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Sommario del 20/07/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



500 anni fa nasceva San Filippo Neri. Papa: fu amore di Dio col sorriso

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La Chiesa, quella di Roma in particolare, vive la vigilia dell’anniversario di uno dei suoi Santi più popolari: il 21 luglio 1515 nasceva a Firenze Filippo Neri, che ben presto si trasferirà nella città del Papa per dare inizio a una straordinaria esperienza di carità tra i più poveri, intessuta di una letizia e una spontaneità rimaste come uno dei segni più noti e amati dell’apostolato di San Filippo. Anche Papa Francesco, lo scorso 26 maggio ha voluto rievocare in un Messaggio questo anniversario. Il servizio di Alessandro De Carolis

Pietro e Paolo, e Filippo. Da 500 anni gli “Apostoli di Roma” sono tre. E questo la dice lunga sull’amore di una città per un uomo nato a Firenze ma rinato, per i romani, tra le piazze della Città Eterna e i vicoli, quelli più degradati, dove un pastore santo può anche avere l’odore delle pecore ma le pecore hanno addosso il puzzo della malattia e della povertà, che svuota le tasche e l’anima.

Tra le periferie del centro
Quando Filippo Neri arriva a Roma nel 1534, è come se una luce venisse accesa nel buio della miseria che annida tra le glorie dell’Ara Pacis e i lustri travertini dei palazzi nobiliari. Il centro dell’Urbe ha la faccia sporca delle periferie e lì Filippo andrà a prendere una stanzetta, a San Girolamo a via Giulia. Di giorno, viso simpatico e cuore lieto che porta a chi incontra il calore di Dio, senza nemmeno essere un prete, accompagnandolo se può con un pezzo di pane. O una carezza sulla fronte, un conforto sussurrato, a chi si lamenta sui pagliericci dell’Ospedale degli Incurabili. Di notte, un’anima di fuoco, Filippo, perso in un dialogo talmente intimo con Dio che il suo letto può essere senza problemi il sagrato di una chiesa o la pietra di una catacomba.

Il sorriso sempre
Questo – ricorda il Papa nel suo messaggio per il 500.mo – lo rese “appassionato annunciatore della Parola di Dio”. Questo è stato il segreto che fece di lui un “cesellatore di anime”. La sua paternità spirituale, osserva Francesco, “traspare da tutto il suo agire, caratterizzato dalla fiducia nelle persone, dal rifuggire dai toni foschi ed accigliati, dallo spirito di festosità e di gioia, dalla convinzione che la grazia non sopprime la natura ma la sana, la irrobustisce e la perfeziona”. “Si accostava alla spicciolata ora a questo, ora a quello e tutti divenivano presto suoi amici”, racconta il suo biografo e il Papa commenta: “Amava la spontaneità, rifuggiva dall’artificio, sceglieva i mezzi più divertenti per educare alle virtù cristiane, al tempo stesso proponeva una sana disciplina che implica l’esercizio della volontà per accogliere Cristo nel concreto della propria vita”.

L’ora dell’Oratorio
Tutto questo affascina chi, conoscendo Filippo, vuole fare come lui. L’“Oratorio” nasce così, tra i tuguri fetidi profumati giorno per giorno da una carità fatta di carne e non per un progetto disegnato sulla carta e calato dall’alto come un’elemosina data a freddo. “Grazie anche all’apostolato di San Filippo – riconosce Papa Francesco – l’impegno per la salvezza delle anime tornava ad essere una priorità nell’azione della Chiesa; si comprese nuovamente che i Pastori dovevano stare con il popolo per guidarlo e sostenerne la fede”. E pastore lo diventa lui stesso, Filippo, che nel 1551 approda al sacerdozio senza per questo cambiare vita e stile. Col tempo, attorno a lui prende corpo la prima comunità, la cellula della futura Congregazione che nel 1575 riceve il placet di Gregorio XIII.

“State bassi”
“Figliuoli, siate umili, state bassi: siate umili, state bassi”, ripete ai suoi padre Filippo, che ricorda che per essere figli di Dio “non basta solamente onorare i superiori, ma ancora si devono onorare gli eguali e gli inferiori, e cercare di essere il primo ad onorare”. E colpisce, da un’anima tanto contemplativa come Maria ai piedi di Gesù, il piglio di Marta che convive nel suo cuore quando afferma: “È meglio obbedire al sagrestano e al portinaio quando chiamano, che starsene in camera a fare orazione”. Filippo Neri, il terzo Apostolo di Roma, chiude gli occhi alle prime ore del 26 maggio 1595. Mai spento è il dinamismo del suo amore e a Roma che si prepara al Giubileo della misericordia sembra che ripeta: “Non è tempo di dormire, perché il Paradiso non è fatto pei poltroni”.

