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Sommario del 11/07/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa alle autorità del Paraguay: politica dia priorità ai poveri

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Una fitta pioggia ha accolto il Papa ad  Asunción, capitale del Paraguay, terza e ultima tappa del viaggio in America Latina. Il maltempo non ha scoraggiato i paraguayani che si sono riversati in massa sulle strade per dare un caloroso benvenuto a Francesco. Ce ne parla Sergio Centofanti

Ammirevole tenacia dei paraguayani di fronte alle avversità
All’aeroporto di Asunción, la cerimonia di benvenuto ha visto una suggestiva coreografia con danze e cori guaranì. Ad accogliere Francesco il presidente Horacio Cartes. Per il primo discorso pubblico si è dovuto attendere l’incontro con le autorità nel Palazzo presidenziale. Il Papa ringrazia per il calore dell’ospitalità, ma subito ricorda la dolorosa storia del Paraguay tra ‘800 e ‘900: “la sofferenza terribile della guerra, dello scontro fratricida, della mancanza di libertà e della violazione dei diritti umani”:

“Cuánto dolor y cuánta muerte...
Quanto dolore e quanta morte! Ma sono ammirevoli la tenacia e lo spirito di reazione del popolo paraguayano per superare le tante avversità e continuare gli sforzi per costruire una nazione prospera e pacifica”.

Le donne hanno portato il peso più grande
Riferendosi ai conflitti del passato con altri Paesi latinoamericani, Papa Francesco esprime tutta la sua "ammirazione" per le donne paraguayane che hanno saputo reagire ai massacri dei loro uomini, a una "guerra iniqua che arrivò quasi a distruggere la fraternità dei nostri popoli":

“Sobre sus hombros de madres …
Sulle loro spalle di madri, mogli e vedove hanno portato il peso più grande, sono state in grado di portare avanti le loro famiglie e il loro Paese, infondendo nelle nuove generazioni la speranza di un domani migliore. Dio benedica la donna paraguayana, la più gloriosa dell'Ametrica Latina!”.

Mai più guerra tra fratelli
Il Papa afferma l'importanza della memoria poggiata "sulla giustizia" e libera da sentimenti di vendetta e di odio" e parla "dell’assurdità della guerra”:

“Nunca más guerras entre hermanos…
Mai più guerra tra fratelli! Costruiamo sempre la pace! Anche una pace del giorno per giorno, una pace della vita quotidiana, a cui tutti partecipiamo evitando gesti arroganti, parole offensive, atteggiamenti prepotenti, e promuovendo invece la comprensione, il dialogo e la collaborazione”.

Dare priorità ai poveri
Quindi, riconosce che già “da alcuni anni, il Paraguay è impegnato nella costruzione di un progetto democratico solido e stabile” e a combattere la corruzione e incoraggia a "consolidare le strutture e le istituzioni democratiche”, evitando ogni tentazione di “democrazia formale”. Esorta a “potenziare il dialogo come mezzo privilegiato per favorire il bene comune, sulla base della cultura dell’incontro, del rispetto e del riconoscimento delle legittime differenze e delle opinioni degli altri” e a superare le conflittualità e le divisioni ideologiche:

“Los pobres y necesitados …
I poveri e i bisognosi devono occupare un posto prioritario. Si stanno compiendo molti sforzi perché il Paraguay progredisca sulla via della crescita economica. Ci sono stati passi importanti nei campi dell’istruzione e della sanità. Non si fermi lo sforzo di tutti gli attori sociali, fino a quando non ci saranno più bambini senza accesso all’istruzione, famiglie senza casa, lavoratori senza un lavoro dignitoso, contadini senza una terra da coltivare e tante persone costrette a migrare verso un futuro incerto; finché non ci saranno più vittime della violenza, della corruzione o del narcotraffico. Uno sviluppo economico che non tiene conto dei più deboli e sfortunati, non è vero sviluppo”.

La dignità degli indifesi sia misura del modello economico
La misura del modello economico – ribadisce - dev’essere la dignità integrale dell’essere umano, soprattutto quello più vulnerabile e indifeso”. Il Papa assicura la collaborazione della Chiesa Cattolica per “una società equa e inclusiva” e indica “la via della misericordia” aperta da Cristo, che “poggiando sulla giustizia, va oltre, e illumina la carità, in modo che nessuno si tenga ai margini” della società.

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Asunción. Papa ai piccoli malati: siete dei "veri lottatori"

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Dobbiamo "imparare” dalla fiducia, gioia, tenerezza dei bambini. Papa Francesco è stato questo pomeriggio ad Asunción, in Paraguay, nell’ospedale pediatrico “Niños de Acosta Ñú”. Francesco ha visitato tre reparti e poi ha incontrato una rappresentanza dell’ospedale. Il servizio di Alessandro Guarasci

C’è un rapporto speciale tra il Papa e i piccoli ammalati. Non è infatti la prima volta che entra in un ospedale pediatrico. E anche in questo suo viaggio in America Latina Francesco ha voluto visitare i bambini che sono in un letto di un nosocomio. Dapprima un momento privato con i piccoli, al riparo dagli occhi delle telecamere, poi un saluto alle migliaia di persone nello spazio antistante l'edificio. Il Papa chiama questi giovani malati “veri lottatori”.

“Dobbiamo imparare da voi, dalla vostra fiducia, gioia, tenerezza - dice il Pontefice - Dalla vostra capacità di lotta, dalla vostra fortezza. Dalla vostra imbattibile capacità di resistenza”.

Una forza che aiuta anche gli adulti ad andare avanti. Il Santo Padre si rivolge direttamente ai tanti genitori presenti oggi a Niños de Acosta Ñú: “So che non è per niente facile stare qui. Ci sono momenti di grande dolore, di incertezza. Ci sono momenti di angoscia forte che opprime il cuore e ci sono momenti di grande gioia. I due sentimenti convivono, sono dentro di noi. Ma non c’è miglior rimedio che la vostra tenerezza, la vostra vicinanza”.

Un ospedale, questo, che conta un centinaio di posti letto, e dove si curano malattie gravissime, una vera isola di speranza in un Continente immenso. E il Papa quindi ringrazia i medici, gli infermieri, insomma tutto il personale, che non solo cura ma “accompagna” il dolore di tanti. Un compito che può essere aiutato dalla vicinanza di Gesù, che “sta bene vicino, nel cuore”. D’altronde, rimarca il Pontefice, “i bambini sono tra i prediletti di Gesù. Non è che non voglia bene ai grandi, ma si sentiva felice quando poteva stare con loro…. Li portava come esempio”. Un esempio anche per i discepoli: “Se non diventerete come i  bambini non entrerete nel regno dei Cieli”.

E poi ricorda: “Dove c’è un bambino c’è la madre. Dove c’è Gesù c’è Maria, la Vergine di Caacupe. Chiediamo a Lei che vi protegga col suo manto, che interceda per voi e le vostre famiglie. E non dimenticatevi di pregare per me. Sono sicuro che le vostre preghiere arrivano al cielo”.

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Il Papa in Paraguay. L'arcivescovo di Asunción: un regalo di Dio

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In Paraguay è esplosa la gioia per l'arrivo del Papa. Su questa visita, la nostra inviata Linda Bordoni ha intervistato l’arcivescovo di Asunción, mons. Edmundo Ponciano Valenzuela Mellid

R. – Abbiamo veramente aspettato tanto questo momento. Finalmente, con grande gioia, siamo arrivati a questa visita che per noi è un regalo di Dio, che noi non ci aspettavamo, perché siamo un piccolo Paese: un Paese cattolico, mariano, di profonda fede, con una struttura ecclesiale povera, ma che può essere migliorata da quello spirito missionario che il Papa Francesco ci donerà.

D. – Ho percepito tanta partecipazione di tutti, di tutta la popolazione, qui ad Asunción…

R. – Per me, questa è veramente l’educazione del nostro popolo e una grande evangelizzazione. L’incontro con il Papa è cominciato con questa preparazione: ognuno si è assunto tre impegni. Il primo impegno, la preghiera: abbiamo chiesto a tutti, a tutte le famiglie, di fare una preghiera per questa visita. Il secondo impegno, l’informazione: quindi sapere chi ci visita; chi è questo Papa; conoscere la storia dei Papi, degli ultimi Papi che abbiamo avuto e che sono eccellenti; ma informazione anche su cosa significa la presenza della Chiesa nel mondo. Un’informazione esatta e precisa sugli scopi di questa visita, perché c’è tanta disinformazione e anche alla Chiesa si fa dire qualcosa che non ha detto. Il terzo impegno, l’organizzazione: un’organizzazione responsabile, gioiosa, serena e di solidarietà. Posso dire che ho visto in tutte le comunità, in tutte le diocesi, in ogni parrocchia e soprattutto qui nell’arcidiocesi di Asunción una partecipazione eccezionale, come mai nella storia del Paraguay.

