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Sommario del 14/07/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: gioventù America Latina lezione per la vecchia Europa

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Per l’Europa a crescita demografica zero l’America Latina “è una lezione” a invertire la rotta e a non avere paura della gioventù. Papa Francesco sintetizza così il senso del suo nono viaggio apostolico in Ecuador, Bolivia, Paraguay. Durante l’ora di conferenza stampa con i giornalisti imbarcati sul volo papale di rientro a Roma, il Papa ha come sempre toccato numerosi temi. Li riassume in questo servizio Alessandro De Carolis

Le rughe del Vecchio continente, che ha smarrito il valore della giovinezza, si specchiano nella freschezza balsamica dell’America Latina: è questo l’aiuto giovane di popolo e di Chiesa che l’“altra parte del mondo” da cui il Papa proviene può offrire a terre che hanno smesso di fare figli e futuro.

Impariamo dalle terre giovani
Francesco scosta il sipario che cala sui lunghi, densissimi giorni di viaggio tra Ecuador, Bolivia e Paraguay per far trapelare – dal megafono che gli offrono i media internazionali schierati sul volo papale – la sua chiave di lettura dell’esperienza appena conclusa. È l’ultima risposta, dopo un’ora di conversazione, quella in cui il Papa tira le fila del nono viaggio apostolico:

“La Chiesa latinoamericana ha una grande ricchezza: è una Chiesa giovane, e questo è importante. Una Chiesa giovane con una certa freschezza, anche con alcune informalità, non tanto formale. Anche, ha una teologia ricca, di ricerca. Io ho voluto dare animo a questa Chiesa giovane e credo che questa Chiesa può dare tanto a noi (...) E’ un popolo – e anche la Chiesa è così – che è una lezione per noi, per l’Europa, dove il calo delle nascite spaventa un po’, e anche le politiche per aiutare le famiglie numerose sono poche (...) La ricchezza di questo popolo e di questa Chiesa è che si tratta di una Chiesa viva. E’ una ricchezza, una Chiesa di vita. Questo è importante. Credo che noi dobbiamo imparare da questo e correggere, perché al contrario, se non vengono i figli (…) Non avere paura per questa gioventù e questa freschezza della Chiesa”.

Il merito è loro
Le sensazioni dell’appena vissuto sono tutte da decantare, ma è irresistibile da un punto di vista giornalistico lanciare un ponte verso il viaggio di settembre, al ritorno di Francesco in America, direzione Cuba e Stati Uniti. Intanto, per capire se la mano mediatrice del Papa sia stata decisiva per il loro riavvicinamento:

“Non è stato mediazione, è stata la buona volontà dei due Paesi: il merito è loro, sono loro che hanno fatto questo. Noi non abbiamo fatto quasi nulla, soltanto piccole cose, e a metà dicembre è stato annunziato. Questa è la storia, davvero, non c’è di più. A me preoccupa in questo momento che non si fermi il processo di pace in Colombia. Questo devo dirlo e io mi auguro che questo processo vada avanti e in questo senso noi siamo sempre disposti ad aiutare, in tanti modi di aiuto. Ma sarebbe una cosa brutta che non possa andare avanti”.

Rispetto la scelta della Bolivia
Il tema della diplomazia vaticana a servizio della pace viene sollevato anche dal giornalista boliviano. Il suo Paese è da tempo impegnato in un antico contenzioso con Cile per ottenere uno sbocco sul mare e il cronista sonda Francesco per capire se possa intervenire a sbrogliare la vicenda. La risposta, in spagnolo, del Papa è chiara:

“Siempre hay otras figuras diplomáticas que ayudan…
Ci sono sempre altre figure diplomatiche che aiutano in questo caso, che sono facilitatori… In questo momento, io devo essere molto rispettoso di tutto questo, perché la Bolivia ha fatto ricorso a un tribunale internazionale. Quindi, se io in questo momento faccio un commento, essendo io un capo di uno Stato potrebbe essere interpretato come un immischiami, un fare pressione o altro… Dunque, sono molto rispettoso della decisione che ha preso il popolo boliviano, che ha fatto questo ricorso”.

Usa-Cuba, il guadagno è la pace
Francesco chiude il cerchio con un giornalista statunitense su cosa Cuba abbia da guadagnare e cosa da perdere dopo la fine della guerra fredda con Washington. “L’incontro, l’amicizia, la collaborazione: questo è il guadagno”, replica il Papa, indicando che a guadagnarci saranno entrambi. E la questione del rispetto dei diritti umani e della libertà religiosa, aggiunge, non riguarda solo Cuba ma molti Stati del mondo, Europa compresa.

Crisi Grecia, serve controllo
E a proposito d’Europa, i giornalisti ricordano al loro interlocutore le sue parole sull’idolatria del denaro che rende schiava l’economia e gli domandano se non volesse riferirsi anche alla crisi greca:

“I governanti greci che hanno portato avanti questa situazione di debito internazionale, hanno anche una responsabilità. Col nuovo governo greco si è andati verso una revisione un po’ giusta. Io mi auguro (…) che trovino una strada per risolvere il problema greco e anche una strada di sorveglianza per non ricadere in altri Paesi nello stesso problema, e che questo ci aiuti ad andare avanti, perché quella strada del prestito e dei debiti alla fine non finisce mai”.

Non è stata un’offesa
Una delle domande accende il faro sul controverso dono fatto a Francesco dal presidente boliviano, Evo Morales, la statuetta del Cristo che sormonta la falce e il martello, i simboli della lotta comunista, realizzata da padre Espinal, il gesuita assassinato 35 anni fa. La risposta del Papa è al contempo aperta e spiazzante. Quello che conta, dice in sostanza, è che il rispetto per la persona viene prima di tutto il resto e in quest’ottica si può comprendere anche quella che definisce “arte di protesta”:

“Padre Espinal è stato ucciso nell’anno 80. Era un tempo in cui la teologia della liberazione aveva tanti filoni diversi, uno di questi era con l’analisi marxista della realtà, e Padre Espinal apparteneva a questo (...) Espinal è un entusiasta di questa analisi della realtà marxista, ma anche della teologia, usando il marxismo. Da questo è venuta quest’opera. Anche le poesie di Espinal sono di quel genere di protesta, ma era la sua vita, era il suo pensiero, era un uomo speciale, con tanta genialità umana, e che lottava in buona fede. Facendo un’ermeneutica del genere io capisco quest’opera. Per me non è stata un’offesa. Ma ho dovuto fare questa ermeneutica e la dico a voi perché non ci siano opinioni sbagliate. Quest’oggetto ora lo porto con me, viene con me”.

Sinodo, Dio migliori la famiglia
E il Papa usa l’ermeneutica anche per chiarire cosa avesse inteso, durante la Messa a Guayaquil in Ecuador, nell’invitare la gente a pregare perché – parlando di crisi della famiglia, sullo sfondo del Sinodo – Dio possa trasformare ciò che è “impuro”. La spiegazione, ribadisce, sta nel senso del miracolo di Cana:

“Ho detto che proprio Gesù fa il più buon vino con l’acqua delle sporcizie, del peggio. In genere, ho pensato di fare questo commento: la famiglia è in crisi, lo sappiamo tutti, basta leggere l’Instrumentum laboris che voi conoscete bene perché è stato presentato, è lì… A tutto questo io facevo riferimento, in genere: che il Signore ci purifichi da queste crisi (…) che ci faccia migliori, ci faccia famiglie più mature… migliori”.

Poveri, ricchi e “middle class”
Francesco accetta anche di buon grado la garbata critica che gli rivolge un giornalista, che ha notato come il Papa parli molto dei poveri e dei ricchi e molto poco della classe media:

“Lei ha ragione, devo pensare un po’. Il mondo è polarizzato. La classe media diviene più piccola. La polarizzazione fra i ricchi e i poveri è grande, questo è vero, e forse questo mi ha portato a non tenere conto di quello (...) Poi perché parlo dei poveri? Ma perché è al cuore del Vangelo, e sempre parlo dal Vangelo sulla povertà, benché sia sociologica. Poi, sulla classe media ci sono alcune parole che ho detto, però un po’ ‘en passant’. Ma la gente semplice, la gente comune, l’operaio... quello è un grande valore”.

