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Sommario del 07/07/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Guayaquil. Un milione di fedeli a Messa Papa: recuperare gioia della famiglia

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Oltre un milione di fedeli ha partecipato alla Messa presieduta dal Papa nel Parco de Los Samanes a Guayaquil, in Ecuador, sull'Oceano Pacifico. Una grande e colorita manifestazione di affetto per il Pontefice argentino nella seconda giornata del suo viaggio apostolico in America Latina. Al centro dell’omelia, una intensa meditazione sulla famiglia, a partire dal Vangelo delle nozze di Cana proposto dalla liturgia. Il servizio di Sergio Centofanti: 

Le sofferenze della famiglia
Grande festa della gioia alla Messa di Guayaquil, incontenibile l’affetto dei fedeli, una folla oceanica. Papa Francesco nell’omelia lancia un forte appello alle tante realtà familiari ferite: recuperare la gioia in famiglia è possibile con l’aiuto di Maria. E’ quello che è successo alle nozze di Cana dove a un certo punto mancava il vino, segno di gioia e amore:

"Cuántos de nuestros adolescentes y jóvenes perciben que en sus casas hace rato que ya no hay de ese vino...
“Quanti nostri adolescenti e giovani percepiscono che nelle loro case ormai da tempo non c’è più questo vino! Quante donne sole e rattristate si domandano quando l’amore se n’è andato, quando l'amore è scivolato via dalla loro vita! Quanti anziani si sentono lasciati fuori dalle feste delle loro famiglie, abbandonati in un angolo e ormai senza il nutrimento dell’amore quotidiano dei loro figli, dei loro nipoti e pronipoti! La mancanza di vino può essere anche la conseguenza della mancanza di lavoro, delle malattie, delle situazioni problematiche che le nostre famiglie in tutto il mondo attraversano”.

Porre le nostre famiglie nelle mani di Dio
Maria è attenta a tutte queste situazioni: “è madre” premurosa e “si rivolge con fiducia a Gesù”, prega perché intervenga. Così, Maria anticipa “l’ora” di Dio:

"Ella nos enseña a dejar nuestras familias en manos de Dios;  nos enseña a rezar, encendiendo la esperanza...
Lei ci insegna a porre le nostre famiglie nelle mani di Dio; ci insegna a pregare, alimentando la speranza che ci indica che le nostre preoccupazioni sono anche le preoccupazioni di Dio. E pregare ci fa sempre uscire dal recinto delle nostre preoccupazioni, ci fa andare oltre quello che ci fa soffrire, quello che ci agita o ci manca, e ci aiuta a metterci nei panni degli altri, a metterci nelle loro scarpe. La famiglia è una scuola dove il pregare ci ricorda anche che c’è un ‘noi’, che esiste un prossimo vicino, evidente, che vive sotto lo stesso tetto, che condivide con noi la vita e ha delle necessità”.

Famiglia è grande ricchezza sociale, servizi dello Stato non sono elemosina
Maria – osserva il Papa – ci mostra che “il servizio è il criterio del vero amore. E questo si impara specialmente nella famiglia, dove ci facciamo servitori per amore gli uni degli altri”. Quindi rilancia le tre parole che vanno imparate in famiglia: permesso, scusa, grazie. “Piccoli gesti” che “aiutano a costruire”, in particolare là dove è più forte la sofferenza. “La famiglia – ricorda Francesco - è l’ospedale più vicino, quando uno è malato è lì che lo curano ... la famiglia è la prima scuola dei bambini, il punto di riferimento imprescindibile per i giovani, è il miglior asilo per gli anziani”:

"La familia constituye la gran «riqueza social», que otras instituciones no pueden sustituir, que debe ser ayudada y potenciada...
La famiglia costituisce la grande 'ricchezza sociale', che altre istituzioni non possono sostituire, che dev’essere aiutata e potenziata, per non perdere mai il giusto senso dei servizi che la società presta ai cittadini. In effetti, questi servizi che la società presta ai cittadini non sono una forma di elemosina, ma un autentico ‘debito sociale’ nei confronti dell’istituzione familiare, che è la base e che tanto apporta al bene comune”.

Pregare per il Sinodo sulla famiglia
Molte volte – sottolinea il Papa – le realtà familiari non sono l’ideale. Anzi ci sono tante difficoltà. Di qui l’invito a pregare per il Sinodo del prossimo ottobre che cercherà di “trovare soluzioni e aiuti concreti” perché “persino quello che a noi sembra impuro" e ci scandalizza e spaventa, "Dio - facendolo passare attraverso la sua 'ora' – lo possa trasformare in miracolo. La famiglia oggi ha bisogno di questo miracolo!”.

Nella famiglia si deve avere il coraggio di amare
Il miracolo delle nozze di Cana è che “il vino migliore è quello che sta per essere bevuto, la realtà più amabile, profonda e bella per la famiglia deve ancora arrivare”:

"El mejor de los vinos está en esperanza, está por venir para cada persona que se arriesga al amor...
Il vino migliore è ‘in speranza’, sta per venire per ogni persona che accetta il rischio di amare. E nella famiglia bisogna correre il rischio dell’amore, bisogna arrischiarsi ad amare. E il migliore dei vini sta per venire, anche se tutte le possibili variabili e le statistiche dicessero il contrario.  Il vino migliore sta per venire per quelli che oggi vedono crollare tutto”.

Il miracolo di recuperare la gioia di vivere in famiglia
Dio – conclude il Papa – “si avvicina sempre alle periferie di coloro che sono rimasti senza vino, di quelli che hanno da bere solo lo scoraggiamento”. Se ci si affida a Lui, con l’aiuto di Maria, può avvenire il miracolo di “recuperare la gioia della famiglia, di vivere in famiglia”.

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Il Papa alla cattedrale di Quito: nessuno venga escluso o scartato

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“Che non vi siano differenze, che nessuno venga escluso”: così il Papa all’immensa folla raccolta ad aspettarlo ieri sera fuori dalla cattedrale di Quito, dove si è raccolto in preghiera, dopo l’incontro con il Presidente ecuadoriano. Il servizio di Roberta Gisotti

“Vengo a Quito come pellegrino, per condividere con voi la gioia di evangelizzare”, Francesco, che è arrivato a piedi alla cattedrale, dal vicino Palazzo presidenziale, si è rivolto a sopresa - parlando a braccio - alle migliaia di fedeli che lo attendevano sul sagrato, portando il suo saluto e la sua benedizione alla "grande Nazione" e al "nobile popolo dell’Ecuador".

“Les voy a dar la bendición, les voy a dar la bendición, para cada uno de ustedes, para sus familias, para todos los seres queridos y para este gran pueblo y noble pueblo ecuatoriano….”