D. – Vedo anche tanta gioia…

R. – E’ vero! La gioia scaturisce subito da uno spirito pronto. Abbiamo anche chiesto ai parroci la disponibilità di confessare, di cercare di fare in modo che le persone possano avere il perdono e la misericordia di Dio. Da questo cuore esce questa gioia, che tutti noi stiamo vedendo.

D. – Cosa spera che lascerà, con voi, questo Papa quando partirà domenica sera?

R. – Il Papa ci lascerà una comunità cristiana, cattolica. Ci lascerà una Chiesa più unita; una Chiesa più missionaria, una Chiesa più sensibile all’ecologia e alla protezione del Creato; una Chiesa che accompagna i campesinos, gli indigeni, i poveri; una Chiesa più aperta anche al dialogo multiculturale; una Chiesa veramente di Gesù Cristo, come segno della salvezza per tutti, senza alcuna discriminazione. A livello di Stato e di governo, noi ci aspettiamo e ci auguriamo una vera riconciliazione tra i politici che in questo momento, con questa campagna per le elezioni municipali, sono in contrapposizione e certamente non viviamo una educazione politica molta buona. Ci aspettiamo che i politici possano capire che la buona politica è fatta di dialogo e di capacità di affrontare i problemi non con “parolacce”, ma con la razionalità e con l’amorevolezza. Speriamo quindi che riescano a pensare non tanto ai loro particolari interessi, ma al patriottismo, all’interesse nazionale, al bene comune, alla dignità di ogni persona umana e soprattutto al bene delle famiglie.

D. – Il Paraguay potrebbe essere un paradiso per le sue risorse, per l’energia, per quello che avete, ma non lo è per tutti!

R. – Effettivamente il Paraguay ha tante risorse: la produzione agro e zootecnica, il Paraguay è il quarto Paese nel mondo per l’esportazione di bestiame; la produzione di soia… Abbiamo una terra e un sole così bello e così adatto per una agricoltura che potrebbe soddisfare la fame nel mondo: certo, esagerando un po’… Abbiamo due dighe importantissime, quella di Itaipú  e quella di Yacyretá, che rappresentano veramente una risorsa fondamentale  in aeternum per il benessere stesso del Paese. Quando però c’è una politica corrotta, quando queste risorse non arrivano all’istruzione, alla salute, alla popolazione indigena per la loro produzione agricola, la produzione familiare o quando arrivano semplicemente in alcune tasche, allora non possiamo avere che ingiustizia e diseguaglianza. Aspettiamo che il Papa ci dica: “Siete un Paese bellissimo! Con una popolazione di sette milioni di abitanti potete fare un paradiso! Ma questo è compito vostro!”.

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Francesco tra i detenuti di Palmasola: Gesù dà la forza di ricominciare

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La reclusione non vuol dire esclusione, ma parte di un processo di reinserimento nella società. Così il Papa nell’incontro con i detenuti del carcere di Palmasola di Santa Cruz de la Sierra, una delle ultime tappe boliviane prima della partenza per il Paraguay. L’istituto penitenziario è il più grande della regione: esteso 10mila metri quadrati, pur avendo una capienza di 800 posti, ospita attualmente 5mila persone. Il servizio del nostro inviato Paolo Ondarza

Il Papa: sono un uomo salvato dai suoi molti peccati
Resteranno reclusi forse ancora a lungo; molti, troppi in attesa di una sentenza che non arriva. Sono i circa 5mila detenuti di Palmasola, rinchiusi in una città carcere adibita ad ospitare appena 800 persone. Per un ora la libertà, quella vera portata da Cristo Risorto, ha spalancato spiritualmente le porte di questa periferia nella periferia, luogo simbolo dell’esclusione sociale. Accolto dall’abbraccio dei bambini, dalle lacrime dei carcerati, dalle loro testimonianze dell’iniquità subita e dalle denunce di un immobilismo delle istituzioni in un luogo in cui vige la legge del più forte, il Papa si presenta con umiltà: anche io ho i miei errori – dice - sono un penitente:

“El que está ante ustedes es un hombre perdonado...
Quello che sta davanti a voi è un uomo perdonato. Un uomo che è stato ed è salvato dai suoi molti peccati. Non ho molto da darvi o offrirvi, ma quello che ho e che amo voglio condividerlo: Gesù Cristo, la misericordia del Padre”.

In Gesù si ritrova la forza di ricominciare
Cristo – spiega Francesco - è venuto a mostrare l’amore visibile per ognuno di noi: “un amore che guarisce, perdona, rialza, cura: si avvicina e restituisce dignità. “Gesù – dice il Papa - è ostinato: ha dato la vita per restituirci dignità”.

“Porque cuando Jesús entra en la vida...
Perché quando Gesù entra nella vita, uno non resta imprigionato nel suo passato, ma inizia a guardare il presente in un altro modo, con un’altra speranza. Uno inizia a guardare se stesso, la propria realtà con occhi diversi. Non resta ancorato in quello che è successo, ma è in grado di piangere e lì trovare la forza di ricominciare”.

La reclusione non sia esclusione
Nelle piaghe di Cristo - spiega il Santi Padre invitando i detenuti a parlare con i sacerdoti -  trovano posto le nostre piaghe. Per essere curate, lavate, trasformate, risuscitate. Egli è morto per voi, per me, per darci la mano e sollevarci. Il Papa dà voce alle istanze dei detenuti di Palmasola, dimostrando di conoscere bene le gravi carenze della struttura: sovraffollamento; lentezza di processi, 4 detenuti su 5 sono in attesa di giudizio; mancanza di politiche riabilitative; violenza: solo 2 anni fa nello scontro fra bande rivali culminato in un incendio perse la vita anche un bimbo di due anni; quindi esorta le istituzioni:

“Reclusión no es lo mismo que exclusión…
La reclusione non è lo stesso di esclusione, perché la reclusione è parte di un processo di reinserimento nella società”.

Le divisioni sono una tentazione del diavolo
Poi fa appello alla responsabilità dei detenuti e dice loro: la convivenza dipende da voi, non cedete alla tentazione della divisione, delle fazioni, sono tentazioni del diavolo:

“El sufrimiento y la privación pueden volver nuestro corazón egoísta...
La sofferenza e la privazione possono rendere il nostro cuore egoista e dar luogo a conflitti, ma abbiamo anche la capacità di trasformarle in occasione di autentica fraternità”.

Ridare dignità, non umiliare
Infine una parola di incoraggiamento a quanti lavorano nel centro di rieducazione di Palmasola:

“Tienen una importante tarea en este proceso de reinserción...  
Avete il compito di rialzare e non di abbassare; di dare dignità e non di umiliare; di incoraggiare e non di affliggere. Un processo che chiede di abbandonare una logica di buoni e cattivi per passare a una logica centrata sull’aiutare la persona. Creerà condizioni migliori per tutti. Un processo vissuto così ci nobilita, ci rialza tutti”.

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Incontro del Papa con i vescovi boliviani: annunciare misericordia di Gesù

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Prima della cerimonia di congedo dalla Bolivia, il Papa ha incontrato i vescovi del Paese nella parrocchia della Santa Cruz. Su questo evento, il nostro inviato Paolo Ondarza ha intervistato mons. Oscar Aparicio Céspedes, presidente della Conferenza episcopale boliviana. Il presule ha parlato di un incontro molto familiare, in un clima di comunione, un dialogo chiaro. I vescovi hanno presentato al Papa le sfide della Chiesa in Bolivia. Il Papa li ha incoraggiati indicando il cammino di Aparecida, la strada della missionarietà e del servizio ai poveri.

Mons. Céspedes ha sottolineato che sia il Papa che i vescovi erano consapevoli del rischio di strumentalizzazione della visita, ma il Papa ha parlato chiaro: poi chi vuole capire capisce e chi non vuole ...

Infine, il presidente dei vescovi boliviani ha sottolineato che il messaggio del Papa è quello di aprire i cuori a Cristo, di annunciare un Gesù vicino a noi, che cammina con noi e ha tanta misericordia. 