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Santa Sede. Il Papa nomina il nuovo direttore dell'Ufficio del Lavoro

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Papa Francesco ha nominato nuovo direttore dell’Ulsa, l'Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica, il dott. Salvatore Vecchio, finora direttore delle Risorse Umane dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. 51 anni, siciliano, è laureato in legge ed è un esperto di gestione del personale e rapporti sindacali.

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Oggi su "L'osservatore Romano"

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In prima pagina, "Le grandi potenzialità del continente latinoamericano". All’Angelus in piazza San Pietro il Papa ricorda il recente viaggio in Ecuador, Bolivia e Paraguay. Accanto, "Oltre le divisioni". Cuba e Stati Uniti riaprono le rispettive ambasciate.

In Cultura, a pagina 4, "Nella vita  e nella morte". Dal matrimonio pagano a quello cristiano di Fabrizio Bisconti, "Con due sorelle maggiori. L’eredità del filologo e grecista Martin West" e "La storia e i sogni da realizzare. Una mostra a New York sulla visita di Paolo VI.

A pagina 5, "la tristezza del santo felice", una pagina monografica dedicata a san Filippo Neri, a cinquecento anni dalla nascita.

In ultima pagina, "Echi di una visita attesa" un commento di Jorge Milia al recente viaggio in America Latina.

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Oggi in Primo Piano



Libia nel caos: rapiti 4 italiani e 3 cristiani africani

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Libia sempre più nel caos. Altre sette persone sono state rapite: quattro tecnici italiani e tre africani di confessione cristiana. Questi ultimi, un ghanese, un nigeriano e un egiziano copto, sono stati sequestrati da jihadisti delsedicente Stato islamico (Is). Ancora nessuna rivendicazione invece per gli italiani, dipendenti della ditta Bonatti, rapiti ieri probabilmente nella zona di Zuwarah mentre si recavano sul luogo di lavoro. Giacomo Zandonini ha intervistato Nancy Porsia, giornalista che ha lavorato in Libia e che conosce bene la regione di  Zuwarah: 

R. – Quella zona è da sempre famosissima in tutta la Libia per i rapimenti a danno dei locali. Quindi, è sempre stata una zona off-limits. Il problema non è chi governa Zuwarah, il problema è quello che sta succedendo nell’intera area. Anzitutto, la depressione economica e il vuoto di potere, e quindi di sicurezza, stanno facilitando l’espansione e il moltiplicarsi delle bande criminali. Se a questo si aggiunge la presenza massiccia di armi, possiamo facilmente capire quanto sia facile compiere una serie di crimini, come anche rapimenti al fine di avere riscatto. Quello che è già successo in precedenza in Libia… Vorrei ricordare che la Libia conta, negli ultimi anni, il rapimento di ben sei italiani. I cittadini italiani purtroppo vantano questo triste record.

D. – Certo, la matrice fondamentalista, rivendicata per le tre persone rapite all’inizio di luglio, non è da escludere neanche per i quattro italiani rapiti ieri…

R. – Il rapimento di questi quattro italiani potrebbe essere contestualizzato anche nella cornice di espansione dei movimenti fondamentalisti, laddove ci sono, appunto, le province del Califfato dell’Is: ufficialmente a Derna e a Sirte, una forte presenza alquanto conclamata anche a Bengasi, ma cellule dormienti di fondamentalisti sono in tutta la Libia. Non ci sono informazioni in merito, ho appena sentito le autorità libiche che mi hanno confermato il rapimento, ma non hanno alcuna informazione e nessun dettaglio.

D. – Proprio l’impianto di Mellitah è un impianto strategico fondamentale, che forse ha comunque stimolato alcune tensioni nella zona…

R. – Nell’area di Mellitah, ossia il compound guida Eni, dove sarebbe stato effettuato il rapimento, nelle ultime settimane si stanno verificando una serie di rapimenti. Chiaramente, non sono mai saliti agli onori della cronaca perché le vittime sono sempre state libiche e nelle ultime settimane pare che i rapimenti eseguiti fossero stati compiuti dal cosiddetto "Jaysh al Qabail", la "tribù d’onore” come si definiscono: una tribù proveniente dall’are di Warshafana, che è l’unica sacca di resistenza legata ad Haftar nell’area ovest, insieme alla città di Zintan. Negli ultimi mesi sono stata spessissimo a Mellitah a intervistare gli uomini della sicurezza e loro erano assolutamente fiduciosi rispetto alle loro capacità di proteggere il sito.