““Do la benedizione a ciascuno di voi, alle vostre famiglie, a tutte le persone care e a questo grande e nobile popolo ecuadoriano, perché non ci siano differenze, selettività, gente scartata, perché tutti siano fratelli, nessuno sia escluso e non ci sia nessuno che resti fuori da questa grande nazione ecuadoriana”. “Per costruire questa cattedrale – ha poi aggiunto - i lavori di trasporto, di intaglio e di muratura sono stati fatti secondo le nostre usanze, quelle dei popoli autoctoni; un lavoro di tutti a favore della comunità, un lavoro anonimo, senza cartelli pubblicitari né applausi”. “Voglia Dio – ha quindi invocato - che, come le pietre di questa cattedrale, anche noi ci poniamo sulle spalle le necessità degli altri, aiutando a edificare o restaurare la vita di tanti fratelli che non hanno forze per costruirla o l’hanno vista crollare”.

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A Quito l'incontro tra il Papa e il presidente Correa

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Nella serata di ieri il Papa si è recato al Palazzo presidenziale per una visita di cortesia al Presidente dell’Ecuador, Rafael Correa. Il servizio di Adriana Masotti

Non c'è stato discorso ma, come previsto, un incontro personale tra il Papa e il Presidente - 20, 30 minuti di dialogo - senza la presenza dei ministri, e poi l’incontro con i familiari - la moglie, la madre, i figli - e lo scambio di omaggi, semplici ma significativi. Il Papa ha regalato a Correa un mosaico di un’icona della Vergine di San Paolo fuori le Mura e due documenti: la Evangelii Gaudium, esortazione apostolica programmatica del Pontificato e fonte dei motti di questo viaggio, come  l’allegria nell’annunciare il Vangelo, e l’ultima enciclica, Laudato sì. Il Presidente ha donato al Papa un quadro con raffigurata la facciata della Chiesa della Compagnia di Gesù a Quito, che Francesco visiterà a conclusione della giornata di oggi.

Contemporaneamente si è svolto un colloquio del cardinale segretario di Stato Parolin, del nunzio e del card. Vela con alcune autorità, fra cui il ministro degli Esteri dell’Ecuador con cui si sono percorsi gli avvenimenti ecuadoriani degli ultimi dieci anni.

Al termine del colloquio personale con il Presidente, Papa Francesco si è trasferito sulla terrazza per salutare le persone che si erano radunate in piazza. Il Papa non ha parlato, ma ha salutato e dato la benedizione. E’ seguita una serie di presentazioni di persone, di autorità della delegazione del governo e della delegazione vaticana. Erano presenti anche le suore di un convento di clausura, che sono potute uscire per veder il Papa.

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Incontro gioioso di Francesco con la comunità dei gesuiti

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Dopo la Messa a Guayaquil, Papa Francesco ha pranzato al Collegio Javier della Compagnia di Gesù, istituto fondato nel 1956. Si è trattato di un momento conviviale gioioso all’insegna della familiarità tra confratelli gesuiti. Nell’occasione è stato festeggiato il direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, che ieri ha compiuto 49 anni. Il servizio di Alessandro Gisotti

Un pranzo tra confratelli gesuiti all’insegna della familiarità. E' il momento conviviale che Francesco ha vissuto ieri nel Collegio Javier della Compagnia di Gesù. Il Papa si è trattenuto per circa un’ora e mezza nell’istituto retto dai gesuiti dove, dopo aver celebrato la Messa, ha incontrato una ventina di confratelli provenienti da diverse comunità, impegnate in particolare in servizi educativi e di sostegno sociale. Era presente anche il 91enne padre Paquito Cortés, maestro dei novizi del collegio Javier quando Bergoglio era provinciale dei gesuiti argentini. Per diversi anni il futuro Pontefice ha inviato i suoi studenti a formarsi da padre Paquito, tra questi anche l'amico di Papa Francesco, e scrittore di Civiltà Cattolica, padre Diego Fares.

L'incontro e il pranzo, ha riferito padre Federico Lombardi, si sono svolti in un “clima molto familiare e informale” e sono stati dedicati in special modo "ai ricordi della vita gesuitica e alle conoscenze comuni". Tra l'altro è stato festeggiato padre Antonio Spadaro, che ieri compiva 49 anni. A conferma della giovialità del momento, Papa Francesco ha chiesto che si procurasse una candela per la torta del festeggiato. Tra le comunità rappresentate dai gesuiti anche una impegnata nell’assistenza alle donne che hanno subito violenza o a rischio di cadere nelle mani dei trafficanti di esseri umani.

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P. Lombardi: in Ecuador un'accoglienza straordinaria

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Al termine del briefing con i giornalisti che ha tenuto ieri sera a Quito, il portavoce vaticano padre Federico Lombardi è stato intervistato dal nostro inviato in Ecuador Mario Galgano

D. – In questa giornata a Guayaquil e poi a Quito sembra che il Papa si sia soffermato sul tema della famiglia e l’incontro con i Gesuiti è un incontro con la sua famiglia, in un certo senso. Lei come ha visto questa giornata a Guayaquil e a Quito?

R. – Questa giornata è certamente stata dedicata a Guayaquil, che è la seconda grande città del Paese. Quindi è stata l’occasione per incontrare un numero immenso di ecuadoriani, che hanno potuto vedere e incontrare il Papa. Come tema è stato scelto quello della famiglia, perché effettivamente è uno dei temi importantissimi per la Chiesa, ed è importantissimo in ogni società, anche qui in Ecuador, naturalmente. Con questo il viaggio si è inserito anche nel contesto della Chiesa universale, che sta lavorando sul tema della famiglia in questi giorni, con grande intensità. Poi, però, c’è stato anche, nel pomeriggio, questo passaggio a Quito, al Palazzo presidenziale e alla Cattedrale, ed è stato di nuovo un incontro con centinaia di migliaia di persone. Una delle cose che mi colpisce è proprio la quantità di gente che si trova lungo le strade in queste città, e questa è una cosa bellissima, che dice un’accoglienza straordinaria.

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Bolivia: i fedeli in “allegra” attesa del Papa

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Cresce l’attesa in Bolivia per l’arrivo domani pomeriggio di Papa Francesco. Il Santo Padre atterrerà direttamente dall’Ecuador nell’aeroporto di El Alto, oltre 4 mila metri sul livello del mare. L’arrivo è previsto alle 16.15 locali, le 22.15 in Italia. Due le città toccate nel viaggio, fino a venerdì: La Paz, sede del governo nazionale e la popolosa Santa Cruz de la Sierra, vitale centro economico del Paese. Lungo il tragitto che da El Alto lo porterà a La Paz, Francesco attraverserà in papamobile la periferia di questi due centri. E, a salutare “il loro Papa latinoamericano” durante il percorso ci saranno anche i fedeli della parrocchia “Santiago Apostol” di Munaypata in “allegra” attesa, come racconta - al microfono del nostro inviato Paolo Ondarza - il parroco don Andrea Mazzoleni

R. – La gente della mia parrocchia è costituita da lavoratori dei campi, la maggior parte sono piccoli commercianti. Per noi ovviamente è un grande onore che il Papa ci visiti; noi boliviani siamo poi anche avvantaggiati, perché sappiamo che il Papa visiterà due città in Bolivia, rispetto al Paraguay e all’Ecuador. Quindi già questo è un grande onore. La gente poi riconosce che si tratta di un evento importante, eccezionale, la visita di un Papa dopo tanti anni, dopo quella nel 1988 di Giovanni Paolo II. Vedo che la gente sta vivendo con allegria l’attesa di questo incontro, come dice il motto che la Conferenza episcopale ha scelto “Con Francesco noi annunciamo l’allegria del Vangelo”. Vedo che la gente si sta interessando molto: anche tra i più lontani, tra quelli che in genere non partecipano alle attività parrocchiali, vedo che c’è un interesse, un desiderio anche solo di vedere un Papa;  spesso e volentieri sento dire: “Questo è uno dei nostri”, nel senso che è un Papa dell’America Latina.

