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Sommario del 08/07/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Messa a Quito. Papa: fede cristiana rivoluzionaria, è grido di unità

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Il compito dei cristiani è di creare l’unità della Chiesa e della società, perché Gesù non ha pregato per un’“élite” ma per “una grande famiglia, nella quale Dio è nostro Padre e tutti noi siamo fratelli”. Lo ha affermato Papa Francesco nella Messa presieduta ieri mattina al Parque del Bicentenario di Quito, davanti a circa un milione e mezzo di persone, primo appuntamento della sua terza e ultima giornata in Ecuador. Il servizio di Alessandro De Carolis: 

“Ecuador, Ecuador! Abre las puertas al Redentor!”, “Ecuador, Ecuador! Apre le porte al Redentor!”, canta con l’insistenza di una nenia e il trasporto di una preghiera il coro che anima la Messa all’arrivo del Papa. E l’Ecuador, quello dove pulsa l’anima india, spalanca le porte a “Francisco”, inondandolo di fiori al suo arrivo al Parque del Bicentenario.

Il compito dell’unità
La folla è fitta come l’erba dei 125 ettari sulla quale si è radunata, dall’altare ornato da 100 mila rose alla calca che sfocia nelle vie circostanti, e da quell’immenso spazio il Papa sceglie di dare voce al grido di libertà che il Parco ricorda e celebra, il bicentenario dell’indipendenza repubblicana. Ma Francesco rinnova per così dire la sostanza di quel grido: non più un’eco di guerra e di divisione, bensì – propone – un “clamore” che sa di “concordia” e preghiera perché nato dal grido di Gesù quando chiese al Padre “che siano una cosa sola perché il mondo creda":

“En ese momento, el Señor…
In quel momento, il Signore sta sperimentando nella propria carne il peggio di questo mondo, che ama comunque alla follia: intrighi, sfiducia, tradimento, però non nasconde la testa, però non si nasconde, non si lamenta. Anche noi constatiamo quotidianamente che viviamo in un mondo lacerato dalle guerre e dalla violenza (...) Gesù ci invia proprio a questo mondo che ci sfida, con i suoi egoismi, e la nostra risposta non è fare finta di niente, sostenere che non abbiamo mezzi o che la realtà ci supera. La nostra risposta riecheggia il grido di Gesù e accetta la grazia e il compito dell’unità”.

Agire a tutti i livelli
La vera libertà, osserva il Papa, non nasce dai “personalismi” ma nella capacità, ribadisce citando l’"Evangelii gaudium", di “riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti. Capacità, afferma, che sono esattamente proprie dell’evangelizzazione, “veicolo di unità di aspirazioni, di sensibilità, di sogni e persino di certe utopie”:

“De ahí, la necesidad de luchar…
Da qui, la necessità di agire per l’inclusione a tutti i livelli – lottare per l’inclusione a tutti i livelli! – evitando egoismi, promuovendo la comunicazione e il dialogo, incentivando la collaborazione (…) E’ impensabile che risplenda l’unità se la mondanità spirituale ci fa stare in guerra tra di noi, alla sterile ricerca di potere, prestigio, piacere o sicurezza economica. E questo a danno dei più poveri, dei più esclusi, dei più indifesi, di coloro che non perdono la propria dignità malgrado gliela colpiscano tutti i giorni”.

No a religiosità di élite
“L’evangelizzazione – ribadisce con forza Francesco – non consiste nel fare proselitismo: il proselitismo è una caricatura dell’evangelizzazione”. Evangelizzare, spiega, è sia “un’azione verso l’esterno” – un “attrarre con la nostra testimonianza i lontani”, un avvicinarsi, sottolinea con intenzione, “a quelli che si sentono giudicati e condannati a priori da coloro che si sentono perfetti e puri”. Ed è al contempo, soggiunge, un essere missionari “verso l’interno”, in quel luogo di comunione dove “l’intimità di Dio” si manifesta all’evangelizzatore come “comunicazione, donazione, amore”:

“Por eso la unión que pide Jesús…
Per questo l’unione che chiede Gesù non è uniformità ma la ‘multiforme armonia che attrae’. L’immensa ricchezza del diverso, del molteplice che raggiunge l’unità ogni volta che facciamo memoria di quel Giovedì santo, ci allontana dalla tentazione di proposte uniciste, più simili a dittature, a ideologie, a settarismi (…) Non si tratta neppure di un aggiustamento fatto a nostra misura, nel quale siamo noi a porre le condizioni, scegliamo le parti in causa ed escludiamo gli altri. Questa religiosità di élite, non è quella di Gesù! Gesù prega perché formiamo parte di una grande famiglia, nella quale Dio è nostro Padre e tutti noi siamo fratelli”.

Tutti fratelli, “nessuno escluso”
E la conclusione dell’omelia è un tambureggiante “siamo fratelli” da parte di Francesco: perché Dio ci ha fatti suoi figli, dice, perché lo Spirito ci insegna a dire “Abbà, Padre”, perché il sangue di Cristo ci ha giustificati. Siamo fratelli “nessuno escluso”, grida Francesco nel Parco dove ha gridato il cuore libero degli ecuadoriani:

“Nuestro grito, en este lugar…
Il nostro grido, in questo luogo che ricorda quel primo grido di libertà, attualizza quello di san Paolo: ‘Guai a me se non annuncio il Vangelo!’. E’ tanto urgente e pressante come quello che manifestava il desiderio di indipendenza. Ha un fascino simile, ha lo stesso fuoco che attrae. Fratelli, abbiate gli stessi sentimenti di Gesù; siate una testimonianza di comunione fraterna che diventa risplendente (…) Questo significa evangelizzare, questa è la nostra rivoluzione – perché la nostra fede è sempre rivoluzionaria – questo è il nostro più profondo e costante grido”.

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Papa al mondo dell'educazione: pensare con urgenza al creato

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Al giorno d’oggi, siamo chiamati “con urgenza” a pensare e discutere del creato, del male che abbiamo provocato col l’“abuso dei beni” che Dio ci ha donato, impegnandoci a non “girare le spalle alla nostra realtà, ai nostri fratelli”. E’ la riflessione di Papa Francesco, che a Quito ha incontrato anche il mondo della scuola e dell’università dell’Ecuador. Il servizio di Giada Aquilino

Abbiamo ricevuto da Dio questa terra “come eredità, come un dono, come un regalo”, che va condiviso e custodito: “Oggi questo invito si impone a noi con forza”. Alla Pontificia Università Cattolica dell’Ecuador, ateneo gestito dai Gesuiti che accoglie 30 mila studenti, Papa Francesco torna sui temi dell’Enciclica “Laudato si’” e si sofferma a riflettere sul ruolo delle comunità educative per i giovani, “seme di trasformazione della società”:

“Ante la globalización del paradigma tecnocrático que tiende a creer…
Di fronte alla globalizzazione del paradigma tecnocratico che tende a credere ‘che ogni acquisto di potenza sia semplicemente progresso, accrescimento di sicurezza, di utilità, di benessere, di forza vitale, di pienezza di valori, come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia’, ci viene chiesto che con urgenza ci si affretti a pensare, a cercare, a discutere sulla nostra situazione attuale, su quale tipo di cultura vogliamo o pretendiamo non solo per noi ma per i nostri figli, per i nostri nipoti”.