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Il card. Ezzati: il Papa ha invitato Bolivia e Cile al dialogo

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Segue il viaggio del Papa in America Latina anche il cardinale Ricardo Ezzati Andrello, arcivescovo di Santiago del Cile. Ai nostri microfoni, il porporato riflette in particolare sulla questione dello sbocco al mare che la Bolivia ha perso nel passato e che vede un contenzioso con il Cile. Il nostro inviato Paolo Ondarza gli ha chiesto innanzitutto un primo bilancio della visita in Ecuador e Bolivia: 

R. – Il Papa ha avuto non solamente una calorosa accoglienza, ma anche un ascolto molto, molto attento da parte della gente. Il suo è sempre un messaggio di pace, di fraternità e quindi un discorso che entra nel cuore della gente. Credo che il Papa stia facendo veramente un gran bene all’America Latina e in modo particolare all’Ecuador, adesso alla Bolivia e speriamo che sia così anche in Paraguay.

D. – L’appello a costruire ponti, a non erigere muri, a dialogare tra Paesi vicini. E il Papa inevitabilmente ha citato la questione dello sbocco al mare …

R. – Certo! Il Papa è Pontefice, parte della sua missione è costruire ponti, è dire la verità anche sulla strada che bisogna percorrere: la strada che bisogna percorrere è la strada del dialogo. Noi ci capiamo e abbiamo fiducia nella misura in cui dialoghiamo; ci sediamo allo stesso tavolo e abbiamo la pazienza di portare avanti questo dialogo. Il richiamo del Papa penso che sia veramente molto, molto necessario per la Bolivia e anche per il Cile.

D. – Eminenza, quello del dialogo è una indicazione, è una meta che il Papa indica. Oggi tra Cile e Bolivia i rapporti come sono?

R. – Tra di noi sono buoni: c’è un punto che bisogna chiarire e si chiarisce, appunto, con il dialogo. Non c’è altra strada se non quella del dialogo per chiarire le situazioni. Il dialogo non è solamente una meta, ma è anche una metodologia.

D. – Crede che queste parole poteranno dei frutti?

R. – Io penso di sì! Penso che il primo frutto già lo ha portato.

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Bolivia. Suor Micaela: Francesco ha portato una speranza nuova

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Tra le parole forti del Papa in Bolivia, ci sono state quelle rivolte ai sacerdoti, i religiosi e i seminaristi a Santa Cruz. Francesco ha affermato che i cristiani non sono testimoni di una ideologia, ma della misericordia di Gesù che li rende capaci di avvicinarsi al dolore della gente. Guai ad una fede indifferente o chiusa in stessa, che passa oltre il grido di chi soffre. Di queste esortazioni, il nostro inviato Paolo Ondarza ha parlato suor Micaela Princiotto missionaria delle Beatitudini da 26 anni in Bolivia, dove è impegnata nel campo dell’educazione: 

R. – Il Papa, tante volte, nei suoi incontri e nei suoi discorsi, soprattutto sulla vita religiosa, richiama le Beatitudini, che sono la “Magna charta” del Vangelo, della vita cristiana. Le Beatitudini sono proprio questo: non passare mai oltre il grido dell’altro, il bisogno dell’altro, le lacrime dell’altro.

D. – Il Papa ha detto “mettere radici nella vita della persona che si incontra”…

R. – E’ bellissimo! Questo significa che uno assume su di sé quelle che sono le pene, le sofferenze, ma anche le gioie degli altri. San Paolo ci dice: “Ridi con chi ride e piangi con chi piange”.

D.- Un po’, forse, la malattia dei nostri giorni: l’essere distratti e passare oltre…

R. – Più che distratti, siamo troppo concentrati su noi stessi, sulla ricerca della felicità, del benessere che, però, interessa solo me! E ci scordiamo che quando io cerco la felicità solo per me, non la incontrerò mai!

D. – Suor Micaela, vorrei fare un piccolo passo indietro: il Papa, durante la cerimonia di benvenuto, constatando il progresso materiale che la Bolivia ha vissuto negli ultimi anni, ha anche evidenziato la necessità di lavorare sull’educazione dei cittadini, perché solo il progresso materiale rischia di creare addirittura – ha detto - nuove differenze. Nel campo dell’educazione queste parole cosa vogliono dire, visto l’impegno che voi quotidianamente avete?

R. – Ci vengono giù come una benedizione! Perché in realtà in questo Paese, che sta vivendo un benessere speciale, purtroppo non è migliorato di molto il tema educativo. Anzi, in questo momento abbiamo una legge che cerca di imporre un modello unico educativo, in cui si sta spendendo molto, ma senza alcun risultato positivo; non si sta facendo una inversione seria per una vera formazione dei maestri e non ci si preoccupa per i valori morali ed etici dei bambini, per cui – per esempio – la materia di religione, etica e morale, è stata una materia molto discussa e lo è ancora. In generale, il sistema educativo non si è arricchito. E per una ideologia che ha voluto imporsi nell’educazione, siamo tornati indietro di parecchi anni. Questo è quello che ci preoccupa, perché poi l’educazione è quella che fa un popolo.

D. – Un tempo breve ma veramente ricco di contenuti, queste ore che il Papa ha trascorso in Bolivia. Quale eredità lascia questo passaggio di Papa Francesco in Bolivia?

R. – Io seguo molto i discorsi, la catechesi, quello che il Papa dice e quindi quello che ha detto ora qui non è nuovo: è il pensiero del Papa, è quello che sempre ribadisce. Quello che mi sembra molto bello è che la gente lo abbia accolto e abbia sentito che il passaggio del Papa fra di noi può portare una speranza nuova. Credo che il Papa ci abbia tante indicato orientamenti, in vari settori e in vari aspetti, su cui dovremmo riflettere e pensare meglio da qui in avanti. Io, più che una eredità, sento che mi porto dentro ora una nuova sfida: come faccio e che faccio io per far crescere quei semi che il Papa generosamente ha seminato?

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L'augurio del Papa all'amata Argentina: cresca impegno per giustizia e pace

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In volo verso il Paraguay, Papa Francesco ha inviato messaggi augurali ai presidenti dei Paesi sorvolati, Bolivia e Argentina. In particolare, rivolgendosi  a Cristina Fernández De Kirchner, presidente della “amata patria argentina",  Francesco esprime  la sua “vicinanza e affetto a cara amata Nazione” invocando su di essa abbondanti benedizioni perché possa “progredire nei valori umani e spirituali, aumentando l'impegno per la giustizia e la pace”.

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Egitto, attentato. Papa: combattere la piaga del terrorismo

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Un’autobomba è esplosa questa mattina davanti al consolato italiano del Cairo in Egitto. Un poliziotto egiziano, di guardia all’edificio, è rimasto ucciso, mentre almeno nove sono i feriti tra i passanti. In un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, Papa Francesco esprime "viva preoccupazione" e una "ferma condanna" di questo e degli altri attentati già avvenuti nel Paese, esortando le forze politiche e religiose di ogni livello a "unire i loro sforzi per combattere con sempre più determinazione la piaga del terrorismo e promuovere la concordia e la solidarietà". L’attacco, che non è stato rivendicato, è stato condannato dal presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, e dal presidente egiziano, Al-Sisi. “Italia ed Egitto sono e saranno insieme nella lotta contro il terrorismo e il fanatismo”, si legge in una nota di Palazzo Chigi, mentre il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, parla di “attentato vile”. Tra i primi a raggiungere il luogo dell’attentato, il giornalista freelance, Alessandro Accorsi, raggiunto telefonicamente da Michele Raviart: 

R. – La bomba è esplosa alle 6.30 di mattina in una zona abbastanza centrale del Cairo, e l’esplosione è stata molto forte. Ci siamo svegliati tutti e all’inizio non si capiva bene dove fosse esplosa la bomba. Pensavamo addirittura nella zona dove si trova l’ambasciata, perché là ci sono molte ambasciate straniere. Si è pensato alla Corte suprema egiziana, che è stata già teatro di un’esplosione, di un attentato terroristico qualche mese fa e a pochi centinaia di metri dal Consolato poi è diventato chiaro che l’esplosione era avvenuta proprio al Consolato italiano.

D. – Dove è avvenuta di preciso l’esplosione?

R. – L’esplosione è avvenuta in una stradina laterale del Consolato: il Consolato si trova in una zona molto trafficata, a un incrocio tra diverse vie. Sopra c’è una soprelevata molto trafficata… Quindi, in realtà, se l’obiettivo dell’attentato fosse stato quello di uccidere e di produrre un alto numero di vittime, avrebbero potuto mettere la bomba dall’altro lato del Consolato: avrebbero fatto molte più vittime. La bomba era piazzata tra l’ingresso per i visitatori del Consolato e ha squarciato l’intera fiancata laterale. Non c’erano altri obiettivi possibili lì vicino per la bomba, perché nelle vicinanze c’è soltanto un parcheggio. Per questo, sembra proprio che l’obiettivo fosse quello del Consolato.