D. – È vivo il ricordo della visita in Bolivia di Giovanni Paolo II?

R. – Sì certo, gli adulti ricordano questo incontro forte. È chiaro che la differenza tra le due visite sta nel fatto che Giovanni Paolo II è stato diversi giorni in Bolivia ed ha visitato parecchie realtà e città. La visita di Giovanni Paolo II è stata preparata con molto anticipo, mentre quella di Papa Francesco la chiamano una “visita lampo”: si è concretizzata tre, quattro mesi fa. Si fermerà solo quattro ore in La Paz e poi tutto il resto si svolgerà a Santa Cruz.

D. – 27 anni che un Papa non visita la Bolivia: questa sarà una visita breve, di circa 48 ore. Immagino siano tante le cose che la sua gente, la gente di La Paz, vorrebbe comunicare al Papa…

R. – È chiaro: una delle cose che la gente boliviana vuole comunicare al Papa è l’allegria. Ci sono molti giovani e molti bambini: loro manifestano questa allegria. Ci sono poi ovviamente non poche difficoltà, i problemi di un Paese arretrato, che si sta sviluppando a poco a poco. C’è il problema del narcotraffico che si sta espandendo sempre di più, c’è anche il problema della Madre Terra: il Papa ci ha regalato questa nuova Enciclica da approfondire.

D. – Come vorrebbe che questa visita incidesse sulla sua gente, sulla sua parrocchia in particolare, ma più in generale sulla Bolivia?

R. – Spero che questa visita aiuti tutti i fedeli a rafforzare la fede. La fede della mia gente è una fede semplice: questa è una cosa bella, ma quando una fede è semplice, molte volte si lascia anche distrarre... C’è una confusione grande nella mia gente tra la fede, la “Pachamama”….

D. – Che cosa vuol dire “Pachamama”?

R. – La “Pachamama” è in lingua quechua la realtà legata alla Madre Terra. La maggior parte della gente è legata a questa cultura bellissima. Però molte volte si crea confusione: ci sono culti, riti, legati alla Terra e c’è il rischio che considerino la Terra come Dio, e non come creatura. Questa confusione si scontra con alcune idee della fede cattolica. Di conseguenza, penso che la visita del Papa possa aiutare la mia gente a rendere più forte la propria fede.

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Il Papa nomina mons. Silva Retamales nuovo Ordinario militare per il Cile

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Il Papa ha nominato vescovo ordinario militare per il Cile, mons. Santiago Silva Retamales, trasferendolo dalla sede titolare di Bela e dall’Ufficio di ausiliare della diocesi di Valparaíso (Cile).

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Sul viaggio del Papa, in prima pagina un editoriale del direttore dal titolo “Il vino migliore”.

L’era delle donne: Lucetta Scaraffia sulle riflessioni di Massimo Lapponi, sacerdote benedettino.

Dolci stranezze: intervista di Silvia Guidi a Francesco Santi, direttore della Società internazionale per il medioevo latino.

Proust non basterebbe: Carlo Petrini su perdita della memoria e nuove frontiere della medicina.

Avanti, senza inerzia: Mario Benotti ricorda Franco Scaglia.

Un articolo di Antonio Paolucci dal titolo “Un luogo dove imparare”: a scuola di restauro nei Musei Vaticani.

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Oggi in Primo Piano



Grecia: attesa per l’Eurogruppo, Bce conferma liquidità

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Giornata decisiva per la ripresa dei negoziati con la Grecia: previste la riunione dell’Eurogruppo dei ministri delle Finanze e il summit straordinario dei capi di governo dell’Eurozona, ma si attende anche la mossa del governo di Tsipras. Intanto, è tornato a parlare il presidente della Commissione Ue, Juncker, invitando ad abbassare i toni, ribadendo che si farà di tutto per evitare che Atene esca dall’euro, ma ricordando che “l’Eurozona si compone di 19 democrazie e una non è più importante delle altre”. Roberta Barbi ne ha parlato con Francesco Carlà, analista finanziario e presidente di Finanza World: 

R. – Per quanto riguarda l’Eurogruppo penso che sia difficile che esca una posizione molto diversa da quella che la Grecia ha rifiutato prima del referendum. In questo momento credo che la questione sia molto più sui tempi che non sui contenuti. I tempi si dilatano un po’, come chiede Juncker. Da questo punto di vista sarà molto interessante anche l’esito del summit dei premier; allora l’Eurogruppo e la Grecia possono allungare il negoziato e quindi renderlo più produttivo, altrimenti è molto più difficile. I tempi, naturalmente, sono soprattutto in mano a Draghi e forse a Tsipras nel senso che dipende molto dal livello della proposta che presenterà. La questione è proprio questa: se si continua a negoziare per posizioni, il negoziato per posizioni tipicamente per metodologia richiede tempi lunghi, quindi dipende molto da Tsipras se la sua prima proposta sarà già accettabile dall’Eurozona o no. Dall’altra parte, ovviamente, dipende molto da Draghi perché se Draghi continua a tenere in vita le banche greche è uno scenario, se invece non succede, lo scenario cambia.

D. – La decisione della Bce di mantenere la liquidità di emergenza farà riaprire le banche e darà un po’ di respiro alla popolazione?

R. – Attualmente temo che non cambierà molto, perché la liquidità di emergenza resta ferma agli 89 miliardi di euro e serve a tenere in vita le banche greche, ma non migliora le condizioni che abbiamo visto nei giorni scorsi. Del resto, riaprire le banche secondo me sarebbe davvero un gesto avventato di Tsipras, perché ne seguirebbe una corsa agli sportelli e la fine delle banche greche, quindi anche con il precipitare di tutta una situazione che riguarda la negoziazione.

D. - Il Fondo monetario internazionale ha ribadito la propria disponibilità verso Atene ma a patto che i debiti vengano onorati. Come si può risolvere questa situazione?

R. – È piuttosto difficile perché tutto si è spostato sul piano politico da quello finanziario-economico che era, invece, il centro della questione fino agli ultimi giorni prima del referendum. Quindi tanti scenari che erano fattibili tecnicamente, secondo me, anche utili, come questo del Fondo monetario internazionale, adesso si mischiano a questioni politiche, faccende molto più irrazionali o almeno apparentemente tali. Infatti, c’è sul terreno anche di nuovo la possibilità di federare una parte del debito che è una delle proposte più interessanti e nuove che siano venute fuori, né dalla Grecia né dai creditori.