Abbiamo abusato dei beni che Dio ha posto nella ‘madre terra’
Nel moderno edificio a circa due chilometri da Quito, accolto da mons. Alfredo Jose Espinosa Mateus, presidente della Commissione episcopale per l'educazione, e da testimonianze di una studentessa, di un docente e del rettore, Cesar Fabian Carrasco Castro, il Pontefice ha ricordato il modo di Gesù di insegnare attraverso parabole, in modo “plastico” per farsi capire, non insegnando come un dottore, ma come “chi vuole arrivare al cuore dell’uomo”. Ecco perché di fronte al “male” che provochiamo alla “madre terra”, a causa “dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei”, il Papa non esita a domandarsi e a chiedere a chi lo ascolta come “vogliamo lasciare” alle generazioni future il “creato”, “regalo”, “dono”, “offerta” del Signore, perché – ricorda – non è qualcosa “di acquistato, di comprato: ci precede e ci succederà”.

Un povero che muore di fame e di freddo non fa notizia
Esorta quindi a non continuare “a girare le spalle alla nostra realtà, ai nostri fratelli”. Racconta, commosso e addolorato, di quando a Roma, nei pressi del Vaticano, sia capitato, in inverno, di ritrovare un uomo morto di freddo e di realizzare che ciò “non è una notizia” per le cronache dei giornali:

“Un pobre que muere de frío y de hambre hoy no es noticia...
Un povero che muore di freddo e di fame oggi non è una notizia, ma se le borse delle principali capitali del mondo vanno giù di due o tre punti si arma un grande scandalo globale. Mi chiedo: dov’è tuo fratello? E vi chiedo di farla di nuovo, tutti, questa domanda, e di allargarla a tutta l’università. A Voi, Università Cattolica, dove è tuo fratello”.

Scuole come vivaio
Francesco sollecita il “contesto universitario” a interrogarsi sulla nostra educazione “di fronte a questa terra che grida verso il cielo”:

“Nuestros centros educativos son un semillero...
Le nostre scuole sono un vivaio, una possibilità, terra fertile che dobbiamo curare, stimolare e proteggere. Terra fertile assetata di vita”.

La missione degli educatori
Per gli educatori l’auspicio è che veglino sugli studenti “aiutandoli a sviluppare uno spirito critico, uno spirito libero, in grado di prendersi cura del mondo d’oggi”, generando e accompagnando un “dibattito costruttivo, che nasce dal dialogo in vista di un mondo più umano”. La riflessione per le famiglie, le scuole, i docenti è a non identificare il diploma universitario con uno “status più elevato, soldi, prestigio sociale”, ma “come un segno di maggiore responsabilità per i problemi di oggi, rispetto alla cura dei più poveri, rispetto alla salvaguardia dell’ambiente”, aggiunge il Pontefice:

“No basta con realizar análisis, descripciones de la realidad...
Non basta fare le analisi, la descrizione della realtà; è necessario dar vita ad ambiti, a luoghi di ricerca vera e propria, a dibattiti che generino alternative ai problemi esistenti, specialmente oggi”.

I giovani chiamati a dare il meglio
La carta vincente sta allora nei giovani, quel “presente e futuro dell’Ecuador” che a più riprese ha applaudito le parole del Papa, chiamato dallo stesso Francesco a dare “il meglio” di sé.

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Il Papa: costruire società dell’inclusione, vincere la cultura dello scarto

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Promuovere sempre l’inclusione per vincere l’egoismo e la cultura dello scarto. E’ l’esortazione rivolta dal Papa agli esponenti della società civile dell’Ecuador, incontrati nella Chiesa di San Francisco di Quito, l’edificio cattolico più antico di tutta l’America Latina. Prima del discorso del Pontefice, il sindaco della capitale ecuadoriana ha consegnato a Francesco le chiavi della città. Il servizio di Alessandro Gisotti

La società apprenda dalla famiglia affinché nessuno si senta escluso. Papa Francesco ha rivolto ai rappresentanti della società civile ecuadoriana un appassionato discorso, aggiungendo più volte a braccio delle riflessioni per sottolineare un tema a lui molto caro: l’inclusione di ogni persona per sconfiggere la cultura dello scarto. Significativo, al riguardo, che il discorso del Papa sia stato preceduto - oltre che da alcune testimonianze - dall’esecuzione di un brano musicale da parte dell’Orchestra Sinamune, composta da giovani disabili e con sindrome di Down. Il Pontefice ha centrato il suo intervento in particolare su tre punti: gratuità, solidarietà e sussidiarietà. “Nelle famiglie – ha osservato – tutti contribuiscono al progetto comune, tutti lavorano per il bene comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo promuovono”. Ha così espresso l’auspicio che si possa “vedere l'avversario politico, il vicino di casa con gli stessi occhi con cui vediamo” i nostri familiari:

“Amamos nuestro país, la comunidad que estamos intentando construir?”
“Amiamo il nostro Paese, la comunità che stiamo cercando di costruire?”, si è chiesto Francesco e citando Sant’Ignazio di Loyola ha sottolineato che l’amore si dimostra più “con le opere che con le parole”. Nell’ambito sociale, ha dunque affermato, “la gratuità non è un complemento ma un requisito necessario della giustizia”, “quello che siamo e abbiamo ci è stato donato per metterlo al servizio degli altri, il nostro compito consiste nel farlo fruttificare in opere buone”.

“Los bienes están destinados a todos…”
“I beni – ha ammonito – sono destinati a tutti, e per quanto uno ostenti la sua proprietà, che è lecito, pesa su di essi un’ipoteca sociale. Sempre”. Rivolgendosi così in particolare ai popoli indigeni provenienti dall’Amazzonia, Francesco ha evidenziato che “lo sfruttamento delle risorse naturali, così abbondanti in Ecuador non deve ricercare il guadagno immediato. Essere custodi di questa ricchezza che abbiamo ricevuto ci impegna con la società nel suo insieme e con le generazioni future”. “Ci sono luoghi – ha detto ancora – che richiedono una cura particolare a motivo della loro enorme importanza per l’ecosistema mondiale”. Dalla fraternità vissuta in famiglia, ha soggiunto, nasce “la solidarietà nella società, che non consiste solo nel dare ai bisognosi, ma nell’essere responsabili l’uno dell'altro. Se vediamo nell'altro un fratello, nessuno può rimanere escluso, separato”.

“Las normas y la leyes, así como los proyectos…”
“Le norme e le leggi, così come i progetti della comunità civile, devono cercare l’inclusione, per favorire spazi di dialogo, di incontro e quindi lasciare al ricordo doloroso qualunque tipo di repressione, il controllo illimitato e la sottrazione di libertà”. La speranza di un futuro migliore, ha detto, “richiede di offrire reali opportunità ai cittadini, soprattutto ai giovani, creando occupazione”. Qui, il Papa a braccio ha ribadito la sua vibrante denuncia contro la cultura dello scarto che colpisce prima di tutto i giovani e gli anziani con conseguenze terribili fino al suicidio. A chi fa comodo questo, è stato l’interrogativo del Papa: “ai servitori dell’egoismo, del dio denaro che sta al centro di un sistema che ci schiaccia tutti”.

Francesco ha infine rivolto l’attenzione alla dimensione della sussidiarietà. “Riconoscendo ciò che c’è di buono negli altri, anche con i loro limiti – ha detto – vediamo la ricchezza che caratterizza la diversità e il valore di complementarità. Gli uomini, i gruppi hanno il diritto di compiere il loro cammino, anche se questo a volte porta a commettere errori”. Il dialogo, ha ripreso, “è necessario, essenziale per arrivare alla verità, che non può essere imposta, ma cercata con sincerità e spirito critico”. Ed ha rimarcato che in una “democrazia partecipativa”, tutte le forze sociali devono essere protagoniste. Anche la Chiesa, ha affermato, “vuole collaborare nella ricerca del bene comune, con le sue attività sociali, educative, promuovendo i valori etici e spirituali, essendo segno profetico che porta un raggio di luce e di speranza a tutti, specialmente ai più bisognosi”.