D. – Cosa hai trovato sul posto?

R. – Quando sono arrivato sul luogo dell’esplosione, c’erano già un centinaio di persone, di egiziani, che erano accorse a vedere cosa fosse successo e tutt’attorno al luogo dell’esplosione c’erano i pezzi di un’auto. In realtà, non si tratterebbe di un’autobomba ma sembrerebbe che ci fosse un ordigno esplosivo abbastanza potente piazzato sotto una macchina, che avrebbe ucciso un soldato, un poliziotto di guardia al Consolato e ferito gravemente alcuni passanti.

D. – Tu che idea ti sei fatto? Perché il Consolato italiano potrebbe essere un obiettivo per questo attentato che ancora non è stato rivendicato?

R. – Sinceramente, è difficile capire perché l’Italia e perché il Consolato italiano. La zona delle ambasciate è diversa, è un’altra. Ci sono altre due zone in cui ci sono tutte le ambasciate straniere. Qualche settimana fa, c’era stata una piccola bomba, che in realtà non aveva creato grossi danni, vicino all’ambasciata italiana ma che era molto più vicina all’ambasciata saudita. Quindi, non è chiaro per quale motivo il Consolato italiano: forse per la posizione in cui è locato, che è abbastanza semplice da colpire, è centrale, e forse per questo era un obiettivo più facile. Forse, era meno protetto rispetto alle zone in cui si trovano tutte le altre ambasciate a Zamalek, nell’Isola di Zamalek, o a Garden City. L’Italia non è tra i governi più critici agli occhi del governo Al Sisi, ma alla fine più o meno tutti i governi europei, nell’ultimo anno, hanno ridotto le loro critiche nei confronti del governo egiziano e hanno accolto a braccia aperte Sisi, nonostante la repressione in corso qua in Egitto.

D. – Appena sei arrivato hai visto già che c’era una folla di un centinaio di persone. La gente, la popolazione come ha reagito di fronte a questo attacco?

R. – La situazione un po’ paradossale è che l’Egitto vive in uno stato di continuo choc per queste bombe. Due settimane fa, c’era stato l’attentato contro il procuratore generale che è stato abbastanza destabilizzante per gli egiziani, perché è stato il primo omicidio mirato da oltre 25 anni contro un alto ufficiale dello Stato. Ma allo stesso tempo, ci si è in qualche modo abituati al terrorismo e alle bombe. Ci sono bombe più o meno piccole che esplodono ogni settimana, il governo continua a ripetere che sta vincendo la guerra contro il terrorismo. In realtà, il numero degli attentati è in aumento. Il problema è che da un lato la strategia terroristica non funziona, nel senso che il supporto al governo non diminuisce. Quello che gli attentati riescono a ottenere, per il momento, è che molti dei giovani della Fratellanza musulmana o di simpatie islamiste, ma anche di gruppi secolari, iniziano a essere attratti dal terrorismo e dal successo che questi attacchi in qualche modo comunque hanno.

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Morto il card. Biffi. Il Papa: amò tenacemente la Chiesa

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Un vescovo che “ha servito con gioia e sapienza il Vangelo e ha amato tenacemente la Chiesa”. Papa Francesco ricorda così, in un telegramma di cordoglio, la scomparsa del cardinale emerito di Bologna, Giacomo Biffi, spentosi la notte scorsa, nella clinica felsinea dove era ricoverato da tempo, all’età di 87 anni. Per circa vent’anni – dal 1984 al 2003 – fu capo dell’arcidiocesi di Bologna come “guida sollecita e saggia”, scrive Francesco, che ne ricorda “l’instancabile servizio” alla “formazione umana e cristiana di intere generazioni”, sottolineando in particolare il “linguaggio diretto e attuale” col quale il porporato si poneva “al servizio della parola di Dio”. I funerali del cardinale Biffi saranno celebrati martedì mattina a Bologna nella cattedrale di San Pietro alle 10.30, presieduti dal cardinale arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra. Il servizio di Luca Tentori

"Si può allora anche dire che tutte le religioni hanno del buono e che tra esse si può scegliere a proprio gusto come si sceglie un libro da leggere o una musica da ascoltare. Si può dire, purchè non ci si dimentichi che il cristianesimo è un’altra cosa. Il cristianesimo è un fatto e i fatti non si scelgono, i fatti sono”.

Parole decise di un insegnamento chiaro e forte. Correva l’anno 1995 quando il cardinale Giacomo Biffi le rivolse ai giovani della sua città d’adozione: Bologna. A 87 anni, l’arcivescovo emerito del capoluogo emiliano, è morto questa notte in una casa di cura. Milanese, o meglio ambrosiano, è stato una figura di spicco dell’episcopato italiano negli anni ‘80 e ‘90. Era nato il 13 giugno del 1928, un dono di Sant’Antonio di Padova alla sua famiglia, come amava ricordare. Ordinato sacerdote per le mani del cardinal Ildefonso Schuster nel 1950 fu insegnante di teologia, parroco a Milano e ausiliare della diocesi meneghina fino al 1984 quando fu nominato arcivescovo di Bologna. Dopo le reticenze iniziali per l’incarico si innamorò presto della sua nuova Chiesa e decise di rimanervi a trascorrere gli ultimi anni della sua vita anche quando terminò il suo servizio pastorale nel 2003 per raggiunti limiti di età. Il suo pensiero di teologo e pastore non passava indifferente negli ambienti ecclesiali e della società Nel 1989 e nel 2007 ha predicato gli esercizi spirituali di quaresima a San Giovanni Paolo II a Benedetto XVI:

“Tre cose noi non dobbiamo dimenticare: la prima è che non siamo degli innocenti, siamo dei salvati. La seconda cosa è che possiamo ancora cadere. Ma noi sappiamo che il Signore è fedele e che vuol darci come dono quella perseveranza che non è nelle possibilità dell’uomo che confida in se stesso. La terza cosa è che di fronte alla debolezza e alle cadute dei nostri fratelli dobbiamo avvertire una specie di corresponsabilità che ci porti a condolerci con loro e talvolta anche a soffrire al loro posto. Al tempo stesso dobbiamo sentirci investiti e assimilati dall’onda della divina pietà, in modo da diventare nei confronti di chi sbaglia raffigurazione della misericordia del Signore”.

Ironico, pungente e schietto preferiva la sintesi alle frammentazioni del sapere e del pensiero teologico. Definì la sua Bologna “sazia e disperata”, organizzò nel 1997 il Congresso eucaristico nazionale a cui partecipò Giovanni Paolo II, rilesse le avventure di Pinocchio, era innamorato di Sant’Ambrogio e in uno dei suoi ultimi libri si definì un “italiano cardinale”. Difficile raccogliere in poche battute il suo impegno e il suo pensiero. Chiara la sua fede escatologica e il suo deciso cristocentrismo.

“La notte sta calando sulle illusioni umane. Essi non sanno o hanno dimenticato che il Signore è veramente risorto ed è con noi vivo e attivo tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Fateglielo sapere voi! Se vi impegnate in questo spenderete bene la vostra unica vita”.

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Papa nomina il card. Tagle membro di "Cor Unum"

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Papa Francesco ha nominato membro del Pontificio Consiglio "Cor Unum" il cardinale Luis Antonio G. Tagle, arcivescovo di Manila nelle Filippine, presidente di Caritas Internationalis.

II Papa ha nominato membri del Consiglio Esecutivo (Executive Board) di Caritas Internationalis gli Eccellentissimi Monsignori: Lucas Van Looy, vescovo di Gent e presidente di Caritas Europa, e Youssef Antoine Soueif, arcivescovo di Cipro dei Maroniti e presidente di Caritas Cipro, oltre a mons. Gerard Patrick Burns, presidente di Caritas Oceania.

Il Pontefice ha nominato consultori della Congregazione delle Cause dei Santi mons. Ennio Apeciti, del clero dell'arcidiocesi di Milano e rettore del Pontificio Seminario Lombardo dei Santi Ambrogio e Carlo in Roma, il sacerdote Francesco Massagrande, del clero della diocesi di Verona e Membro della Pia Società di Don Nicola Mazza.

Papa Francesco ha nominato il card. Francisco Javier Errázuriz Ossa, arcivescovo emerito di Santiago de Chile, suo inviato speciale al VI Congresso eucaristico nazionale del Messico, che sarà celebrato a Monterrey dal 9 al 13 settembre 2015.