D. – Si avvicina anche la data del 20 luglio in cui scadrà un’altra rata dei pagamenti, quella dovuta alla Bce…

R. – Quella è una data davvero ultimativa perché è una data “europea”. La rata che è scaduta fin qua era quella dell’Fmi – che è stata una pessima idea tirare in ballo perché creava problemi tecnici, soprattutto - questa della Bce è una data davvero ultimativa, per questo è molto importante che questi giorni vengano sfruttati intelligentemente per trovare un punto di accordo stabile che, secondo me, per potersi ritenere tale dovrebbe essere adeguato per tutta l’Eurozona, non punitivo per Atene ma nemmeno prodromico di nuovi scenari simili in altri Paesi e che consenta che non faccia irruzione la speculazione che per il momento è l’unico convitato di pietra della faccenda perché abbiamo visto, nei giorni successivi, che era l’unica che non si è vista. Ci vuole un accordo che contenga tutto questo, cioè che sia adeguato per tutta l’Eurozona perché altrimenti chiaramente tutti quelli che si ritengono ingiustamente colpiti da un accordo favorevole, o presunto tale per la Grecia, ritornerebbero in campo.

D. – Se il referendum greco di domenica scorsa fosse fatto in altri Paesi europei che esito avrebbe, secondo lei?

R. – Secondo me dipende da alcuni fattori: il primo è il quesito, perché nessuno ha capito bene nemmeno a posteriori quale fosse il quesito; il secondo dipende dall’esito delle trattative dei prossimi giorni con Atene. Credo che però, con le scene che abbiamo visto in Grecia in questi giorni, se c’è qualcuno che veramente è rimasto sconfitto sono quelli che ritenevano fin qui entusiasmante lo scenario no-euro, uscita dall’euro.

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Ancora nessuna notizia del francescano rapito in Siria

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 La vicenda del sacerdote francescano iracheno Dhiya Azziz - il parroco del villaggio siriano di Yacoubieh rapito sabato scorso da miliziani delle organizzazioni jihadiste che controllano la regione – rimane segnata dall'incertezza, anche se tra i membri della comunità parrocchiale e tra i confratelli della Custodia francescana di Terra Santa le apprensioni per la sua sorte si mescolano a caute speranze di un suo rapido rilascio. Sul rapimento del francescano, Alessandro Guarasci ha sentito padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa: 

R. – Sono venuti a prelevarlo, sabato pomeriggio, alcuni militanti di alcune brigate collegate ad al-Nusra, di cui non sappiamo esattamente il nome: è una galassia di piccoli gruppi. Doveva essere un incontro breve con l’emiro del luogo, questo è quello che è stato detto nel villaggio: ma da allora non è più tornato… Pensavamo fosse – come è accaduto nel passato ad altri - nel tribunale islamico di Tarkush, ma non è lì… Non siamo in grado di capire dove sia e con chi sia.

D. - E’ stato stabilito qualche contatto con qualche autorità locale?

R. – Le autorità locali sono quelli di Jabath al-Nusra, con le quali è molto difficile avere una relazione: anzi,  non si ha alcuna relazione!

D. – Quali altre notizie vi arrivano da quella regione?

R. – Le notizie sono drammatiche! C’è un deterioramento della situazione, con una perdita di potere sul territorio da parte delle forze regolari e un grande caos anche tra le fazioni cosiddette ribelli, anche tra di loro. E’ comunque molto difficile avere notizie chiare e certe.

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Ucraina: bombardate zone filorusse, ancora vittime civili

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Nuova fiammata di violenze in Ucraina, due civili sono morti e un terzo è rimasto ferito in un bombardamento nel villaggio di Svobodnoie 65 km a sud di Donetsk, sotto il controllo dei separatisti filorussi. Lo rende noto il ministero della difesa dell'autoproclamata repubblica di Donetsk.  Intanto il Cremlino denuncia come "pericolo principale" per una soluzione pacifica del conflitto lo "slittamento dell'attuazione degli accordi di Minsk 2". “Non si può parlare di stabilizzazione della crisi” ha aggiunto il portavoce del Presidente Putin. Ma per fare il punto sulla crisi nelle regioni orientali dell’Ucraina, Marco Guerra ha intervistato il prof. Eugenio Di Rienzo, autore del libro il conflitto Russo-Ucraino, edito da Rubbettino: 

R. – Sì, c’è una guerra civile tra l’Est e l’Ovest dell’Ucraina, che rimane strisciante, facendo un numero rilevante di vittime non tanto militari, perché come tutte le guerre, purtroppo, è una guerra contro i civili alla fine. La popolazione del Donbass ha subito molte vittime, anche perché l’esercito di Kiev è affiancato da reparti regolari, alcuni dichiaratamente neonazisti, come il famigerato battaglione Azov. Sono quindi soldati regolari che combattono dentro una struttura militare ucraina, ma che il governo di Kiev non può, o non vuole, tenere sotto controllo. D’altra parte, è anche vero che sicuramente soldati senza stellette russi combattono sull’altro fronte. C’è anche un problema di emergenza umanitaria nella regione del Donbass: mancano alimenti, a volte mancano medicinali, a volte manca addirittura il rifornimento idrico, che il governo di Kiev cerca di tagliare. La situazione è molto grave e di questo purtroppo i media occidentali in generale non parlano e non informano.

D. – Quindi prosegue questa vera e propria guerra, malgrado gli accordi di Minsk 2. A che punto è l’attuazione di questa intesa?

R. – Non mi sembra che il governo di Kiev sia molto interessato a sviluppare questi accordi. Gli accordi sono abbastanza chiari: si chiede per il Donbass, per le regioni orientali, una larga autonomia, non solo amministrativa, ma anche politica. Nel senso che queste regioni, con gli accordi di Minsk – se fossero realizzati – dovrebbero mettere anche un veto ad alcune grandi decisioni di politica estera, come l’adesione all’Unione Europea o l’adesione alla Nato. Naturalmente, se questi accordi fossero sviluppati, il governo di Kiev dovrebbe far fronte a questo veto, che gli impedirebbe di entrare nell’Unione Europea. Ricordiamoci che questo è stato il casus belli della crisi ucraina. Apparentemente hanno immobilizzato la situazione, ma non mi sembra che il governo di Kiev sia molto interessato a mettere in atto questa riforma istituzionale nello Stato ucraino, che dovrebbe portare ad un federalismo molto forte, in cui le varie parti, componenti dello Stato ucraino, avrebbero voce in capitolo per le grandi decisioni di politica economica o di politica estera.

D. – In questo stallo permangono le sanzioni che finora hanno avuto l’unico effetto di colpire alcune economie europee. Dal punto di vista geopolitico che cosa comporta questo?