“Muchos me preguntarán: Padre, por qué habla tanto de los necesitados…”
“Molti – ha concluso – mi chiedono perché parlo tanto dei bisognosi, delle persone escluse, al margine della strada. Semplicemente – ha detto il Papa – perché questa realtà e la risposta a questa realtà sono al centro del Vangelo”.

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Padre Lombardi: dal Papa un messaggio di dialogo e solidarietà

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A conclusione dell'intensa giornata di ieri in Ecuador, Mario Galgano ha raccolto il commento del portavoce vaticano e direttore della Radio Vaticana, padre Federico Lombardi, che ha tracciato un bilancio di questa prima tappa in America Latina di Papa Francesco. Innanzitutto gli ha chiesto come sta il Papa: 

R. – Il Papa sta sempre bene: non solo perché devo dirlo io, ma perché è vero e perché se uno vede quello che fa non può che restare ammirato della energia straordinaria. Ma poi anche vedendolo da vicino, nonostante gli impegni di queste giornate, lo si vede sempre effettivamente sereno, totalmente tranquillo, padrone di sé, attento alle diverse persone che incontra, attento anche ai particolari… Quindi, manifesta veramente una capacità di vivere questi periodi così straordinari di impegni con una totale possibilità di far fronte a ogni aspetto.

D. – Il programma ieri è stato molto intenso: ha celebrato al Parque Bicentenario a Quito, ha incontrato studenti, cioè il mondo dell’università, il mondo civile… Quali sono stati i punti forti di questa giornata?

R. – Questa giornata aveva il vantaggio di svolgersi tutta nella stessa città, quindi non c’erano i trasferimenti che ieri per esempio hanno preso necessariamente del tempo per spostarsi anche con l’areo, andando all’aeroporto… Qui siamo rimasti invece nella capitale tutta la giornata ed effettivamente questo ha permesso di svolgere un programma con tutta una serie di avvenimenti molto importanti: a partire dall’incontro con i vescovi, che era privato ma che aveva tutta una sua importanza in una logica di visita pastorale, di Chiesa. Poi, questa Messa straordinaria al Bicentenario che era stata anche preparata benissimo: una celebrazione che è stato veramente un piacere vivere, non solo per la ricchezza dei contenuti ma anche per la cura spirituale con cui era stata preparata. Nel pomeriggio, il Papa ha potuto fare questi due avvenimenti importanti nel quadro della visita, quello con il mondo dell’educazione. Quello con il mondo dell’educazione è un po’ caratteristico di questa tappa dell’Ecuador: era stato voluto anche dalla Chiesa in Ecuador proprio per incoraggiare il grande impegno educativo della Chiesa, ma inserito nella realtà più ampia e complessa, complessiva del mondo educativo. E questo ha dato modo al Papa di toccare una serie di grandi problemi che naturalmente riguardano non solo l’educazione specificamente in sé, ma i grandi valori che vengono comunicati attraverso l’educazione: quindi, come le grandi domande del mondo di oggi – il Papa ha fatto riferimento in particolare alle domande che ha trattato anche nell’ultima Enciclica “Laudato si’” –diventano le domande che si trasmettono e che permettono di impostare l’educazione così da aiutare i giovani a prepararsi a rispondere a queste domande dell’umanità di oggi, con la loro responsabilità e con una loro adeguata preparazione.

D. – E per quanto riguarda il mondo della cultura, il mondo civile, con il discorso molto profondo, che ha toccato diversi temi, c’è qualcosa che l’ha colpita particolarmente?

R . – Era certamente un discorso molto atteso, perché il momento che vive anche la società ecuadoriana, come anche molte altre società, è un momento delicato di sviluppo in cui sono presenti anche tensioni. C’è stato un progresso certamente molto positivo della nazione, in molti anni, ma ci sono molti problemi aperti. Allora, come il Papa avrebbe affrontato, che contributo poteva dare al popolo ecuadoriano in questa situazione, era naturalmente un interrogativo. E il Papa, in tutti gli interventi di questi giorni, in un modo o nell’altro, è riuscito a dare un messaggio di dialogo, di solidarietà, di orientamento per la costruzione di una società armonica, inclusiva, capace di integrare tutte le sue diverse componenti, di integrare la creatività di queste diverse componenti e la loro responsabilità, in una preoccupazione comune del bene comune della nazione. E il metodo che il Papa ha scelto nel suo discorso è stato quello di partire dall’esperienza concreta della famiglia, dei valori familiari, e allargare i valori che si sperimentano nella costruzione della comunità familiare alla società. E quindi ha indicato una via molto concreta per impostare questo discorso che lui ha centrato sugli atteggiamenti che ognuno deve avere per dare positivamente il suo contributo all’avvenire del suo Paese.

D.  – Questa prima delle tre tappe in America Latina sta per concludersi: fare un bilancio è presto ma possiamo fare un riflessione. Cosa lei personalmente porterà con sé della visita del Papa in questo Paese latinoamericano?

R. – Io porto prima di tutto l’impressione dell’accoglienza che il Papa ha ricevuto, cioè della partecipazione immensa, incredibile della popolazione a questo evento. Abbiamo visto centinaia di migliaia di persone sulle strade, nei grandi avvenimenti, che erano contente di essere lì dove il Papa sarebbe passato, potendolo poi a volte vedere, ma neanche poi tanto, perché magari poi il Papa passava in una piccola macchina chiusa… Eppure, la gente era tutta lì perché sapeva che il Papa passava e piangeva di gioia, di commozione… Quindi, direi che il popolo ha risposto, ha manifestato un’attenzione, un desiderio di ascolto della voce del Papa, di sentirne il conforto e l’orientamento, molto notevole, molto impressionante, vorrei dire…

D. – Lei personalmente conosceva già questo tipo di spiritualità ecuadoriana, o anche per lei è stata una novità, qualcosa di sorprendente?

R. – Diciamo che, per esempio, io avevo visto in Messico un’accoglienza di moltitudini immensa e intensa, quindi se vogliamo forse le caratteristiche che si possono ritrovare in Paesi di cultura latinoamericana hanno dei punti in comune. Però, io dell’Ecuador non conoscevo granché e quindi per me è stato tutto nuovo, e devo dire che è un popolo che mi ha colpito per la sua varietà, per la ricchezza delle sue componenti culturali, etniche, per la sua storia, per il suo apprezzamento del suo stesso Paese, delle risorse, dei doni di Creazione che ha avuto… E quindi, un Paese con grandissimi valori che si è sentito molto toccato dal fatto che il Papa lo abbia scelto come primo Paese di lingua ispanica da visitare nel Continente. Si è sentito molto onorato e ha risposto nel modo migliore. Speriamo che possa anche fare frutto di questo orientamento che il Papa gli ha dato a un livello superiore, per il suo futuro, e che riesca a farne tesoro e a tradurlo in pratica, nonostante le difficoltà, nei suoi aspetti fondamentali.

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L'attesa del Papa in Bolivia: lo aspettiamo con il cuore aperto

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Cresce l’attesa in Bolivia per l’arrivo del Papa. Francesco atterrerà oggi alle 16:15 locali, le 22:15 italiane, all’aeroporto di El Alto: qui si svolgerà la cerimonia di benevenuto, quindi il trasferimento nella capitale La Paz  e in serata a Santa Cruz de la Sierra, dove domani celebrerà la Messa di apertura del Quinto Congresso Eucaristico Nazionale e parteciperà al Secondo Incontro mondiale dei Movimenti Popolari. Il servizio del nostro inviato in Bolivia, Paolo Ondarza

Le braccia alzate al cielo del Cristo bianco nella piazza centrale di Santa Cruz de la Sierra, luogo in cui giovedì sono attese oltre un milione di persone per la messa del Papa, parlano della fede del popolo boliviano e del suo anelito alla costruzione di una società più equa. Girando tra i caratteristici e trafficatissimi cerchi che suddividono la città in settori, è forte l’impatto con una povertà che mostra con crudezza quell’iniqua cultura dello scarto più volte denunciata dal Pontefice. Sebbene le disparità sociali, la piaga della corruzione e del narcotraffico affliggano questo paese alla periferia della “fine del mondo”, colpisce il sorriso sui volti della gente, per l’80% cattolici. Il loro entusiasmo, più ancora che i non molti manifesti per le strade con il motto “Con Francesco annunciamo la gioia del Vangelo”, esprimono la grande  attesa per la venuta del Successore di Pietro, assente dalla Bolivia da 27 anni.