Movimenti popolari e Dottrina sociale
Al rammarico del cronista paraguayano su che “peccato” abbia mai commesso il suo Paese per non avere un cardinale, Francesco risponde con simpatia che la Chiesa locale, per la vita e la gioiosità mostrate, ne meriterebbe due, ma che le valutazioni che portano alla porpora devono tenere conto di molti aspetti. E spiega pure che ai Movimenti popolari incontrati in Bolivia non ha fatto altro che presentare “un riassunto della Dottrina sociale della Chiesa”. Inoltre, il Papa ribadisce di non temere le strumentalizzazioni delle sue parole, pur notando come talvolta la notizia venga creato attorno a una frase presa “fuori contesto”.

Mate sì, coca no
Domande e risposte, senza pause, una ventina, che Francesco sostiene a pieno ritmo dopo un viaggio massacrante per molti più giovani di lui. Qual è il segreto della sua forza, gli domandano? Impareggiabile la risposta:

“Mah, il mate mi aiuta. Ma non ho assaggiato la coca. Questo è chiaro, eh!”.

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Lombardi: Papa mostra che vero cambiamento parte dai poveri

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All’indomani del ritorno di Papa Francesco dal suo coinvolgente viaggio in America Latina, Alessandro Gisotti ha chiesto al direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, di soffermarsi su alcuni punti chiave emersi dalla visita: 

R. – Mi ha colpito la presenza della gente durante il viaggio e il rapporto del Papa con la gente. La gente vuol dire le persone: la “gente” è una parola non bella, perché è un collettivo che sembra depersonalizzare. Avevamo un numero sconfinato di persone presenti n tutti i momenti di questo viaggio: la presenza lungo le strade, devo dire, è la cosa che mi ha colpito di più per la sua dimensione e anche per il suo stile, per la sua atmosfera, per la sua caratteristica di intensità e non solo emotiva, ma direi anche di fede. Il Papa queste cose le ha percepite perfettamente, probabilmente le prevedeva e le conosceva già da prima e molto meglio di noi. Però, credo che l’intensità, la dimensione di questa presenza abbia in qualche modo sorpreso anche lui e sorpreso un po’ tutti. Quindi, mi ha colpito il fatto della mobilitazione umana e spirituale dei Paesi visitati, dei popoli dei Paesi visitati e la sintonia profonda: il pastore che conosce le pecore, che sta in mezzo a esse, che ha l’odore delle pecore. Ecco, questo era Papa Francesco in questi Paesi dell’America Latina.

D. – Papa Francesco è ovviamente una persona universalmente conosciuta e sempre più familiare a molti. Ma c’è – secondo lei – qualcosa in più che abbiamo appreso della sua figura dopo il ritorno nella “sua” America Latina?

R. – E’ proprio questo suo rapporto con il popolo, che spiega anche meglio a noi, che magari siamo di altra cultura o di altra esperienza, il modo in cui lui ne parla così intensamente anche quando si rivolge ai pastori, dicendo che devono essere vicini alla gente, che non devono essere estranei alla vita delle persone. Lo abbiamo capito e sperimentato in un modo più intenso in occasione di questo viaggio.

D. – Papa Francesco, secondo lei, ha aiutato con questo viaggio a sfatare alcuni stereotipi che in Occidente si hanno sull’America Latina? Per esempio, il Papa ha sottolineato quanto la giovinezza di questo continente, legato alla speranza, e queste energie nuove possano dare agli altri continenti…

R. – Certamente. Abbiamo vissuto un rapporto di grande rispetto, stima, amore del Papa per questi popoli, che quindi non li abbiamo considerati in alcun modo come dei popoli in attesa, diciamo, di aiuti: come popoli o persone sottosviluppate che debbano essere aiutate da una carità esterna per poter raggiungere un loro migliore sviluppo umano e spirituale, ma come attori protagonisti – essi stessi – del loro sviluppo e del loro cammino. In questo senso, il messaggio del Papa è stato di grande incoraggiamento da un punto di vista sia umano che spirituale ed ecclesiale, perché possano trovare insieme – in un modo solidale e attivo – la costruzione del loro futuro. Quindi, questo è stato molto bello: un Papa che incoraggia a essere protagonisti tutti i membri di questi popoli, in particolare quelli che sono magari più poveri e che si sentono più emarginati.

D. – Alcuni, anche dopo questo viaggio, criticano Papa Francesco di essere troppo proteso verso i Movimenti popolari e le forze sociali – in definitiva i poveri – trascurando la cosiddetta "classe media". Una domanda, questa, che è stata anche rivolta durante la conferenza stampa in aereo. Che lettura si può dare al riguardo?

R. – E’ stato così interessante che il Papa abbia detto: “Ma, c’è del vero in questa osservazione… Devo rifletterci e vedere come tenerne conto”. Però, il punto dell’impostazione del Papa mi pare sia fondamentale e da capire bene: se noi riconosciamo che la situazione del mondo non è ideale e che quindi ci sono veramente dei cambiamenti e dei cambiamenti importanti e urgenti da fare – sia per quanto riguarda l’impostazione dell’economia, del governo e del cammino dell’umanità, sia per quanto riguarda le conseguenze che questa impostazione ha anche sulla creazione, sull’equilibrio della creazione, sull’equilibrio dei rapporti sociali – allora dobbiamo vedere qual sia il punto di prospettiva giusto in cui ci dobbiamo mettere per capire che cosa è che non va e che effettivamente è urgente cambiare. Questo punto di prospettiva – il Papa dice e ridice – è l’attenzione ai poveri. E’ da lì, da dove si soffrono le conseguenze delle cose che non vanno, che si può capire veramente, profondamente ed esistenzialmente che non vanno e che quindi vanno cambiate: da lì e non solo per la sensibilità evangelica che li mette al cuore del Vangelo, ma anche per una saggezza umana che dice che cos’è che dobbiamo cambiare per costruire una umanità più giusta. Dobbiamo guardarla dal punto di vista delle cose che non vanno e di chi ne subisce le conseguenze negative. Allora, in questo senso l’insistenza del Papa è coraggiosa, è controcorrente, ma è comprensibilissima: perché se uno si mette dal punto di vista del centro del funzionamento di un sistema e di chi lo fa funzionare, allora è molto più difficile che le cose cambino effettivamente e che si veda e si capisca l’urgenza del cambiarle. Anche la “classe media” certamente ha un ruolo fondamentale e ci possono essere Paesi in cui è estremamente importante. Ma se uno guarda – come fa il Papa – al mondo nel suo insieme, le situazioni di iniquità, di sofferenza e i problemi che manifestano la necessità di un cambiamento sono talmente immensi e macroscopici che l’urgenza dei cambiamenti pare evidente. Nel Papa troviamo anche l’insistenza sul possibile protagonismo attivo e creativo delle persone che si trovano nelle situazioni difficili, come possibili protagonisti attivi del cambiamento: non in forme di lotta violenta, ma in forma di crescita della solidarietà e della giustizia. Questo mi sembra il significato molto importante del discorso del Papa ai Movimenti popolari e, in certa misura, il significato molto importante anche di questo viaggio e degli atteggiamenti di solidarietà del Papa con questi popoli, atteggiamenti che vengono proposti a livello anche di dinamiche dello sviluppo mondiale. Per questo, mi sembra molto significativo che il ritorno del Papa nel suo continente e la sua sensibilità alla partecipazione e alla comprensione profonda e positiva della realtà e che cosa è il popolo – da un punto di vista sia generale, sia anche specificamente cristiano – sia un contributo estremamente importante per la riflessione della Chiesa universale e anche dell’umanità.

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Nomine episcopali di Papa Francesco in Ghana, Cile e Corea

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In Ghana, Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Ho, presentata da Mons. Francis Anani Kofi Lodonu, per sopraggiunti limiti d’età. Il Papa ha nominato vescovo di Ho il rev.do P. Emmanuel Fianu, S.V.D., Segretario del Consiglio Generale dei Padri Verbiti.

In Cile, Papa Francesco ha nominato Vescovo Ausiliare dell'arcidiocesi di Santiago de Chile  il rev.do padre Jorge Enrique Concha Cayuqueo, O.F.M., finora Ministro Provinciale dei Francescani in Cile, assegnandogli la sede titolare di Carpi.