R. – Le sanzioni certamente non hanno portato ad un fallimento dell’economia russa, come alcuni speravano. Hanno portato invece dei gravissimi danni per alcuni Paesi dell’eurozona: in particolare la Germania – primo partner –; in particolare l’Italia – secondo partner con la Russia –; e in particolare tutti i Paesi del Sud dell’eurozona, perché questi, ad esempio, esportano prodotti alimentari. L’Italia esporta beni di lusso, autovetture, cantieristica e alimentari. Invece qui c’è da mettere di nuovo in evidenza una spaccatura dell’Europa. I Paesi sanzionisti, infatti, favorevoli alle sanzioni, sono i Paesi del Nord Europa, esclusa la Germania. Quindi c’è una spaccatura dell’Europa anche su questo e direi anche una spaccatura della Nato. Pure nella Nato c’è un fronte interventista antirusso – i Paesi baltici; la Svezia; la Finlandia; l’Inghilterra, che è sempre molto legata alle decisioni degli Stati Uniti – con un atteggiamento molto, molto più prudente dei Paesi Nato dell’area Sud e della Germania. Quindi la crisi ucraina non riguarda soltanto l’Ucraina e la Russia, ma è qualcosa che riguarda tutta l’Europa. D’altra parte, l’Ucraina e la Russia stanno in Europa, non dimentichiamocelo.

D. – In prospettiva, nei prossimi mesi, cosa dobbiamo aspettarci? Quali potrebbero essere le evoluzioni di questa crisi?

R. – Sia a Kiev sia a Mosca, forse anche a Bruxelles, e sicuramente anche a Washington, in questo momento c’è un partito della pace e un partito della guerra. Putin riesce a tenere il partito della guerra molto sotto freno. Non so se lo stesso possa avvenire a Kiev. Da tutte e due le parti c’è qualcuno che vorrebbe arrivare alla soluzione militare definitiva della crisi. Immagini, se questo partito della guerra prevalesse, in quale situazione ci troveremmo!

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Al-Shabaab attacca in Kenya: uccisi 14 minatori a Mandera

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Le milizie islamiste di Al-Shabaab hanno attaccato questa notte un villaggio nel Nord-Est del Kenya, vicino Mandera, uccidendo almeno 14 minatori. “Il loro obiettivo è di liberare il Nord-Est del Paese dai non musulmani e dai non somali”, ha commentato all’Agenzia Fides, mons. Joseph Alessandro, vescovo coadiutore di Garissa. Non è la prima volta che il gruppo terroristico, originario della Somalia, sconfina in Kenya, come spiega Nicola Pedde, direttore dell’Institute of Global Studies di Roma, al microfono di Michele Raviart

R. – Non si tratta tanto di sconfinamento quanto di operazioni che vengono gestite da alcune cellule che sono residenti sul territorio del Kenya. Il Kenya viene individuato oggi come una delle principali fonti di opposizione al movimento, proprio perché è stato l’intervento del Kenya quello che ha fatto venire meno la capacità dell’Al-Shabaab di generare la gran parte dei propri redditi nella Somalia meridionale, costringendola a una ridefinizione delle attività soprattutto nelle aree rurali, che ha consistito in un lungo periodo di tempo nel saccheggio e nel cercare di inglobare all’interno del territorio sotto il suo controllo una serie di villaggi più o meno riluttanti.

D. – In questi giorni Al-Shabaab ha conquistato un villaggio a 90 chilometri da Mogadiscio. Qual è lo stato di salute dell’organizzazione?

R. - Al-Shabaab è in uno stato di salute di fatto precario, al di là della capacità di condurre attentati di una certa rilevanza dal punto di vista delle perdite umane o comunque sia dell’impatto sul sistema della sicurezza. Si tratta di una struttura che sta cercando di riconquistare spazi: non credo che ci siano grandi capacità di poterlo fare nella Somalia centrale. Il vero obiettivo, in questo momento, è cercare di consolidare – a cavallo tra il territorio del Kenya e della Somalia meridionale – una certa sfera di controllo, soprattutto all’interno di una serie di villaggi che presentano condizioni ottimali per Al-Shabaab per quanto riguarda la logistica, per il reclutamento anche all’interno dei campi profughi di nuovi combattenti e soprattutto per cercare di drenare denaro all’interno delle casse, perché questo è il principale problema poi dell’Al-Shabaab oggi.

D. – Quali sono i rapporti di Al-Shabaab con gli altri gruppi del terrorismo islamico?

R. - Al-Shabaab è proprio un caso a se stante: ha cercato - soprattutto nella fase in cui c’è stato Godane al comando dell’organizzazione - un’affiliazione internazionale che era stata sistematicamente negata soprattutto da Al-Qaeda. L’analisi dei carteggi trovati nei computer di Bin Laden ha dimostrato quanto Al-Qaeda fosse non solo ostile alla figura di Godane in sé, ma anche a qualsiasi ipotesi di affiliazione di Al-Shabaab all’interno della reta qaedista, proprio perché riteneva i metodi di Godane e comunque del suo stato maggiore antitetici rispetto a quelle che sono le prerogative del sistema qaedista: quindi della conquista del territorio attraverso l’inserimento di una dinamica sociale nella politica attiva. Godane veniva sostanzialmente considerato un tagliagole. E’ Al-Zawahiri, che più che per disperazione che non per effettiva capacità di consolidare il gruppo ha dato questa patente qaedista ad Al-Qaeda. Ma i rapporti tra Al-Qaeda e Al-Shabaab sono sempre stati squisitamente epistolari.

D. – Ci sono collegamenti con il sedicente Stato Islamico?

R. – Lo Stato islamico è un fenomeno squisitamente iracheno, che ha ramificazioni e patenti che vengono prese qua è là, in modo più o meno dubbio, ma che sicuramente non hanno alcun tipo di radicalmente con la dimensione somala. Chiaramente interesse di Al-Shabaab è cercare di far comprendere all’opinione pubblica internazionale quanto la minaccia, rappresentata dall’organizzazione, sia ben maggiore rispetto a quella che in realtà non è: questa supposta capacità di gestione logistica delle attività nella regione – insieme a Boko Haram e Is – è ovviamente parte della retorica e della propaganda dell’Al-Shabaab, ma nella realtà dei fatti è onestamente – ad oggi - molto difficile poter dire che ci sia una effettiva capacità di coordinamento e soprattutto di gestione congiunta delle operazioni.

D. – La Somalia è uno Stato, il cui governo controlla a malapena la capitale: perché non si riesce a stabilizzare?

R. – Il vero problema della Somalia è che dopo una prima fase di grandi entusiasmi internazionali e di euforia nazionale con le prime elezioni che hanno portato all’elezione del Parlamento e a quella del presidente, la Somalia è tornata nel limbo del suo problema endemico: quindi quello della corruzione, del nepotismo, del tribalismo. La Comunità internazionale non è stata capace – da una parte – di generare quel necessario flusso di risorse economiche che sono oggi fondamentali per la ripresa del Paese e – dall’altra – di imporre un regime di governance alle autorità somale.

D. – Dopo gli attacchi subiti recentemente in Kenya – pensiamo a quello all’Università di Garissa o al centro commerciale di Nairobi – ci sono rischi che il Kenya possa diventare una nuova Somalia?