Arrivo in alta quota
Era il 1988 quando san Giovanni Paolo II infondeva il coraggio della fede ad un popolo attraversato da gravi tensioni sociali: oggi Francesco torna, ma in un mutato scenario sociopolitico: il primo Papa latinoamericano trascorrerà qui 48 ore, inizialmente ad alta quota con l’arrivo e la cerimonia di benvenuto  ad El Alto, il più alto scalo internazionale a 4mila  metri sul livello del mare e il successivo trasferimento a La Paz per la visita al presidente boliviano, Evo Morales. In serata, il Pontefice si sposterà a Santa Cruz de la Sierra: qui alloggerà nella residenza dell’amico cardInale Julio Terrazas, arcivescovo emerito della diocesi, instancabile difensore degli ultimi, in questi giorni ricoverato in ospedale per problemi di salute.

Una visita organizzata in poche settimane
Solo poche settimane per mettere in piedi la macchina organizzativa: una sfida contro il tempo, circa 200 operai e molti a titolo gratuito sono ancora al lavoro alle prese con pioggia e vento – racconta Quito Velasco, responsabile dell’allestimento del bellissimo palco ligneo la cui decorazione è ispirata alla missione gesuitica di Concepción.

Raduno dei Movimenti Popolari
Momento significativo nel pomeriggio di giovedì 9, dopo l’incontro con sacerdoti, religiosi e seminaristi presso il Coliseo don Bosco, sarà la partecipazione al raduno Mondiale dei Movimenti Popolari. “Per me è un motivo di orgoglio – spiega  Lorenza Tolaba, segretaria generale del movimento interculturale delle donne – avera a Santa Cruz un Papa tanto attento alle istanze dei poveri. Che il Papa benedica Santa Cruz!

La visita alla città-carcere di Santa Cruz Palmasola
Venerdì sarà la volta della visita di Francesco a un luogo simbolo delle periferie esistenziali: la città-carcere di Santa Cruz Palmasola, tra le realtà più dure della regione. Costituirà uno degli atti conclusivi  di questa visita per la cui buona riuscita nella sola Santa Cruz circa ottomila volontari si sono impegnati senza risparmio di energie.

La Bolivia lo aspetta con il cuore aperto
“Prima che volontari a livello fisico – spiegano con uno sguardo carico di gioia – lo siamo nel cuore, per noi è un privilegio. Stiamo aspettando il Papa con grande entusiasmo. Forniremo informazioni ai pellegrini e garantiremo la loro sicurezza. Questo il messaggio che vorrebbero arrivasse a Francesco: ti stiamo aspettando con il cuore aperto e ascoltare il tuo messaggio per incontrare il Cristo Risorto.

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Card. Turkson: attesa in Bolivia per incontro Papa con movimenti popolari

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“Il mondo ha bisogno di un processo di cambiamento”. E’ quanto affermato dal card. Peter Turkson, presidente del dicastero “Giustizia e Pace”, all’inaugurazione dell’Incontro mondiale dei Movimenti Popolari che si è aperto ieri a Santa Cruz, in Bolivia, e che vedrà domani l’attesa partecipazione di Papa Francesco. L’incontro, che riunisce delegati dei movimenti popolari di tutto il mondo, avviene dopo quello tenuto nell’ottobre 2014 in Vaticano per volere del Pontefice. Su questo importante avvenimento, il nostro inviato in Bolivia, Paolo Ondarza, ha intervistato il card. Peter Turkson

R. - Il Santo Padre denuncia spesso l’economia che non  funziona bene, il sistema finanziario… La questione dell’esclusione ci invita a riconoscere il fatto che se si riuscisse ad “avere a bordo” tutti coloro che sono fuori, che sono esclusi, il mondo sarebbe migliore! Questo è il messaggio di questi incontri. Si dà ascolto a queste persone riconoscendole come protagoniste del loro futuro.

D. - La partecipazione del Papa, non vuol dire che questo è un evento di natura ecclesiale, ma che c’è un sostegno a quanto si sta facendo qui a Santa Cruz …

R. – Per esempio: prendiamo quanto dice il Santo Padre riguardo alla questione della migrazione. Il Papa afferma: “Io che sono pastore della Chiesa universale, come posso accettare il fatto che un settore di questa umanità non riesce a trovare casa?” Per queste persone è la stessa cosa: come è possibile accettare che una grande parte dell’umanità venga trascurata e lasciata fuori dai sistemi di governo? In questo modo non può andare! Quindi questo esclusivismo di cui parla il Papa – esclusivismo, periferie… -  è un invito a riconoscere che tutti noi possiamo contribuire al benessere dell’umanità.

D. - Come viene vissuto dai Movimenti Popolari presenti qui a Santa Cruz de la Sierra questo importante avvenimento, questo incontro con Papa Francesco?

R. - Il Presidente stesso (Evo Morales ndr) proviene da questa realtà; è un protagonista di questo movimento. Quindi qui ci troviamo a casa dei Movimenti Popolari con un Presidente che ne fa parte. Il messaggio di base è semplice: se viviamo in una società è perché accettiamo di coesistere. Questa partecipazione del Papa è un desiderio, un invito allora ai governi, ai capi, di riconoscere, di saper “portare a bordo” tutti questi settori per rendere queste persone protagoniste del loro sviluppo  e di quello dell’intera comunità.

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Papa in Bolivia, mons. Leigue: considerare l'altro come fratello

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La gente della Bolivia è pronta ad accogliere il Papa, dopo essere stata in questi giorni particolarmente attenta alla pubblicazione dell’enciclica di Francesco “Laudato si’”. Il nostro inviato Paolo Ondarza ne ha parlato con mons. René Leigue Cesari, vescovo ausiliario di Santa Cruz de la Sierra: 

R. – Il Papa viene ad animarci nella fede. Sappiamo che, come latino, è dinamico. La gente qui si aspetta molto da lui, innanzi tutto perché parla e comprende lo spagnolo e poi perché è sicura che Francesco dirà tante cose importanti per crescere nella fede.

D. – Secondo lei che cosa la gente di Santa Cruz vorrebbe dire al Papa in questa occasione?

R. – La gente si aspetta da lui soprattutto una parola di riconciliazione, per considerare l’altro come un fratello, perché si è un po’ perso questo valore. Tante volte si guarda all’altro come un nemico.

D. – E’ difficile oggi professare la propria fede in Bolivia, essere cristiani coerenti in Bolivia?

R. – Non è difficile, ma sento che c’è confusione. Il governo parla della terra come madre, ma di Dio si parla poco. La gente comunque crede in Dio e penso che adesso il Papa farà capire meglio la Sua presenza. Perché la terra è una creatura di Dio e non essa stessa un Dio, come tante volte si sente dire.

D. – Significativa e quanto mai puntuale in questo senso è l’enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco, appena uscita, dedicata all’amore e alla tutela del Creato. Può dissipare ogni confusione, ogni errore nel divinizzare la madre terra?

R. – Certo, questa enciclica va a chiarire molte cose. E ci aspettiamo che il Papa ne parli e alla gente farà molto bene sentire il Pontefice parlare della terra, che è una creatura di Dio.