In Corea, il Papa ha nominato Ausiliare dell’Arcidiocesi di Seoul, il rev.do Benedictus Son Hee-Song, direttore del Dipartimento per la Pastorale arcidiocesana, assegnandogli la sede titolare vescovile di Campli.

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Benedetto XVI rientrato in Vaticano da Castel Gandolfo

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Benedetto XVI è rientrato nella tarda mattinata di oggi alla sua residenza in Vaticano, dopo aver trascorso due settimane di soggiorno nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo. Il Papa emerito ha voluto ringraziare con una lettera il sindaco della cittadina castellana, Milvia Monachesi, per la “simpatia silenziosa” e l’“ospitalità” della gente locale, che si uniscono, ha scritto, alla “sintonia tra lago, montagne e mare”.

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Mons. Tomasi: accordo Iran rilanci dialogo di pace in Siria

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L’accordo sul programma nucleare iraniano viene visto positivamente dalla Santa Sede. E‘ quanto sottolinea il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, aggiungendo che è stato raggiunto un "risultato importante ma che richiede – aggiunge – la continuazione degli sforzi di tutti perché possa dare i suoi frutti", che "si auspica che non si limitino al solo campo del programma nucleare, ma che si allarghino anche in ulteriori direzioni". Su questo accordo, Amedeo Lomonaco ha intervistato l'arcivescovo Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede all’Ufficio Onu di Ginevra: 

R. – Nelle difficoltà attuali che vediamo in varie parti del mondo, in cui esplode continuamente la violenza, vedere la pazienza e l’utilizzo del ragionamento e della buona volontà per portare avanti un compromesso politico e operativo può veramente aprire la strada a una speranza che anche altre situazioni scabrose possano trovare una soluzione.

D. – Dopo una lunga trattativa e 12 anni di stallo, quest’accordo dimostra che il dialogo è una strada sempre aperta…

R. – Il fatto che i membri del Consiglio di Sicurezza e l’Iran abbiamo firmato un accordo, che in qualche modo accomoda gli interessi delle due parti, mi pare un grande passo in avanti. Specialmente, perché indica anzitutto che il dialogo è vincente sulla violenza e, in secondo luogo, che c’è la speranza che adesso, in qualche modo, ci si possa portare avanti nello sforzo di trovare un modo per porre fine alla violenza in Siria.

D. – Quindi, un passo in avanti e un accordo che apre nuovi scenari in Medio Oriente?

R. – L’idea è che l’Iran è una parte integrante del dialogo e del negoziato che può portare alla pace o, almeno, alla cessazione immediata della violenza in Medio Oriente e in particolare, per quanto riguarda la Siria, trovare una risposta comune, coordinata e ragionevole da parte della comunità internazionale al fantomatico Stato islamico, che porta solo male e conseguenze negative non solo nella regione, ma anche in altre parti del mondo.

D. – Proprio in questo momento storico, in cui il cosiddetto Stato islamico presenta il volto distorto e deturpato dell’islam, questo dialogo promosso dalla Repubblica Islamica pone un modello diverso e importante…

R. – In questo momento, anche se ci sono ancora delle riserve – perché dobbiamo sperare che non ci siano ostacoli da parte del Congresso americano all’approvazione di questo accordo – mi pare che il cammino intrapreso sia quello corretto. In questo momento abbiamo bisogno, soprattutto in Medio Oriente, di aprire la speranza e di fare in modo che gli sforzi che la comunità internazionale sta intraprendo – anche attraverso l’incaricato del segretario generale delle Nazioni Unite per portare a un negoziato i vari rappresentanti e le varie forze presenti in Siria – possano trovare una risposta positiva.

D. – La via tracciata dall’Iran può essere importante anche per altri Paesi islamici…

R. – Certo, rimane una difficoltà di fondo che è quella della competizione che esiste in Medio Oriente per avere una prevalenza nell’influenza politica e religiosa da parte dei sunniti o degli sciiti. Questa competizione rimarrà, però non deve trasformarsi necessariamente in un conflitto armato o in una scusa per armare altri attori non statali che portano solo distruzione e morte. E’ possibile, con pazienza e con buona volontà, cercare una strada comune che tenga in considerazione gli interessi politici ed economici delle varie parti in questione, così da poter arrivare a delle soluzioni ragionevoli ed accettabili.

D. – La Santa Sede accoglie in modo positivo questo accordo. Come accompagnerà gli ulteriori sforzi necessari proprio per concretizzare quanto definito in questa intesa?

R. – Adesso, non c’è che da auspicare e pregare che questo segno di buona volontà, indicato ed espresso in questo accordo, possa maturare ed essere applicato in maniera costruttiva e in maniera giusta.

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Mons. Auza all’Onu: Ebola colpisce ancora, rafforzare impegno

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Non bisogna abbassare la guardia davanti ad Ebola, ma impegnarsi perché si arrivi a debellare definitivamente il virus. E’ l’appello lanciato da mons. Bernardito Auza alla Conferenza sull’Ebola tenutasi a New York in questi giorni. Nel suo intervento, l’Osservatore della Santa Sede presso il Palazzo di Vetro ricorda che recentemente in Liberia è morta una persona a causa di Ebola, dopo che 45 giorni fa il Paese aveva dichiarato sconfitta la pandemia (“Ebola Free”). Questa triste vicenda, ha rilevato il presule, sottolinea “l’urgente bisogno” di rafforzare l’impegno contro Ebola.

Chiesa in prima linea per combattere Ebola
Uno sforzo, ha detto mons. Auza, che trova la Chiesa e la Santa Sede in prima linea per “combattere l’epidemia e sostenere le famiglie delle vittime”. In particolare, ha soggiunto, le comunità cattoliche locali si oppongono recisamente alla discriminazione che spesso colpisce quanti sono guariti dalla malattia o i bambini rimasti orfani perché i genitori sono morti a causa dell’Ebola. L'Osservatore vaticano ha, quindi, ricordato il sostegno economico offerto anche direttamente da Papa Francesco a quanti lottano contro Ebola e ha ribadito che bisogna fare di tutto per raggiungere l’obbiettivo "zero vittime" in tutti i Paesi africani che stanno affrontando questa crisi umanitaria. (A cura di Alessandro Gisotti)

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Caritas: buone le intenzioni dei governi, ma manca la voce della società civile

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L'Italia "conferma ogni giorno la solidarietà salvando migliaia di vite di migranti, ma il cambiamento non è solo salvare vite umane, ma creare in questi luoghi posti di lavoro, nuove prospettive di speranza". Lo ha affermato questa mattina il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, intervenendo alla terza Conferenza dell'Onu per il finanziamento allo sviluppo, in corso fino a giovedì ad Addis Abeba, in Etiopia. Ma quanto è importante questo incontro per gli organismi internazionali impegnati nell’aiuto ai Paesi in via di sviluppo? Marina Tomarro ha intervistato Martina Liebsch, responsabile per le politiche internazionali alla Caritas Internationalis: 

R. – Il problema è che abbiamo questa lista di obiettivi molto importanti. Ovviamente, per noi ridurre la povertà, ridurre la fame ma anche prendere cura del nostro medio ambiente sono punti cruciali. Però, se non abbiamo il finanziamento o l’impegno degli Stati a finanziare, sicuramente questa sarà una bella lista di desideri ma non sarà un impegno serio. Quindi, l’importanza della Conferenza di Addis Abbeba in fondo è questa: da una parte assicurare che questi obiettivi possano essere messi in atto e dall’altra sviluppare un po’ una visione per il futuro. Quindi, diciamo che per questo motivo questa Conferenza ha una grandissima importanza e sta a cuore a noi, come Caritas, perché noi diciamo: qui si deve far vedere l’impegno di chi governa verso i poveri.

D.  – Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, aprendo i lavori ha parlato della necessità di una ripartenza per il finanziamento dello sviluppo. Cosa vuol dire?

R. – Che si lascino un po’ da parte gli interessi personali ma si guardi veramente a un accordo per il mondo futuro, servendo il bene comune. Si parla anche molto di finanziamenti, da dove proverranno questi finanziamenti… Proverranno anche da fonti private e allora lì bisogna fare delle scelte molto coraggiose. E’ per esempio molto in discussione di mettere in atto un comitato fiscale per avere regolamenti fiscali che assicurino che le compagnie paghino le tasse lì dove hanno anche i loro benefici e non per esempio che trasferiscano i benefici nei cosiddetti "paradisi offshore"...

