienti da 20 Paesi europei e dalla Commissione per la Vita consacrata degli Stati Uniti. 

Intervento sul rapporto tra vocazione e famiglia
​Le giornate di studio e dibattito sono guidate da mons. Oscar Cantoni, vescovo di Crema e presidente della Commissione Ccee per le vocazioni. Si svolgerà attraverso sessioni plenarie e gruppi di lavoro, e vedrà tra l’altro i contributi dei sociologi Attilio Danese e Giulia Paola Di Nicola con un intervento sul tema “Una lettura della situazione socioculturale della famiglia in Europa: criteri e orientamenti per una educazione alla fede e una accoglienza vocazionale”. Una riflessione di mons. Patron Wong, segretario della Congregazione per il clero, si concentrerà invece su “Come accompagnare i giovani al sacerdozio e alla vita consacrata a partire dall’attuale contesto familiare? Parteciperà a una parte dei lavori il card. Dominik Duka, arcivescovo di Praga. (R.P.)

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Libano. Patriarca Raï: i cristiani rimarranno in Medio Oriente

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I cristiani del Medio Oriente non fuggiranno dalla loro terra, che è la terra in cui è nato Gesù, se davvero avranno il dono di veder custodita la propria fede come esperienza dell'amore di Cristo. Ne è convinto il patriarca maronita Boutros Bechara Raï, che ha espresso tale fiduciosa speranza durante la Messa celebrata ieri davanti ai ragazzi e alle ragazze del primo Global Forum della Gioventù maronita, il meeting di giovani provenienti soprattutto dalle comunità maronite sparse nel mondo, venuti in Libano per prendere parte ad una serie di incontri, conferenze e iniziative sociali e culturali.

Patriarca Rai: non abbiate paura. La tempesta passerà
Anche nella precedente giornata di sabato scorso, il primate della Chiesa maronita aveva espresso parole di incoraggiamento sul futuro dei cristiani mediorientali durante la sua visita alle chiese e ai monasteri del distretto di Matn. “Non c'è da aver paura. La tempesta passerà” ha dichiarato in quell'occasione il card. Raï, aggiungendo che “l'importante è rimanere radicati nella fede e non arrendersi”. Nella stessa giornata, il patriarca maronita ha visitato anche il campo profughi palestinese di Dbayeh, criticando in tale circostanza l'immobilismo della comunità internazionale davanti alla tragedia dei rifugiati palestinesi che da tre generazioni vivono nei campi profughi sparsi in Libano, spesso in condizioni disumane. (G.V.)

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Nepal: l'aiuto delle Congregazioni religiose per i terremotati

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E’ un forte impegno quello messo in campo dalle Congregazioni religiose presenti in Nepal in favore delle vittime del sisma del 25 aprile. Come riferisce una nota inviata all'agenzia Fides dal vicariato apostolico del Nepal, tra gli ordini più attivi c'è la “Congregazione delle Suore di Gesù” che a Gorkha e Kathmandu hanno aperto le loro strutture e le scuole mettendole a disposizione degli sfollati. Inoltre, nell'ambito delle operazioni di soccorso, la Scuola di Santa Maria a Kathmandu tramite l'aiuto di genitori, studenti, ex studenti e personale, ha organizzato gli aiuti per sei villaggi più colpiti intorno alla valle di Kathmandu, fornendo beni di prima necessità.

L'aiuto dei Gesuiti
Anche i Gesuiti del “Nepal Jesuit Social Institute” (Njsi) hanno organizzato campi medici e distribuito materiali di soccorso nelle aree più colpite, avviando progetti di riabilitazione e ricostruzione. L'Istituto ha avviato l’ “Earthquake Relief and Rehabilitation Programm Nepal” per servire i sopravvissuti al terremoto e rafforzare la speranza tra loro. In particolare il Njsi ha fornito a 23 scuole materiali didattici, mobili, articoli di cancelleria, libri, per oltre 2.200 studenti, operando nei nove distretti maggiormente colpiti dal sisma, dove ha sostenuto più di 6.827 famiglie, per un complesso di oltre 30.000 persone. Altro settore di impegno del Gesuiti è quello dell’agricoltura: si aiutano i contadini fornendo sementi e utensili.

Congregazione dei Padri di S. Teresa
​Tra le atre congregazioni impegnate sul terreno, c’è anche la “Congregazione dei Padri di S. Teresa” (o “Little Flower Society”) che si è concentrata soprattutto sull’aiutare la popolazione indigena dei chepang. Una speciale Commissione per la riabilitazione ha preparato un programma di soccorso, mentre religiosi e volontari della congregazione lavorano instancabilmente nella solidarietà, anche grazie alla partnership con l'arcidiocesi di Mumbai, in India. Finora hanno aiutato oltre 2.100 famiglie indigene. (P.A.)