D. – Il Papa ha scelto di partecipare qui a Santa Cruz all’incontro in corso dei Movimenti Popolari: come legge questa partecipazione del Papa a tale evento, già giunto alla sua seconda edizione, dopo quella tenutasi a Roma?

R. – Sento che può fare tanto bene a questo gruppo e la presenza del Papa chiarirà molte cose. La terra è fondamentale nella vita, però non è l’unica: c’è Dio. Francesco viene per questo, per animare la gente nella fede e, come dice lui, per annunciare il Vangelo con allegria, con tanta gioia. Lui sicuramente trasmetterà questo alla gente.

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Nomina episcopale in Brasile

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In Brasile, Papa Francesco ha nominato Vescovo della diocesi di Sobral mons. José Luiz Gomes De Vasconcelos, finora ausiliare di Fortaleza. Il presule è nato il 12 maggio 1963 a Garanhuns (Pernambuco) e ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale il 9 dicembre 1989. Ha iniziato gli studi filosofici presso il “Seminário do Regional Nordeste II” e l’Instituto Teologico do Recife, nell’Arcidiocesi di Olinda e Recife. Ha concluso la Filosofia e l’intero corso di Teologia presso la Facoltà “Nossa Senhora da Assunção”, a São Paulo (1985-1988). Ha ottenuto la Licenza in Teologia Patristica presso la Pontificia Università Gregoriana, a Roma (2005-2008). Nel corso del suo ministero, ha ricoperto i seguenti incarichi nella diocesi di Garanhuns: Vicario Parrocchiale della Parrocchia “Nossa Senhora da Conceição” ad Águas Belas e della Parrocchia “Nossa Senhora Mãe dos Homens” a Itaíba (1990-2000); Parroco della Parrocchia “Senhor Bom Jesus dos Pobres Aflitos” a São Bento do Una (2000-2005); Coordinatore Diocesano di Pastorale (2002-2005); Membro dell’Equipe di Formazione del Seminario Interdiocesano (2008-2012); Rettore del Seminario Maggiore Interdiocesano “Nossa Senhora das Dores”, nella diocesi di Caruaru e responsabile della Organizzazione dei Seminari e degli Istituti Filosofico-Teologici del Brasile nel Regionale “Nordeste 2” della Conferenza Episcopale Brasiliana (2008-2012). Il 21 marzo 2012 è stato nominato Vescovo titolare di Canapio ed Ausiliare di Fortaleza, ricevendo l’ordinazione episcopale l’11 giugno successivo. Il primo febbraio 2015 è stato nominato Amministratore Apostolico di Sobral.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Sul viaggio del Papa, in prima pagina un editoriale del direttore dal titolo "Come a casa".

Il sesto sigillo: Pietro Messa sul San Francesco donato al Papa a Quito.

Quella singolare richiesta: Gaetano Vallini sule "Altre Americhe" di Sebastiao Salgado.

Un articolo di Donatella Coalova dal titolo "Con l'ecumenismo nel sangue": dalla Lettonia il sussidio per la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani 2016.

Ultimatum europeo per la Grecia: accordo in cinque giorni o fuori dalla moneta unica.

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Oggi in Primo Piano



Nuovo sì a Muro Cremisan. Mons. Shomali: in questione la giustizia

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In Medio Oriente sorge un’altra barriera. La Corte Suprema d'Israele ha dato il via libera alla costruzione del “Muro di separazione” tra Stato ebraico e Palestina nel tratto che attraversa la valle di Cremisan, secondo l'intento da sempre perseguito dal Ministero israeliano della difesa. La decisione contrasta con una precedente sentenza degli stessi magistrati emessa ad aprile. Massimiliano Menichetti ha intervistato mons. William Shomali, vicario patriarcale del patriarcato latino di Gerusalemme: 

R. – Stamattina siamo stati sorpresi da questa notizia: Israele vuole allargare gli insediamenti di Har Gilo e Gilo prendendo i terreni degli abitanti, dalle famiglie cristiane di Beit Jala, per un valore di 300 ettari. Dunque il problema continua, la Corte si contraddice, dice una cosa e poi fa il contrario. La giustizia della Corte è in questione adesso.

D. - Otto anni per poter giungere ad una soluzione e ora si torna indietro: quali speranze ci sono per bloccare questo Muro?

R. - Gli avvocati sapranno darci informazioni migliori, ma non so veramente cosa possiamo fare, perché il più forte ha sempre ragione; il più forte fa quello che vuole.

D. - Quali danni provoca questo Muro?

R. - Prende i terreni di 57 famiglie che non possono più avere accesso ai loro terreni, la zona di Betlemme è molto ridotta. La città di Beit Jala ha pochi terreni e questa decisione prende quel poco che rimane di questa città cristiana vicino a Betlemme. Dunque è un danno per la città e per le famiglie che perdono i loro terreni o perdono l’accesso libero alle loro proprietà. Queste famiglie non potranno più costruire sui loro terreni, perché con questa decisione si troveranno dall’altra parte del Muro; avranno bisogno del permesso per accedervi e di un altro permesso per costruire. Questo permesso non sarà mai dato.

D. - Tra le motivazioni per la costruzione quella della sicurezza: è una motivazione reale?

R. - No, anche ex militari israeliani hanno detto che non si tratta di sicurezza; lo hanno detto chiaramente. Qui si tratta di prendere terreni per allargare i confini dei due insediamenti.

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Sì dell’Ungheria al muro con la Serbia e a espulsione veloce

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L’Ungheria ha approvato ieri sera la legge che prevede una procedura accelerata per l’espulsione degli immigrati irregolari e la costruzione di una barriera di filo spinato al confine con la Serbia. Da questa frontiera, solo nell’ultimo anno, sono arrivate 67mila persone, ma dal 2010 ad oggi il flusso migratorio attraverso il cosiddetto “canale balcanico” è aumentato del 2.500%. Come si può interpretare questo fenomeno? Roberta Barbi lo ha chiesto a Francesco Martino, corrispondente da Sofia dell’Osservatorio Balcani e Caucaso: 

R. – L’Ungheria vive una situazione molto particolare perché è stata in questi anni oggetto di due tipi distinti di migrazioni: una è lo sbocco nel cosiddetto “canale balcanico” che porta molti migranti, rifugiati e richiedenti asilo, che provengono soprattutto da Siria, ma anche Afghanistan e Iraq, a utilizzare i Balcani come ponte per raggiungere l’Europa ricca - Germania, Svezia, Austria - l’Europa centrale in generale. L’Ungheria, nello specifico, è stata anche lo sbocco di una migrazione di tipo diverso, di carattere soprattutto economico, che ha visto decine di migliaia di cittadini kosovari che, in questi mesi soprattutto, hanno provato la stessa strada, spinti dalla mancanza di prospettive in Kosovo. C’è stata la somma di questi due fenomeni che sicuramente ha contribuito a decisioni che sono state prese in questi giorni di innalzare questa barriera e rendere le procedure per la richiesta d’asilo molto più restrittive.

D. – I flussi migratori dall’Asia centrale si stanno spostando verso la cosiddetta rotta dei Balcani?

R. – La rotta dei Balcani è stata sempre attiva, basti pensare che la Grecia è insieme all’Italia uno dei punti di arrivo principali. Poi dalla Grecia la strada naturale via terra è appunto quella di attraversare i Paesi dei Balcani, molti dei quali oggi ancora non sono parte dell’Unione Europea. Probabilmente quello che sta succedendo è un utilizzo molto più massiccio di questa strada rispetto al passato, una strada che in qualche modo è stata sempre attiva.