D.  – Nella bozza del documento finale, si parla di un nuovo patto sociale e di un pacchetto per i Paesi meno sviluppati…

R. – Secondo me, è una lista di intenzioni ma mancano veramente scadenze vincolanti. E’ ovviamente un documento fatto dai governi però sappiamo tutti che la società civile ha un ruolo molto forte da giocare. Però, non mi sembra di aver visto un messaggio forte in quanto alla consultazione e partecipazione della società civile. Però, sappiamo che tutto è ancora in progresso. Ci auguriamo veramente che si arrivi a un accordo. Spero che le persone che devono decidere ascoltino la società civile e ascoltino quello che noi sentiamo spesso e ogni giorno, cioè la sofferenza di chi non ha i mezzi per far fronte a tutte le sfide alle quali ci troviamo di fronte.

D. – Il premier italiano, Matteo Renzi, nel suo intervento ha sottolineato la necessità di creare in questi Paesi posti di lavoro e nuove prospettive di speranza. Cosa ne pensa?

R. – Assolutamente sì. Sappiamo che una parte della soluzione è dare lavoro, dare l’educazione, l’educazione non solo primaria ma anche secondaria per imparare una professione, specie alle popolazioni giovani dei Paesi in via di sviluppo. Però, per questo ci vogliono investimenti e ci vuole anche il coraggio di fare politiche che permettono questo, perché chi abbia in mente di migrare o chi fino a oggi pensava che l’unica soluzione per la sua vita fosse emigrare possa dire: no, ho un’opportunità nel mio Paese.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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E' questione di ermeneutica: il testo integrale delle risposte di Papa Francesco ai giornalisti durante il volo di ritorno dall'America latina.

Per un mondo più sicuro: raggiunto a Vienna l'accordo sul programma nucleare iraniano.

Molto rumore per nulla: Luca M. Possati sull'Europa dopo l'accordo greco.

Intervento della Santa Sede su impegno e solidarietà per sconfiggere l'ebola.

Sul clima è il momento dell'azione: dalla Church of England un appello ai leader del mondo.

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Oggi in Primo Piano



Iran, storico accordo sul nucleare

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Dopo venti mesi di trattative e quasi 12 anni di stallo, l’Iran e le grandi potenze occidentali dei 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) hanno raggiunto uno storico accordo sul programma nucleare iraniano. L’intesa non entra in vigore subito. Dovrà superare il test del Congresso americano e quello del parlamento iraniano. L'accordo, ha detto il presidente americano Barack Obama, non si basa sulla fiducia ma sulle verifiche. Obama ha anche affermato che porrà il veto in caso di voto contrario al Congresso. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

Lo storico accordo garantirà a Teheran la graduale revoca delle sanzioni in cambio di significative riduzioni dell'entità del suo programma nucleare. L’intesa prevede, in particolare, che gli ispettori dell'Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) possano avere accesso a tutti i siti iraniani sospetti, compresi quelli militari. L’Iran ha anche accettato che le sanzioni siano ripristinate entro 65 giorni in caso di una sua violazione dell'accordo. Saranno cancellate le sanzioni contro l’Iran a eccezione di quelle sulle armi e sui missili balistici che verranno rimosse rispettivamente tra cinque e otto anni. Ora, si apre una nuova pagina della politica mondiale. Le potenze occidentali hanno sempre accusato Teheran di utilizzare le attività finalizzate all’arricchimento dell’uranio a scopo civile per la produzione di ordigni atomici. 

Critiche da Israele
Forti critiche sull’accordo sono state espresse da Israele. Secondo il premier dello Stato ebraico, Benjamin Netanyahu, l’intesa “è un errore di proporzioni storiche”. Per il viceministro degli Esteri, una “resa storica dell'Occidente all'asse del male”.

Obama: soddisfatti tutti i requisiti. Rohani: si aprono nuovi orizzonti
Il presidente americano, Barack Obama, ha detto che grazie a questa intesa, in grado di soddisfare tutti i requisiti, l'Iran non sarà in grado di sviluppare la bomba atomica. Il capo di Stato iraniano, Hassan Rohani, ha sottolineato che ora si aprono nuovi orizzonti centrati su sfide comuni. Aprendo a Vienna la seduta plenaria con i ministri di Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania e Iran, l'alto rappresentante della Politica estera europea, Federica Mogherini, ha affermato che si apre “un nuovo capitolo nelle relazioni internazionali”. Per il capo della diplomazia iraniana, Mohammad Javad Zarif, l’accordo non è perfetto. Ma questo, ha aggiunto, è un momento storico.

Per un commento sull'accordo sul programma nucleare iraniano, Amedeo Lomonaco ha sentito il commento di Matteo Bressan, analista politico ed esperto dell'area mediorientale: 

D. – Dopo un negoziato difficile, abbiamo una serie di dichiarazioni di intenti e una "road map" che poi dovrà essere verificata. Attenzione, quindi: da un lato l’aspetto geopolitico è la novità – l’Occidente riapre un dialogo importante con un attore strategico nel Medio Oriente – e dall’altra però questo accordo dovrà passare sia per il Congresso americano, a maggioranza repubblicana, sia per il parlamento iraniano. Quindi, questo ci obbliga ad una prudenza necessaria.

D. – Come cambieranno gli equilibri mondiali dopo questa intesa?

R. – Anzitutto, dobbiamo registrare le reazioni a questo accordo: Netanyahu non vede di buon occhio questo negoziato, anche perché sostiene che di fatto di benefici per il popolo iraniano non ce ne saranno. E sostiene, piuttosto, che l’accordo servirà a finanziare l’arsenale militare dell’Iran. Va detto che come conseguenze, qualora tutto dovesse andare nella direzione oggi definita, certamente ci sarebbe un riequilibrio e una presenza dell’Iran nel contesto mediorientale, dove per anni questo Paese è stato di fatto un po’ estromesso. Adesso, inevitabilmente, la comunità internazionale dovrà cercare di impegnare l’Iran in tutta una serie di dossier, che ovviamente sono moltissimi. E ci sono una serie di interessi confliggenti della comunità internazionale su delle aree di crisi: penso allo Yemen, penso all’Iraq, penso alla Siria e penso allo stesso Libano… L’accordo è un primo passaggio chiave per poi trovare un approccio multilaterale su una serie di crisi che riguardano l’area.

D. – Dunque, questo accordo, che pone le basi proprio per la fine dell’embargo, rappresenta per l’Iran una grande occasione per assumere un ruolo di primo piano nella scena mediorientale sia da un punto di vista politico, ma anche economico…

R. – Sotto il profilo economico ci potrebbero essere enormi benefici sia per l’Iran, ma anche per la comunità internazionale e anche per la stessa Italia. Ci sono già delle stime che dicono che con il ritiro graduale – perché di questo si parla – delle sanzioni potrebbe aumentare l’export italiano in Iran, nei prossimi quattro anni, di tre miliardi di euro. Quindi cifre importanti. L’export italiano è stato penalizzato moltissimo dall’embargo, soprattutto nell’agroalimentare e nella meccanica. Quindi, se si riuscisse a mandare in porto anche la progressiva e graduale eliminazione delle sanzioni, si aprirebbe un mercato enorme, importantissimo e ci sarebbero anche – e già le Borse lo stanno registrando – un abbassamento del prezzo del petrolio.

D. – Proprio sul fronte del mercato petrolifero, si aprono prospettive importanti con un Iran libero da sanzioni…

R. – Considerando che l’Iran detiene un decimo delle riserve mondiali di greggio, indubbiamente queste zavorra delle sanzioni potrebbe favorire moltissimo il mercato iraniano.