R. – L’Al-Shabaab trova spazi solo in quella regione oggi, favorito dal fatto che ci sono ingenti traffici, favorito dal fatto che c’è comunque anche una criminalità locale con la quale sembra che una certa forma di sodalizio sia stata in qualche modo raggiunta e quindi trova interessi comuni nell’opporsi a quello che è – anche in questo caso – il disastroso ruolo del governo di Nairobi nella gestione delle politiche regionali. Questo non vuol dire, però, che Al-Shabaab sia una forza imbattibile; questo non vuol dire che sia impossibile debellare il jihadismo: il problema vero rimane la governance.

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Nella Chiesa e nel mondo



Yemen: morti 100 civili mentre la tregua si allontana

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Almeno 100 persone sarebbero morte sotto i bombardamenti aerei sauditi nella sola giornata di ieri secondo l’agenzia yemenita Saba, ripresa dall'agenzia AsiaNews. A pochi giorni dall’ennesima visita nel Paese dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Ismail Ould Sheik Ahmad, in carica dallo scorso aprile, la situazione nello Stato del Golfo è sempre più critica. I raid aerei della coalizione a guida saudita continuano in tutto il Paese, così come gli scontri sul terreno fra Houthi, truppe filo-governative e milizie tribali. L’ipotesi di una tregua umanitaria, negoziata dall’inviato Onu e più che mai necessaria, appare pertanto ancora lontana.

Civili sotto attacco
Fra le vittime degli attacchi, riporta AsiaNews, ci sarebbero molti civili, fra cui donne e bambini che si trovavano nei mercati delle cittadine di Lower Joub e al-Foyoush. Dal 19 marzo a oggi, secondo l’Onu, i bombardamenti avrebbero causato oltre 3mila vittime, metà delle quali civili, e 14mila feriti, facendo precipitare una situazione umanitaria già delicata. Secondo l’ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari dell’Onu 4 yemeniti su 5 hanno bisogno di aiuti di base, mentre uno su due non ha accesso regolare a cibo e acqua potabile. Oltre un milione di persone ha abbandonato la propria casa in seguito agli scontri e il sistema sanitario è al collasso.

Emergenza umanitaria di terzo livello
Dalla fine di giugno le Nazioni Unite hanno dichiarato un’emergenza umanitaria di “terzo livello” per lo Yemen. Con la sigla “L3” l’Onu indica situazioni che richiedono interventi prioritari e stretta collaborazione fra le organizzazioni internazionali per dare assistenza alla popolazione. Oltre allo Yemen, a rientrare in questa categoria sono oggi Siria, Sud Sudan e Iraq. La consegna degli aiuti è però ostacolata dall’instabilità e dagli scontri continui. Il cessate il fuoco umanitario invocato da Ban Ki-moon la scorsa settimana appare lontano, nonostante gli Houthi, la principale forza militare sul terreno, si siano mostrati disponibili.

Un anno di conflitto
Dopo le rivolte del 2011, lo Yemen ha attraversato una fase di transizione turbolenta, sfociata in un conflitto sempre più esteso. L’occupazione della capitale Sana’a da parte delle milizie degli Houthi, un gruppo tribale del nord a maggioranza sciita, nell’estate 2014, ha di fatto sancito la sconfitta del presidente Abedrabbo Mansour Hadi, rifugiatosi in Arabia Saudita lo scorso febbraio. Divisioni politiche e tribali, antichi rancori e pesanti ingerenze esterne rendono quello yemenita un conflitto di difficile risoluzione. (G.Z.)

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Vescovi europei: la famiglia pro o contro le vocazioni?

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“La famiglia, come chiesa domestica, è il luogo primo dove avviene la trasmissione della fede. E’ lì che spesso si scopre e si sviluppa la vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Allo stesso tempo la famiglia può essere il luogo dove una nascente vocazione può essere soffocata, se non è adeguatamente accompagnata e sostenuta. Se si perde di vista l’idea che l’istituzione famigliare, è essenzialmente una comunità di fede per il benessere della coppia e dei loro figli, questo ha un effetto diretto sulla naturale armonia della vita familiare, e con essa sulla quantità e la qualità delle vocazioni”, ha affermato don Michel Remery, vice-segretario generale del Ccee, in apertura dei lavori ieri pomeriggio dell’Incontro Europeo Vocazioni in corso a Praga. 

Spesso la famiglia cristiana pone ostacoli ai giovani che sentono la vocazione
“Quando un giovane o una giovane esprime un desiderio crescente di seguire Cristo in modo radicale attraverso un cammino di discernimento al sacerdozio o alla vita consacrata, la famiglia può sentirsi inadeguata e sola nell’accompagnare le domande, i dubbi e le sfide connessi con una scelta di vita così radicale. Oggi giorno una tale scelta viene considerata come poco attrattiva e strana, tanto che spesso la stessa famiglia cristiana pone ostacoli e divieti ai giovani che considerano una tale vocazione". 

La comunità cristiana deve accompagnare le famiglie
"Chiaramente - prosegue mons. Remery -  il cammino verso la vocazione è un cammino personale di Dio con la persona chiamata, e la scelta è solo sua. Allo stesso tempo, come cristiani, non siamo soli, e abbiamo bisogno dell’aiuto degli altri. E' necessario che l’intera comunità cristiana, la Chiesa, sappia accompagnare ed aiutare le famiglie a compiere insieme un cammino di discernimento e di maturazione di una eventuale vocazione alla vita consacrata o al sacerdozio”. 

Presenti a Praga delegati di 20 Paesi
​A confrontarsi sul tema "Come accompagnare i giovani al sacerdozio e alla vita consacrata nella famiglia oggi" sono giunti a Praga 72 partecipanti, di cui 9 vescovi, assieme ai responsabili per la pastorale vocazionale e ai delegati delle Conferenze episcopali in Europa e delle Congregazioni religiose, provenienti da 20 Paesi europei e dalla Commissione per la Vita consacrata degli Usa. I lavori, che si svolgono a porte chiuse, si concluderanno giovedì prossimo con l’approvazione di un comunicato finale che sarà proposto in italiano, inglese, francese e tedesco nella mattinata di venerdì 10 luglio. (I.P.)

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Card. Filoni a Burgos: il Popolo di Dio oggi è missionario?

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“La celebrazione più bella e sognata di un Decreto conciliare, e di tutto il Concilio nel suo insieme, è quella di poter costatare che detto Decreto si è invecchiato come documento scritto, ma è ancora vivo perché è stato accolto e attuato normalmente nell’esperienza ecclesiale. Possiamo applicare questa recezione al Decreto ‘Ad Gentes’ sull’attività missionaria della Chiesa, in concreto?”. Questo interrogativo è stato il punto di partenza della conferenza inaugurale della 68ma Settimana di Missiologia di Burgos, tenuta dal Card. Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. La Settimana, che si è aperta ieri pomeriggio e si concluderà giovedì prossimo, si tiene presso la Facoltà di Teologia di Burgos, e quest’anno ha per tema “Significato e sfide della missione oggi. A 50 anni dal Decreto Ad Gentes”.

