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Sommario del 10/07/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: ascoltare grido degli esclusi, basta idolatria del denaro

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Bisogna cambiare il sistema economico mondiale e sostituirlo con la globalizzazione della solidarietà. E’ uno dei passaggi chiave del lungo e appassionato discorso di Papa Francesco al secondo Incontro mondiale del Movimenti Popolari, ieri sera a Santa Cruz della Sierra, in Bolivia. Il Pontefice ha ribadito che bisogna ascoltare il grido degli esclusi, difendere la Madre Terra sempre più devastata, e ha assicurato la vicinanza sua personale e della Chiesa alle battaglie dei movimenti e delle forze sociali. Durante l’evento, che ha visto anche l’intervento del presidente boliviano Evo Morales, è stato consegnato a Francesco il documento conclusivo dell’Incontro. Il servizio di Alessandro Gisotti

Voce di chi non ha voce, Francesco si è fatto “megafono planetario” degli ultimi in un vibrante discorso ai movimenti popolari di tutto il mondo, un intervento – più volte interrotto dagli applausi – che la stampa internazionale già definisce tra i più importanti del suo Pontificato. Ricordando innanzitutto che “Dio ascolta il grido del suo popolo”, il Papa ha offerto la sua visione sui “modi migliori per superare le gravi situazioni di ingiustizia che soffrono gli esclusi in tutto il mondo”. E ha esordito, ribadendo che “terra, casa e lavoro” sono “diritti sacri” e “vale la pena di lottare per essi”. Di fronte ai contadini senza terra, a famiglie senza casa e lavoratori senza diritti, ha ammonito, dobbiamo riconoscere che “abbiamo bisogno e vogliamo un cambiamento”. Sappiamo riconoscere, ha proseguito, che “questo sistema ha imposto la logica del profitto a ogni costo, senza pensare all’esclusione sociale o alla distruzione della natura?”

“Si esto es así, insisto, digámoslo sin miedo…
“Se è così, insisto – è stata la sua esortazione – diciamolo senza timore: noi vogliamo un cambiamento, un vero cambiamento” perché “questo sistema non regge più”, non lo reggono i popoli e non “lo sopporta più la Terra, la sorella Madre Terra come diceva San Francesco”. La “globalizzazione della speranza che nasce dai popoli e cresce tra i poveri – ha soggiunto – deve sostituire questa globalizzazione dell’esclusione e dell’indifferenza”. C’è bisogno di un cambiamento “positivo”, ha ripreso, “un cambiamento che potremmo dire redentivo” di cui hanno bisogno tutti i popoli del mondo anche quelli ricchi dove sembra regnare l’insoddisfazione, una “tristezza individualista che rende schiavi”. Il tempo, ha detto, “sembra che stia per giungere al termine”, “si stanno punendo la terra, le comunità e le persone in modo quasi selvaggio” e, ha affermato con toni drammatici, “si sente il tanfo di ciò che Basilio di Cesarea chiamava 'lo sterco del diavolo', l’ambizione sfrenata di denaro che domina”:

“Cuando el capital se convierte en ídolo y dirige las opciones…
“Quando il capitale diventa idolo e dirige le scelte degli esseri umani – ha avvertito – quando l’avidità di denaro controlla l’intero sistema socioeconomico, rovina la società, condanna l’uomo, lo fa diventare uno schiavo, distrugge la fraternità umana, spinge popolo contro popolo e, come si vede, minaccia anche questa nostra casa comune, la sorella e madre terra”. Il Papa ha così incoraggiato gli umili, gli esclusi, dai cartoneros argentini ai giovani senza lavoro, dai contadini indigeni ai venditori ambulanti a non cadere nel pessimismo di pensare che non possano fare niente per risolvere i propri problemi.

“Ustedes, los más humildes, los explotados, los pobres…
“Voi – ha affermato – i più umili, gli sfruttati, i poveri e gli esclusi, potete fare e fate molto. Oserei dire che il futuro dell’umanità è in gran parte nelle vostre mani”. “Non sminuitevi”, ha rimarcato, perché “voi siete seminatori di cambiamento”, un cambiamento che, ha detto a braccio, deve essere innanzitutto “del cuore”. Francesco si è soffermato sull’impegno dei Movimenti Popolari che, “motivati dall’amore fraterno” si ribellano “contro l’ingiustizia sociale”. E ha esortato a guardare il “volto di quelli che soffrono”, “le ferite dell’umanità sofferente” che è “molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante”. Voi, ha detto rivolgendosi ai rappresentanti dei Movimenti Popolari, “mi avete parlato delle vostre cause, mi avete reso partecipe delle vostre lotte e vi ringrazio” e ha riaffermato il diritto alle tre “T”, tierra, techo y trabayo ovvero “terra, casa e lavoro”. Ancora il Papa ha invitato le forze popolari a cercare “di risolvere alla radice i problemi generali di povertà, disuguaglianza ed esclusione”, “opponendo una resistenza attiva al sistema idolatrico che esclude, degrada e uccide”. Francesco si è quindi rivolto ai leader mondiali chiedendo loro di essere “creativi”, di costruire su “basi solide, sulle esigenze reali” dei “lavoratori, degli esclusi e delle famiglie emarginate”. La Chiesa, ha così evidenziato, “non può e non deve essere aliena da questo processo nell’annunciare il Vangelo”, “accompagnando e promuovendo gli esclusi di tutto il mondo”. Quindi, Francesco ha proposto tre grandi compiti che, ha annotato, richiedono “l’appoggio determinante dell’insieme di tutti i Movimenti Popolari”:

“La primera tarea es poner la economía al servicio de los Pueblos…
“Il primo compito – ha affermato – è quello di mettere l’economia al servizio dei popoli: gli esseri umani e la natura non devono essere al servizio del denaro. Diciamo No a un'economia di esclusione e iniquità in cui il denaro domina invece di servire”. Questa economia, ha incalzato, “uccide, questa economia è escludente, questa economia distrugge la Madre Terra”. Ed ha ammonito che un sistema economico “irresponsabile” che “continua a negare a miliardi di fratelli i più elementari diritti economici, sociali e culturali”, “attenta al progetto di Gesù”. Un sistema diverso, ha detto ancora, “non è un’utopia o una fantasia”; “l’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è semplice filantropia. E’ un dovere morale” e per i cristiani “è un comandamento”: “Si tratta di restituire ai poveri e ai popoli ciò che appartiene a loro”.

“La segunda tarea… es unir nuestros Pueblos en el camino de la paz…
“Il secondo compito – ha proseguito – è quello di unire i nostri popoli nel cammino della pace e della giustizia”, “i popoli del mondo vogliono essere artefici del proprio destino”. “Nessun potere di fatto e costituito – ha ammonito – ha il diritto di privare i Paesi poveri del pieno esercizio della propria sovranità e, quando lo fanno, vediamo nuove forme di colonialismo” che compromettono la pace e la giustizia. Riferendosi in particolare alla situazione dell’America Latina, “la Patria Grande”, Francesco ha denunciato le nuove facce del colonialismo: a volte, ha detto, “è il potere anonimo dell’idolo denaro”, “alcuni trattati chiamati di libero commercio e l’imposizione di mezzi di austerità che aggiustano sempre la cinta dei lavoratori e dei poveri”. Ancora ha parlato di quegli Stati che, “sotto il nobile pretesto della lotta” a droga e corruzione, impongono misure che “spesso peggiorano le cose”. Il Papa ha poi denunciato il “colonialismo ideologico” veicolato dalla “concentrazione dei mezzi di comunicazione che cerca di imporre alienanti modelli di consumo e una certa uniformità culturale”. “Diciamo No a vecchie e nuove forme di colonialismo – ha detto con forza Francesco – diciamo Si all’incontro tra popoli e culture”. E qui, il Papa latinoamericano ha chiesto perdono per i molti e gravi peccati compiuti “contro i popoli originari dell’America Latina in nome di Dio”:

“Al igual che san Juan Pablo II pido que la Iglesia…
“Come San Giovanni Paolo II – ha affermato – chiedo che la Chiesa ‘si inginocchi dinanzi a Dio ed implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli’”. E, ha soggiunto, “vorrei essere molto chiaro, come lo era San Giovanni Paolo II: chiedo umilmente perdono non solo per le offese della propria Chiesa, ma per i crimini contro le popolazioni indigene durante la cosiddetta conquista dell’America”. Al tempo stesso, ha detto, chiedo a tutti di ricordarsi di vescovi, sacerdoti, religiose, laici che “hanno predicato e predicano” il Vangelo “molte volte a fianco delle popolazioni indigene o accompagnando i movimenti popolari anche fino al martirio”. La nostra fede, ha detto, “è rivoluzionaria, perché la nostra fede sfida la tirannia dell’idolo denaro” ed ha denunciato ancora una volta quella che ha definito “la terza guerra mondiale a rate”.

“La tercera tarea, tal vez la más importante…
“Il terzo compito, forse il più importante che dobbiamo assumere oggi – ha rilevato – è quello di difendere la Madre Terra. La codardia nel difenderla è un peccato grave”. La nostra casa comune, ha detto con amarezza, viene “saccheggiata, devastata, umiliata impunemente”, si susseguono “vertici internazionali senza nessun risultato importante”. I popoli, ha esortato, sono “chiamati a far sentire la loro voce” per difendere la Madre Terra perché “non si può consentire che certi interessi” si “impongano, sottomettano gli Stati e le organizzazioni internazionali e continuino a distruggere il creato”. “Il futuro dell’umanità  - ha concluso - non è solo nelle mani dei grandi leader, della grandi potenze e delle élite. E’ soprattutto nelle mani dei popoli”. “Proseguite nella vostra lotta – ha detto ai Movimenti Popolari – che Dio vi difenda nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci fa stare in piedi, quella forza è la speranza” che “non delude”.