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Elezioni in Burundi. Padre Marano: è vigilia di guerra civile

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Elezioni presidenziali domani in Burundi: ancora in corsa, per un terzo mandato, l’attuale capo di Stato Nkurunziza, contestatissimo, nonostante la Costituzione non preveda tale eventualità. L’opposizione boicotta il voto. Fallita qualsiasi mediazione internazionale con il governo. Al microfono di Benedetta Capelli, padre Claudio Marano, missionario saveriano, per circa 30 anni nel Paese e da poco rientrato in Italia: 

R. – Nessuno ha voluto mettersi attorno a un tavolo e fare delle discussioni, nessuno! Perché – dobbiamo dirlo molto chiaramente – l’opposizione perché è l’opposizione, il partito che è al governo perché è il partito che è al governo, e così ognuno, nonostante gli inviti di tutti gli Stati vicini, dell’Onu, dell’Unione Africana, degli americani - nonostante tutto questo - c’è stato un gran silenzio. L’Onu aveva mandato il presidente ugandese Museveni come rappresentante dei Paesi vicini per riuscire a fare qualcosa per questo Paese, ma Museveni aveva un difetto molto logico: anche lui vuole ottenere un terzo mandato senza che la Costituzione glielo permetta. Quindi non poteva fare grandi cose. Dopo più di 100 morti, quasi 200.000 persone rifugiate, più di un migliaio di giovani che sono in prigione - dopo tutto questo - domani ci saranno le elezioni…

D. – Elezioni che dunque sono nelle mani di Nkurunziza, perché – appunto – fallite le mediazioni, l’opposizione ha boicottato il voto. I giochi sono fatti?

R. – Esattamente. Non c’è nessuna possibilità di fare cose diverse. Sono delle elezioni per dare un okay ancora una volta a Nkurunziza.

D. – Che bilancio si può fare della vita politica di Nkurunziza?

R. – Nkurunziza non ha una mentalità politica. Nkurunziza ha una mentalità tipica di un’etnia che è al governo e che fa tutto quello che vuole al posto dell’altra etnia che prima era al governo e che ha fatto tutto quello che voleva. In Burundi c’è un difetto generale: quello di arrivare al potere per ottenere tutto quello che c’è! Non è arrivare al potere per riuscire a rendere il Paese migliore. Non c’è niente di nuovo, c’è soltanto la continuazione di quello che è stato fatto finora.

D. – C’è però un Paese che convive con un elevato tasso di malnutrizione e di povertà. Cosa rischia il Burundi nel futuro?

R. – Il Burundi, prima delle elezioni, aveva il 70% di aiuti che venivano dall’estero. Aiuti necessari per riuscire a farlo andare avanti. Oggi rischia moltissimo, rischia di restare senza soldi, rischia una rivoluzione interna, rischia che l’agricoltura scoppi, perché l’agricoltura va avanti da troppo tempo senza alcuna programmazione. Rischia tutto questo. In Burundi poi ci sono i cinesi che costruiscono gli ospedali, le scuole, i cinesi realizzano il palazzo presidenziale… E questo non so fino a dove possa arrivare. Poi ci sono i Paesi stranieri e tutte le grandi organizzazioni che non dovrebbero prendere i soldi indietro, dovrebbero lavorare per un cambiamento di mentalità, di testa. In Burundi i politici cercano soltanto il loro interesse.

D. – Ma non c’è nemmeno una parte della società civile, della popolazione - i giovani, ad esempio, per i quali bisognerebbe investire nell’educazione – che, invece, la pensano in maniera diversa?

R. – Sì, ci sono. Però bisogna vedere quanti sono sullo stesso piano e quanti invece non lo sono. È per quello che io dico che siamo alla vigilia di una guerra civile e non si può dire che oggi sono i Tutsi contro gli Hutu e domani ci sarà la pace. No! Domani saranno dei cattolici contro i musulmani, sarà un partito politico contro un altro, e così via… Qui c’è molto da lavorare sulla formazione, ma c’è molto da lavorare sul mettere insieme la gente perché riesca ad imparare e a vivere in pace. È l’unico lavoro che c’è da fare in Burundi. Il resto serve - certo - per mangiare, per coprirsi, per fare la casa, ma l’unico lavoro che sarebbe veramente urgente fare è quello di mettersi insieme per scoprire come si vive bene in pace.