D. – Il premier Orban ha difeso il provvedimento dicendo che i limiti della capacità di accoglienza del suo Paese sono stati ampiamente superati…

R. - È difficile dare un giudizio puntuale su questo, sicuramente contribuisce. È una situazione in cui Paesi come l’Ungheria - ma in passato e negli scorsi anche la Bulgaria - sono fondamentalmente impreparati visto che non c’è una tradizione di accoglienza di flussi massicci, ma anche considerazioni politiche interne. La cosa da sottolineare è che la decisione ungherese di costruire un muro s’inserisce in un contesto più generale di mancanza di solidarietà e mancanza di una visione politica complessiva da parte dell’Europa. Ricordo che nei Balcani il muro è già una realtà. Negli anni scorsi, prima la Grecia e poi la Bulgaria hanno già costruito e stanno ancora costruendo e ampliando barriere fisiche al confine con la Turchia. Quindi non è fenomeno che riguarda soltanto l’Ungheria ma vari Paesi dell’Unione e che in qualche modo conferma questo approccio “fai da te”: Paesi che oggi rappresentano la frontiera esterna dell’Unione anche per il fatto che non si sentono coperti da una politica complessiva e da una solidarietà generale all’interno dell’Unione Europea, mettono in campo questo tipo di iniziative assolutamente contrarie al principio di umanità ma anche ai trattati internazionali.

D. – La legge pare sia una modifica della normativa vigente ma di fatto limita il diritto d’asilo nel Paese: è possibile questo in base al regolamento di Dublino?

R. – Direi che all’atto pratico questo è possibile. La costruzione di barriere già di per sé rappresenta una limitazione evidente ed effettiva al diritto dei richiedenti asilo di poter, appunto, esercitare questo loro diritto. Molto spesso all’interno di questa Europa che oggi sembra molto divisa su tanti aspetti, compreso quello della migrazione, in qualche modo c’è un gioco delle parti: i Paesi che si trovano a dover gestire in prima persona il flusso migratorio, soprattutto quelli ai confini meridionali, denunciano la mancanza di solidarietà dei Paesi del nord che rappresentano molto spesso la vera meta di chi cerca rifugio in Europa. Dall’altra parte c’è il rimprovero da parte di Paesi come Germania, Francia, Svezia, sul fatto che fondamentalmente i Paesi del sud Europa sono del tutto impreparati e non fanno molto per migliorare le condizioni di accoglienza dei migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo. Quindi c’è questo gioco sporco di scarica barile che poi alla fine si scarica sulle spalle di chi molto spesso fuggendo da situazioni drammatiche si trova a doversi spostare e cercare nuove possibilità di vita in un limbo legale che fondamentale mette in ulteriore pericolo la loro stessa esistenza fisica.

D. – Un uovo muro in Europa è una sconfitta per la politica dell’Unione?

R. – Da questo punto di vista, sì, non esiste un approccio condiviso. Questo è uno dei tanti aspetti della mancanza di una politica complessiva europea. Il solo fatto che in qualche modo l’Europa unita così come era stata immaginata non più di 20 anni fa è nata sul sogno di una distruzione e rimozione di un muro, simbolico ma anche fisico, il muro di Berlino, ma anche la Cortina di ferro, il fatto che oggi quello stesso sogno si sia messo per così dire a costruire muri ai suoi confini è la manifestazione di uno stato di malessere profondo.

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Afghanistan: primi colloqui ufficiali tra governo e talebani

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Per la prima volta in 13 anni di guerra il governo dell’Afghanistan e i talebani si sono incontrati in forma ufficiale per avviare i negoziati di pace.  Al round di colloqui, che si è svolto in Pakistan vicino Islamabad, hanno partecipato anche osservatori di Stati Uniti e Cina. Il governo di Kabul ha auspicato che i negoziati “avviino un processo per evitare ulteriori distruzioni del Paese e per costruire il cammino verso una pace durevole”. Per un’analisi su questo incontro Michele Raviart ha intervistato l’esperto di cooperazione Pietro De Carli, autore del volume “Afghanistan nella tempesta”: 

R. – Questo discorso nasce da lontano. Vorrei citare un’affermazione fatta dal Lakhdar Brahimi che era il rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Afghanistan dal 2001 al 2004, il quale si rammaricò di non aver portato al tavolo del negoziato di Bonn nel 2001 anche i talebani a causa dell’intransigenza dell’allora amministrazione Bush. E disse: “Certo, Washington si sarebbe opposta alla loro partecipazione ma avremmo dovuto, come Nazioni Unite, contattarli subito dopo”. Questo concetto è stato espresso alcuni anni dopo, quando si vedeva che non si riusciva a uscire dalla situazione conflittuale che si era determinata in Afghanistan, nonostante ci fosse una presenza della comunità internazionale molto rilevante.

D. – Allora non ci furono colloqui con i talebani. Con chi si parla ora?

R. – E’ chiaro che ci sono delle forze, in modo particolare all’interno di Al Qaeda, con le quali non sarà mai possibile trattare. Ma un discorso del genere avrebbe potuto spaccare quel fronte, cioè trovare quelle forze moderate all’interno del movimento dei talebani che erano interessate a poter giocare un ruolo all’interno della nuova configurazione istituzionale che stava assumendo l’Afghanistan. Questo discorso ripreso oggi dall’attuale presidente Ashraf Ghani dimostra che c’è forse l’intenzione abbastanza esplicita di voler percorrere questo tentativo.

D.  – Allargando lo sguardo a tutto il Medio Oriente può questo metodo essere applicato in altre zone di crisi?

R. – Abbiamo visto che non si riesce ad esportare la democrazia con le armi né a costruire solide fondamenta di una società avulsa da questi fenomeni di degenerazione fondamentalista, senza pensare anche a possibilità di negoziato, di accordo, di possibile mediazione. Per esempio, se dovessimo in qualche modo paragonare questa situazione a quella del Medio Oriente, allora ci renderemo conto quanto sia più problematica. Da un lato non è possibile trattare con l’Is, ma dall’altro con le tribù libiche bisogna trattare. Ci sono possibili interlocutori che la comunità internazionale deve cercare in qualche modo di contattare, di utilizzare come possibili referenti, anche per rompere un possibile fronte che potrebbe sfruttare ancor più l’Is, se questo discorso non venisse portato avanti.

D.  – I colloqui si sono svolti in Pakistan, qual è il ruolo di questo Paese?

R.  – E’ evidente che il Pakistan ha sempre giocato un ruolo di ambiguità  come Paese di confine. Probabilmente era interessato a una situazione di stabilizzazione dell’Afghanistan, lo dimostra il fatto che nella sua area tribale i talebani abbiano potuto continuare ad operare con una certa professione. Insomma, poi, evidentemente le situazione si è modificata col tempo però possiamo dire che il Pakistan non ha giocato un ruolo coerente in riscontro a quello svolto dalla comunità internazionale per sostenere l’Afghanistan, per combattere a fondo il fenomeno del terrorismo, di cui tra l’altro ne è anche vittima.

D.  – Come osservatori pare ci fossero rappresentanti di Stati Uniti e Cina: sono loro ad avere i maggiori interessi in Afghanistan?

R. – Non sono solo gli Stati Uniti e la Cina anche se evidentemente loro hanno grossi interessi. Però è un peccato che l’Europa non giochi il ruolo che le spetti, che le compete, che dovrebbe competerle perché l’Europa è importante dal punto di vista geopolitico eppure ha abdicato a questa capacità di assumere un ruolo in questa contesa internazionale e già lo sfaldamento dei rapporti con la Grecia dimostra quanto sia precaria la situazione in Europa.