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Francesco ai religiosi: testimoni di misericordia non di una ideologia

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I cristiani non sono testimoni di una ideologia, ma della misericordia di Gesù che li rende capaci di avvicinarsi al dolore della gente: è quanto ha detto Papa Francesco incontrando, in una scuola salesiana a Santa Cruz, sacerdoti, religiosi e seminaristi, nella seconda giornata del suo viaggio in Bolivia. Ce ne parla Sergio Centofanti

Le testimonianze dei consacrati
Quattro testimonianze aprono l’incontro con il Papa: mons. Roberto Bordi, vescovo incaricato della vita consacrata in Bolivia, ricorda che quanti sono chiamati ad annunciare il Vangelo sono i primi che hanno bisogno di essere costantemente evangelizzati. Solo chi si lascia sempre convertire da Dio può contagiare gli altri con la gioia della buona novella.  Il presule elenca le sfide della Chiesa in Bolivia: il secolarismo che avanza, la crisi della famiglia, la corruzione, il narcotraffico, la povertà, le contrapposizioni politiche e ideologiche. Ma tutto nella consapevolezza che il bene è più potente del male perché produce la vita vera. Un sacerdote di Cochabamba ricorda le sue origini contadine. Ha ascoltato la voce di Dio è ha lasciato tutto. Sottolinea l’importanza della vita comunitaria per vivere la fede. Suor Gabriella parla del suo incontro con il Cristo vivo nella preghiera, nell’Eucaristia nell’ascolto della Parola di Dio e nel suo lavoro nel campo dell’educazione. Oggi – afferma – abbiamo sempre più bisogno di diffondere la speranza in un mondo sempre più triste. Infine, un seminarista, figlio di un minatore, parla della sua vocazione, nata grazie alla madre che gli ha insegnato a non dimenticare mai di pregare.

I cristiani indifferenti di fronte al dolore dell'altro
Papa Francesco ascolta con attenzione, ringrazia, abbraccia. Poi svolge la sua meditazione a partire dal Vangelo in cui Bartimèo, cieco e mendicante, si accorge che sta passando Gesù e grida. Il Papa elenca tre reazioni dei seguaci di Gesù davanti al dolore dell’uomo. Innanzitutto c’è chi passa accanto ma resta nell’indifferenza, non si lascia toccare, si è abituato all’ingiustizia. Ha “un cuore blindato, chiuso, ha perso la capacità di stupirsi e quindi la possibilità di cambiare. Quante persone che seguono Gesù corrono questo pericolo!”. Si crede di seguire Gesù ma senza lasciarsi coinvolgere dal fratello che soffre. E la vita diventa arida. Francesco la definisce “spiritualità dello zapping”: sono quelli che “vanno dietro all’ultima novità, all’ultimo best seller, ma non riescono ad avere un contatto, a relazionarsi, a farsi coinvolgere”.

I cristiani che fanno dell'identità una questione di superiorità
Il secondo atteggiamento davanti al grido di Bartimeo – dice il Papa – è quello di chi gli ordina di stare  zitto, di  non disturbare. Sono quelli che rimproverano sempre: “Sono i vescovi, i sacerdoti, le suore, il Papa … con il dito così”. “È l'atteggiamento di coloro che di fronte al popolo di Dio, stanno continuamente a rimproverarlo, a brontolare, a dirgli di tacere. Dategli una carezza per favore, ascoltatelo, ditegli che Gesù gli vuole bene …  ‘Ma non si può fare, signora, cos'ha questo bambino che piange mentre io predico?’. Come se il pianto di un bambino non fosse una sublime predica!”. “È il dramma della coscienza isolata, di coloro che pensano che la vita di Gesù è solo per quelli che si credono adatti, ma in fondo hanno un profondo disprezzo per il popolo fedele di Dio”. “Sembrerebbe giusto che trovino spazio solo gli ‘autorizzati’, una ‘casta di diversi’ che lentamente si separa, differenziandosi dal suo popolo. Hanno fatto dell’identità una questione di superiorità”: “non sono più pastori, ma sono capitani” che sempre pongono “barriere al popolo di Dio”. E questo atteggiamento “li ha allontanati, non solo dal grido della loro gente, o dal loro pianto, ma soprattutto dai motivi di gioia. Ridere con chi ride, piangere con chi piange, ecco una parte del mistero del cuore sacerdotale e del cuore consacrato”.

Non avere paura di lasciarsi coinvolgere dal dolore della gente
Infine – afferma Papa Francesco – c’è chi fa come Gesù che “si ferma di fronte al grido di una persona e si impegna con lui. Mette radici nella sua vita. E invece di farlo tacere, gli chiede: Che cosa posso fare per te?”. “Non esiste una compassione, una compassione, che non si fermi, se non ti fermi non hai la divina compassione, non ascolti e non solidarizzi con l’altro”. “La compassione non è zapping, non è silenziare il dolore, al contrario, è la logica propria dell’amore. È la logica che non si è centrata sulla paura, ma sulla libertà che nasce dall'amore e mette il bene dell’altro sopra ogni cosa. È la logica che nasce dal non avere paura di avvicinarsi al dolore della nostra gente. Anche se molte volte non sarà che per stare al loro fianco e fare di quel momento un’occasione di preghiera”. 

Siamo testimoni della misericordia di Gesù, non di una ideologia
Noi – conclude il Papa – “non  siamo testimoni di un’ideologia, di una ricetta, di un modo di fare teologia”, “non siamo “funzionari di Dio”, “siamo testimoni dell’amore risanante e misericordioso di Gesù”, “non perché siamo speciali, non perché siamo migliori” ma “perché siamo testimoni grati della misericordia che ci trasforma”.

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Messa a Santa Cruz. Il Papa: ridare dignità ai piccoli e ai deboli

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Un invito a trasformare la logica dello scarto in una logica di comunione. E’ quanto ha proposto il Papa davanti ad una folla oceanica che ha riempito ieri la Piazza del Cristo Redentore di Santa Cruz, in Bolivia, per la Messa di apertura del quinto Congresso eucaristico. Le preghiere sono state lette in spagnolo e nelle lingue indigene guaranì, quechua e aymara. Durante la celebrazione Francesco ha benedetto le croci missionarie in vista del Congresso Missionario di Santa Cruz del 2018. Il servizio del nostro inviato Paolo Ondarza

No alla logica che trasforma tutto in oggetto di consumo
Ha sfidato il freddo e l’umidità della notte invernale di Santa Cruz la moltitudine di fedeli assiepata nelle tre arterie del secondo anello dell’Avenida Cristo Redentore e lungo la Via Mons. Rivero,  per partecipare alla Messa presieduta da Papa Francesco. Una folla  che fa venire alla mente del Pontefice le 4000 persone radunatesi attorno a Cristo e che i discepoli avrebbero voluto congedare vista l’impossibilità di sfamare tutti. I conti – è la considerazione del Papa - non tornavano allora, come oggi non tornano quando siamo provocati dalla fame nel mondo, dall’ingiustizia che pare non avere fine: la tentazione dello scoraggiamento è dietro l’angolo e la disperazione finisce per prenderci il cuore:

“En un corazón desesperado...
In un cuore disperato è molto facile che prenda spazio la logica che pretende di imporsi nel mondo, in tutto il mondo ai nostri giorni. Una logica che cerca di trasformare tutto in oggetto di scambio, tutto in oggetto di consumo, negoziabile. Una logica che pretende di lasciare spazio a pochi, scartando tutti quelli che non ‘producono’. E Gesù ancora una altra volta ci parla e ci dice: “No, non è necessario escluderli, non è necessario che se ne vadano, date loro voi stessi da mangiare”.

Ridare dignità ai deboli e ai piccoli
“La visione di Gesù – spiega Francesco - non accetta una logica che taglia il filo a chi è più debole”, è una logica eucaristica sintetizzata in tre gesti:  Gesù prende, benedice e consegna il pane. “Prende” seriamente la vita dei suoi e la  valorizza:

“La riqueza más plena de una sociedad …
L’autentica ricchezza di una società si misura nella vita della sua gente, si misura nei suoi anziani capaci di trasmettere la loro saggezza e la memoria del loro popolo ai più piccoli. Gesù non trascura la dignità di nessuno, con la scusa che non ha nulla da dare e da condividere”.

L'Eucaristia ci fa uscire dall'individualismo
Gesù benedice, ovvero riconosce che la vita è dono che posto nelle mani di Dio acquisisce una forza che lo moltiplica. Infine – spiega il Papa - Gesù invita a dividere ciò che si è ricevuto poiché solo nel condividere si trova la fonte della gioia:

“Es Sacramento de comunión ...
È il Sacramento di comunione, che ci fa uscire dall’individualismo per vivere insieme la sequela e ci dà la certezza che ciò che possediamo e ciò che siamo, se è accolto,  se è benedetto e se è offerto, mediante il potere di Dio, con il potere del suo amore, diventa pane di vita per gli altri”.

Non anestetizzare memoria, non siamo persone isolate
Al cospetto della statua del Cristo Redentore, eretta 54 anni fa in occasione dell’ultimo Congresso eucaristico e inaugurando la nuova assise che si svolgerà a Tarija, Francesco esorta la società boliviana a custodire la memoria del popolo, a non lasciarla anestetizzare e ancora una volta esorta tutti all’unità: “Non siamo persone isolate, separate, ma siamo il Popolo della memoria attualizzata e sempre offerta”.

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Bolivia. Francesco in visita ai carcerati di Palmasola

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Papa Francesco oggi pomeriggio visiterà i carcerati nel Centro di rieducazione di Santa Cruz-Palmasola. Grande l’attesa tra i detenuti, che tra l'altro stanno aspettando il varo di un indulto: tra di essi anche un cittadino italiano, Pietro. Il nostro inviato in Bolivia, Paolo Ondarza, lo ha intervistato chiedendogli innanzitutto come si vive in questo carcere: 

R. – Questo è un regime aperto, non è un carcere come quelli italiani, in cui si sta chiusi. Hai un certo tipo di libertà, puoi scegliere di lavorare, di fare qualcosa, di studiare…

D. – C’è il problema, da quello che ho saputo, da quello che si legge, del sovraffollamento qui a Palmasola: c’è tanta gente rispetto alla capienza effettiva. Si vive male?

R. – Sì, c’è sovrappopolazione perché mi pare che adesso ci siano più di 4 mila detenuti. Però, con queste pratiche dell’indulto si sta creando più spazio. Molta gente con l’indulto sta uscendo.

D. – Quando arriverà – e ti auguro che arrivi presto – l’indulto, cosa vorrai fare?

R. – Io sto facendo questo, sono ritornato volontariamente per uscire, finire la storia in modo pulito: scontare la mia condanna, ritornare in Italia e ritornare a lavorare come facevo prima, prima che mi succedesse “questo”.

D. – Ti trovi qui in un momento particolare, perché viene Papa Francesco: come vivi questa giornata?

R. – E’ una cosa buona, perché non è di tutti i giorni vedere il Papa. Poi, che venga a visitarci in un carcere e io che sono italiano mi trovo in un carcere boliviano, incontrarmi con il Papa, sarà una bella esperienza, no?