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La "Laudato si'" al centro dell'ultimo intervento del cardinale Turkson

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Rispondere alle crisi e alle sfide poste della società globalizzata attraverso la visione offerta dalla dottrina sociale della Chiesa e in particolare dall’ultima Enciclica di Papa Francesco, "Laudato si'". Su questi temi il cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, ha imperniato il suo intervento dal titolo “Vivere il Vangelo nel 21 .mo secolo: la risposta della Chiesa alle crisi del nostro tempo”, rivolto ieri ai partecipanti del seminario internazionale Shalom, in corso a Roma fino al 21 luglio e organizzato dalla Congregazione delle suore di Notre Dame.

Il dicastero guidato dal porporato è stato infatti direttamente convolto nella stesura dell'Enciclica e anche per questo il cardinale Turkson ha deciso di parlare delle realtà globali e delle crisi del nostro tempo, facendo riferimento allo “straordinario recente insegnamento del Santo Padre”.

Partendo dall’assunto che “il nostro mondo è diventato globalizzato ad un livello senza precedenti” e che, con la subordinazione della politica all'economia, gli Stati sono spinti ad anteporre il commercio alla gente e all'ambiente, Il presidente del Pontificio Consiglio  della Giustizia e della Pace ha evidenziato come la "Laudato si'" “affronti” tutti questi problemi, affermando che “l'umanità non è separata dall'ambiente in cui viviamo; piuttosto l'umanità e l'ambiente naturale" sono strettamente legati. “La nostra indifferenza, disastrosa per l'ambiente, è aggravata - ha aggiunto il porporato - da errori gravi che includono una cultura 'usa e getta'" dettata dal consumismo e una fiducia ingenua nei progressi tecnologici e nei mercati commerciali non orientati "a risolvere i nostri problemi ambientali”. Per questo motivo, secondo il cardinale Turkson, è necessario affrontare l’aspetto etico della nostra crisi al fine di “ricuperare la nostra dimensione spirituale fondamentale”.

“Al centro della "Laudato si’" - ha spiegato ancora il porporato - è la domanda: “che tipo di mondo vogliamo lasciare a chi verrà dopo di noi, ai bambini che stanno ora crescendo”? Secondo il cardinale Turkson con questo interrogativo Papa Francesco ha fatto riferimento a “coloro che verranno dopo di noi” con il chiaro intento di abbracciare la famiglia umana multi-generazionale. “Questo - ha sottolineato il porporato - risuona fortemente come un ‘me’ africano. Molte culture tradizionali africane condividono la fede nella presenza reale di un legame tre le generazioni che ci hanno preceduto e quelle che nasceranno in seguito. La famiglia contiene molto più dei singoli, che vivono in ​​questo momento”.

Il presidente del dicastero vaticano ha quindi rivolto la sua attenzione ad “una semplice parola che si ripete più volte nell'Enciclica: la cura”. La cura è centrale; è parte del titolo: “Cura per la nostra casa comune”. Con questo termine  - ha aggiunto - Papa Francesco ci vuole far capire che il nostro rapporto con l'ambiente deve essere più intenso di quello di un lavoratore molto responsabile.

Il cardinale Turkson ha indicato allora l’esempio offerto dalle popolazioni indigene che  “conservano ancora questo senso di essere assolutamente collegate con l'ambiente naturale”. “Siamo tutti collegati - sottolinea il porporato -. Le piante e gli animali e gli esseri umani; sconosciuti, amici e nemici; Dio e l'umanità e il mondo”. “Con la sua ecologia integrale - ha proseguito il presidente del dicastero - Papa Francesco sottolinea che siamo completamente collegati, integrati, con tutto e tutti”.

Ed è muovendo proprio da queste  verità che l’Enciclica, come ha spiegato ancora, “ci riporta alle origini, alle basi dell'esistenza umana” ed esorta ad “un cambiamento delle menti e dei cuori” che porta a riscoprire “la bellezza, la meraviglia, la maestà del nostro pianeta e della nostra esistenza”.

Il cardinale Turkson ha quindi concluso esortando la Congregazione delle suore di Notre Dame ad applicare le riflessioni esposte nel suo intervento nella loro quotidiana attività di insegnamento a bambini, adolescenti e giovani adulti, facendo inoltre riferimento al loro motto: “Trasformare il mondo attraverso l'educazione”.

 

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Il card. Sandri in Belgio per la solennità di San Benedetto

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Il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali ha partecipato oggi in Belgio, su invito dell’abate del Monastero di Chevetogne, alle cerimonie per la Solennità di San Benedetto abate e compatrono di Europa. Il monastero celebra il 90.mo anno dalla fondazione, e costituisce un unicum  in seno all’Ordine Benedettino, come ponte e segno di comunione tra l’Oriente e l’Occidente cristiani: per questo motivo esso ha un legame speciale con la Congregazione per le Chiese Orientali, oltre che offrire una collaborazione per la conduzione del  Pontificio Collegio Greco in Urbe (cfr. scheda informativa allegata).

Domani, il Cardinale Sandri presiederà la Divina Liturgia con la comunità caldea di Bruxelles e porterà il suo saluto a quella greco-cattolica ucraina: in tal modo la Congregazione per le Chiese Orientali continua a manifestare la propria vicinanza ai fedeli nei territori della diaspora, e particolarmente a quelli provenienti da zone di guerra o perdurante crisi. Per essi si intende sempre verificare la possibilità di un accompagnamento pastorale sempre più stabile, mentre si è riconoscenti ai Vescovi latini che li hanno accolti e ne seguono il cammino.

Prima di rientrare a Roma, il porporato si recherà presso l’Abbazia di Bois-Seigneur-Isaac, ora Monastero di San Charbel, affidato dal 2009 ai monaci dell’Ordine Libanese Maronita, ove incontrerà i presbiteri orientali in servizio nell’area di Bruxelles.

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Aperto con rinvio il processo l’ex nunzio Józef Wesołowski

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Si è aperta questa mattina, alle ore 9.30, presso il Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, la prima udienza del processo penale a carico dell’ex nunzio nella Repubblica Dominicana, Józef Wesołowski, “rinviato a giudizio – informa una nota ufficiale, per il reato di detenzione di materiale pedopornografico e atti di pedofilia”.

In apertura di dibattimento, prosegue la nota, il Promotore di Giustizia ha comunicato che l’imputato non era presente in aula “in quanto ricoverato in ospedale”. Il Tribunale “ha preso atto dell’impedimento a comparire dell’imputato, a seguito dell’insorgere di un improvviso malore, che ha reso necessario il suo trasferimento presso una struttura ospedaliera pubblica, ove risulta attualmente ricoverato nel reparto di terapia intensiva”. Di conseguenza, “il Tribunale ha dovuto sospendere il dibattimento e rinviare a data da destinarsi, dovendosi attendere la cessazione della causa che ha dato luogo al rinvio”.

Il collegio giudicante è composto dal presidente, il prof. Giuseppe Dalla Torre, dal prof. avv. Piero Antonio Bonnet, dal prof. avv. Paolo Papanti-Pellettier e dal prof. avv. Venerando Marano, supplente. Il Promotore di Giustizia è il prof. avv. Gian Piero Milano, coadiuvato dal prof. avv. Alessandro Diddi e dal prof. avv. Roberto Zannotti. L’avvocato difensore è il dott. Antonello Blasi.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Sul viaggio del Papa, in prima pagina un editoriale del direttore dal titolo "Elogio della donna".

Il telegramma di cordoglio del Pontefice per la morte del cardinale Giacomo Biffi.

La chiarezza del folle: Giulia Galeotti su normalità e ospedale.

Marcello Filotei su fato e arte: offerta al Papa musica delle Riduzioni del Paraguay.

Un articolo di Ugo Sartorio dal titolo "Tutto è collegato": San Francesco nella "Laudato sì".

Autobomba al consolato italiano del Cairo.

Terrore in Somalia: attaccati due hotel a Mogadiscio.

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Oggi in Primo Piano



Siria, libero p. Azziz. P. Pizzaballa: speranza per altri rapiti

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Il francescano Dhiya Azziz “è stato liberato”. Ad annunciarlo la Custodia di Terra Santa. Il frate iracheno, parroco a Yacoubieh, nella provincia siriana di Idlib, era stato rapito nel nordovest della Siria il 4 luglio scorso. Inizialmente si pensava fosse stato sequestrato da jihadisti affiliati ad al Nusra, emanazione di Al Qaeda nel Paese, ma il gruppo ha poi negato ogni coinvolgimento, indirizzando la polizia verso la pista dei villaggi vicini, che ha infine condotto alla liberazione del religioso. Sulle condizioni di padre Azziz ascoltiamo padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, intervistato da Giada Aquilino

R. – Sono riuscito a sentire brevemente padre Azziz ieri. Sta bene. E’ un po’ stanco, spossato per l’esperienza, ma dice di sentirsi bene.