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Usa-Cuba: riaperte ambasciate, bandiera cubana sventola a Washington

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Sono state ufficialmente riaperte le ambasciate di Stati Uniti e Cuba all’Avana e a Washington: gli edifici che ospitano le sezioni di interesse nei due Paesi hanno infatti riacquistato automaticamente il loro status di ambasciate alle 6.01, ora italiana, come risultato di un accordo annunciato il 30 giugno scorso, dopo lo spiraglio aperto nel dicembre 2013 dalla storica stretta di mano tra il presidente statunitense Barack Obama e l’omologo cubano Raúl Castro alle commemorazioni in Sudafrica per la morte di Nelson Mandela. A Washington, la bandiera cubana è stata issata al Dipartimento di Stato, accanto agli stendardi di altri Paesi; in programma anche una cerimonia alla presenza del ministro degli Esteri cubano Bruno Rodriguez, nella prima visita di un capo della diplomazia del governo castrista dal 1959. Le relazioni diplomatiche furono interrotte nel 1961. All’Avana non è prevista alcuna celebrazione, ma è attesa per le prossime settimane una visita del segretario di Stato Usa, John Kerry. Sull’importanza della riapertura delle ambasciate, ascoltiamo Massimo De Leonardis, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano, intervistato da Giada Aquilino

R. – La diplomazia, intesa come arte di condurre la politica internazionale, è evidentemente un riflesso della politica estera. Se migliorano i rapporti di politica estera tra due Paesi, è ovvio che si debbano riprendere anche le relazioni diplomatiche. Direi che dal punto di vista formale è la prima misura da prendere, uno dei primi segni formali di miglioramento dei rapporti. Invece la rottura delle relazioni è una misura che andrebbe presa con estrema cautela.

D. – In questi ultimi anni come sono cambiati i rapporti tra Stati Uniti e Cuba?

R. – Credo che da entrambe le parti ci siano state delle evoluzioni. Come ha ammesso Obama, la politica di chiusura con le sanzioni non è servita a molto. Dall’altra parte, certamente il mutamento non è rilevante ma il passaggio del comando da Fidel Castro al fratello Raúl segna una timida apertura, un minimo di liberalizzazione dal punto di vista economico, mentre è tutta da vedere ancora la questione dei diritti umani. La grossa domanda, insomma, è cosa succederà nel ‘dopo’ Raúl Castro.

D. – Si tratta di relazioni piene o manca ancora qualcosa? Ad esempio la revoca dell’embargo statunitense a Cuba…

R. – Le relazioni diplomatiche, da un punto di vista formale, sono relazioni piene e qui siamo sul piano della ‘tecnica dei rapporti’, dal punto di vista del diritto internazionale. Dal punto di vista più strettamente politico, certo, manca la revoca dell’embargo, ma questo è un altro campo. Facciamo l’esempio della Russia: tra la Russia e gli Stati Uniti le relazioni diplomatiche non sono mai state interrotte, ma in questo momento Mosca è sottoposta a pesanti sanzioni. Quindi sono due aspetti, due piani diversi. Direi che la ripresa delle relazioni diplomatiche è il minimo, dal punto di vista formale, per segnalare la normalità di una situazione.

D. – Tra l’altro è necessario il voto del Congresso per togliere l’embargo imposto nel 1962…

R. – Esatto, mentre invece questo non è necessario per la ripresa delle relazioni diplomatiche. Penso che, per la questione dell’embargo, bisognerà aspettare la ripresa dei lavori congressuali in autunno e ci dovrà essere qualche segnale ulteriore nei campi economico e dei diritti umani a Cuba. E naturalmente questa questione rientrerà nel pacchetto di misure di politica estera che Obama ha preso: la più importante è la normalizzazione dei rapporti con l’Iran; ma sembra che la maggioranza del Congresso sia quantomeno perplessa.

D. – Nel viaggio di ritorno dall’America Latina, parlando delle relazioni tra Stati Uniti e Cuba, Papa Francesco ha detto che entrambi i Paesi nel negoziato “perderanno qualcosa e guadagneranno qualcosa”, sicuramente “in pace e amicizia”. Cosa ne pensa?

R. – In un negoziato certamente bisogna sempre raggiungere un punto di compromesso. In questo caso, ritengo che dal punto di vista americano la concessione sarà la rinuncia a un puntiglio, a una chiusura formale molto dura nei confronti di Cuba. Ma certamente le concessioni sostanziali nel lungo periodo dovrà farle Cuba, perché dovrà aprirsi a una prospettiva di liberalizzazione.

D. – E il ruolo della Chiesa in questo ravvicinamento qual è stato? Il Papa ha detto: “noi non abbiamo fatto quasi nulla, solo piccole cose”…

R. – Questo lo potranno dire gli storici del domani, ma oltre al ruolo della Santa Sede, bisogna pensare anche al ruolo della Chiesa a Cuba, che certamente ha favorito questa apertura. E poi non dimentichiamo che ben due Pontefici prima di Papa Francesco, che la visterà prossimamente, erano già stati a Cuba.