D. – So che i detenuti qui, a Palmasola, hanno scritto qualcosa per il Papa. Se potessi dire qualcosa al Papa…

R. – Sì, se mi capiterà vicino, se avrò la possibilità… Una benedizione dal Papa non è una benedizione che si può avere tutti i giorni. Quindi lo avremo qui… è una cosa emozionante…

D. – Un incoraggiamento ad andare avanti?

R. – Claro! Tambien! Uguale, questo, sì… E' un incoraggiamento ad andare avanti. Anche perché, poi, dobbiamo andare avanti, normalmente… Uno può commettere un reato, però poi dopo può capire e cominciare di nuovo la sua vita, no?

D. – Posso chiederti se stare qui a Palmasola ti ha fatto capire qualcosa rispetto al reato che hai compiuto?

R. – Ma sì… Mi ha fatto capire che comunque quando ti privano della libertà sempre hai un portone che non puoi varcare.

D. – Per chiudere, solo una cosa: ti senti di voler dire qualcosa a chi, come te, si dovesse trovare nelle tue stesse condizioni, di sbagliare?

R. – Sì, di cercare di non sbagliare. Però, se uno ha già sbagliato, di guardare al presente e non al passato. Solo così uno può ricominciare. Ora aspettiamo fiduciosi che le cose si aggiustino.

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Bolivia. Mons. Bordi: Francesco risveglia la fede della gente

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Siate testimoni della misericordia e non di una ideologia: è questo ciò che Papa Francesco ha chiesto a sacerdoti, religiosi e seminaristi boliviani durante l'incontro di ieri. Ma qual è la realtà della Chiesa in Bolivia? Il nostro inviato, Paolo Ondarza, lo ha domandato a mons. Roberto Bordi, vescovo incaricato della Vita consacrata, che ieri ha rivolto pubblicamente il suo saluto al Papa durante l’incontro presso il “Coliseo Don Bosco” di Santa Cruz: 

R. – I sacerdoti non sono molti: tra religiosi e clero diocesano ci sono poco più di 2.000 sacerdoti. I vescovi sono 38: un numero che sembra, in rapporto alla popolazione cattolica, sufficiente, però in Bolivia la popolazione – al di fuori delle tre grandi città di La Paz, Cochabamba e Santa Cruz – è molto dispersa. Noi per esempio nel Vicariato apostolico del Beni, ai confini con il Brasile, abbiamo un territorio di 153 mila km quadrati – la metà dell’Italia – con una popolazione di 200 mila abitanti, che però sono sparsi in moltissime piccole comunità indigene, rurali… Quindi, abbiamo bisogno di altri sacerdoti, i nostri non sono sufficienti.

D. – Diminuiscono quindi le vocazioni, sono sempre meno i giovani che entrano in seminario o che abbracciano la vita religiosa…

R. – Sì, in questi ultimi anni c’è stato un calo delle vocazioni in generale dovuto a fattori sociali e anche forse alla mancanza di una pastorale vocazionale seria. È un problema che ci preoccupa, perché la popolazione aumenta…

D. – Una situazione preoccupante se si pensa che in Bolivia la Chiesa gestisce molte scuole, è molto attiva nel campo sociale, sanitario…

R. – Infatti, soprattutto i superiori religiosi sono preoccupati, perché in Bolivia il 20% dell’istruzione è in mano alla Chiesa e anche le opere sociali sono abbastanza consistenti. Però, grazie a Dio, i laici si stanno “svegliando”, possono assumere loro queste iniziative. Ultimamente, sono molto vigorose quelle per esempio dei carismatici, dei “cursillos”, il cammino catecumenale, le comunità ecclesiali di base. Quindi, abbiamo tutto un movimento laicale che forse, nella Provvidenza del Signore, potrebbe sostituire i religiosi e i sacerdoti in queste opere sociali.

D. – Il Papa conosce questa realtà che gli presentate?

R. – Certamente, il Papa è già informato di tutto. Come latinoamericano conosce molto bene la situazione di questi Paesi del Sud America.

D. – Quali frutti lei spera che porti la visita del Papa in Bolivia?

R. – Spero che il Papa risvegli un po’ la fede e l’impegno di tutti i cattolici per una vita più cristiana, perché qui c’è molta fede – praticamente non ci sono atei, non ci sono agonistici – però è una fede popolare molte vote debole, fatta di devozioni, di sentimento, però manca ancora un approfondimento del senso della vita sacramentale e dell’impegno sociale. E quindi speriamo che il Papa con la sua presenza sia un motivo, un incentivo, a vivere con coerenza e con molta gioia la fede. E poi ci auguriamo che anche le relazioni con il governo socialista siano un po’ più cordiali, perché già dall’inizio ci sono stati momenti di difficoltà, di indifferenza, di attacchi reciproci. Poi, il presidente adesso ha fatto appello alla riconciliazione tra tutti, e non solo, tra Chiesa e Stato, ma anche tra tutte le forze politiche e sociali del Paese.

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P. Lombardi: il Papa affronta i problemi della società globalizzata

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Sull'intensa giornata di ieri a Santa Cruz e l'importante discorso del Papa ai Movimenti Popolari, il nostro inviato in Bolivia Paolo Ondarza ha intervistato il direttore della nostra emittente e portavoce vaticano, padre Federico Lombardi

R. – Il Papa ha affrontato i problemi della società, del mondo globalizzato di oggi, manifestando la necessità di cambiamento. L’analisi della situazione del mondo di oggi fa vedere quante ingiustizie, quante sofferenze si verificano all’interno della società, nel rapporto con la natura e con l’ambiente. Il Papa si è rivolto ai Movimenti popolari, quindi a realtà di impegno che si trovano nelle situazioni marginali o di povertà, dove si vivono le conseguenze delle cose che non vanno nel sistema politico, sociale, economico in particolare, di oggi, e si è rivolto a questi Movimenti invitandoli a essere essi stessi protagonisti creativi e impegnati di questo cambiamento di cui c’è bisogno. E qui vediamo un po’ la prospettiva caratteristica di Papa Francesco, che dice di andare alle periferie e di essere attenti alle periferie, non solo perché da lì si può valutare meglio quali siano le situazioni del mondo di oggi che non funzionano, perché provocano ineguaglianze, ma perché anche da lì può prendere il cammino un movimento capace di proporre forse creativamente anche soluzioni alternative che invece dal centro di un sistema, molto legato a un’impostazione economica fondata sul potere del denaro, non si vedono e non si riescono a inventare e a immaginare.

D. – Qualcuno ha sollevato la possibilità di una strumentalizzazione politica di questa partecipazione del Papa all’incontro con i movimenti popolari…

R. – Ma, ognuno cerca sempre di tirare l’acqua al proprio mulino, di vedere le cose dal proprio punto di vista e interpretarle in senso favorevole alle proprie posizioni o ai propri interessi. Però, il Papa non se n’è lasciato minimamente spaventare, cioè ha fatto tutto il suo discorso con grande libertà e con grande decisione e questo si è imposto per il suo valore, per la sua forza, per la sua coerenza. Quindi, è abbastanza evidente quali possano essere poi eventualmente delle strumentalizzazioni e quali siano invece letture libere e attente e aperte alla ispirazione che il Papa intende dare.

D. – Nelle mani del Papa, ora, il documento conclusivo di questo incontro mondiale dei Movimenti popolari. Quale uso ne farà?

R. – Questo dipenderà da lui. Però, certamente, questi Movimenti lo hanno preparato, questo documento, glielo hanno consegnato pensando anche ai suoi prossimi grandi appuntamenti, in particolare quello alle Nazioni Unite, perché hanno cercato di riflettere sui problemi dello sviluppo e della situazione di oggi. Ed è evidente che il Papa, rivolgendosi alle Nazioni Unite, tratterà di questo. Non sappiamo come o esattamente in quale prospettiva o con quale taglio, ma avrà ben presenti i problemi del mondo di oggi e le sfide, come del resto è stato chiaramente detto da lui anche nell’Enciclica “Laudato si’”.

D. – Un altro passaggio significativo è quello in cui il Papa ha chiesto perdono per le colpe della Chiesa contro i popoli originari, durante la conquista…

R. – Sì, naturalmente questa è sempre una tematica molto difficile da approfondire nel modo migliore, sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista della distinzione delle vere e particolari responsabilità delle persone o delle comunità o degli Stati. Però, senza voler entrare, appunto, in distinzioni troppo raffinate, il Papa ha voluto riconoscere in modo molto chiaro  – sulla linea di quanto hanno fatto anche i suoi predecessori – che ci sono state delle colpe, delle colpe gravi, dei crimini nei confronti delle popolazioni che si trovavano nelle Americhe e che bisogna riconoscerlo, insomma, se si vuole ricostruire adesso una società pienamente rispettosa anche della diversità delle culture, della loro dignità e della dignità dei popoli indigeni. In questo senso, il fatto che un Papa latinoamericano, in America Latina, abbia voluto fare questa richiesta di perdono con tanta chiarezza, certamente ha suscitato una forte attenzione e anche forte soddisfazione da parte di chi ritiene che nella storia la mancanza di rispetto dei diritti, soprattutto per i popoli autoctoni, che sia stato un fatto estremamente grave e che continua ad avere delle sue conseguenze, e va quindi adesso pienamente superato anche con quella che Papa Giovanni Paolo II chiamava “la purificazione della memoria”.

D. – Calorosa l’accoglienza al Coliseo Don Bosco nell’incontro con i sacerdoti, i religiosi e i seminaristi…

R. – Sì, certamente. E' sempre un momento molto intenso quello dell’incontro del Papa con i sacerdoti, con i seminaristi, con le religiose – c’erano anche tutte le religiose, che sono una forza e una presenza fondamentale nella vita della Chiesa. Il Papa ha fatto un discorso molto ricco, molto articolato, sentito molto profondamente e certamente sono occasioni di grande conforto per tutte le persone che vi partecipano.

D. – La giornata si è conclusa con la visita del Papa al cardinale Terrazas, un suo amico di vecchia data…

R. – Il Papa è sempre molto attento alle persone che soffrono e alle amicizie che coltiva, quindi ci si domandava in questi giorni, appunto, se il cardinale avrebbe potuto lasciare la clinica per andare alla casa sua, nella quale è ospitato il Papa – è ospitato proprio nella casa del cardinale Terrazas – oppure, se questo non fosse stato possibile, se il Papa sarebbe andato a visitarlo. Certo, sarebbe stato molto bello che il cardinale potesse con le sue forze recarsi dal Papa, ma questo momento di comunità e di incontro fraterno ha potuto avvenire.