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Grecia 24 ore per le riforme. Il piano Ue spacca Syriza

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Il terzo piano di sostegno europeo approvato all’unanimità ieri dai 28 per la Grecia spacca Syriza, la coalizione della Sinistra Radicale. Proteste ad Atene, mentre il parlamento dovrà approvare, in dieci giorni, una serie di riforme per ottenere il prestito da oltre 86 miliardi di euro. La prima scadenza è fissata per domani. Massimiliano Menichetti

Per ora, la Grecia resta nell'Euro. Ieri, l’annuncio a Bruxelles dopo una maratona negoziale di 30 ore e un piano di sostegno approvato all’unanimità dai 28 che prevede soldi in cambio di riforme immediate. Ora i riflettori sono puntati tutti su Atene, che ieri ha visto di nuovo persone in piazza contro una strategia giudicata più dura di quella bocciata dal referendum. Syriza, il partito del premier si è spaccato almeno nelle dichiarazioni, si parla di "accordo umiliante", di mancanza di sostegno al governo. Bordata anche dall’ex ministro delle finanze, Yanis Varoufakis: “Ha voluto cedere”, ha detto riferendosi alla mediazione del premier Alexis Tsipras. Premesse non buone visto che la Grecia ha dieci giorni di tempo per vare riforme dure, evitare definitivamente l'uscita dall'eurozona ed ottenere oltre 86 miliardi di euro di aiuti. Prima scadenza domani: in 24 ore il parlamento ellenico dovrà approvare la riforma dell'Iva, l'abolizione delle baby pensioni, assicurare l'indipendenza dell'ufficio di statistica e creare il "Fiscal Council" ovvero la struttura per controllare i bilanci. Poi, si metterà mano anche al resto tra cui il Codice di procedura Civile e il controllo delle banche. Tutto sarà sorvegliato dall’Eurogruppo. Intanto, è scaduta alla mezzanotte di oggi una nuova rata dovuta al Fmi da 450 milioni di euro: il 20 luglio Atene dovrà rimborsare alla Bce 3,5 miliardi, mentre venerdì prossimo giunge a scadenza circa un altro miliardo di titoli. Dal canto suo l’Eurogruppo sta studiando come concedere alla Grecia un prestito ponte da 12 miliardi per il fabbisogno finanziario immediato e permetterle così la riapertura delle banche.

Per un'analisi della situazione greca abbiamo raccolto il commento del prof. Francesco Carlà, economista e presidente di "FinanzaWorld: 

R. – Tsipras ha bluffato e ha perso. La Germania ha vinto, soprattutto la Merkel, e adesso i parlamenti probabilmente ratificheranno, anche se con il mal di pancia. Naturalmente i tempi sono diventati strettissimi, però io credo che ce la faranno.

D. – Adesso, in sostanza, la Grecia si trova ad approvare un piano che è più duro di quello al quale ha detto “no” con il referendum…

R. – È la conseguenza essenzialmente di aver tirato la corda per 5-6 mesi – quindi di aver perso molto tempo in quelle fasi – e poi di aver proposto un referendum nazionale, in cui la Grecia si è trovata fondamentalmente sola contro gli altri 18 Paesi. L’errore principale è stato proprio questo: voler nazionalizzare la questione.

D. – Ma in questo senso chi ne esce perdente?

R. – È una sconfitta per la Grecia, che adesso si trova con dei tempi strettissimi per evitare il peggio. Ma ha perso anche l’Ue, perché non riesce a portare completamente la democrazia economica e finanziaria – che è il completamento della democrazia politica – all’interno del sistema europeo.

D. – Che vuol dire “democrazia economico-finanziaria”?

R. – Vuol dire regole durissime sui singoli Stati, sulle singole città, ma poi anche programmi enormi di investimenti federali sul modello degli Stati Uniti che, come sapete, fanno fallire Detroit o la California, i quali devono poi effettuare i piani di austerity. Ma, contemporaneamente, deve esserci il grande piano degli investimenti per la ripresa in quelle aree.

D. – Ma c’è il rischio che la Grecia esca dall’Europa: c’è ancora questo rischio?

R. – Il rischio c’è. Però, secondo me – e citerò la Merkel: “Gli svantaggi sono più dei vantaggi” sia per la Grecia, che per l’Euro, che per l’Unione Europea. Il fatto è che diventa sempre più un accordo a perdere che prosegue la saga della Grecia, dei problemi dell’Euro, ecc.

D. – In questo momento, l’Eurogruppo sta studiando come concedere alla Grecia un prestito ponte da 12 miliardi per il fabbisogno finanziario immediato e per permettere così la riapertura delle banche: un braccio di ferro che piega la Grecia…

R. – Se la Grecia la mette sul piano del “conta di più la democrazia greca delle altre democrazie”, gli altri dicono: “Siamo altri 18 e la democrazia c’è anche da noi”. E quindi la Grecia si trova, come si è trovata nel weekend scorso, con la “splendida” alternativa tra Grexit e la firma di un piano più penalizzante, nei tempi e nei contenuti, di quelli che ha scartato per mesi di seguito. Ripeto: va europeizzata la democrazia finanziaria ed economica e si può fare soltanto attraverso un meccanismo di convergenza di molti Paesi europei.

D. – Alcuni dicono che ciò che prevale in questa crisi sia più un’economia di finanza rispetto ad un’economia reale: sono considerazioni che condivide o no?

R. – No, non le condivido, perché l’economia finanziaria e quella reale spesso convergono, come nel caso della Grecia: la Grecia in questo momento ha un problema sia finanziario che economico. Se l’economia – quella reale – va male, anche quella finanziaria certamente non va meglio. E poi è difficile uscire da questo “loop”: ecco perché dico che non vanno bene né i modelli rigoristi dell’austerity a ogni costo della Germania – perché è un modello che va bene in Germania o in alcuni altri Paesi molto rigorosi – ma non va bene neanche il modello “finanziateci a oltranza” della Grecia. Ci vuole un modello europeo e su questo è possibile che l’ostacolo maggiore non sia la Germania, ma piuttosto il Regno unito e soprattutto la Francia.

D. – Dove devono puntare queste riforme?

R. – La colonna principale di queste riforme è la possibilità di federare il debito, o almeno una parte di questo: quindi di ritirare fuori quei famosi “Eurobond”, che devono servire per gli investimenti dell’Unione Europea e non i piani Juncher con pochi miliardi a disposizione per un intero continente.

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Offensiva di Boko Haram Nigeria e Camerun. Oltre 70 morti

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Si aggrava il bilancio della nuova ondata di attacchi sferrata da Boko Haram in Nigeria e Camerun. Oltre 70 le vittime accertate nelle violenze degli ultimi giorni: assaltati e dati alle fiamme diversi villaggi nello stato nigeriano del Borno, mentre due bombe sono esplose in un bar nella cittadina camerunense di Fotokol. Intanto, si registra la condanna da parte dell’Onu e il presidente nigeriano, Buhari, ha rimosso dai loro incarichi i capi delle Forze armate dopo ripetute critiche a quella che considera un'inefficace azione contro i terroristi. Su questa nuova offensiva jihadista, Marco Guerra ha sentito Enrico Casale, africanista della rivista dei Gesuiti "Popoli": 

R. – Questi attacchi hanno due significati. Il primo: Boko Haram non è ancora stato sconfitto, non solo non è stato sconfitto, ma ha ancora una forza tale per cui riesce a portare degli attacchi addirittura fuori dalla Nigeria. Il secondo: Boko Haram vuole punire quei Paesi che stanno collaborando con il governo nigeriano proprio per combattere l’organizzazione e fermarne l’espansione.

D. – Che risposta stanno dando i Paesi della regione? Dopo questi ultimi attacchi, l’Onu ha esortato a una maggiore cooperazione…

R. – La minaccia di Boko Haram è molto sentita nei Paesi confinanti con la Nigeria. Da mesi oramai, Ciad, Camerun, Niger collaborano con il governo nigeriano nel cercare di contrastare l‘espansione di Boko Haram che ricordiamo è – a differenza per esempio degli al Shabaab somali – una "costola" africana dell’Isis. Quindi, vogliono contenere questa espansione e per questo sono intervenuti militarmente. Tra le nazioni più attive c’è certamente il Ciad che ha anche, probabilmente, le Forze armate meglio organizzate e meglio armate dell’intera regione. Ma anche il Camerun che, confinando con la Nigeria proprio con quelle zone dove è più presente Boko Haram, avverte maggiormente il pericolo dell’espansione dell’Isis.

D. – L’attivismo dei jihadisti di Boko Haram ha avuto un’impennata dopo l’elezione del nuovo presidente nigeriano Buhari. Perché?