Il Decreto Ad Gentes è sempre nuovo
Nella sua ampia relazione sul tema “Il Decreto Ad Gentes: una visione teologica e pastorale della missione” - riferisce l'agenzia Fides - il card. Filoni ha evidenziato anzitutto che non si tratta di celebrare un anniversario di qualcosa di rilevante del passato, in quanto per “il Vaticano II non succede così, perché si tratta di un avvenimento vivo, che non si è esaurito”. Dopo aver ripreso la definizione missionaria della Chiesa data dal Decreto, espressa attraverso principi e definizioni teologiche di grande portata, il Prefetto del Dicastero Missionario ha rilevato come ai nostri giorni sia “evidente che la definizione missionaria della Chiesa è stata assunta in tutti i documenti ufficiali del magistero”, tuttavia si è chiesto: “possiamo affermare che il Popolo di Dio sia oggi un popolo missionario?”.

Per l'immagine di una "Chiesa tutta missionaria” la strada è ancora lunga
Il card. Filoni ha quindi evidenziato: “Non vi è dubbio che la missionarietà ha occupato la riflessione pastorale di numerose Conferenze episcopali, con risultati diversi… Altri episcopati tentano ora di uscire dal lungo letargo missionario nel quale hanno vissuto per secoli. Forse per questo motivo, Papa Francesco, in Evangelii gaudium, centra il suo discorso di conversione alla missione sui pastori: se questi non cambiano, sarà veramente difficile che il Popolo di Dio ne prenda coscienza”. Per arrivare all’immagine di “una Chiesa in stato di missione, di una Chiesa tutta missionaria” la strada è ancora lunga, ma “non c’è dubbio che nell’epoca postconciliare si è fatto poco per raggiungerla. La Chiesa missionaria continua ad appartenere ai missionari ad gentes o inter gentes” ha rilevato il Prefetto del Dicastero Missionario.

La missione interna e la missione ad gentes hanno acquistato dimensioni globali
Tuttavia, a livello di coscienza missionaria dell’intero Popolo di Dio, non mancano anche elementi positivi, ha rilevato il porporato facendo una panoramica dei continenti. Soffermandosi quindi sullo sviluppo della missionarietà, ha ricordato: “Una prova evidente di una nuova coscienza missionaria si trova nel campo concreto dell’attività missionaria, nella missionarietà della comunità cristiana. E’ un agire che non è più unidirezionale, dal Nord al Sud, dai ricchi ai poveri; si tratta, infatti, di un agire communionale, dove tutti hanno qualcosa da dare e qualcosa da ricevere, sia all’interno delle chiese, sia in ordine a portare il Vangelo ai non cristiani. Sia, dunque, la missione interna, sia la missione ad gentes hanno acquistato dimensioni globali, di tutta la Chiesa per tutto il mondo”.

La cooperaziome missionaria deve coinvolgere tutto il Popolo di Dio
Nell’ultima parte della sua conferenza, il Prefetto del Dicastero Missionario ha parlato della cooperazione missionaria: “frutto di una coscienza missionaria, non si limita a una partecipazione individuale nella varietà di azioni missionarie; si tratta di un coinvolgimento di tutto il Popolo; è un operare comune. Si parla sempre del soggetto che coopera donando; è lui il protagonista in quanto donatore. Dall’altra parte si trova colui che riceve e che non è mai visto come cooperatore. Chi dà coopera, chi riceve è mero soggetto passivo. Tuttavia, questo non manifesta una autentica struttura communionale cristiana. In questa tutti danno e tutti ricevono; ognuno mette in comune ciò che ha e ognuno partecipa dei doni del fratello, sui quali poggia la beatitudine di chi riceve”.

Il Decreto conciliare non è stato ancora accolto in pienezza dal Popolo di Dio
​Nelle conclusioni il card. Filoni ha affermato tra l’altro: “Dalla pubblicazione del Decreto Ad gentes fino all’Esortazione Evengelii gaudium, è trascorso mezzo secolo, nel quale l’attività missionaria della Chiesa non si è fermata. In realtà, la Chiesa non sa fare altro, se non annunciare la Buona Novella. Tuttavia, la solenne proclamazione conciliare sulla Chiesa missionaria per natura non è stata ancora accolta nella sua pienezza dalla totalità del Popolo di Dio. E questa dovrebbe essere la grazia più grande che questo Popolo può ricevere e l’unica azione richiestagli per essere fedele alla sua identità”. (S.L.)

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Cile. Card. Ezzati: difendere la vita sin dal concepimento

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Si respira ancora aria di festa, in Cile, dopo la storica vittoria calcistica sull’Argentina, ottenuta il 4 luglio, nell’ambito della Coppa America 2015. Ed è proprio partendo da questo contesto sportivo che il card. Ricardo Ezzati Andrello, arcivescovo di Santiago del Cile, ha diffuso una sua riflessione sul quotidiano “La Tercera”. La nota, intitolata “Giocatori per una vita degna”, ricorda che, pur nel contesto calcistico della Coppa America, in realtà in Cile “si sta giocando un’altra partita storica, ovvero quella relativa al dibattito sulla depenalizzazione dell’aborto”.

L’aborto non è mai terapeutico
Da tempo, infatti, è in discussione una proposta normativa mira a depenalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza in tre casi: quando la gestazione mette in pericolo la vita della madre; quando il feto presenta malformazioni incompatibili con la vita e nel caso in cui la madre sia rimasta incinta in seguito ad uno stupro. Ricordando, dunque, che la Chiesa ha a cuore tanto il nascituro, quando la donna che lo porta in grembo, il card. Ezzati Andrello scrive: “Non vogliamo sottoporre la donna ad un’esperienza devastante che non dimenticherà mai, perché l’aborto non è mai terapeutico”.

Diritto alla vita appartiene ad ogni essere umano, sin dal concepimento
“Entrambe le vite, sia quella della madre che quella del bambino, sono importanti – continua la riflessione – Ed è per questo che un atteggiamento autenticamente umano guarderà sempre alla vita, alla dignità ed al bene primario della madre e del figlio, e giammai all’esclusione ed alla soppressione deliberata di uno di loro”. Quindi, l’arcivescovo di Santiago precisa che il diritto alla vita, che tutti gli esseri umani hanno dal concepimento e fino alla morte naturale, suppone condizioni dignitose, quali abitazioni adeguate, educazione di qualità, lavoro decente, salario giusto, opportunità di sviluppo integrale.

La Chiesa rispetta, difende e promuove sempre la vita
A questo proposito, il card. Ezzati ribadisce: “La voce della Chiesa non ha mai mancato di rispettare, difendere e promuovere la vita umana, specialmente quando essa viene minacciata. Non ha mancato in passato, quando la persecuzione politica costava la vita, l’integrità e la libertà della persona; non ha titubato in questi ultimi anni, richiamando l’attenzione sugli scandali della disuguaglianza, delle condizioni carcerarie precarie, del maltrattamento degli immigranti, delle tante discriminazioni. E tanto meno tace oggi, quando gli esseri umani più innocenti sono in pericolo e le loro madri vivono situazioni drammatiche”.