D. – Non si avevano sue notizie dal 4 luglio: si pensava fosse stato rapito dai jihadisti affiliati ad al Nusra, che è l’emanazione di al Qaeda in Siria. Ora cosa si sa?

R. – Sappiamo che era stato rapito da alcuni gruppi auto-costituiti jihadisti, islamisti, semplicemente banditi o tutte queste cose insieme, comunque gruppi sconosciuti che l’avevano prelevato con il pretesto di portarlo da al Nusra. In realtà, l’avevano rapito a scopo di estorsione e portato nella periferia di Aleppo. Volevano ricattare, in cambio di denaro.

D. – E’ stato pagato un riscatto?

R. – Assolutamente no.

D. – Che zona è quella di Yacoubieh, nella provincia siriana di Idlib, di cui padre Azziz, che è iracheno, è pastore?

R. – Si trova nell’antico Oriente cristiano, al confine con la Turchia, una zona anticamente molto ricca di presenza cristiana: oggi sono rimasti in pochissimi, fra cui il villaggio di padre Dhiya che è ormai da quasi tre anni totalmente sotto il controllo di Jabhat al Nusra.

D. – Come vive la popolazione locale?

R. – E’ una zona di guerra, quindi vive molto male, come succede durante tutti i conflitti. Ci sono tantissime restrizioni sulla vita, soprattutto per i cristiani: sulla possibilità di movimento, sulla possibilità di andare a lavoro, sull’esposizione dei simboli...

D. – Al momento della sua liberazione, padre Azziz ha voluto ricordare gli altri religiosi che sono ancora dispersi in Siria...

R. – Sì, lui si ritiene fortunato, perché è riuscito a uscire dalla sua situazione, ma molti altri, in situazioni credo pressoché identiche, invece hanno avuto una sorte – ahimé – peggiore.

D. – Qual è la preghiera della Custodia di Terra Santa per i religiosi rapiti, tra cui vogliamo ricordare il gesuita italiano Paolo Dall’Oglio, ma anche l’arcivescovo siriaco-ortodosso e il vescovo greco-ortodosso di Aleppo?

R. – Noi ci auspichiamo e preghiamo innanzitutto che siano ancora vivi, perché ormai sono anni che non abbiamo loro notizie e ci auguriamo anche, come nel caso di padre Dhiya, che si possa riuscire ad individuare un indirizzo, un riferimento con il quale riuscire a instaurare una trattativa per la loro liberazione.

D. – E qual è la speranza per il futuro del Medio Oriente, un futuro di pace…

R. – Sono convintissimo che il futuro di pace del Medio Oriente si debba cominciare a costruire oggi, con gli esempi di padre Dhiya e di tanti altri religiosi, di tante congregazioni, di tante Chiese, che caparbiamente restano lì in pace, per stare con la propria gente ed essere testimonianza di serenità e libertà.

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Grecia. Sì del Parlamento a Tsipras, accordo più vicino

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Piace ai creditori internazionali il piano che Atene ha presentato ieri e che prevede tagli da 13 miliardi in due anni. La proposta è stata preliminarmente valutata questa mattina, in vista della riunione dell’Eurogruppo, in programma oggi pomeriggio. Tsipras ha ottenuto anche l’ok del Parlamento greco, con 251 sì, 32 no e 8 astenuti. Per un’analisi degli argomenti più caldi della bozza, giudicata “esauriente”, Roberta Barbi ha sentito Francesco De Palo, direttore della rivista on-line “Mondo greco”: 

R. – I tagli alla difesa sono nell’ordine di cento milioni, anziché dei 200 chiesti dalla troika con comprensibile risentimento del ministro della Difesa, Kammenos, dal momento che la Turchia sta facendo uno sconfinamento a settimana, con i suoi caccia F16. Questo è un primo scoglio. Il secondo riguarda le pensioni: via le baby-pensioni, via i prepensionamenti, allungamento dell’età pensionabile fino a 67 anni entro il 2019 con i sindacati sul piede di guerra. Ma la mossa è politica. Tsipras legittimamente fa una scelta: tra la troika e il suo elettorato sceglie la troika.

D. – Com’è l’umore della popolazione? Abbiamo visto persone di nuovo in piazza dopo la spaccatura interna di Syriza…

R. – Ieri, mentre la Camera votava, alcuni sono scesi di nuovo in piazza capeggiati dal sindacato del Pame e sono gli integralisti di Syriza, cioè quelli che hanno votato Siryza convinti che il programma annunciato a dicembre fosse il discorso di Salonicco: cioè, no austerità, no a nuovi tagli, una solidarietà sociale per andare incontro a un terzo dei nuovi poveri di oggi che sono gli imprenditori, oltre agli operai e disoccupati. Questa piattaforma programmatica non c’è più, quindi il voto del parlamento di Atene va nella direzione della troika, va nella direzione dell’austerità. Quindi, domani mattina si aprirà un problema politico interno a Tsipras e se alcuni ministri dovessero dimettersi lui dovrebbe andare a un governo di larghe, larghissime, intese e sarebbe un governo simile a quello in carica fino a dicembre.

D. – Nella riunione di oggi dell’Eurogruppo sarà braccio di ferro sulla riduzione del debito?

R. – Io credo che lo scoglio ancora oggi sul tavolo sia proprio questo: cioè, non è tanto il piano “lacrime e sangue” che l’Europa ha imposto a Tsipras tramite i consiglieri economici di Hollande, mandati ad Atene a redigere proprio questo piano, ma il famoso “haircut”: cioè questo debito, questo programma non è sostenibile per le casse greche, semplicemente perché la Grecia non ha una produzione industriale. Questo piano poteva essere migliore o peggiore, ma il nodo è il debito strutturale ellenico: questi 350 miliardi di euro non sono rimborsabili dalla Grecia. Sarebbe servito un memorandum più lieve con tagli dove sono stati fatti, ma con investimenti sulla produzione, sulla ripresa, per fa sì che la Grecia producesse qualcosa tramite cui provvedere poi alla restituzione del debito.

D. – Domani, dovrebbe essere convocata la riunione dei 28: la Germania la reputa “necessaria” per condividere la responsabilità delle scelte fatte. Qualunque sia la decisione, l’Unione Europea deve comunque interrogarsi sulla sua politica?

R. – L’Unione Europea non è che deve interrogarsi sulla sua politica, l’Unione Europea deve cambiare politica perché oggi abbiamo regole uguali per Paesi diversi. Oggi, abbiamo un continente che non parla la stessa lingua alla voce “difesa”, alla voce “economia”, alla voce “sviluppo”. I patti non erano questi. Il problema di fondo è che le regole devono essere certamente rispettate, ma i Paesi europei sono ancora molto diversi tra loro. Allora, se il modello ipotizzabile deve essere quello della federazione di Stati Uniti d’Europa, bisogna certamente mettere questi Paesi nelle condizioni di marciare alla stessa velocità: l’Europa può rinascere se muore in Grecia.

D . – Se la prossima settimana riapriranno le banche cosa succederà?

R. – Ci sarà una calca di cittadini, le Forze dell’ordine sono state già precettate per questo, ma io non sono sicuro che le banche potranno riaprire se non ci sarà un’iniezione di liquidità da parte della Bce. I greci oggi sono spaventati perché anche con le banche aperte i pensionati torneranno a ritirare quella pensione minima di 400 euro che molti di loro hanno. I ricchi in Grecia i denari li hanno portati già via nel 2012. Non illudiamoci che oggi siano rimasti ricchi benestanti in Grecia. Oggi, spetta alla politica dare un cenno, dare un segno: il cenno deve essere di continuità con i padri fondatori dell’Europa, non di rottura con quella famiglia europea.