R. – Ricordiamo subito che Buhari è un musulmano, a differenza del suo predecessore, Good Luck Jonathan, che era un cristiano. Ma il fatto di essere musulmano non gli ha impedito di lanciare un’offensiva forte contro Boko Haram:  anche lui, proprio in quanto musulmano, sente Boko Haram come una minaccia forte al suo Paese e alla comunità musulmana generale della Nigeria. Teniamo presente che in molte zone Boko Haram ha colpito più i musulmani che i cristiani. Quindi, da parte di Buhari c’è stata una reazione molto forte, molto più forte di quella del predecessore Goodluck Jonathan. Per questo adesso Boko Haram sta cercando di fargliela pagare.

D. – Infatti, lo stesso Buhari ha rimosso dai loro incarichi i capi di Esercito, Marina e Aeronautica. Quali ragioni ci sono dietro questo cambio ai vertici delle Forze armate nigeriane?

R. – Probabilmente, Buhari ritiene che i vecchi vertici delle Forze armate nigeriane non operassero in modo sufficientemente efficace contro Boko Haram. Per questo, non solo ha sostituito i vertici delle Forze armate, ma ha messo ai vertici di queste dei militari che provengono dal Borno, cioè da quella zone in cui Boko Haram è più presente e in cui fa sentire maggiormente la sua forza. Sono quindi militari che conoscono bene la regione in cui si muove Boko Haram e probabilmente sono in grado di reagire meglio, di contrastare meglio il movimento jihadista.

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Turchia, al via i colloqui per il nuovo governo

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Primo turno di colloqui, ieri in Turchia, per cercare di formare un governo dopo il voto del 7 giugno. Per la prima volta, dopo 13 anni, il partito Akp del presidente Erdoğan e del premier incaricato, Davutoğlu, ha perso alle urne la maggioranza assoluta. Gli ultimi colloqui di coalizione nel Paese risalgono infatti al 1999. Sceso al 40%, il partito Akp deve confrontarsi con le altre tre formazioni elette, fra cui il partito filo-curdo Hdp, nato nel 2014 ma forte di un inatteso 13%. Al microfono di Giacomo Zandonini, la riflessione della ricercatrice Lea Nocera, dell’Università Orientale di Napoli: 

R. – In queste consultazioni, il presidente del Consiglio, Davutoğlu, incontra ogni giorno uno dei tre partiti: prima il partito dei kemalisti ("Chp" - ndr), poi il partito ultranazionalista "Mhp", e infine il cosiddetto partito filo-curdo, che è quello che rappresenta il reale elemento di novità all’interno del parlamento all’indomani di queste elezioni politiche. È difficile prevedere quale sarà la futura coalizione: l’unica cosa che sembra esclusa è una eventuale coalizione tra il partito dell’Akp, che era al governo, e il partito filo-curdo dell’Hdp.

D. – La questione curda rimane centrale sia a livello nazionale che a livello internazionale per la Turchia…

R. – La situazione a livello nazionale dei curdi è diventata simbolo di una questione che riguarda una serie di minoranze, che non sono solamente etniche, ma anche religiose, linguistiche, ecc. Quindi, la questione curda è paradigmatica, al di là del ruolo già importante che aveva all’interno della società turca. In più, diventa anche molto significativa per lo scenario che c’è nella regione: la Turchia ha il conflitto ormai in casa propria. La questione curda, all’interno e all’esterno, è ormai diventata una cosa unica, e il governo dovrà tenerne conto, anche per evitare che dei conflitti si esasperino. Una delle speranze del nuovo governo, una volta che si formeranno le coalizioni, è che si presti molta più attenzione alle minoranze. Questo viene ribadito, ci sono poi diversi nuovi deputati che appartengono loro stessi a delle minoranze – e anche questa è una novità abbastanza significativa all’interno di questo parlamento. Sarà quindi un tema importante e all’ordine del giorno della nuova politica di governo.

D. – Dunque, se l’Hdp dovesse essere escluso dal nuovo governo, non c’è un rischio effettivo per il processo di normalizzazione in corso tra governo e diversi movimenti curdi?

R. – È chiaro che questa sarebbe un’altra linea di governo. Però, rispetto per esempio al tema delle minoranze, anche il partito kemalista ha fatto una serie di dichiarazioni e lo ha fatto diventare un suo proprio tema. È chiaro che se l’Hdp venisse escluso dalla coalizione di governo, questo significherebbe che ci sarebbe una coalizione forte, formata dall’Akp, dai kemalisti e dagli ultranazionalisti, non molto duratura.

D. – Rispetto sempre agli equilibri geopolitici della zona, la Turchia effettivamente svolge un ruolo fondamentale, di cerniera fra Oriente e Occidente. C’è in gioco anche un cambiamento di questa dimensione, di questa politica estera turca, tradizionalmente improntata al “buon vicinato”?

R. – La cosiddetta politica dei “zero problemi con i vicini”, non è stata del tutto – anzi forse per niente – di successo, perché su quasi tutti i confini oggi c’è una situazione di conflitto. Nell’area mediorientale, la Turchia continua a rappresentare, nonostante tutto, uno dei punti di stabilità. Credo che questo sia un elemento molto importante e di cui anche la Turchia è consapevole. Il problema, oggi come oggi, per la Turchia è dato dalla Siria.

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Iraq. Cristiani rapiti e uccisi, Sako: serve più protezione

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Sempre più grave la situazione dei cristiani in Iraq: la denuncia è della Chiesa caldea locale, che chiede al governo maggiore protezione contro le bande di delinquenti che attentano ai beni e alle persone. “Per centinaia di anni i cristiani hanno contribuito alla civilizzazione e alla cultura dell’Iraq”, si legge nella nota ufficiale. Roberta Barbi ha raccolto il drammatico appello del Patriarca di Babilonia dei Caldei, mons. Louis Sako: 

R. – Io penso che il governo iracheno abbia il dovere di proteggere tutti i cittadini, non solo i cristiani soffrono ma anche gli altri. Ma i cristiani sono una minoranza particolarmente fragile, un obiettivo così diretto, dunque hanno bisogno di più protezione. Purtroppo, il governo adesso è molto occupato con la liberazione di Anbar, Ramadi e Mosul. Tutto l’esercito è lì e qui a Baghdad ci sono gruppi di “mafiosi” che cercano soldi prima della festa dell’Ifar o per comprare armi… Non so, è un guaio veramente. Perciò, ho chiesto al governo di proteggere queste zone dove ci sono cristiani: in due settimane, quattro cristiani sono stati rapiti, due uccisi nonostante fosse stato pagato un riscatto molto alto.

D. – Cristiani rapiti e uccisi, case e beni espropriati, persone costrette con il terrore a lasciare il proprio lavoro: come mai i cristiani sono vittime di questi soprusi?

R.  – Ci sono individui e gruppi che cercano soldi. Una volta pagato il riscatto, non vogliono essere riconosciuti perché la persona dopo può intentare un processo contro di loro. Perciò, sono stati ammazzati. È triste questa anarchia del governo iracheno che è incapace di controllare tutto.

D. – Quindi prosegue, per paura, l’esodo dei cristiani dall’Iraq?

R. – È scandaloso che la comunità internazionale stia solo a guardare, a dire qualche parola di condanna, mentre ci vuole un’azione seria per fermare l’Is e anche più ordine in questo Medio Oriente: Iran, Libia, Siria, Yemen, Libano. Coloro che pagano di più sono i cristiani e non sappiamo per quale motivo, che cosa c’è dietro… Ci sono piani per mandare via i cristiani? Noi non abbiamo una visione chiara della realtà e dunque non possiamo fare nulla. Quando manca questo, non ci sono piani e non possiamo aiutare le nostra gente, né fare progetti perché la situazione è instabile. La gente va via in una maniera anche tragica, senza niente: nessuna visione chiara, nessuna conoscenza dell’Occidente, della lingua, della tradizione, della società, della morale. Sono appena ritornato dalla Francia dove ci sono quasi mille persone che sono state accolte. Sono un po’ persi perché non conoscono la lingua, la mentalità, gli usi, e sono molto isolati. È una situazione molto triste.