D. – Padre Lombardi, anche un primo bilancio dall’arrivo di Papa Francesco qui in Bolivia con la Messa in Plaza Santa Cruz…

R. – Siamo già a un buon punto della visita del Papa in Bolivia, perché i due discorsi di ieri (mercoledì - ndr) sono quelli che si riferivano più ampiamente alla situazione della nazione, alla situazione del Paese. Il Papa ha manifestato anche il suo apprezzamento per il momento in cui si trova la Bolivia: di crescita e di costruzione di una società inclusiva, multietnica e multiculturale, e ha dato il suo incoraggiamento. E questa mattina (ieri - ndr) è stato il grande momento ecclesiale, il momento principale dal punto di vista ecclesiale: questa inaugurazione del Congresso eucaristico e quindi il senso della comunità della Chiesa che si costruisce e che diventa capace anche di esprimere per l’intera società e per il mondo il suo servizio di unità, di incoraggiamento e di speranza. Perché c’è bisogno di speranza di fronte a tante situazioni veramente difficili.

D. – Che dire della reazione così festosa, così accogliente della gente, dei fedeli?

R. – E’ un’accoglienza molto bella, molto grande: in un certo modo, abbiamo visto già in Ecuador un’accoglienza più grande di quello che ci aspettassimo e anche qui in Bolivia le cose stanno continuando nello stesso senso. E’ evidentemente la sensibilità del popolo latinoamericano che accoglie con molta gioia, con molta gratitudine il Papa che viene da questa terra e che è capace di parlare con questa Terra in modo estremamente concreto ed espressivo. Abbiamo visto anche l’omelia di questa mattina: il tipo di linguaggio, il tipo di esempi che il Papa sa fare, toccano molto profondamente il cuore e quindi suscitano poi una grande reazione positiva.

D. – Il tema della multiformità nell’unità, della pluralità nell’unità. Anche l’appello al dialogo è risuonato più volte, soprattutto ieri (mercoledì - ndr). E chiaramente ha destato molta attenzione anche l’appello che il Papa ha fatto sulla questione del mare, e quindi l’appello al dialogo per quanto riguarda questa questione…

R. – Il dialogo come metodo per affrontare le questioni aperte e che possono generare, invece, tensioni o su cui ci si può irrigidire: ecco, non ci sono questioni che non possano essere risolte se ci sono gli atteggiamenti giusti per affrontarle. Il Papa ha voluto insistere su questo, toccando anche uno degli argomenti che qui è molto caldo, come si sa, che è quello dell’accesso al mare della Bolivia. Il Papa non entra in discussioni di tipo politico, non da lui soluzioni che devono essere cercate dai responsabili dei popoli, ma incoraggia a dialogare.

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Nomine episcopali di Papa Francesco in Francia e Libia

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In Francia, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Rouen presentata da mons. Jean-Charles Descubes, per sopraggiunti limiti d’età. Il Papa ha nominato arcivescovo metropolita di Rouen mons. Dominique Lebrun, finora vescovo di Saint-Etienne.

In Libia, Francesco ha nominato coadiutore del Vicariato Apostolico di Tripoli, il rev.do p. George Bugeja, O.F.M., Guardiano del Convento di S. Antonio di Padova, a Gozo, , già officiale della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Gli è stata assegnata la sede titolare vescovile di San Leone.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, in apertura, "Diritti sacri" Durante l’incontro con i movimenti popolari in Bolivia il Papa torna a reclamare terra, casa e lavoro per tutti. E denuncia il nuovo colonialismo che impone l’austerità ai lavoratori e ai poveri; sotto, l'editoriale del direttore, Giovanni Maria Vian, "Quasi una piccola enciclica"

A pagina 4 e 5, la traduzione in italiano del discorso del Papa ai movimenti popolari di tutto il mondo.

A pagina 8, "Se i conti non tornano; nella messa a Santa Cruz il Pontefice chiede di passare dalla logica dello scarto alla logica della comunione", accompagnato dalla cronaca della giornata di Gianluca Biccini, inviato in Bolivia.

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Oggi in Primo Piano



Grecia: reazioni positive a riforme, forse accordo più vicino

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Prime reazioni positive alla bozza di riforme presentata dalla Grecia: “Un programma serio e credibile”, l’ha definito il presidente francese Hollande. “Va nella direzione giusta”, ha detto il presidente dell’Europarlamento, Schultz. Oggi il primo esame dei vertici europei, ma secondo indiscrezioni un accordo potrebbe essere raggiunto già domani: in questo caso sarà possibile il prestito ponte. Nel "pacchetto" nuove tasse, l’aumento dell’Iva e un ritocco del sistema pensionistico. Per un commento sugli sviluppi, Roberta Barbi ha intervistato l’economista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Giacomo Vaciago: 

R. – E’ chiaro che l’interesse comune di tutti, greci compresi, è che la Grecia resti nell’Europa, però è indispensabile che un Paese abbia i benefici dell’Unione e della moneta comune. Ricordiamoci che grazie alla moneta, una buona economia di mercato migliora. Come la definiamo? Un’economia dove c’è il rispetto della legge, dove le tasse vengono pagate, dove i corrotti vanno in galera. Questo è ciò che da anni si è chiesto alla Grecia di fare, perché altrimenti i benefici dell’Euro non te li "regala" nessuno. Quello che adesso Tsipras, forse, incomincia a capire, è che le riforme gli si chiedono affinché i soldi che poi l’Europa gli presta, li impieghi bene! Se no non capisco perché dovremmo fare sacrifici per darli a un Paese che li spreca senza ricavarne alcun beneficio!

D. – Tsipras oggi ha chiesto al Parlamento il mandato per trattare con i creditori, ma il popolo che ha appoggiato la sua politica al referendum come prenderà questo pacchetto di riforme?

R. – Il referendum è un referendum che Tsipras ha personalmente vinto. Bisogna ricordare che "Siryza" è una coalizione e che non ha la maggioranza dei voti in parlamento ad Atene, e quindi ha rinforzato il potere negoziale di Tsipras non a Bruxelles ma in casa. Adesso Tsipras non ha più scuse. Le ipotesi che fanno i politologi è che male che vada fa un governo di unità nazionale.

D. – Con le riforme si profila davvero il rischio della recessione per il Paese?

R. – No! Le riforme hanno costi politici. Rispettare la legge è austerity? Io spero che rispettare la legge faccia crescere il Paese. Il dramma della Grecia è che è un Paese che non attira investimenti: per crescere, bisogna far sì che i migliori del mondo vogliano venire a casa tua.

D. - Da sciogliere resta il nodo del debito pubblico. Il premier ellenico considera centrale cancellarne una parte, per la Merkel è fuori discussione…

R. – Debiti insostenibili si rendono tali con la crescita. Nessuno vuole indietro i soldi dalla Grecia, bastano che siano liquidi i titoli, che abbiano mercato e soprattutto che paghi le cedole. Se la crescita rende sostenibili un debito così pesante, se ci fossimo fidati veramente del governo greco, 5 anni fa, andava consolidato e "dimenticato". È  inutile negoziare 7 miliardi al mese, non ci sono! Tanto vale dire: te ne abbono il 20 per cento.

D. – Le borse però si sono rialzate: è un segnale positivo?

R. – Attenzione, le borse in questo momento sono confuse se guardare Atene o Shanghai. Se sei ottimista vedi che i governi continuano a esistere e quindi poi le situazioni le trovano. Stiamo pagando i governanti per risolvere i problemi. Se, viceversa, sei pessimista, vedi tanti di quei problemi irrisolti perché ce li abbiamo ancora tutti. Il dramma vero è che la Grecia nel suo piccolo è stata la lente di ingrandimento: l’Europa non riesce a governarsi. Il problema vero è che il bene comune è mettersi d’accordo. Litigare non è mai un modo per risolvere i problemi. Noi abbiamo una serie di ragioni per tenere la Grecia nell’Euro e nell’Europa anche strategiche, geopolitiche - non a caso Washington telefona un giorno sì e anche il giorno dopo - ma, attenzione, abbiamo soprattutto bisogno che i greci imparino che le leggi vanno rispettate: non le leggi tedesche, quelle greche!

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Yemen: la tregua non tiene. L'impegno di Msf

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“E’ necessario ed urgente che gli aiuti umanitari possano raggiungere tutte le persone vulnerabili dello Yemen, senza ostacoli e attraverso una tregua umanitaria incondizionata”. Con queste parole il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha annunciato l’atteso cessate il fuoco nel Paese del Golfo, il secondo dall’inizio, nello scorso marzo, dei raid aerei a guida saudita. La pausa delle ostilità dovrebbe iniziare alla mezzanotte di oggi, e protrarsi fino al 17 luglio, portando sollievo a milioni di persone, stremate dagli scontri ma nelle ultime ore, alla vigilia dell'entrata in vigore della tregua, una serie di raid sono stati effettuati dalla coalizione internazionale contro obiettivi dei ribelli Houthi. Al microfono di Giacomo Zandonini la coordinatrice di Medici Senza Frontiere nello Yemen, Teresa Graceffa, appena rientrata in Italia da Aden. 

R. – Il sistema sanitario nazionale è crollato. Il personale sanitario non viene più pagato e non arrivano medicine. L’ospedale che in questo momento ad Aden sta funzionando è l’ospedale di Medici senza frontiere. Non c’è acqua, non c’è cibo perché hanno bloccato tutte le strade, non c’è elettricità, la gente sta soffrendo e muore anche per il caldo, perché è disidrata: non c’è niente da bere e l’acqua non è potabile.

D. – Medici Senza Frontiere opera da diversi mesi nel Paese, nel contesto del conflitto scatenatosi nello scorso marzo, esattamente dove?

R.  – Noi siamo a nord, a Tamir e Sana’a, abbiamo un ospedale dove facciamo medical care, pediatria, maternità, c’è anche una piccola chirurgia, e a Taiz, nel sud, abbiamo aperto un centro di emergenza.

D. – Ci potrebbe fare un esempio delle persone che arrivano nei vostri Centri, nei vostri ambulatori, che problematiche sanitarie portano e che problematiche più ampie, di vulnerabilità e di fragilità?

R. – Da noi arrivano feriti d’arma da fuoco e da bombe. La gente è traumatizzata e quindi abbiamo anche due psicologi per i pazienti che non hanno più la casa, non hanno più niente e vengono da noi dato che è l’unico ospedale aperto.

D. - Il 19 marzo, al momento dell’inizio dei raid aerei da parte della coalizione guidata dall’Arabia saudita, voi eravate già operativi. Cos’è cambiato dopo quella data?