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Burundi: partito del presidente Nkurunziza vince le elezioni

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In Burundi, il partito al potere, guidato dal presidente Nkurunziza ha vinto le contestate elezioni politiche svoltesi il 29 giugno scorso, ottenendo 77 dei 100 seggi del parlamento. Nel Paese resta alta la tensione in vista del voto per le presidenziali previsto per il 15 luglio, a cui lo stesso Nkurunziza si presenterà per un terzo mandato, sebbene sia vietato dalla Costituzione e nonostante le forti proteste interne. Intanto, i leader dei Paesi dell’Africa Orientale hanno chiesto un rinvio del voto al 30 luglio per tentare un nuovo negoziato. Marco Guerra ha raccolto l’analisi di Marco Massoni, direttore di ricerca per l'Africa presso il Centro militare di studi strategici (CeMiSS): 

R. – I risultati sono evidentemente quelli della prima fase di una tornata elettorale più complessa ed effettivamente sono state delle elezioni farsa. E questo non soltanto perché boicottate da quasi la totalità dei partiti dell’opposizione, ma anche perché si tratta di un Paese in condizioni di grande fragilità politico-istituzionale e quindi sotto la lente della comunità internazionale. Legandolo proprio a questo per l’altra ragione fondamentale, è stata evidentemente una prima fase di questo complicato processo elettorale screditato anche dalla stessa Unione Africana e dalla East African Community (Leac). Di conseguenza, è una situazione che non è accreditata né da parte del massima piattaforma governativa continentale, né da una comunità economica regionale di pertinenza e, oltre che dalle opposizioni, se vogliamo neanche da parte dell’Unione Europea, perché è vero che le Nazioni Unite hanno mantenuto in loco una propria missione dell’osservazione elettorale, ma questo giusto per non dare il senso dell’abbandono completo. L’Unione Europea invece ha rinunciato al dispiegamento dei propri osservatori proprio perché non c’erano più le condizioni di credibilità oggettive – secondo gli standard internazionali – per elezioni libere e trasparenti. Tenuto conto che ogni elezione osservata da questi organismi intergovernativi o internazionali non si sintetizza semplicemente nella giornata in cui si ci presenta a votare, ma prima, durante e dopo. E tutta questa interezza, di questo ciclo elettorale, è stata completamente screditata dal partito al potere.

D. – Insomma, qual è il quadro della prossima tornata elettorale? Le opposizioni boicotteranno anche le presidenziali, immagino…

R. – Lo scenario più verosimile, purtroppo, è quello di un completo collasso del sistema politico istituzionale del Paese, anche in parte e in ragione delle difficoltà oggettive delle varie opposizioni di esprimersi come alternative credibili. Ma questa ovviamente non può essere una giustificazione del mantenimento dello status quo dal partito al governo. Evidentemente, il problema è quello che sarà sicuramente riconfermato al potere Nkurunziza alla presidenziali rinviate al 15 luglio. E questo poiché – come avevo detto prima – non c’è una credibilità. Lo scenario peggiore è quello di guerra civile, che alcuni analisti cominciano a reputare – speriamo di no, evidentemente – non del tutto incredibile, poiché cominciano veramente a esserci gli ingredienti per un contesto addirittura così drammatico.

D. – I leader regionali, infatti, sono molto attenti a questo contesto: si sono riuniti lunedì in Tanzania e hanno chiesto di posticipare le presidenziali di due settimane. Richiesta rimasta inascoltata…

R. – Nkurunziza è isolato. Effettivamente la Comunità dell’Africa Orientale (Leac) e la Conferenza internazionale per i Grandi Laghi (Icglr) avevano chiesto un rinvio, di procrastinare cioè di almeno un mese e mezzo, entrambe le due tornate elettorali: tanto quella che già ha avuto luogo lo scorso fine settimana – quella delle parlamentari e le amministrative, che sono le municipali – quanto quella delle stesse presidenziali. Così come non è accaduto per la prima tornate elettorale, di conseguenza non avverrà neanche per questa seconda. Il rinvio è stato comunque insufficiente, a giudicare dai capi di Stato e di governo degli altri Paesi confinanti.

D. – Un generale, un esponente di spicco del tanto golpe dell’aprile scorso, ha minacciato di dare l’avvio a una insurrezione se il presidente Nkurunziza non rinuncerà alla sua candidatura…

R. – La tensione nel Paese è palpabile...  E in Africa succede tutto molto velocemente ed esistono purtroppo – come accennavo poc’anzi – tutte le condizioni per un colpo di Stato, data la volatilità e il deterioramento anche della percezione della sicurezza. Consideriamo poi che alcuni ragazzi che sono stati alloggiati presso l’ambasciata statunitense, il vicepresidente del parlamento e anche il presidente del parlamento hanno abbandonato il Paese in fretta e furia pochi giorni fa e si trovano attualmente a Bruxelles, poi lo "squadrismo" dell’ala giovanile del partito al potere… Tutto questo in un Paese caratterizzato da una percentuale del 60% di hutu e del 40% di tutsi desta grandi preoccupazioni.

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Nella Chiesa e nel mondo



Cicm: ridistribuire 10% dei profughi siriani in Medio Oriente

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Ricollocare e distribuire di qui al 2020 il 10% dei 4 milioni di  profughi siriani oggi ammassati nei campi profughi dei Paesi ai confini con la Siria. E’ il pressante appello  rivolto agli Stati europei e di tutta la comunità internazionale dalla Cicm,  la Commissione Internazionale Cattolica per le Migrazioni con sede a Bruxelles in un rapporto pubblicato ieri sull’emergenza umanitaria in Medio Oriente.

I campi profughi nei Paesi limitrofi al collasso
Come sottolinea nella prefazione il presidente del Cicm, Peter Sutherland, i Paesi confinanti chiamati per primi a fronteggiare l'esodo dei profughi sono oggi al collasso: “Questi Paesi hanno accolto con grande generosità i siriani. Ma - ammonisce Sutherland - la situazione di questi profughi sta diventando di giorno in giorno più disperata, mentre si assottigliano per loro le possibilità di sopravvivenza e di vivere con dignità”, con la conseguenza che, “in mancanza di alternative, si rivolgono sempre di più a trafficanti per intraprendere viaggi pericolosi attraverso i mari e altre frontiere”.

Distribuire profughi in altri Paesi in 5 anni è una quota sostenibile
In attesa di soluzioni politiche, la Cicm si rivolge quindi all’Europa e ad altri Governi perché sia offerta una nuova sistemazione temporanea ai profughi; siano adottati nuovi programmi umanitari di ammissione in altri Paesi; estesi i  ricongiungimenti familiari; concessi visti umanitari e di studio e autorizzati ingressi sponsorizzati da gruppi privati. Il numero di profughi che la Cicm propone di risistemare è di 400mila persone, pari al 10% del totale, una cifra ben superiore a quelle fissata dall’Alto commissariato Onu  per i rifugiati (Unhcr) che aveva chiesto di accogliere 136mila persone entro il 2016.

L'Europa può rispondere a questa emergenza
Secondo il Segretario generale dell’organizzazione cattolica, Johan Ketelers, si tratta comunque di una cifra sostenibile, considerato che durante l’emergenza boat people dal Vietnam negli anni ’70 e ’80 era stato organizzato un piano di accoglienza per 800mila persone. Come allora l’Europa e il mondo seppero rispondere a quella emergenza”, anche oggi è possibile intervenire, tanto che più sempre cittadini sono disposti, a livello individuale e collettivo, a dedicare il proprio tempo e spazi per dare aiuto, ha detto Ketelers.