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Bologna, funerali Biffi. Caffarra: fu uomo di Dio libero e vero

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Il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, ha presieduto questa mattina i solenni funerali del suo predecessore sulla cattedra di San Petronio, il cardinale Giacomo Biffi, scomparso sabato scorso all’età di 87 anni. Autorità civili, militari e religiose hanno partecipato alle esequie insieme a numerosi vescovi e centinaia di sacerdoti. Tra i cardinali presenti, anche Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana. Un abbraccio caloroso quello che la diocesi petroniana ha riservato al cardinale Biffi, suo pastore dal 1984 al 2003. Il servizio da Bologna di Luca Tentori

Scusate il disturbo e grazie della compagnia. Così, con il suo stile ironico e arguto, si congedò il cardinale Giacomo Biffi dalla Curia bolognese nel dicembre del 2003, dopo quasi un ventennio di episcopato. Di quel disturbo evangelico e di quella compagnia che guidava con decisione ha parlato questa mattina il cardinale Carlo Caffarra, suo successore, durante le esequie celebrate nella cattedrale metropolitana di Bologna:

“Il vescovo Giacomo amava profondamente Cristo, e per usare le parole del Poeta, «la bella Sposa, che si acquistò con la lancia e coi clavi» [Paradiso XXXI, 128-129]. Sentiva come una sorta di gelosia perché la sposa non guardasse con desiderio altri all’infuori di Cristo”.

Poi, un accenno alla sua teologia e guida spirituale:

“Questo modo di guardare la realtà gli dava una grande libertà di giudizio – 'Ubi fides, ibi libertas', era il suo motto. Una grande libertà di giudizio sui fatti di oggi e del passato, anche dal punto di vista rigorosamente storico. Il nostro vescovo Giacomo ci ha insegnato a pensare ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo e Gesù Cristo per mezzo di ogni cosa. E Dio solo sa quanto oggi nella nostra Chiesa italiana abbiamo bisogno di una fede capace di generare un giudizio sugli avvenimenti che stanno accadendo”.

Uomo di una carità nascosta, ha proseguito il cardinale Caffarra, è stato di esempio anche negli ultimi mesi in cui la malattia lo aveva pian piano consumato:

“Perché non dimentichiamo mai che la più grande povertà dell’uomo è non conoscere Gesù Cristo”.

Un ricordo del cardinale Biffi a margine della celebrazione ai nostri microfoni è arrivato anche dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana:

“Era un punto di riferimento anche per il mondo culturale italiano e sociale in tutti i suoi aspetti, perché vedevano e riconoscevano in lui una mente lucida e un grande cuore che amava il Paese e Cristo naturalmente. E da Cristo il Paese intero. Quindi, riconoscendo questo, tutti guardavano a lui e ascoltavano la sua parola. L’amore va sempre unito alla verità e la verità è sempre da annunciare nell’amore. Poiché Dio è verità e amore. Questo ce lo ha detto Gesù e questo lo aveva presente con estrema chiarezza e lo viveva nella sua vita”.

Se ne è andato così anche l’ultimo cardinale del Novecento della Chiesa di Bologna che ha visto grandi pastori guidarla nelle turbolenze della storia. Prima di lui, il cardinale Antonio Poma che gestì la fase del post-Concilio, affrontò i terribili "Anni di piombo" e fu il primo presidente della Conferenza episcopale italiana. Negli anni ’50 e ‘60 un altro Giacomo cardinale, di cognome Lercaro, uno dei quattro moderatori del Concilio Vaticano II. All’inizio del secolo, ancora un altro Giacomo, questa volta Della Chiesa, che divenne Pontefice con il nome di Benedetto XV, il Papa della grande Guerra, quell’”inutile strage” che non riuscì a scongiurare.

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Commozione per la morte di Fratel Arturo Paoli, dono per la Chiesa e i poveri

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"Un dono straordinario per la Chiesa, in particolare a favore dei più poveri”. Così, l’arcivescovo di Lucca, mons. Italo  Castellani, ha voluto definire fratel Arturo Paoli, religioso missionario, della congregazione dei Piccoli Fratelli del Vangelo, morto domenica notte, a 102 anni, a San Martino in Vignale. Domani, alle 18, le sue esequie nella cattedrale di Lucca. Il salvataggio di centinaia di ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, per cui fu riconosciuto “Giusto fra le nazioni”, l’impegno nell’Azione Cattolica in Italia, l’esperienza missionaria a difesa dei deboli in America Latina, dove conobbe il futuro Papa Francesco, sono alcuni tratti della biografia di questo maestro di spiritualità, ricevuto dal Pontefice nel gennaio 2014 a Santa Marta. Al microfono di Fabio Colagrande, don Luigi Verde, della fraternità di Romena, lo ricorda così: 

R. – Quello che mi ha sempre colpito di lui era la leggerezza. Diceva che quello che rende bella la vita è il non portare fardelli: “Non ti posso dire – diceva – che la mia vita sia stata buona. E’ stata anche piena di difficoltà… Però queste avversità mi sono sempre servite ad avanzare, a vedere più in là e soprattutto a liberarmi da tutta la mia pesantezza”. Aveva, per così dire, una grandezza basata sulla leggerezza. La capacità di non farsi avvelenare da niente e poi dava un grande valore all’amore di Dio: “Non siamo noi ad amare Dio – diceva fratel Arturo - ma è Dio che ama noi”. Insisteva sul fatto che Dio non si conquista, ma si accoglie. E sulla tenerezza e la misericordia di Dio, che lui riusciva sempre a far emergere, un po’ come sta facendo Papa Francesco. Lui diceva che noi pensiamo sempre al rapporto con Dio come a qualsiasi altra relazione umana, in cui si costruisce, si fa… In realtà, Dio ha bisogno dell’uomo non tanto per realizzare qualcosa, ma ha bisogno della sua tenerezza, ha bisogno del vuoto dell’uomo, dei limiti dell’uomo, di questa impotenza dell’uomo. Ed è proprio lì che emerge tutta la tenerezza e la misericordia di Dio. E chiaramente, poi, per fratel Arturo era centrale l’attenzione ai poveri. Lui diceva: “Mi convinse a entrare nei Piccoli Fratelli il fatto di stare in mezzo ai poveri”. Era certo che la Chiesa dovesse stare con i poveri e che esistesse solo un cammino alla fine, quello di Gesù, e cioè accorgersi che nella vita le persone hanno bisogno di poche cose: un pezzo di pane, un po’ di affetto, sentirsi a casa da qualche parte. Ultimamente diceva che oggi i poveri sono le prime vittime di un sistema economico disumano e che la giustizia – per lui – esprimeva la necessità di stare dalla loro parte. Era meraviglioso il fatto che non si sentisse troppo vecchio per partecipare: fino a novant’anni partecipava a tutto! E quando era giovane non si sentiva troppo giovane per non guidare, per non dare indicazioni.

D. – Fratel Arturo Paoli nonostante l’età ha continuato a girare l’Italia e a tenere tante conferenze. Abbiamo visto anche la reazione sul web alla notizia della sua morte: tantissimi credenti e non, in tutta Italia, erano legati a lui. Perché, secondo lei?

R. – Secondo me, perché aveva davvero una grande umanità insieme ad una grandissima profondità. Non era veramente soltanto colui che faceva servizio ai poveri o che gridava per i poveri: spingeva i poveri sempre ad una grande responsabilità, ad una grande profondità evangelica. La naturalezza, veramente… Io ricordo un po’ le parole di Papa Giovanni quando diceva: “Ciò che è semplice è naturale e ciò che è naturale racchiude il divino”. Fratel Arturo dava l’idea proprio di essere un uomo molto naturale, molto semplice, a cui piaceva sempre la dimensione della fraternità, una dimensione in cui ogni persona si potesse sentire a casa, potesse sentirsi accolta in qualche modo. Quindi questa umanità, questo sguardo, questo sorriso erano le prime porte per arrivare a Dio.

D. – Come aveva vissuto Fratel Arturo l’elezione di Papa Francesco?

R. – Era davvero molto contento. Contento perché ritrovava in Francesco, in fondo, questa attenzione ai poveri e soprattutto l’attenzione ad andare all’essenza del cristianesimo. Quelle poche parole incisive su cui non si gira intorno: lui diceva che se vuoi capire se una cosa è opera di Dio devi guardare a un fiore che sboccia. Un fiore sboccia non tanto se c’è un recinto intorno o delle strutture rigide come uno steccato che lo difendono, ma nasce con la luce e il calore. Quindi vedeva in in Francesco, negli occhi di quest’uomo - e a me sembra molto simile questa luce degli occhi di Papa Francesco a quella di Fratel Arturo – quella luce e quel calore che possono veramente portare l’uomo a Dio.