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A Srebrenica commemorazioni solenni 20 anni dall’eccidio

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20 anni fa veniva consumato, a Srebrenica, il massacro di oltre 8 mila bosniaci musulmani. Giornata, oggi, di lutto nazionale in tutta la Bosnia ed Erzegovina, indetta dal governo federale di Sarajevo, che ha organizzato una commemorazione solenne nei luoghi dell’eccidio, con  la partecipazione di oltre cinquantamila persone arrivate da tutto il paese, e alla presenza di 80 rappresentanti internazionali e leader politici, tra cui Bill Clinton, all’epoca dei tragici fatti presidente degli Stati Uniti,e per l'Italia, la presidente della Camera Laura Boldrini. Il servizio di Roberta Gisotti: 

Tra le pagine più nere nella storia dell’umanità. Più di mille degli oltre 8 mila uomini e ragazzi trucidati a Srebrenica non hanno ancora un nome, sterminati in meno di quattro giorni, a pochi mesi dalla fine della guerra per l’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina. Dopo la dissoluzione della Jugolasvia, i serbo-bosniaci che avrebbero voluto restare parte integrante di una grande Serbia, con il sostegno di Belgrado, avviano nella primavera del 1992 - il 6 aprile fu attaccata e posta sott’assedio Sarajevo - una campagna di violenze contro la popolazione musulmana, migliaia le vittime e migliaia in fuga nell’enclave di Srebrenica, nell’est della Bosnia, che sotto assedio viene dichiarata nel 1993 “area protetta” dalle Nazioni Unite, affidata a un contingente canadese di caschi blu, rimpiazzato poi da uno olandese. Passano due anni in armi e arriviamo a quel tragico 11 luglio 1995, quando le truppe al comando del generale Ratko Mladic, entrano a Srebrenica, separano donne e bambini e massacrano 8.372 maschi, secondo un disegno di "pulizia etnica", e ne gettano i corpi per massima parte in fosse comuni.

Dopo vent’anni, la più grave carneficina in Europa dalla seconda Guerra mondiale resta una ferita aperta nella comunità internazionale. La  Russia ha posto nei giorni scorsi il veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu a una risoluzione che la definisce un “genocidio”. E c’è chi accusa le diplomazie di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia ed Onu di avere in qualche modo "tollerato"’ il massacro per arrivare a ogni costo alla pace di Dayton nel dicembre seguente, come ha di recente documentato il domenicale britannico Observer. Intanto, il generale carnefice, Mladic, è ancora in attesa di processo dal Tribunale internazionale dell’Aja per genocidio e crimini contro l’umanità, mentre le famiglie delle vittime continuano a cercare le ossa dei loro cari nei boschi della zona e chiedono conto all’Onu di non averle protette.

Durante la commemorazione il premier serbo, Alaksandar Vucic, ha dovuto lasciare la cerimonia dopo essere stato colpito alla testa da una pietra lanciata dalla folla inferocita che lo contestava fin dal suo arrivo urlando "Allah akbar", Dio è grande. La cerimonia al Memoriale di Potocari ha visto la tumulazione delle ultime 136 persone delle quali sono stati recentemente identificati i resti. Marina Tomarro ha raccolto il commento di Andrea Oskari Rossini, giornalista dell’Osservatorio Balcani e Caucaso, presente alla commemorazione. 

R. – Ci sono soprattutto migliaia di persone – 50 mila, secondo gli organizzatori – che stanno letteralmente invadendo l’area del Memoriale. Non c’è posto per tutti, per cui la gente sta trovando spazio proprio tra le tombe delle 6 mila e 200 persone che sono qui sepolte. Ne mancano ancora circa 2.000, che devono ancora essere ritrovate e identificate. Ci sono state particolari polemiche legate alla presenza del primo ministro serbo, Alexander Vucic. Vucic era, però, negli anni ’90 un rappresentante della politica di Milosevic, per cui è interessante vedere quale sia l’atteggiamento dell’opinione pubblica e delle istituzioni bosniaco-musulmane nei confronti di questa visita. Ad oggi, i messaggi sono stati ambigui: da un lato, c’è la soddisfazione, perché finalmente, 20 anni dopo, la Serbia riconosce questo crimine, anche se con alcuni distinguo – preferiscono non utilizzare il termine “genocidio” – dall’altro, però, c’è anche un po’ di fastidio per – appunto – tutti i distinguo, che ha fatto Vucic nell’annunciare questa sua visita.

D. – Qual è lo stato d’animo delle persone che sono presenti lì?

R. – Ieri, ho assistito all’arrivo al memoriale delle 136 bare. I familiari di queste vittime erano da un lato straziati e, dall’altro, era come se finalmente si potesse chiudere questa pagina. Uno degli aspetti infatti collegati al genocidio di Srebrenica è che, nei giorni successivi alla strage, le forze serbo-bosniache hanno nascosto in fosse comuni le vittime, che poi hanno rimosso e spostato in fosse comuni secondarie e terziarie. Cosa che ha prolungato il dolore delle famiglie. Ci sono ancora appunto duemila vittime, che devono ancora essere identificate, e ci sono 136 vittime, 136 famiglie, che possono seppellire i loro cari solo oggi, 20 anni dopo il luglio del ’95.

D. – Qual è oggi il messaggio di Srebrenica?

R. – Si dice che bisogna trovare dei modi, che la comunità internazionale debba trovare degli strumenti efficaci per difendere la popolazione in area di conflitto. Srebrenica ci dice che non è possibile stare a guardare quello che oggi sta avvenendo in Siria. Bisogna che la comunità internazionale abbia la capacità e la forza, da un lato, di interporsi nelle aree di conflitto, ma soprattutto di proteggere la popolazione civile. I bosniaco musulmani di Srebrenica sono stati abbandonati dalle Nazioni Unite che erano presenti in zona, da quanti vedevano esattamente in tempo reale quello che stava avvenendo dai satelliti spia. Per cui, io credo che sia questo il messaggio principale.

D. – Qual è il clima attuale, adesso, in Bosnia, invece?

R. – La Bosnia è un Paese ancora bloccato da un punto di vista politico, perché gli accordi di Dayton, che hanno posto fine alla guerra, 20 anni fa, non sono riusciti a creare un Paese che sia sostenibile, che funzioni e che riesca ad affrontare il percorso di integrazione europea che ha di fronte e che gli è stato offerto dall’Unione Europea. La Bosnia di oggi è un Paese estremamente diviso su basi etniche e corrisponde a quella che era l’immagine che volevano i nazionalisti 20 anni fa. Oggi, questo tipo di architettura istituzionale non funziona, quindi la costituzione di Dayton va riformata. L’atteggiamento della comunità internazionale ora è di attendere che le istituzioni bosniache da sole possano fare queste riforme. Lo vedo come un percorso estremamente complicato, senza un intervento da parte della comunità internazionale, che aveva aiutato a fare gli accordi di Dayton 20 anni fa.

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Onu, Giornata popolazione: 60 milioni di profughi e sfollati

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“Le popolazioni vulnerabili in situazioni di emergenza”: è questo il tema della Giornata mondiale della popolazione 2015 che si celebra ogni 11 luglio, dal 1989. Sono 60 milioni i profughi e gli sfollati nel mondo a causa delle guerre e delle persecuzioni, il numero più alto mai registrato dalle Nazioni Unite. Alessandro Filippelli ha intervistato Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia alla facoltà di Economia dell'Università Cattolica di Milano: 

R. – La popolazione ha superato i 7 miliardi e continua a crescere: secondo le previsioni delle Nazioni Unite si aggiungeranno almeno altri 2 miliardi da qui alla metà di questo secolo, ma poi si tenderà ad una stabilizzazione. Quello che, però, conta – ed è questa la vera sfida – più che l’aumento del valore assoluto delle persone del pianeta, è la loro concentrazione sul territorio. In alcuni Paesi come l’Italia e come quelli più avanzati, più che la crescita, c’è un aspetto che riguarda il declino e l’invecchiamento della popolazione: la sfida è dunque come gestire l’invecchiamento della popolazione ed eventualmente l’immigrazione. In altri Paesi, invece, in particolare dell’Asia e dell’Africa, dove si concentrerà la gran parte della crescita, c’è un altro tema: di crescita soprattutto e di aumento dei grandi agglomerati urbani. Questi contesti rischiano di produrre una situazione difficile.

D. - Il mondo sta assistendo ad un numero record di persone sfollate: sono 60 milioni, secondo i dati delle Nazioni Unite. Quanto incide sul fenomeno dei flussi migratori e sul divario fra Nord e Sud del mondo?

R. – Lo squilibrio aumenta sempre, incide ed alimenta sempre i flussi migratori. Dobbiamo tener presente che comunque noi ragioniamo in termini di flussi che arrivano dal Sud del mondo verso il Nord: però dobbiamo anche tener presente che, oltre a questi flussi che portano immigrazione verso di noi, ancor di più ci sono i flussi tra i Paesi del Sud e dalle zone rurali alle grandi città. Questo è un movimento che è molto più ampio rispetto a quello che noi vediamo e che è alimentato – ovviamente – anche dagli squilibri. Quindi più riusciamo ad incidere su questi squilibri, meno produciamo conseguenze ed implicazioni negative.