R. – E’ cambiato tutto. Il nostro personale era felice con le loro famiglie. Il 19 marzo tutto è esploso. Non hanno più famiglia, non c’è un posto sicuro dove poter proteggere le loro famiglie. La città di Aden era una città veramente commerciale, molto all’avanguardia e adesso non c’è più niente, è crollato tutto, gli hotel, hanno bombardato le case… E’ tutto raso al suolo, non si riconosce più la città.

D. – Proprio i civili stanno pagando sempre di più un tributo fortissimo all’interno del conflitto ed è stata annunciata una tregua finalizzata alla consegna di aiuti umanitari. Pensa sia sufficiente una tregua di pochi giorni o ci vorrebbe qualcos’altro?

R. – Io non ci credo in questa tregua. Noi l’abbiamo avuta una tregua ad aprile. Ci hanno detto che sarebbero stati cinque giorni ma non c’è mai stata. Se ci dovesse essere sarebbe una cosa meravigliosa, anche perché arriva cibo, arriva la possibilità di non sentire più le bombe… Nei giornali si dice che c’è stata ma non c’è stata, non c’è mai stata. C’è stato lo stesso numero di feriti di prima.

D. – Quante persone tratta Medici Senza Frontiere al giorno, alla settimana, nelle proprie strutture?

R. – Parlo di Aden, dove abbiamo in media 50 ricoveri al giorno. Accogliamo 80, 100 pazienti al giorno e solo nelle prime tre settimane di giugno abbiamo ricoverato 810 persone, con 474 interventi. Dal 19 marzo a fine giugno, 3.500 persone in totale.

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Ebola: conferenza Onu per finanziamenti a Paesi colpiti

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Mobilitare 3,2 miliardi di dollari per ricostruire i servizi di base, soprattutto sanitari, in Liberia, Sierra Leone e Guinea, i Paesi più colpiti dall’ebola. Questo l’obiettivo della Conferenza internazionale che si tiene oggi all’Onu di New York per fare il punto sugli aiuti finanziari destinati a favorire la ripresa dei tre Stati dell’Africa occidentale, falcidiati dal virus che, dal dicembre 2013, ha causato oltre 11 mila vittime, tra cui oltre 500 operatori sanitari. Un rapporto della Banca Mondiale ha lanciato l’allarme per più di 4 mila donne che in quelle zone potrebbero morire a causa delle complicazioni del parto: secondo lo studio, la perdita di medici e infermieri uccisi dal virus sarà infatti causa di aumento della mortalità materna. Nelle ultime settimane si sono poi registrati nuovi casi in Liberia, che aveva dichiarato finita l’emergenza all’inizio di maggio. Anche Sierra Leone e Guinea lottano ancora contro l’epidemia. Lo testimonia padre Maurizio Boa della congregazione dei Giuseppini del Murialdo a Freetown, intervistato da Giada Aquilino

R. – Una quindicina di giorni fa, una donna che doveva partorire era affetta da ebola e nessuno se ne era accorto: tre dottori e 28 infermieri sono andati diretti in quarantena. Quello è stato un momento molto difficile. Ogni giorno ci sono almeno un caso o due nei distretti di Port Loko e Kambia. Per due o tre giorni capita magari che non ci siano casi - ‘ebola zero’ - ma poi ricompaiano. Ebola non è sconfitta, tuttavia la vita è abbastanza normale qui adesso: le scuole funzionano, il governo ha decretato il coprifuoco e lo ha allungato dalle 18.00 alle 21.00. Quindi vuol dire che c’è una buona speranza di riuscire a sconfiggere questa epidemia.

D. – Ebola ha contagiato o ucciso molti operatori sanitari. Secondo un rapporto della Banca Mondiale, proprio a causa della morte di molti medici e infermieri, in Sierra Leone la mortalità materna potrebbe aumentare del 74%…

R. – Purtroppo sì, è quello a cui assistiamo adesso. Proprio per questo, la settimana scorsa abbiamo aperto un ospedale pediatrico con un reparto maternità, a Waterloo Camp, dove per ebola sono morte 280 persone. Vogliamo riuscire, infatti, a risolvere questa situazione sanitaria che è disastrosa, soprattutto adesso: molti dottori sono morti; molti infermieri sono morti; manca tutto. Parecchie ong si stanno dando da fare per gli orfani di ebola e per i sopravvissuti, che sono un numero considerevole. Anche noi, come Giuseppini del Murialdo, ci stiamo muovendo nella zona di Lunsar, nella zona di Mabessene e poi sempre nel Waterloo Camp, che ora si chiama Kissi Town, dove c’è la chiesa e faccio il mio apostolato.

D. – Cos’è il Waterloo Camp?

R. – Era un campo di aviazione militare durante l’ultima guerra mondiale. Adesso è diviso in vari villaggi e ci sono circa 64 mila persone. Ha l’aspetto di un campo profughi.

D. – Quali sono le emergenze adesso nel Campo?

R. – E’ strano, ma serve lo zinco, per coprire le case: sta infatti piovendo e molte case sono senza copertura. Poi il cibo e le ‘school fees’, cioè le tasse scolastiche per i ragazzi che vengono mandati a scuola. Inoltre, assieme ad un gruppo che si chiama ‘Pado - Peace and Development Organization’, stiamo monitorando una situazione allarmante: sembra che più del 70 - 75% delle ragazzine al di sotto dei 18 anni sia incinta. E anche questo è dovuto alla povertà, alla cultura, a tante cose. Stiamo cercando di sviluppare un progetto al riguardo.

D. – In cosa consiste questo progetto?

R. – Lo stiamo studiando adesso: vorremmo tra l’altro creare dei punti, degli asili nido, dove queste ragazze che partoriscono possano portare i bambini e continuare poi ad andare a scuola. Vogliamo riuscire a fare qualcosa di buono, davvero.

D. – C’è un caso in questi mesi di emergenza che l’ha colpita particolarmente?

R. – Il 21 settembre dello scorso anno ho realmente “scoperto” ebola. Mi hanno chiamato i capi del Campo per farmi vedere come la gente stesse gettando fuori dalle case, in strada, i corpi dei morti. Sono rimasto molto colpito da questo fatto. Non c’erano ambulanze per loro e una ragazzina mi ha detto: “Se uno di noi prende l’ebola, non c’è nemmeno un letto dove stare”. Comunque, devo dire che questa emergenza ha anche suscitato tanta carità, una corsa di sensibilizzazione, di aiuto e questo è stato molto positivo per la nazione.

D. – L’Onu tenta di raccogliere ulteriori fondi per una fase iniziale di ripresa in due anni. Che speranze ci sono per la Sierra Leone, come per la Liberia e la Guinea?

R. – Quando qui è scoppiata ebola abbiamo visto arrivare macchine, soldi, medicine, ma non abbiamo visto risultati adeguati. Credo che l’Onu - e non devo dirlo io - debba fare attenzione alla corruzione: che questi soldi vadano veramente ai poveri e a quelli che ne hanno bisogno, in modo da ricostruire la loro vita. Da dove cominciare? Io penso dalla sanità e dalla scuola.

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Migranti: nuovi naufragi e decine di vittime nel Mediterraneo

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Nuova tragedia dell’immigrazione nel Mediterraneo. La Guardia costiera tunisina ha recuperato stamani i corpi di almeno 10 migranti africani, mentre altri sono stati avvistati in mare. A Palermo, è atteso invece per domani l’arrivo di un pattugliatore italiano con oltre 700 migranti e 12 salme recuperate ieri dopo l’ennesimo naufragio davanti le coste libiche. Intanto, sempre ieri, i ministri degli Interni dell’Unione Europea hanno raggiunto un accordo di massima per la redistribuzione di 40 mila richiedenti asilo presenti in Grecia e in Italia. Per un commento, Marco Guerra ha sentito Oliviero Forti, responsabile Emigrazione della Caritas Italiana: 

R. – Il passo di ieri va nel senso auspicato ormai già qualche mese fa dalla Mogherini, e noi a suo tempo avevamo positivamente registrato questa volontà politica di andare verso una corresponsabilità nella distribuzione dei cittadini stranieri che arrivano sulle nostre coste. Continuiamo a dire, come abbiamo fatto a suo tempo, che i numeri paventati sono assolutamente insufficienti, perché le previsioni di oltre 300 mila persone che arriveranno comunque in Europa nel 2015 ci dà l’idea di come oggi l’impegno sia su circa un decimo. Evidentemente, il carico maggiore rimarrà comunque su Italia e Grecia, ma anche Germania, successivamente, e Svezia, che poi sono i Paesi che continuano a impegnarsi, perché ieri a questo (incontro) informale dei ministri la disponibilità è arrivata, chiaramente, da Francia e Germania che già stanno facendo la loro parte. Diversamente, registriamo ancora una particolare reticenza da parte di Paesi come la Repubblica slovacca, che assumo atteggiamenti di forte chiusura: questo un po’ preoccupa, perché noi avevamo registrato questo come un buon segnale politico, però ancora non è compiuto e la strada da fare è tanta. Però, evidentemente è un primo segnale e lo registriamo positivamente in un momento in cui, peraltro, vediamo da quello che sta accadendo, che i flussi continuano con la stessa intensità. Come dire: il contesto non è mutato, però le risposte tardano ancora a venire.

D. – Abbiamo visto però che alcuni Paesi dell’Est, solitamente ostili, hanno dato la disponibilità ad accogliere qualche migliaio di profughi. Resta invece la chiusura totale sugli immigrati economici, come testimonia la proposta della costruzione del muro in Ungheria…

R. – Questo sicuramente. E poi io mi permetto di dire: sono quei Paesi che purtroppo non stanno dando una grande prova di democrazia, da un lato, e dall’altro di corresponsabilità, perché sono quelli che solo qualche decennio fa hanno potuto – giustamente – avvalersi di una protezione internazionale così come prevista da Ginevra, perché molti loro cittadini trovavano appunto rifugio “dall’altra parte” del cosiddetto Muro di Berlino. Quindi, ci piacerebbe che ci fosse un recupero di una storia molto recente che dovrebbe portare a un esame, non dico delle coscienze, ma della storia per rendersi forse più partecipi, più attivi in questo momento difficile per tutti.

D. – Quindi, cosa c’è da aspettarsi dalla riunione dei ministri dell’Ue del 20 luglio? Una risposta parziale e solo sui richiedenti asilo? L’emergenza immigrazione fondamentalmente resterà di pertinenza dei Paesi della sponda del Mediterraneo?