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La Grecia riparte: arrivato il prestito Ue, banche riaprono

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Primi passi della 'nuova Grecia' dopo l'accordo con l’Unione Europea. Oggi le banche hanno riaperto gli sportelli al pubblico, con un tetto massimo, per i prelievi, di 420 euro a settimana. Arrivato anche il prestito ponte di oltre 7 miliardi di euro, che consente ad Atene la restituzione alla Banca Centrale Europea di 3 miliardi e mezzo. Al via anche le misure anticrisi con l’aumento dell’Iva dal 13 al 23% per molti prodotti alimentari e servizi. Intanto, si è dimesso il numero uno della Previdenza Sociale, mentre rimangono le preoccupazioni per una possibile uscita di Atene dall’euro. Su questa giornata Giancarlo La Vella ha raggiunto telefonicamente ad Atene Christos Katsimpinis, architetto in pensione: 

R.  – Per il momento la gente è tranquilla, specialmente i pensionati. La vita si sta organizzando bene adesso.

D.  – C’è la paura che comunque lo spettro dell’uscita dall’euro possa ancora non essere cancellato …

R.  – Purtroppo ancora non siamo tanto sicuri e speriamo che tutto andrà bene non solo per noi ma per tutta l’Europa.

D. – Il fatto che il partito di maggioranza Syriza si sia spaccato provoca incertezze nella popolazione che ha dato molta fiducia a Tsipras e al suo partito…

R. – Sì è vero, però io spero che tutto si normalizzi. Spero non ci sarà bisogno di nuove elezioni. Ho la speranza che questo governo continui a risolvere i nostri problemi; è quello che vogliamo, non altre elezioni o referendum.

D. – Quali sono i sentimenti nei confronti dell’Europa e in particolare della Germania che hanno obbligato Tsipras ad adottare misure severe?

R.  – La gente non è molto contenta della Germania, invece  l’Italia, la Spagna e la Francia sono state più comprensive e hanno avuto una posizione di maggiore dialogo con Atene per risolvere la crisi.

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Egitto. Sinai "caldo", l'Is punta al controllo dell'area

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Le ultime violenze registrate ieri nel Sinai – quasi una sessantina di morti tra le fila dei militanti dell’Is dopo un attacco dell’esercito regolare – tengono in costante apprensione l’Egitto, impegnato da due anni a fronteggiare i tentativi di espansione dei jihadisti nell’area. Emanuela Campanile ne ha parlato con Stefano Torelli, esperto dell’area del Mediterraneo e di Medio Oriente dell’Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi): 

R. – Isis e movimenti jihadisti affiliati all’Isis stanno in realtà dimostrando di volere attuare una vera e propria escalation soprattutto in Egitto. Dall’estate del 2013, con la repressione che il nuovo governo ha attuato, e sta attuando, contro la Fratellanza musulmana – e in realtà anche contro le altre opposizioni, altre forme di dissenso – si è creata una situazione di scontro interno molto forte. In questo contesto, sono emerse forze jihadiste legate allo Stato islamico e questo complica un po’ il quadro, perché l’emergere del terrorismo in Egitto, come non era dall’inizio degli anni Novanta, rischia comunque di destabilizzare questa situazione che con al Sisi in parte si è stabilizzata anche se a duro pezzo, cioè con la repressione  sostanziale  di tutte le forme di opposizione. Quindi, questa a mio avviso è una politica molto rischiosa da parte del governo egiziano.

D. – Che cosa succederebbe se l’Egitto venisse completamente piegato?

R. – Sicuramente, un elemento che favorisce l’emergere del califfato è la politica che al Sisi sta seguendo nei confronti di quell’ala islamica moderata rappresentata dalla Fratellanza musulmana e fino a prova contraria non ci sono evidenze che sia collegata alle forze jihadiste. Cosa succede? Da un lato, la Fratellanza musulmana repressa o alcuni movimenti di questa potrebbero – e in parte probabilmente stanno già –radicalizzarsi sempre di più e sposare in parte, magari anche soltanto per ragioni tattiche, se vogliamo, la causa dello Stato islamico. D’altro canto, le azioni dello Stato islamico in Egitto permettono ad al Sisi di continuare la repressione anche contro la Fratellanza musulmana accusandola di essere collusa o connivente con il jihadismo. Questa è una situazione esplosiva sostanzialmente. L’unica strada che penso si possa perseguire è quella di un dialogo, di una riappacificazione con quegli elementi moderati della Fratellanza musulmana per far sì che questa parte di espressione politica egiziana – che comunque è notevole dal punto di vista numerico – non cada completamente nelle mani dell’Isis, ma possa essere coinvolta nuovamente in un processo politico inclusivo, che sia teso a evitare che queste forme di radicalismo possano crescere sempre di più.

D. – Si può parlare di una corsa contro il tempo?

R. – Sì, perché stiamo vedendo che con il passare dei mesi la situazione sembra peggiorare dal punto di vista della sicurezza. Quindi, probabilmente un approccio soltanto basato sulla risposta militare e sulla repressione del dissenso evidentemente non può bastare, non è sufficiente per sconfiggere le cause profonde del terrorismo in Egitto.