Urgente una risposta veramente globale all’emergenza
Il rapporto ricorda che alcuni Paesi stanno già giocando un ruolo importante per accogliere questi profughi: l’Austria, la Norvegia e la Svizzera, ad esempio, hanno già concesso nuovi ingressi;  la Germania da sola ne ha offerti 30mila; un Paese emergente come il Brasile ha concesso 7mila visti di ingresso. Ma non basta: di fronte all’aggravarsi della situazione in Medio Oriente, all’insufficienza dei fondi Onu e all’emergenza nel Mediterraneo, è ora urgente una risposta veramente globale con la partecipazione attiva di diversi attori: governi, società civile e autorità locali. Secondo il rapporto è in primo luogo necessario accelerare le procedure di ingresso e creare canali umanitari legali e sicuri per questi profughi. (A cura di Lisa Zengarini)

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Marocco: migranti sfrattati accolti nella cattedrale di Tangeri

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Diversi migranti sfrattati dagli appartamenti che occupavano nel quartiere di Bujalef, sono stati accolti dal 1 ° luglio nella cattedrale di Tangeri. Secondo un comunicato ripreso dall’agenzia Fides, firmato da mons. Santiago Agrelo, arcivescovo di Tangeri, “nella notte del 1° luglio il sagrato è stato aperto per accogliere gli sfollati e si è fatto in modo che tutti avessero qualcosa mangiare”. Da allora l’equipe del Tam (Tanger Accueille Migrants), della Delegazione diocesana delle migrazioni, che da anni si occupa dei migranti che soggiornano a Tangeri, ha assunto la gestione della situazione, particolarmente sensibile per il gran numero di persone senza casa e prive di mezzi di sostentamento, tra i quali molte donne con bambini.

La priorità a minori, donne e uomini con figli a carico
“Si è deciso un piano d’azione che dà la priorità alle donne incinte, donne con bambini, donne single, ai minori e agli uomini con figli a carico. Mentre la prima parte del piano era in corso di completamento, gli uomini avrebbero dovuto aspettare” afferma il comunicato. Questa emergenza, gestibile, si è però trasformata in una situazione insostenibile perché ai migranti sgomberati da Bujalef se ne sono aggiunti altri che non erano nella stessa situazione di bisogno. “Non sta a noi indagare se queste persone hanno agito da sole o spinte da coloro che sono interessati ad approfittare di una situazione che si sta cercando palesemente di sfruttare a livello mediatico” afferma mons. Agrelo. “ Si era sparsa la voce che la Chiesa stava dando rifugio e cibo, e da tutta la città sono cominciati ad arrivare migranti”.

La Chiesa offre un riparo temporaneo
“È stato necessario chiarire l'equivoco: non solo il sagrato della cattedrale è stato chiuso, ma non è stato possibile celebrare la Messa nella stessa cattedrale, sabato pomeriggio e domenica mattina. È stato un momento estremamente difficile per tutti” afferma l’arcivescovo. La Chiesa sta offrendo un riparo temporaneo a 69 donne e bambini più ad un vedovo con due figli. Rimangono da ospitare 11 donne e un vedovo con tre bambini.

La Chiesa chiede una sistemazione per i migranti
In un incontro con il sindaco l'arcivescovo ha concordato un nuovo piano d'azione: fare un elenco delle persone presenti, per poi trovare una sistemazione urgente alle donne che sono ancora in strada (11 più il vedovo con tre figli). Gli altri migranti verranno aiutati a trovare un alloggio, accompagnati dall’equipe Tam a firmare il contratto e a pagare l'affitto. (L.M.)

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Francescano rapito in Siria: per i confratelli caso enigmatico

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Incerta la vicenda del sacerdote francescano iracheno Dhiya Azziz, parroco del villaggio siriano di Yacoubieh, che lo scorso 4 luglio è stato prelevato dai miliziani jihadisti che controllano la regione. Caute ma speranzose le reazioni dei membri della comunità parrocchiale. "Padre Dhiya - riferiscono all‘agenzia Fides i confratelli della Custodia francescana in Terra Santa - è stato portato via dalla brigata di miliziani per un incontro con l‘emiro che esercita l‘autorità nella regione, braccio siriano di al-Qaeda. In un secondo momento, due miliziani sono stati inviati in parrocchia a prendere le medicine del frate, che soffre di diabete". "Questo dettaglio - sottolineano - fa ben sperare, perché conferma che padre Dhiya è vivo e potrà gestire i suoi problemi di salute. A suscitare perplessità è la totale mancanza di informazioni riguardo al motivo del suo prelevamento".

Il francescano è stato sempre fuori dalle questioni politiche e militari
Padre Dhiya, proseguono i confratelli, "ha sempre cercato di tenersi fuori dalle questioni politiche e militari. Ha continuato con il suo servizio pastorale e si è sottoposto alle disposizioni imposte dagli islamisti. Proprio questo suo rispetto delle regole rende enigmatico il caso". Lo scorso ottobre anche Hanna Jallouf, parroco francescano (Knayeh), era stato prelevato dai jihadisti di al-Nusra, in seguito ad alcune denunce da parte dello stesso parroco, ma padre Jallouf è stato lasciato libero dopo poco tempo. (R.P.)

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Sud Corea. Leader religiosi al parlamento: Abolite la pena di morte

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I leader delle maggiori religioni della Corea del Sud hanno presentato al parlamento una petizione per sostenere la bozza di legge bipartisan che vuole abolire la pena di morte. Guidati dal presidente della Commissione episcopale Giustizia e pace, mons. Lazzaro You Heung-sik, hanno incontrato i deputati per chiedere loro di “riportare l’uomo al centro della società, anche in caso di errori e crimini commessi”.

La vita non è nelle mani dell’uomo
Il gruppo ha incontrato deputati e giornalisti il giorno della presentazione della bozza, lo scorso 6 luglio. All'agenzia AsiaNews, mons. You racconta : “Su 299 deputati dell’Assemblea nazionale, 172 hanno firmato questa petizione. Gli esponenti delle religioni si sono uniti per questa battaglia perché siamo tutti d’accordo sul fatto che la vita non è nelle mani dell’uomo”. Insieme a lui vi erano un leader protestanti e due bonzi, uno del buddismo tradizionale e un altro dell’ordine Won molto seguito nel Paese. Dal 2010, spiega ancora il presule, “in Corea del Sud abbiamo una moratoria alle esecuzioni. Ma questo non basta e non può bastare. Abbiamo presentato la stessa richiesta quattro volte, ma non era mai arrivata all’Assemblea nazionale. Ora invece l’aria è cambiata, un deputato mi ha spiegato che il testo dovrebbe passare. La discussione finale è prevista per il prossimo settembre”.

La legge sulla pena di morte non rispetta la dignità umana
”Dal punto di vista legale, ad agire sono stati i deputati che hanno presentato al parlamento una mozione bipartisan che cita la Costituzione nazionale e il previsto obbligo di “rispettare la dignità umana”. Lo scopo, spiega il democratico Yoo Ihn-tae, “è quello di trasformare il Paese in una nazione che ha abolito la pena di morte. È arrivato il momento di metterla fuori legge, soprattutto considerato che abbiamo dato alla comunità internazionale il segretario delle Nazioni Unite [Ban Ki-moon ndr] e che siamo membri del Consiglio Onu per i diritti umani”. Ora il testo dovrà passare per la Commissione legislativa e giudiziaria per essere esaminato. Subito dopo approderà all’Assemblea nazionale per il voto plenario, e soltanto allora potrà finire nelle mani del governo per essere trasformato in legge. Nel dicembre 2014, quando al Palazzo di Vetro si votò per l’abolizione della pena di morte nel mondo, Seoul si astenne con altre 33 nazioni.

C’è chi sbaglia per colpa di una società che non lo ha amato
La vita di ogni essere umano, conclude mons. You, “dipende dal Signore. Anche i criminali sono figli di Dio. Se c’è chi sbaglia, c’è anche chi sbaglia per colpa di una società che non lo ha amato, della situazione sociale che in un certo senso lo ha creato criminale. Dobbiamo ripartire dalle fondamenta della società e ripararle, mettendo l’uomo al centro per evitare egoismi e scompensi di ogni tipo”. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 189

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.