No allo “scarto”. Aiutare le madri senza mettere a rischio vita dei figli
​Citando, poi, l’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, l’arcivescovo cileno evidenzia che “quando non si riconosce nella realtà stessa l’importanza di un povero, di un embrione umano, di una persona con disabilità, difficilmente si sapranno ascoltare le grida della natura stessa”. Infine, il card. Ezzati sottolinea che la Chiesa mette in campo tutti i suoi sforzi per porre fine alle esclusioni sociali: “Non vogliamo aggiungere le madri traumatizzate o i bambini non nati alla lista di persone ‘scartate’ dalla società, come dice Papa Francesco”, perché “in questa logica di mercato che ignora i deboli ed i disabili, non possiamo rassegnarci”. “Una società giusta ed inclusiva – conclude la nota – deve aiutare le madri ad affrontare questi drammi dolorosi, senza mettere a rischio la vita dei loro figli”. (I.P.)

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Panama: plenaria dei vescovi su famiglia, creato e corruzione

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A pochi giorni dalla chiusura dell’Assemblea plenaria dei vescovi di Panama, l’agenzia Fides ha diffuso oggi i punti fondamentali dei cinque giorni di incontro. Al centro del dibattito, il valore della famiglia, la riconciliazione nazionale, la corruzione e il cambiamento climatico richiamato nell’Enciclica “Laudato sii” di Papa Francesco. Numerosi i richiami all’attualità sociale del Paese.

Verso l’Incontro mondiale delle famiglie
“La famiglia va difesa da tutti”, scrivono i vescovi panamensi, “da chi gestisce il potere pubblico come dalla società civile, dalla Chiesa cattolica e da tutte le confessioni”. L’orizzonte è quello dell’Incontro mondiale delle famiglie, che si terrà il prossimo settembre negli Stati Uniti, e del Sinodo dei vescovi sulla famiglia, in calendario a Roma nel mese di ottobre.

Corruzione e riconciliazione
I vescovi hanno anche voluto ricordare il difficile cammino di riconciliazione nazionale, avviato dal presidente Juan Carlos Varela lo scorso dicembre, a 25 anni di distanza dall’intervento Usa contro il dittatore Noriega. “Non possiamo costruire la pace senza verità e giustizia, non possiamo vivere nella falsità e nella menzogna”, hanno scritto. Un’esigenza più che mai attuale, visti i casi di corruzione emersi nell’ultimo anno, in cui parrebbero essere coinvolti diversi esponenti del governo dell’ex-presidente Ricardo Martinelli. Antidoto alla disonestà è, secondo i vescovi, la creazione di “una cultura dell’onestà e della trasparenza, che contribuisca al bene comune e denunci ogni forma di corruzione”.

“Proteggiamo la nostra casa comune”
Richiamandosi all’Enciclica di Papa Francesco, i vescovi hanno sottolineato come “nel territorio panamense stiamo già vivendo gli effetti del cambiamento climatico: una crisi ecologica dovuta alla devastazione delle foreste, all’uso di pesticidi nocivi nell’agricoltura e all’esaurimento delle fonti di acqua”. Nell’ultimo ventennio il Panama ha perso 540mila ettari di foreste a causa dell’urbanizzazione e dello sfruttamento agricolo intensivo, rendendo più vulnerabili le popolazioni rurali, la cui sopravvivenza è legata alla coltivazione su piccola scala. Citando le parole di Papa Francesco, i vescovi concludono che, anche a Panama, “la sfida più urgente è proteggere la nostra casa comune”. (G.Z.)

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Francia: documento sul clima dei leader religiosi

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Con una dichiarazione consegnata al Presidente francese François Hollande, la Conferenza dei responsabili del culto in Francia (Crcf) ha indirizzato ai partecipanti alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop2), che si terrà a Parigi a dicembre, la richiesta di un accordo vincolante per far fronte alla crisi climatica e la limitazione a 2 gradi centigradi dell’aumento della temperatura, obiettivo, quest’ultimo concordato a livello internazionale per contenere il riscaldamento globale. Ai leader mondiali si domanda l’impegno ad uscire dall’era dei combustibili fossili e a ridurre le emissioni ad effetto serra con norme che garantiscano la trasparenza, la responsabilità e un regolare processo di revisione degli obiettivi; che proteggano i più vulnerabili dall’impatto dei cambiamenti climatici; che promuovano uno sviluppo ecologicamente responsabile e la lotta contro la povertà; che garantiscano un rafforzamento delle conoscenze e competenze.

Il contributo del Consiglio ecumenico delle Chiese
Le richieste formulate nel documento scaturiscono anche dalla campagna Act, Azione per la giustizia climatica, sostenuta attivamente dal Consiglio ecumenico delle Chiese che nel suo portale istituzionale riferisce della visita dei leader religiosi all’Eliseo. La dichiarazione presentata al Presidente francese è stata sottoscritta dalla Conferenza dei vescovi di Francia, dalla Federazione protestante di Francia, dall’Assemblea dei vescovi ortodossi di Francia, dall’Unione buddista di Francia, dal Consiglio francese del culto musulmano e dal Concistoro centrale israelita di Francia ed esprime viva preoccupazione per le generazioni future sottolineando che la crisi climatica è una sfida spirituale e morale. “E’ interpellata la nostra coscienza spirituale e morale. La nostra sfida è quella di agire per la giustizia, di lavorare per la pace, di intervenire urgentemente per un futuro sicuro e sostenibile per i nostri figli” si legge nel documento, che evidenzia la necessità di revisionare i modelli economici di produzione e consumo senza limiti.

Il sostegno all’iniziativa della campagna 'Digiuno per il clima'
A sostenere l’iniziativa della Conferenza dei responsabili del culto in Francia è stata nei giorni scorsi la campagna 'Digiuno per il clima' che ha voluto sensibilizzare alla responsabilità per la sicurezza climatica. La Conferenza dei responsabili del culto in Francia è stata creata il 23 novembre del 2010 e rappresenta Chiese cristiane cattoliche, ortodosse e protestanti, buddisti, musulmani ed ebrei. (T.C.)

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10.mo attentati a Londra, britannici ricordano le vittime

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Vetture ferme e un minuto di raccoglimento: così i trasporti pubblici londinesi ricordano oggi il decimo anniversario dell'attacco dei 4 kamikaze legati ad al Qaeda che il 7 luglio 2005 compirono una strage in tre diversi settori della metropolitana e su un autobus causando in totale 52 morti e oltre 700 feriti nel più sanguinoso attacco terroristico perpetrato nella capitale britannica.

Messa a St. Paul Cathedral e commemorazione ad Hyde Park
La ricorrenza è stata segnata fin dalle prime ore del mattino dalla deposizione di fiori e da brevi cerimonie, su uno sfondo di allerta per la sicurezza rilanciato in questi giorni anche in seguito all'attentato contro turisti (soprattutto britannici) compiuto in Tunisia. Sono in programma una liturgia in ricordo delle vittime a St. Paul Cathedral e una commemorazione di fronte al memoriale del 7/7 di Hyde Park, alla presenza di superstiti, leader politici e del principe William. (A.G.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 188

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.