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Vaciago: patto Renzi ambizioso e necessario, ma attenti a equità

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Il “patto con gli italiani” che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha illustrato sabato scorso all’Expò di Milano prevede una riduzione delle tasse nei prossimi 5 anni, per 50 miliardi di euro. Il primo provvedimento, nel 2016, sarà l’abolizione della tassa sulla prima casa. Ma la riduzione della pressione fiscale è legata all’attuazione delle riforme, per le quali Renzi chiede al parlamento di continuare a lavorare con intensità. Elvira Ragosta ne ha parlato con l’economista, Giacomo Vaciago, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: 

R. – E’ ambizioso e necessario: 50 miliardi di euro in cinque anni servono a riportare il Paese verso la normalità. Negli ultimi anni, anche noi come altri in Europa abbiamo aumentato la pressione fiscale, non avendo il coraggio di ridurre la spesa pubblica, ma in un Paese ad alta evasione fiscale questa aumentata pressione ha finito con l’incidere più sugli onesti che su quelli che evadono. Questo aggrava la situazione sociale del Paese. Quindi, il patto è da giudicare complessivamente utile, ma attenzione agli aspetti di equità e di onestà: quindi dobbiamo ridurre le tasse soprattutto a chi le paga.

D. – E sulle coperture?

R. – E’ stata promessa una progressiva riduzione di spesa pubblica, cominciando da quella corrente meno utile. La macchina dello Stato è da alleggerire drammaticamente e questo vuol dire che anche l’organizzazione dello Stato si ridimensiona: da quella provinciale, che abbiamo ereditato già da un secolo, a quella regionale, che è quella odierna, quindi prefetture, questure, ecc… Tutta la macchina pubblica che si riduce come la moderna tecnologia consente. Attenzione che, in sé, i tagli di spesa fanno male all’economia: siamo già in una ripresa molto fragile, molto debole, che soffre di tutti gli shock negativi che succedono altrove, dalla Grecia all’Ucraina, all’Is… Le brutte notizie del mondo fanno male a una economica in fragile ripresa come è la nostra e quindi credo che anche il momento scelto sia opportuno.

D. – Le parlava di equità, di fare attenzione all’equità: il primo provvedimento è l’abolizione della tassa sulla prima casa per tutti, poi si passerà nel 2017 ai tagli Irap ed Ires; nel 2018 ai tagli Irpef… Quali sono le categorie di italiani che beneficeranno maggiormente di questi provvedimenti?

R. – Qui bisogna guardare un po’ meglio ai dati: la prima casa è una casa di lusso o è una casa normale? Bisogna stare anche qui attenti a evitare che continuiamo a favorire i ricchi. Già questa crisi, in questi anni, ha aggravato la situazione sociale del Paese, aumentando il divario tra ricchi e poveri e introducendo la categoria nuova della povertà assoluta… Ci vuole, ancor più che in passato, molta attenzione quando usiamo il fisco a evitare che ci guadagnino i ricchi. Non è il momento per dare questi messaggi al Paese.

D. – “Un messaggio di fiducia perché l’Italia torni a essere la locomotiva di Europa”, ha detto il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. E a proposito di Europa, per evitare le sanzioni, bisogna ovviamente rispettare i parametri di Maastricht, quindi come armonizzare questi provvedimenti?

R. – Dal 2015, anche i parametri sono da usare con il buono senso. E’ per questo che è importante la credibilità di una strategia politica, la credibilità di un governo ed è per questo che è anche importante che il governo abbia una vita certa. Noi abbiamo nella logica della credibilità di un Paese bisogno di riformare anche tutta la politica: sia certo che un governo duri cinque anni che servono per realizzare un certo programma. La flessibilità che ci offre Bruxelles, maggiore che in passato, si accompagna alla credibilità della nostra classe politica e anche alla credibilità di una strategia. Se riusciamo a convincere Bruxelles che questa strategia è quella giusta, io credo che di questi tempi saremo solo apprezzati. Quello che Bruxelles non gradisce – e lo abbiamo visto sulla vicenda greca – è chi va a dire bugie...