R. – E' evidente, perché il grande tema che nessuno ha il coraggio di mettere sul tavolo è quello di Dublino: è evidente che, fino a che questo regolamento sarà presente in Europa, comporterà che chi arriva nel Paese di primo ingresso lì deve fermarsi. E quindi finché vigerà Dublino, finché non verrà modificato, questa è la situazione. Poi, potranno esserci dei meccanismi per alleviare questo – mi passi il termine – “peso” che sta in capo ai singoli governi. Ma se si vuole veramente arrivare a una politica di corresponsabilità, bisogna assolutamente superare Dublino.

D. – Con la bella stagione proseguono gli arrivi sulle coste d’Italia, Grecia, Spagna. In Sicilia, a Lampedusa, nel meridione, continuano gli sbarchi: anche oggi sono previsti nuovi arrivi. Voi che notizie avete?

R. – Noi siamo, nei limiti del possibile, sempre in prima linea, disponibili a sostenere le istituzioni, soprattutto nella fase di accoglienza, perché queste persone è vero che arrivano nei porti, ma da lì a poche ore, poi, vanno distribuiti in giro per l’Italia, perché hanno bisogno giustamente di tutti quei servizi propri di chi arriva in un altro Paese e in quelle condizioni. Quindi, incominciamo ad avvertire tutti una pressione forte che è frutto non tanto dell’aumento di questi numeri, quanto di un sistema che ancora – purtroppo, dobbiamo dire – dopo diversi anni fatica a trovare una sua compiuta realizzazione. Tra i temi, uno di quelli che noi crediamo sia sempre da ricordare è quello legato alla lentezza delle commissioni territoriali che sono chiamate a definire lo status dei richiedenti la protezione internazionale. E’ una cosa che appare molto complessa ma nei fatti, invece, richiederebbe da parte di queste commissioni una maggiore celerità per permettere al sistema di liberare posti in tempi veloci e permettere a chi arriva di trovare poi la corretta sistemazione.

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Rapporto Onu: misure per raggiungere l'Obiettivo "Fame zero"

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Nella sede della Fao a Roma, conferenza stampa stamattina di presentazione del nuovo Rapporto delle Nazioni Unite sul tema “Raggiugere Fame Zero: il ruolo critico degli investimenti nella protezione sociale e in agricoltura” a cui hanno collaborato anche il Fondo internazionale per lo Sviluppo agricolo e il Programma alimentare mondiale (PAm). Ma quali sono le principali misure individuate per eliminare la fame nel mondo entro il 2030, secondo gli obiettivi dell’Onu? Adriana Masotti lo ha chiesto all’economista della Fao, Lorenzo Giovanni Bellù, tra gli autori del Rapporto: 

R. – In sostanza, l’approccio che si propone è la combinazione di due strumenti da mettere in atto. Da una parte, uno schema di protezione sociale, cioè l’applicazione di misure che consentano ai più poveri di ricevere reddito. Questi sono trasferimenti che consentono alle persone innanzitutto di acquistare immediatamente, o comunque avere accesso immediatamente, a cibo in quantità sufficiente perché la fame non sia solo un obiettivo e si raggiunge nel 2030, perché chi ha fame ha fame ora. A fianco di questa misura, è sostanzialmente necessario avere come complemento degli investimenti produttivi a vantaggio dei poveri. Solo in questo modo sarà possibile aumentare il ruolo del reddito guadagnato dalle persone. L’obiettivo è infatti avere persone che siano in grado di mantenersi, perché questo fa anche parte della dignità dell’uomo.

D. – Naturalmente, per fare tutto questo è necessario disporre di soldi. E voi avete quantificato questa somma in 267 miliardi di dollari l’anno che devono essere messi a disposizione degli Stati… Pensate che questa richiesta potrà trovare una risposta positiva?

R.  – Bisogna dire che per quello che riguarda la protezione sociale, molti Paesi possono essere autosufficienti. E’ chiaro che in questo l’America Latina è più avanti rispetto ad altri. Certo, a fianco dei Paesi a reddito medio basso, ci sono anche Paesi con redditi molto bassi che dovranno essere supportati anche per questa componente. Per la seconda componente, quella degli investimenti, che noi abbiamo stimato in 151 miliardi di dollari, questi certamente in parte saranno investimenti pubblici, soprattutto investimenti in infrastrutture, ma anche investimenti per la costruzione di un quadro istituzionale corretto: quindi interventi legislativi, interventi per riconoscere la titolarità delle terre alle persone che adesso le utilizzano. Ma una parte di questi investimenti sarà anche dei privati. Bisogna dire che, chiaramente, l’assistenza dei Paesi esteri, in particolare dei Paesi più ricchi, avrà comunque un ruolo ancora da giocare.

D. – Con strumenti e risorse adeguati i piccoli produttori agricoli, gli imprenditori rurali possono trasformare le comunità in difficoltà in luoghi prosperi. Questa è solo una speranza, oppure è una reale possibilità e qualcosa che è già stato sperimentato?

R. – Grazie a Dio, ci sono esperienze positive un po’ dappertutto. In diversi continenti ci sono esperienze che noi consideriamo come casi di successo. Non tutti gli investimenti sono necessariamente a vantaggio dei poveri, però. Ci sono investimenti in cui, per esempio, le persone che lavorano in queste attività produttive ricevono salari che sono al di sotto della soglia di povertà. E qui, appunto, c’è il ruolo delle istituzioni per garantire che questo non avvenga più.

D. – Quindi, non è solo una questione economica, di finanziamenti, ma di volontà politica, insomma di scelte politiche…

R.  – L’ha sottolineato anche il direttore generale nella conferenza che abbiamo fatto questa mattina: senza la volontà politica non si va da nessuna parte. Volontà politica, istituzioni che pongano la sconfitta della fame e della povertà estrema come un obiettivo primario, sono condizioni fondamentali. Mi rendo conto che questa è una sfida. Ovviamente, guardando al futuro dobbiamo tenere conto che assieme a questa sfida abbiamo anche altre sfide. Abbiamo di fronte un periodo di cambiamenti climatici. Nel breve periodo abbiamo di fronte il problema dell’adattamento delle tecniche agricole ai cambiamenti climatici e comunque un utilizzo migliore e più efficace delle risorse, che lasci risorse disponibili anche per le generazioni future. Se non facciamo questo, rischiamo di risolvere il problema della fame per i prossimi 10 anni, ma tra 10-20-30 anni questo problema che è uscito dalla porta entrerà dalla finestra.

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Toccafondi: grazie a Buona Scuola più insegnanti e no gender

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Il ministro dell’Istruzione, Giannini, afferma che a settembre le famiglie troveranno una scuola rinnovata. Grazie anche alle nuove 100 mila assunzioni, ci saranno più insegnamenti e saranno rafforzati quelli già presenti. Scontenti però i sindacati, che contestano i poteri del preside e parlano di farsa per quanto riguarda le nuove assunzioni. Alessandro Guarasci ha intervistato il sottosegretario all’Istruzione, Gabriele Toccafondi

R. – Partiremo con una prima "tranche", che sono gli insegnanti che servono per far partire la macchina scolastica, e poi entro pochi mesi entreranno gli altri 50 mila assunti, che sono forse la vera novità, che sono gli insegnanti che serviranno a non avere più le cosiddette classi “pollaio”, ad avere l’insegnamento della lingua inglese davvero ovunque, ad avere l’insegnamento di storia dell’arte, di musica, di diritto, di economia, ad avere gli insegnanti tecnico-pratici per aprire i laboratori degli istituti tecnici e professionali. C’è la necessità di partire da ciò di cui la scuola ha bisogno. Bisogna un po’ ribaltare il concetto della scuola: la scuola non è fatta per gli insegnanti, che sono fondamentali, ma la scuola non è fatta per gli insegnanti e per il posto di lavoro degli insegnanti, è fatta per i ragazzi. Il numero delle assunzioni, metà subito e metà dopo qualche mese, è una necessità realistica, data dal fatto che siamo ormai oltre il tempo massimo per arrivare a 100 mila assunzioni per il primo settembre.

D. – Uno dei punti più contestati ai sindacati è quello dei poteri del cosiddetto "super preside". Serve un maggior controllo, per esempio dei genitori o del collegio degli insegnanti, su come il preside sceglierà i docenti e, soprattutto, gli uffici scolastici regionali sapranno anche gestire meglio questa nuova situazione?

R. – Io vorrei sfatare questo mito del preside “sceriffo”, del dittatore… Ne abbiamo sentite di tutti i colori. Gli insegnati – 100 mila in questo caso – saranno assunti dalle graduatorie. Saranno inseriti in graduatorie territoriali, che sono minori rispetto alle graduatorie provinciali. Ecco, questo è il potere del cosiddetto preside “sceriffo”: il dirigente scolastico che nota tra gli insegnanti, che comunque verranno assunti, quello della materia di cui lui ha bisogno nella scuola, che magari ha un percorso di vita vissuta come insegnante e ha un curriculum più attinente a quella sua scuola.

D. – Alcune associazioni dicono che tramite la “Buona scuola” in sostanza si introduce il principio della teoria di gender o del genere. Voi come rispondete?

R. – Capisco il problema, perché il problema c’è. Non c’è dentro la “buona scuola”, quanto in un insieme. Da circa tre anni, l’Ufficio nazionale contro le discriminazioni razziali, che fa capo al Dipartimento delle Pari opportunità alla presidenza del Consiglio, ha cambiato un po’ la sua natura e si occupa quasi esclusivamente del tema lgbt. Il comma 16 della "Buona scuola" parla chiaro, fa una lista di cose di cui la scuola deve occuparsi e, fra queste, si parla anche di lotta alle discriminazioni di genere e di ogni altra discriminazione. In questa frase non vedo il tema gender. Esulando dal comma 16 della “buona scuola” è stata emanata una circolare una settimana fa, da parte del Ministero dell’Istruzione, in cui si ribadisce a tutte le scuole che tutto ciò che entra nella scuola, come attività curriculare o extracurriculare, deve essere visto, approvato e a conoscenza dei genitori.