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Nella Chiesa e nel mondo



I vescovi del Sudafrica: pensare ai poveri, non ai profitti

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Dare accesso ai farmaci contro il cancro e l’Aids a tutta la popolazione, anche i più poveri: è l’appello lanciato dalla commissione episcopale "Giustizia e Pace" della Conferenza episcopale sudafricana al governo. Il documento, firmato dal presidente e vescovo di Kimberley, mons. Abel Gabuza, è stato diffuso dall'agenzia Fides.

L’accesso ai farmaci e la questione brevetti
La questione è in questi termini, secondo i vescovi: i medicinali per le cure del cancro e dell’Aids sono coperti da brevetto, e ciò li mette fuori dalla portata delle persone più povere. “Il Paese ha bisogno di un approccio innovativo che contemperi la protezione dei poveri e le necessità delle industrie farmaceutiche di ottenere profitti – si legge nel documento – il nostro sistema fa sì che le medicine siano finanziariamente insostenibili per il ministero della Sanità e quindi indisponibili per milioni di poveri in Sudafrica”.

L’appello della commissione "Giustizia e Pace"
Da qui l’invito dei presuli al dipartimento del Commercio e dell’Industria a “salvare la vita ai pazienti affetti da cancro facendo approvare subito la nuova politica sulla proprietà intellettuale”. I vescovi denunciano come “meschini” gli interessi delle multinazionali farmaceutiche che di fatto sequestra i processi per la messa a punto dei nuovi farmaci. (R.B.)

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Dolore vescovo Managua per uccisione innocenti in lotta a narcotraffico

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Sabato scorso, 11 luglio, nel corso di un’operazione di polizia lungo una strada rurale a Est di Managua – capitale del Nicaragua – sono rimasti uccisi una donna e due bambini, scambiati dagli agenti per un gruppo di narcotrafficanti. Altri due bambini della famiglia colpita sono stati feriti in modo lieve. Dei partecipanti all’operazione, 14 poliziotti sono stati arrestati e sarà verificato il loro grado di responsabilità nell’accaduto.

La lettera del vescovo ausiliare di Managua
Il vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Managua, mons. Silvio Baez, chiede giustizia per le vittime in una nota pervenuta all'agenzia Fides: “Bisogna ripristinare la giustizia – ha scritto – perché la violenza e l’impunità non prevalgano nella società. Le mie preghiere vanno a questa famiglia e a questi due bambini feriti”. Il presule afferma che non si tratta di un caso isolato e invita la polizia a fare “un’esame di coscienza” e a “rivedere il suo modo di operare, il protocollo nell’uso delle armi, i responsabili, il rispetto per i diritti umani, per i cittadini e per la legge”. (R.B.)

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Chiesa in Malawi: povertà del Paese è soprattutto morale

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Perché il Malawi è così povero? Ha tentato di rispondere a questa domanda l’arcivescovo di Blantyre, mons. Thomas Luke Msusa, nel messaggio che ha scritto in occasione del 51.mo anniversario dell’indipendenza del Malawi, celebrato il 6 luglio scorso. “Forse perché la popolazione del Malawi ha perso la trasformazione umana e morale ancora prima di quella economica”, ha risposto. Ma una trasformazione economica reale – si legge nel documento inviato alla Fides – non potrà mai essere raggiunta senza una morale economica dimostrata dai nostri leader in ogni settore della società.

Corruzione e nepotismo i mali del Paese africano
Anche il missionario monfortiano padre Piergiorgio Gamba ha indicato come principali responsabili dell’arretratezza del Paese africano la corruzione, il nepotismo e il regionalismo: “Finché saranno le caratteristiche fondamentali dei leader di governo, non ci sarà un Malawi migliore”, ha detto. Si sta parlando di un Paese in cui c’è cronica mancanza di medicine negli ospedali; un sistema sanitario vicino al collasso a causa del mancato pagamento dei salari; la carenza di aule e insegnanti nelle scuole; l’assenza di impiego per i giovani che sono obbligati a cercare lavoro nel vicino Sudafrica e che spesso qui cadono vittima della violenza xenofoba; il tasso d’interesse applicato dalle banche, che è pari al 40%. Ad aggravare il quadro, la carenza di cibo prevista per i mesi a venire a causa dei gravi danni ai raccolti causati dalle alluvioni dei mesi scorsi.

Un’economia allo stremo appesantita dalla presenza di profughi
A pesare su un’economia già così tanto provata sono i mille profughi che il Malawi accoglie, scappati dal Mozambico mai del tutto pacificato per lo scontro tra il partito di governo Frelimo e l’opposizione della Renamo. Inoltre, a causa della difficoltà di coprire le spese di trasporto, nonostante l’accordo sia stato raggiunto nel 2013, non sono stati ancora rimpatriati i profughi provenienti dal Rwanda. (R.B.)

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Zizioulas a Civiltà Cattolica: "Laudato si’" appello a ecumenismo

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“La Laudato si’  è un appello” all’ecumenismo “esistenziale”. E’ quanto afferma il metropolita di Pergamo, Ionannis Zizioulas, in una lunga intervista con padre Antonio Spadaro, pubblicata sull’ultimo numero di Civiltà Cattolica. Il vescovo ortodosso, che è stato tra i relatori della presentazione dell’Enciclica di Papa Francesco - lo scorso 19 giugno nell’Aula Nuova del Sinodo - sottolinea che “di fronte ai grandi problemi dell’umanità e del pianeta le nostre differenze e divisioni si relativizzano. C’è su alcune questioni un ecumenismo già realizzato. Dunque, l’Enciclica è davvero un richiamo all’unità dei cristiani, alla preghiera comune e alla conversione dei nostri cuori e dei nostri stili di vita divenuti insostenibili”.

Crisi ecologica è innanzitutto problema spirituale
“La crisi ecologica – prosegue Zizioulas nella conversazione con il direttore della rivista dei gesuiti – è essenzialmente un problema spirituale: l’Enciclica lo dice con chiarezza. Con il peccato originale il corretto rapporto tra l’uomo e il suo ambiente naturale si è rotto. Questa rottura è peccato, il peccato ecologico, che è sia individuale sia sociale. Chi pensa alla propria salvezza non può non considerare il peccato ecologico, frutto dell’avidità umana”. Il metropolita di Pergamo sottolinea il grande impegno del patriarca ecumenico Bartolomeo I sui temi dell’ambiente e rammenta che già nel 2002, assieme a Giovanni Paolo II, fu firmato un documento comune, la Dichiarazione di Venezia, “in cui i due leader della Chiesa hanno dichiarato la loro preoccupazione per la tutela del nostro pianeta minacciato dall’attuale crisi ecologica”. Adesso, soggiunge, “a nome del patriarca ecumenico, ho espresso a Sua Santità Francesco la grande gratitudine del mondo ortodosso per aver levato la sua voce autorevole in questo momento critico della storia dell’umanità”.

Ambiente e giustizia sociale centrali nell’ecumenismo
“Le Chiese – ribadisce il vescovo Zizioulas – devono cercare la loro unità non solo rispetto al passato, ma anche rispetto alle attuali condizioni in cui vivono. Anche i bisogni reali dell’umanità devono essere presi in considerazione nell’ecumenismo esistenziale, e questo significa che problemi come la giustizia sociale e la salvaguardia del creato devono rivestire un posto centrale nelle relazioni ecumeniche”. Del resto, prosegue, “l’ecologia non è preservazione, ma sviluppo”. Il metropolita torna poi a rilanciare la sua proposta affinché i cristiani possano celebrare una data comune per pregare per la terra. “Il Patriarcato ecumenico – spiega – ha deciso nel 1989 di dedicare la data del primo settembre alla preghiera per l’ambiente”, “in questo giorno noi preghiamo per il creato anche con preghiere composte appositamente da un innografo del Monte Athos. Sarebbe un segno, se questa data avesse valore per tutti i cristiani”. (A cura di Alessandro Gisotti)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 195

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.