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Special Olympics: la carica azzurra dei 101 verso Los Angeles

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Giochi olimpici speciali, una manifestazione sportiva per ragazzi con disabilità intellettiva. Oltre 170 i Paesi partecipanti quest’anno dal 25 luglio al 2 agosto, ai Giochi mondiali estivi di Los Angeles. “Non dimenticate mai la bellezza della vita, la bellezza dello sport. Lo sport è una strada molto adatta per aprirsi, per uscire dalle proprie chiusure e mettersi in gioco”. Queste le parole di Papa Francesco che lo scorso 19 giugno ha ricevuto in udienza gli atleti. Oggi al Coni a Roma, la presentazione della delegazione italiana. Il servizio di Alessandro Filippelli

Dall’atletica al bowling, dall’equitazione alla ginnastica artistica, dal nuoto alla pallacanestro. Saranno 20 in totale le discipline ai Giochi di Los Angeles e gli atleti sono già pronti a dare il massimo per questa straordinaria avventura. La vetrina è quella delle grandi occasioni, frutto del lavoro delle Associazioni sportive che lavorano con passione per promuovere lo sport come strumento di integrazione, crescita e realizzazione anche per le persone con disabilità. L’Italia gareggerà con 101 atleti grazie alla Campagna di raccolta fondi  “Adotta un campione” che ha coperto i costi della trasferta. Alessandra Palazzotti, direttore nazionale di Special Olympics Italia:

R. - Adotta un campione è l’iniziativa che abbiamo lanciato per raccogliere fondi e per portare questi atleti a Los Angeles perché non avevamo i fondi per portarceli. Con questa iniziativa ce l’abbiamo quasi fatta. Special Olympics fa attività costantemente in Italia e nel mondo. In questo caso parliamo di giochi mondiali, quindi avremo settemila atleti provenienti da 170 Paesi e tra questi l’Italia, per vivere un’avventura incredibile, perché partiamo insieme, nella stessa squadra, con noi non ci sono i genitori e quindi questa partenza è l’arrivo di un percorso estremamente impegnativo per tutti gli altri atleti.

Tante le storie del team Italia, ognuna diversa dall’altra, ognuna particolarmente speciale. Ascoltiamo alcune testimonianze:

R. - Vivo questa esperienza e mi aspetto un’esperienza indimenticabile. Questa esperienza l’ho fatta in Corea ma non come atleta; quest’anno sarò un’atleta e so che questa esperienza sarà indimenticabile.

D. – Qual è il tuo sport?

R. – Pallavolo unificata… Me la cavo.

R. – Sono Federico, ho 22 anni, vengo dalla Lombardia. Faccio nuoto in mare aperto. Per me questa è una grande emozione, indescrivibile. Spero di conoscere nuova gente, nuove nazioni …

R. – Sono Lino, uno degli atleti che andrà a Los Angeles e pratico equitazione. Ho iniziato nel 2010 per puro caso, solo per provare, per gioco. Oggi, incredibilmente, mi ritrovo a fare un viaggio incredibile a Los Angeles come sportivo olimpico. È veramente una grande emozione, una grande occasione e spero di dare il massimo perché è un’occasione veramente unica.

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Al Giffoni presentato videogioco per bimbi disabili e normodotati

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“Play for inclusion” è il primo videogioco inclusivo, pensato per tutti i bambini, disabili e normodotati. A realizzarlo un gruppo di 34 ragazzi, tra i 18 e i 26 anni, selezionati da "Giffoni Innovation Hub", l’acceleratore di start-up del Festival del cinema per ragazzi in corso nella provincia di Salerno. La nostra inviata Corinna Spirito ha intervistato una delle tre ricercatrici universitarie che hanno dato vita al progetto, Francesca Postiglione

R. – “Play for inclusion” è un progetto che mira a sviluppare un videogioco, un’avventura grafica, nel quale sono presenti attività capaci di potenziare le funzioni cognitive di base in particolare nei casi di sviluppo atipico, come ad esempio la dislessia, l’autismo, e anche nei casi di difficoltà presenti a causa di uno svantaggio socioculturale. E’ il caso per esempio dei bambini immigrati di seconda generazione. Dalla ricerca sappiamo che il potenziamento di queste strutture cognitive di base può avere un effetto positivo su funzioni superiori più complicate come quelle del linguaggio, della comunicazione e della lettura. Il perno principale di questo progetto è la parola “inclusione”. Sul mercato adesso ci sono training cognitivi finalizzati al disturbo, come il training per la dislessia o per altri tipi di problemi. Quello che vogliamo fare è creare un videogioco inclusivo, un videogioco che vada bene per tutti. E come realizzarlo? Prima di tutto, l’inizio del videogioco è caratterizzato dalla realizzazione di un profilo specifico per ogni bambino: si crea un algoritmo che va a valutare il cosiddetto “stato di salute cognitivo” del bambino, in questo modo si capisce quali siano i suoi punti di forza e di debolezza. Chiaramente, se si capisce che il bambino ha una memoria a breve termine, non nella norma, questa funzione verrà potenziata di più. Noi non ci proponiamo come strumento diagnostico o come strumento risolutivo di questi problemi: puntiamo al potenziamento cognitivo e lo facciamo attraverso una storia perché è soltanto la curiosità che può spingere all’apprendimento e questo è il valore aggiunto.

 D. – Perché è importante puntare su un videogioco che sia uguale per tutti, anziché specifico per i bambini con problemi cognitivi?