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Honduras: la Chiesa appoggia la protesta contro la corruzione

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“Non potrà esserci pace senza giustizia sociale, né progresso senza cacciare la corruzione”. A affermarlo è la Conferenza episcopale dell’Honduras, ripresa oggi dall’agenzia Fides. “I vescovi honduregni – continua la nota – si uniscono a tutti coloro che lottano per un Paese migliore”. Il messaggio giunge in un momento particolarmente delicato per il Paese centroamericano, investito da accuse di corruzione e attraversato da proteste di piazza.

La corruzione al vaglio della magistratura
L’arresto di Lena Gutierrez, deputata e vicepresidente del Congresso Nazionale - il parlamento honduregno - e di altre 15 persone, è l’ultimo episodio di una vicenda iniziata due mesi fa e sfociata in mobilitazioni che hanno coinvolto ampie fasce della popolazione. Gutierrez, eletta nelle fila del Partido Nacional del Presidente Juan Orlando Hernandez, è accusata di frode e reati contro la salute pubblica. La società Astropharma, di proprietà della famiglia della parlamentare, avrebbe venduto medicinali scaduti e sopravvalutati al ministero della Sanità, con la complicità di funzionari dello stesso.

60mila persone in piazza
Sono 60mila i cittadini scesi in piazza il 3 luglio nella sola Tegucigalpa per chiedere le dimissioni del presidente Hernandez, in carica dal gennaio 2014. E’ il numero più alto da quando, a fine maggio, sono iniziate le proteste, coordinate da diversi gruppi di opposizione. Ad avviare la mobilitazione, uno scandalo di corruzione che coinvolgerebbe l’Istituto di Sicurezza Sociale del Paese e diversi dirigenti pubblici. Secondo l’opposizione, membri e clienti dell’istituto avrebbero sostenuto la campagna elettorale di Hernandez.

Le Nazioni Unite in missione
Da oggi a venerdì 10 luglio una missione delle Nazioni Unite visiterà il Paese, come più volte richiesto dai manifestanti. La delegazione Onu dovrà valutare il piano di “riconciliazione nazionale” proposto dal governo, incontrando membri delle istituzioni e della società civile. Il richiamo alla pace, alla giustizia sociale e alla solidarietà, espresso dalla Conferenza episcopale honduregna, si inserisce dunque in uno dei momenti più tesi nella storia recente dello Stato latinoamericano. (G.Z.)

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Chiesa Nigeria: educazione nelle scuole cattoliche sia cristocentrica

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Un appello affinché l’educazione cattolica sia cristocentrica e focalizzata sulla formazione integrale della persona è stato lanciato dalla Provincia ecclesiastica di Kaduna, in Nigeria. Il richiamo, in particolare, al compito delle scuole cattoliche è arrivato al termine di un seminario di due giorni organizzato dal Segretariato cattolico nigeriano per l’educazione e dedicato a tutti gli esperti diocesani del settore provenienti dal nord del Paese.

Gestire fondi con attenzione, no a sprechi e corruzione
Al termine dei lavori è stato diffuso un documento, a firma di padre Bernard Asogo, segretario nazionale del Comitato per l’educazione cattolica, in cui si sottolinea anche l’urgenza di un cambio di impostazione nella raccolta e gestione dei fondi delle scuole cattoliche, così da evitare gli sprechi e la corruzione.

Simboli cattolici siano visibili dentro e fuori le scuole cattoliche
Le risoluzione adottate nel documento finale sono numerose: “Tutte le scuole cattoliche devono essere cattoliche nell’identità e della fede – si legge in una di esse – con segni e simboli cattolici visibili sia all’interno che all’esterno degli edifici”. Allo stesso tempo, si insiste sulla necessità di una maggiore collaborazione e cooperazione tra tutte le istituzioni educative cattoliche e si ricorda l’importanza di una formazione adeguata e continua per tutti gli operatori del settore.

Attenzione alle nuove tecnologie. Salari giusti per i docenti
Centrale anche il richiamo all’insegnamento della matematica, “considerata condizione imprescindibile nella vita educativa di ogni bambino”, così come all’uso appropriato di Internet e delle nuove tecnologie di comunicazione. Infine, si richiedono giusti salari per il personale scolastico e buone condizioni lavorative, per una formazione “qualificata”. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 187

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.