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Raff, il cinema africano in mostra a Roma

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È nato il Raff, la prima rassegna cinematografica dedicata al continente africano. Fino all’11 luglio, il volto dell’Africa si mette in mostra sugli schermi della Casa del Cinema di Villa Borghese di Roma. Il servizio di Corinna Spirito

È l’Africa vista con gli occhi degli africani quella presentata alla prima edizione del "RomAfrica Film Festival" (Raff). L’Africa delle risate dei bambini che giocano a piedi nudi per la strada. L’Africa delle donne costrette a prostituirsi. L’Africa della natura incontaminata, della musica gioiosa, dei coloratissimi abiti tradizionali. Il cinema, in questa kermesse, diventa lo specchio di tutte le anime del continente nero, come ha spiegato il direttore artistico Antonio Flamini:

“Racconta un’Africa, chiaramente, al di là dei luoghi comuni: un’Africa vera, un continente che è molto vicino a noi, ma anche molto lontano… Noi abbiamo coinvolto circa 20 Paesi africani in questa prima edizione del RomAfrica Film Festival, che è piuttosto articolata, perché su tre giornate presentiamo 7 lungometraggi, 5 documentari, 5 corti, videoart, videoclip: insomma, ce ne è parecchio e ce ne è un po’ per tutti i gusti. Questo Festival credo sia l’unico e il primo Festival che si fa a Roma e vorremmo che diventasse permanente e che venisse mantenuto con una certa continuità. Non se ne fanno in Italia specifici sul cinema africano: c’è qualcosa a Milano, c’è qualcosa in altre parti, ma è un cinema extraeuropeo, un po’ misto... Noi vogliamo dedicarlo unicamente all’Africa e soprattutto all’Africa subsahariana, quindi a quell’Africa un po’ più lontana da noi. Secondo me, è un cinema molto interessante e Roma è la città adatta: Roma è una città multietnica, multirazziale e, secondo me, è proprio la porta per l’Africa. Noi dall’Africa dobbiamo ricevere una ricchezza culturale che – secondo me – è bene che ci possa contaminare e che possa accrescere quella che è la nostra cultura”.

Il Raff si dimostra un appuntamento culturale di carattere grazie alla scelta di proiettare tredici opere di videoarte, cinema sperimentale che raramente trova spazio nei Festival. I lungometraggi poi sono di altissima qualità: tra i film scelti ci sono l’etiope “Difret”, prodotto da Angelina Jolie e premiato al Festival di Berlino, “Run”, una produzione della Costa D’Avorio presentata a Cannes, e “Timbuktu”, della Mauritania, candidato agli Oscar 2015 come miglior film straniero. Tutte pellicole che mostrano l’alto valore del cinema africano, come ha sottolineato il presidente del Festival, Cleophas Adrien Dioma:

“Abbiamo voluto dire che l’Africa ha una dinamica culturale forte. Si parla sempre di miseria, di fame e di guerra, e si dimentica che c’è una incredibile voglia di fare cultura. In Italia arriva poco, ma abbiamo Ousmane Sow, che è fra gli scultori più importanti al mondo, con opere che sono quotate in Borsa… Quando si parla di Africa, sembra sempre che andiamo ad aiutare: invece andiamo a conoscerla. E il cinema può essere il mezzo migliore per capire e iniziare un percorso diverso, di incontro anche con africani che vivono qua”.

Fino all’11 luglio, alla Casa del Cinema di Villa Borghese, il Raff offre la possibilità di riscoprire l’Africa, lontano dai pregiudizi e dagli stereotipi.

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Nella Chiesa e nel mondo



Vescovi greci a Ue e Fmi: dimostrare solidarietà concreta

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“Chiediamo alle istituzioni europee e al Fondo Monetario Internazionale di continuare a mostrare comprensione e, con azioni concrete, di stare accanto ad una popolazione che ha contribuito così tanto all’Europa ma che ora vive in condizioni che non rendono onore né al nostro Paese, né all’Unione europea”: è l’accorato appello dei vescovi greci, in una lettera firmata dal presidente della Conferenza episcopale Franghiskos Papamanolis, vescovo emerito di Syros-Thira-Creta e dal segretario Nikolaos Printezis, arcivescovo di Naxos-Tinos. 

I vescovi citano il recente appello di Papa Francesco
Nel messaggio, indirizzato alla Commissione europea, alla Banca Centrale Europea e al Fondo Monetario Internazionale, i vescovi greci si dicono “vicini alla popolazione del nostro Paese che continua a vivere in condizioni avverse e non decenti negli ultimi anni”. “Non è compito nostro attribuire responsabilità per queste responsabilità - affermano -. A noi, come Chiesa, compete il dovere di stare accanto alla gente che soffre. Ma non possiamo farlo in questo modo! Naturalmente, la crisi finanziaria non ha escluso la Chiesa”. I vescovi citano il recente appello di Papa Francesco, il 1° luglio scorso, tramite la Sala Stampa vaticana, e quello dei vescovi cattolici francesi del 7 luglio a favore della popolazione greca. 

Dimostrare responsabilità e vera solidarietà
I vescovi greci chiedono ai vertici Ue e Fmi di “dimostrare responsabilità e vera solidarietà con buona volontà, due pilastri della democrazia su cui si basa il presente e il futuro dell’Unione europea”. “Speriamo che i leader dell’Unione europea e dell’Eurozona - concludono - rimangano uniti e che, senza violare lo spirito delle leggi delle istituzioni che rappresentano, in collaborazione con il Fondo Monetario Internazionale”, facciano ciò il necessario per aiutare “i cittadini attualmente deboli in termini finanziari appartenenti ad uno Stato membro”, perché “la grande maggioranza dei greci crede nell’appartenenza all’Unione Europea e all’euro”. (R.P.)

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Sud Sudan: nuova iniziativa di pace della Chiesa

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La Chiesa cattolica ha annunciato una nuova iniziativa di mediazione per portare la pace in Sud Sudan, dal dicembre 2013 sconvolto dalla guerra civile tra il Presidente Salva Kiir e l’ex Vice Presidente Riek Machar. L’annuncio è stato fatto da mons. Paolino Lukudu Loro, arcivescovo di Juba, durante un momento di preghiera dedicato al quarto anniversario dell’indipendenza del Sud Sudan.

Mons. Lukudu ha invitato i due leader a non lasciare il Paese nel caos
Secondo quanto riporta Radio Bakhita, ripresa dall'agenzia Fides, mons. Lukudu ha sottolineato come i due leader sud-sudanesi hanno finora ignorato gli appelli lanciati dalla Chiesa per riportare la pace. Per causa loro, ha aggiunto l’arcivescovo di Juba, è il tempo del pianto e del cordoglio, e non della celebrazione. Mons. Lukudu ha invitato i due leader a non lasciare il Paese nel caos quando spariranno dalla scena politica ed ha concluso lanciando un appello a tutti i sud-sudanesi di pensare al Sud Sudan come ad una nazione e non invece a dividersi tra diversi leader e fazioni armate. (L.M.)

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Iraq: cristiani rapiti e uccisi nonostante pagamento del riscatto

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Nell'arco di due settimane, a Baghdad, quattro cristiani iracheni sono stati rapiti, e per due di loro il sequestro è finito tragicamente: dopo il pagamento del riscatto, sono stati ritrovati senza vita dalla polizia. Il corpo di Quais Abdul Shaya è stato riconsegnato ai familiari, nonostante avessero pagato ai rapitori un riscatto pari a 25mila dollari. La stessa sorte è toccata a Saher Hanna, che lavorava al Ministero dell'interno. Un altro cristiano è stato liberato dai sequestratori dopo che i familiari avevano versato loro una somma pari a 50mila dollari, mentre solo il dottor Bashar al-Ghanem Akrawi ha ritrovato la libertà grazie a un'operazione della polizia nel covo in cui era tenuto recluso.

La denuncia di un parlamentare cristiano
​L'escalation di crimini mirati contro i cristiani della capitale irachena è uno dei fattori che contribuiscono a rendere dolorosa e precaria la loro condizione. Il parlamentare cristiano Imad Youkhana Yako, ieri ha rilasciato un comunicato stampa – ripreso dall'agenzia Fides – allo scopo di sollecitare i suoi colleghi e le forze di sicurezza ad assumersi le proprie responsabilità rispetto a un fenomeno che “fa parte delle intimidazioni subite dalla componente cristiana della popolazione e contribuisce a minare l'unità della società irachena”. (G.V.)

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Vescovi latini Regioni arabe: annunciare la misericordia

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I vescovi cattolici latini del Medio Oriente ringraziano Papa Francesco per aver indetto l'Anno Santo della Misericordia che aiuterà a “predicare la misericordia a tutto il mondo”, e si preparano in particolare a riscoprire nella loro opera pastorale “la bellezza del sacramento della riconciliazione e la pratica delle opere di misericordia spirituale e corporale”. E' questo un impegno riaffermato nel comunicato finale della Conferenza dei vescovi latini delle regioni arabe (Celra), che hanno svolto dal 6 al 9 luglio il loro incontro annuale a Cipro, presso il convento francescano di Santa Croce, a Nicosia. 

Alcun segno di speranza in Siria, Iraq, Yemen e Gaza
Durante gli incontri - riferisce l'agenzia Fides - i vescovi si sono confrontati sulle situazioni pastorali nei rispettivi paesi e sui quattro temi che erano all'ordine del giorno dell'assemblea: la vita consacrata, il futuro della comunità cristiana in Medio Oriente, la famiglia e il Giubileo della Misericordia. “Più di un anno è passato dalla guerra di Gaza e dalla caduta di Mosul, e sono trascorsi cinque mesi da quando la coalizione araba ha dichiarato guerra nello Yemen” si legge nel comunicato riportato da Fides, “ma non vi è alcun segno o barlume di speranza. Nonostante la situazione disperata delle nostre comunità in Siria e in Iraq, insistiamo sul fatto che il nostro futuro dipende dalla forza della nostra fede. Inoltre - aggiungono i vescovi delle regioni arabe - siamo fiduciosi che il dialogo interreligioso può aiutare a migliorare la convivenza con i nostri fratelli musulmani, perché ci sono molte persone di buona volontà che rifiutano il radicalismo e l'intolleranza e rispettano la libertà di coscienza e il pluralismo religioso”.

La Conferenza dei vescovi latini delle regioni arabe raccoglie i vescovi di rito latino presenti nella Penisola arabica e in Siria, Libano, Giordania, Palestina, Israele, Cipro, Gibuti e Somalia. (G.V.)

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Vescovi Nigeria: allarme per approvazione nozze gay in occidente

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Allarme dei vescovi nigeriani sulle ripercussioni in Africa della legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso in alcuni Stati del mondo occidentale (Irlanda, Canada, Spagna, Francia, Stati Uniti).

L'influenza negativa sui giovani nigeriani
In un comunicato pubblicato al termine della loro Assemblea plenaria, ripreso dall’agenzia Fides, i vescovi nigeriani sottolineano che i Paesi che hanno legalizzato il matrimonio omosessuale “producono grandi quantità di contenuti mediatici che sono consumati nel nostro Paese e nel nostro continente, così come gran parte del materiale educativo usato nelle nostre scuole. Inoltre questi Stati offrono generosi aiuti umanitari. In questo modo, il loro modo di vedere, i loro pensieri e tendenze vengono facilmente incorporati nel cuore della nostra società, influenzando molte persone, specialmente i giovani impressionabili”.