D. – L’aumento della popolazione mondiale, secondo lei, è compatibile con la riduzione della povertà?

R. – L’aumento della popolazione mondiale finora è andato quasi di pari passo con una capacità di combattere il rischio di povertà e di denutrizione. Parallelamente, però, c’è anche l’esigenza di riuscire a mettere in atto delle politiche di aiuto e di progressivo miglioramento. Questo vuol dire che complessivamente la lotta alla fame sta ottenendo dei progressivi miglioramenti, ma che bisognerebbe riuscire ad incidere ancora di più in quei Paesi che attualmente non sono riusciti a mettere in campo un percorso di sviluppo adeguato. Quindi non dobbiamo più pensare alla crescita demografica come alibi o come causa di per sé delle condizioni di sottosviluppo, ma dobbiamo agire più direttamente, con maggior convinzione e con più determinazione, sulle condizioni qualitative: passare dalla questione quantitativa alla qualità della vita delle persone e quindi a strumenti e politiche che possano aiutare le persone a vivere meglio.

D. – L’evento Expo 2015 rappresenta un’occasione per riflettere sulle risorse della Terra. Ma quanto è importante la sensibilizzazione delle generazioni future su questo tema?

R. – Le nuove generazioni lo hanno accolto come un tema in cui si riconoscono pienamente. Allora la grande sfida è quella di valorizzare e non di sfruttare eccessivamente le risorse del Pianeta. Questa sfida si vince esattamente nella direzione indicata da Papa Francesco nella nuova Enciclica “Laudato si’”.

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Il commento di don Pasotti al Vangelo della Domenica

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Nel Vangelo della 15.ma Domenica del Tempo ordinario, Gesù entra nel pieno della sua missione, unendo a essa i Dodici: li invia a due a due nelle città e villaggi davanti a sé, a preparare la sua venuta. Questa missione, questo invio è proprio di ogni cristiano: ci viene dato col battesimo:

“Prese a mandarli”.

Su questo brano evangelico ascoltiamo il commento di don Ezechiele Pasotti:

Gesù ha dato inizio alla sua missione ed ora coinvolge in essa i suoi discepoli: li invia a due a due, con nient’altro che la sua parola: quanto amore! quanta passione nel cuore di Cristo perché la buona notizia del Regno di Dio raggiunga tutti. Quanta urgenza che questo amore scuota la Chiesa dei nostri giorni. Papa Francesco sta animando la Chiesa perché si rimetta con coraggio in missione. Questa missione appartiene al cuore del battesimo. Essere cristiani significa assumerla, lasciarci scuotere dallo zelo del Vangelo e per il Vangelo. Il tesoro che il cristiano porta con sé: l’annuncio della vittoria sopra la morte, la vita eterna, è così grande e così urgente che nulla può trattenerci. Inoltre, quanta libertà in questo gesto così semplice del Signore di inviare i discepoli a due a due! Specie se lo confrontiamo con l’appesantimento di tanti piani pastorali, di tante logiche di uffici diocesani e parrocchiali. Quanta libertà di cuore in questo non portare nulla con sé: “né pane, né sacca, né denaro nella cintura”, in questo farsi piccolo tra i piccoli e povero tra i poveri. Il denaro, per quanto necessario, sporca sempre non solo le mani, ma soprattutto appesantisce il cuore, toglie zelo all’apostolo. Il Vangelo ha il potere di riempire il cuore e di mettere le ali ai piedi degli apostoli, di ieri come di oggi: “E partiti proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano”. Che la celebrazione dell’Eucaristia sciolga oggi le nostre catene e ci dia questa passione per il Vangelo.

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Nella Chiesa e nel mondo



Asia Bibi: una taglia sulla cristiana condannata morte

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Non c’è pace per Asia Bibi, la cinquantenne pakistana madre di famiglia cattolica, condannata a morte per blasfemia nel novembre 2010. Sulla testa della donna – in carcere dal 2009 e in attesa che la Corte Suprema giudichi il suo caso – è stata posta una taglia di 60 sterline da parte di fondamentalismi islamici. Lo ha reso noto al settimanale britannico Express il marito, Ashiq Masih, secondo il quale “i religiosi musulmani la vogliono morta” e “hanno decretato che se il tribunale la dovesse assolvere, provvederebbero loro a eseguire la condanna a morte”. Il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, fa notare però che l’esiguità della taglia indicata dal settimanale britannico contrasta con una precedente offerta di 500 mila rupie (circa 4.300 euro) fatta un imam della città di Peshawar.

Troppe discriminazioni
Errori contenuti nel servizio che, secondo Avvenire, potrebbero essere frutto di un’approssimazione dovuta a una vicenda confusa e prolungata. La condizione di precarietà di Asia Bibi va vanti infatti da a 2.209 giorni dall’incarcerazione. Una situazione che coinvolge anche i familiari, costretti a cambiare abitazione una quindicina di volte negli ultimi cinque anni per il rischio di ritorsioni. In questi anni, non sono inoltre mancati appelli e pressioni internazionali per la liberazione di questa donna, iniziative che purtroppo non hanno avuto alcun esito, poiché la vicenda di Asia Bibi risente anche dell’opinione pubblica pakistana, che resta in gran parte favorevole alla controversa legge sulla blasfemia che, da quando è in vigore, ha colpito in maniera indiscriminata decine di persone di diverse comunità religiose, tra cui gli stessi musulmani. (M.G.)

 

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Nigeria: attacco kamikaze a Maiduguri, due morti

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È di almeno due morti e quattro feriti il bilancio di un attacco suicida nella città di Maiduguri, nel nord della Nigeria. Secondo le testimonianze, due kamikaze sono entrati in azione questa mattina alla stazione degli autobus, colpendo un mezzo in partenza. L'attentato  non è stato subito rivendicato ma recherebbe la firma di Boko Haram, che ha attaccato più volte stazioni, mercati e luoghi di culto di Maiduguri. Sei anni di insurrezione degli estremisti islamici di Boko Haram hanno provocato più 15 mila morti e 1,5 milioni di sfollati nel nord della Nigeria. L’ennesima violenta offensiva del gruppo, che provocato circa 570 vittime, ha avuto luogo a partire dall’insediamento, il 29 maggio scorso, del nuovo presidente nigeriano, Muhammadu Buhari. 

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A Birmingham prima conferenza sulla nuova evangelizzazione

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Sono circa  900 gli operatori pastorali che da tutte le 22 diocesi del Regno Unito oggi hanno raggiunto Birmingham per partecipare alla prima Conferenza nazionale sulla nuova evangelizzazione. L’incontro è uno degli appuntamenti centrali di “Proclaim 15” (“Annunciare 2015”), il progetto missionario lanciato dall’Episcopato lo scorso gennaio per sostenere, ispirare e incoraggiare le parrocchie del Paese a un’evangelizzazione più “creativa”, come auspicato da Papa Francesco nella “Evangelii Gaudium”. L’evento è stato presentato alla stampa nei giorni scorsi a Londra dal cardinale arcivescovo di Westminster, Vincent Nichols, presidente della Conferenza episcopale inglese e gallese.

Il programma della giornata
Nel programma della giornata, ben 11 workshop in cui ai partecipanti saranno proposti, con testimonianze dirette, consigli pratici su come evangelizzare, con modalità e metodi nuovi per rendere più efficace la missione della Chiesa in una delle società più secolarizzate del mondo. Le proposte potranno diventare una risorsa permanente, disponibile sul sito della Conferenza episcopale, dove già si trovano la storia e il contenuto di questa iniziativa annunciata l’anno scorso. Previste anche miniconferenze su vari argomenti, tra i quali l’uso dei social media e il Giubileo della Misericordia. Il tutto mentre le parrocchie nel resto del Paese pregheranno per il successo dell'evento.

I relatori
Tra i relatori, oltre al cardinale Nichols, gli arcivescovi di Birmingham e Cardiff, mons. Bernard Longley e George Stack, Michelle Moran, membro del Pontificio Consiglio per i Laici e presidente Servizi al Rinnovamento carismatico cattolico internazionale, nonché il pastore e teologo anglicano, Nicky Gumpel, coordinatore nel Regno Unito dei "Corsi Alpha" d’introduzione pratica alla fede cristiana, diffusi in diversi Paesi nel mondo. (L.Z.)

 

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 192

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.