Influenza di queste tendenze sulla morale e sui valori
Nel ringraziare per “questi aiuti e interazioni”, i vescovi esprimono la loro preoccupazione “per l’influenza che alcune di queste tendenze potrebbero avere sulla morale e sui valori”. “Accettare queste tendenze occidentali appoggiando le unioni omosessuali o ‘il matrimonio dello stesso sesso’ è un fatto devastante, che andrà a detrimento della nostra nazione, la Nigeria, e porterà all’inevitabile sfaldamento della famiglia e più in generale della società, con altre implicazioni negative”.

Appello ai politici ed ai media
​Il documento conclude lanciando un appello ai leader politici perché “resistano alle pressioni e proteggano i nigeriani dalla propaganda lesbica, gay, bisessuale e transgender” e ai professionisti dei media, della musica, del marketing, della medicina, perché siano “i guardiani che proteggono il pubblico dalla propaganda che viene diffusa attraverso diversi media e forum”. (L.M.)

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Chiese europee: ruolo dei genitori nella vocazione dei figli

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Sono i genitori i primi testimoni, i primi “guardiani” di una vocazione. È il messaggio centrale emerso dal Congresso vocazionale europeo, svoltosi dal 6 al 9 luglio a Praga. Il tema dell’appuntamento continentale, promosso dal Ccee, era “Come accompagnare i giovani al sacerdozio e alla vita consacrata nella famiglia oggi”. L’evento, con quasi 70 partecipanti (19 Paesi rappresentati, compresi gli Usa), tra cui 9 vescovi - riferisce l'agenzia Sir - ha “permesso il conseguimento di un duplice obiettivo”, come spiega una nota dei promotori: “Favorire, tra gli addetti al lavori, il confronto sulle differenti realtà vocazionali nelle rispettive nazioni”, “la condivisione di fatiche e ostacoli, la preghiera per le vocazioni”; e, secondo, “il suggerimento di criteri e orientamenti per il servizio vocazionale”. 

Il contributo al prossimo Sinodo sulla famiglia
È emerso in particolare “il desiderio di poter offrire alcuni input di riflessione, da far pervenire ai Padri sinodali, in vista del prossimo Sinodo sulla famiglia”. Significativa la testimonianza di fede portata da un giovane presbitero ceco, don Kamil Skoda, insieme ai suoi genitori, raccontando la loro esperienza sul tema “Quale influenza può avere la famiglia sulla vocazione sacerdotale”. 

Educazione alla fede della famiglia e accoglienza vocazionale
Durante le giornate di Praga è giunta anche la testimonianza di don Jan Balik, direttore per la pastorale giovanile della Repubblica Ceca, che si è focalizzato sul “servizio della Chiesa ai giovani nel periodo comunista”. Don Filip Hacour, direttore per la pastorale delle vocazioni del Belgio (area fiamminga), ha offerto una riflessione sulla realtà della famiglia, dei giovani nel contesto della secolarizzazione. Tra i relatori i coniugi Attilio Danese e Giulia Paola Di Nicola, entrambi docenti presso l’Università di Chieti (Italia), i quali hanno proposto una lettura della situazione socioculturale della famiglia in Europa: “Criteri e orientamenti per un’educazione alla fede e un’accoglienza vocazionale”. 

I genitori non sono promotori della vocazione dei figli
​A partire dai alcuni dati sociologici e antropologici, hanno individuato le ragioni soggiacenti all’attuale crisi del matrimonio e dell’istituzione familiare “cosicché, individuate le cause, i giovani possano essere aiutati a ripensare al matrimonio nella qualità e nelle motivazioni di questa scelta”. Una ulteriore relazione - “Come accompagnare i giovani al sacerdozio e alla vita consacrata a partire dall’attuale contesto familiare” - è stata introdotta da mons. Jorge Carlos Patròn Wong, segretario per i Seminari della Congregazione per il clero. “I genitori - ha affermato - non sono promotori della vocazione dei figli, né progettisti di essa, ma ne sono i primi testimoni, i primi guardiani che vegliano, che incoraggiano e che confermano”. (R.P.)

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Vescovi Venezuela: l'esperienza cristiana deve incidere sulla società

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A conclusione della sua Assemblea ordinaria n.104, la Conferenza episcopale del Venezuela ha pubblicato una esortazione pastorale che prende spunto dal versetto biblico "Conosco le sofferenze del mio popolo" (Esodo 3,7), per esprimere la preoccupazione dei vescovi e le loro richieste alla comunità nazionale. In 29 punti, il documento pervenuto a Fides invita a riflettere sugli eventi che vive il continente e il Paese: la visita apostolica di Papa Francesco in America Latina, la pubblicazione della enciclica Laudato Si, la beatificazione dell'arcivescovo Oscar Arnulfo Romero, l'entusiasmo per il prossimo Incontro Nazionale dei Giovani (Enajo).

Il popolo venezuelano vive in grosse difficoltà
L’esortazione analizza i principali problemi che vive la società: "Il popolo venezuelano chiede migliori condizioni di vita quotidiana; chiede una maggiore sicurezza e protezione per il diritto alla salute e all'alimentazione. L'intera nazione soffre la mancanza di farmaci e di cure ospedaliere e di molte altre carenze. Chiede maggiore sicurezza contro la violenza sfrenata, l'impunità e il traffico di droga. Le interruzioni del servizio elettrico e del servizio di acqua potabile in tutto il Paese, colpiscono sia la vita familiare che il lavoro, e generano angoscia e danni".

Tenere conto dell'interesse dei poveri
Dinanzi a questa situazione, i vescovi ricordano: "Tutti siamo necessari. Il Venezuela è di tutti. Ognuno di noi ha l'obbligo morale di fornire il meglio, nel perseguimento del bene comune, tenendo conto degli interessi dei poveri, perché non siano loro a sopportare il peso più oneroso delle misure adottate". Poi aggiungono: "Vogliamo costruire un Paese che concepisca la politica come l'arte di armonizzare i diversi modi per cercare il consenso e il bene comune di tutti i venezuelani, non insistendo sulla polarizzazione, le differenze, il rifiuto di riconoscere l'altro".

Continuiamo a costruire una Chiesa povera e dei poveri
​Ricordando che "tutto il popolo deve partecipare responsabilmente al processo elettorale del prossimo dicembre”, i vescovi sottolineano che questa “è l'occasione della ricostruzione politica e sociale del Paese”. Il documento si conclude con un invito: "Come cittadini e come credenti, sappiamo che l'esperienza cristiana deve portare a conseguenze sociali. Continuiamo a costruire una Chiesa povera e dei poveri, in atteggiamento missionario, in una permanente attività di conversione, disponibile e samaritana, che riesca ad insegnare, predicare e guarire con atteggiamento misericordioso".
(C.E.)

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Perù: Campagna della Chiesa per i bambini abbandonati

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La Conferenza episcopale peruviana ha dedicato la Campagna di solidarietà “Condividere 2015” ai bambini abbandonati. Durante la conferenza stampa per il lancio della campagna, mons. Fortunato Pablo Urcey, vescovo di Chota e segretario generale dell’episcopato ha ricordato che l’obbiettivo di questa iniziativa è quello di sensibilizzare la popolazione sulla realtà dei settori più disagiate della società e incoraggiare la collaborazione e l’impegno con dei progetti sociali,  in questo caso, a favore dell’infanzia abbandonata.

Circa 20 mila bambini  sono soli
Secondo uno studio presentato durante il lancio della campagna, l’assenza di una politica dello Stato indirizzata specificatamente ai bambini abbandonati è una delle principali cause di questo problema sociale. Le statistiche più recenti che si riferiscono al 2011 indicano che più di 17 mila bambini peruviani vivono al di fuori del proprio contesto familiare. Una condizione che è palesemente in aumento nonostante la discreta crescita economica del Paese in questi ultimi anni.

Ad agosto la raccolta fondi
“Condividere” è una iniziativa promossa dalla Conferenza episcopale peruviana dal 1990 che ogni anno riesce a coinvolgere con successo diversi settori sociali, economici e politici del Paese nei programmi e progetti di solidarietà che in passato hanno evidenziato problematiche come la tratta di persone, la violenza contro le donne e i bambini, i migranti, la  tossicodipendenza, gli anziani abbandonati, le persone portatori di Hiv-Aids, ecc.  Ci saranno due giornate pubbliche di raccolta fondi il 28 e 30 agosto prossimi, il cui ricavato sarà destinato a promuovere progetti concreti per i bambini abbandonati e per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo doloroso fenomeno sociale. (A cura di Alina Tufani)

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Unitalsi distribuisce a immigrati medicine donate dal Papa

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Si chiama “Solidarietà senza confini” il progetto lanciato dai volontari dell'Unitalsi di Roma in collaborazione con la cattedra di Malattie Infettive dell’Università di Tor Vergata. Si tratta della prima unità di strada che sta intervenendo nei campi spontanei di transito per gli immigrati nella zona della Tiburtina. Agli immigrati ospiti del "Centro Baobab", in zona Tiburtina, vengono distribuiti i medicinali donati dall'Elemosiniere del Papa e in particolare 50 kg di farmaci anti-scabbia, 100 confezioni di antibiotici e antistaminici e 50 pomate antimicotiche. Nell'unità di strada sono presenti un medico e due studenti di Medicina di Tor Vergata e due volontari Unitalsi, oltre a Lucia Ercoli, direttore di Medicina solidale, e ad Aldo Morrone, direttore dell'Istituto mediterraneo di ematologia.

"Il Papa non ci abbandona mai – afferma in una nota la Ercoli – e attraverso il suo Elemosiniere ci ha voluto ancora una volta supportare nella nostra attività di sostegno e di cura delle persone immigrate che arrivano a Roma”. Grazie alla collaborazione con l’Unitalsi di Roma, dice, “abbiamo creato una vera e propria unità i strada che sta intervenendo oggi nella zona Tiburtina in tutti quei campi spontanei dove la necessità di medicinali e di cura è sempre più alta viste anche le temperature torride".

A farle eco è il presidente dell’Unitalsi, Alessandro Pinna, che parla del progetto come di "un percorso di solidarietà e di speranza” che “prosegue proprio a partire dagli ultimi e dagli invisibili. Ora abbiamo deciso – sottolinea – di andare incontro al bisogno con i nostri mezzi e con il sostegno scientifico e professionale di Medicina Solidale. Credo che si un segnale forte per prepararci al Giubileo della Misericordia”.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 191

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.