 R. – Quello che vogliamo evitare è la stigmatizzazione del disturbo, che spesso è una una conseguenza dei training cognitivi. Noi prendiamo in prestito dalla psicologia dello sviluppo il concetto di profilo di funzionamento: ognuno funziona in un determinato modo, ognuno ha un percorso personale di apprendimento. Quindi, questo progetto mira all’uguaglianza che però non è omologazione, è l’uguaglianza partendo però dal concetto opposto, dalla differenza: siamo tutti diversi e nella diversità siamo tutti quanti uguali.

 D. – Lei e le sue colleghe, Caterina Bembich e Marina Mastrogiuseppe, avete deciso di portare al Giffoni questo progetto…

 R. – “Giffoni innovation hub” è stato il viatico fondamentale per l’avvio di questo progetto. E’ il contesto forse migliore in cui iniziare i lavori. Ci hanno fornito ragazzi e ragazze molto giovani e molto molto bravi. In questo momento, stanno lavorando per lo sviluppo della nostra idea. Noi abbiamo imparato negli anni che la collaborazione, l’approccio sinergico, è quello vincente.

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Nella Chiesa e nel mondo



Parigi: Bartolomeo, Turkson e Rosen al "Summit delle coscienze" sul clima

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Il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, il card. Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio giustizia e pace e il rabbino David Rosen, direttore internazionale degli Affari interreligiosi dell’American Jewish Committee. Sono in tutto una quarantina le personalità del mondo religioso e politico - riporta l'agenzia Sir - che parteciperanno domani a Parigi nella sede del Conseil Economique, social et Environnemental (Cese) al “Sommet des Cosciences” per il clima promosso in vista della Conferenza sui cambiamenti climatici che si terrà a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre. 

Gli organizzatori: è in gioco il futuro dell'umanità
​Il summit sarà aperto dal Presidente della Repubblica francese François Hollande, dal Presidente dell’Irlanda Michael Higgins, dal principe Alberto di Monaco e dall’ex Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan. Prenderà la parola anche Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Il summit si concluderà nel pomeriggio con il lancio ufficiale di “un Appello delle coscienze per il Clima” che sarà indirizzato a “tutte le persone implicate nelle negoziazioni climatiche e agli ambasciatori presenti”. “Si impone - spiegano i promotori dell’incontro - una mobilitazione di tutti gli abitanti del pianeta per affrontare con successo la sfida che l’umanità ha davanti a sé: limitare il riscaldamento globale”. “Il tempo è scaduto. Non è più una questione ecologica, economica, politica. È in gioco il futuro dell’umanità”. (R.P.)

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Turchia: attacco kamikaze contro giovani curdi. Almeno 28 morti

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Almeno 28 morti ed oltre 100 feriti. E’ questo il bilancio di un’esplosione avvenuta in Turchia a Suruc, al confine con la Siria, durante una riunione di giovani socialisti turchi e curdi in partenza per Kobane, la città siriana a maggioranza curda diventata il simbolo della resistenza contro i miliziani del sedicente Stato Islamico. Il ministro dell'Interno turco, in una nota, ha parlato espressamente di “attacco terroristico”. Secondo fonti locali, la strage è stata provocata da una miliziana jihadista, una donna kamikaze di 18 anni.

I giovani erano in partenza per Kobane dove c'è stata un'esplosione
I ragazzi rimasti uccisi erano membri della Federazione delle associazioni dei giovani socialisti. Erano in partenza per Kobane. Qui avrebbero portato aiuti e partecipato alla ricostruzione della città. Tra le vittime ci sarebbero molti giovani volontari provenienti da Istanbul. Poco dopo l’attentato a Suruc, è arrivata la notizia di una esplosione a Kobane. La deflagrazione nella città siriana, liberata lo scorso mese di gennaio dopo un lungo assedio imposto dai guerriglieri del cosiddetto Stato islamico, avrebbe provocato la morte di almeno due persone. (A.L)

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Siria: ad Hassakè jihadisti assediati. Rientrato mons. Hindo

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Ci sono almeno 70 soldati volontari armeni inquadrati nelle file prevalentemente curde delle Unità di protezione popolare (Ypg), che in parallelo con i reparti dell'esercito siriano stanno combattendo per liberare la città siriana nord-orientale di Hassakè dalla presenza dei miliziani del sedicente Stato Islamico (Daesh). Lo confermano fonti curde, fornendo aggiornamenti sulla situazione sul campo, che vede in netta difficoltà le milizie jihadiste, con 1200 militanti rimasti assediati in alcuni quartieri della città senza avere nessuna via di fuga.

Con mons. Hindo rientrate ad Hassakè molte altre famiglie
Ieri, elicotteri dell'esercito governativo hanno bombardato le aree cittadine ancora sotto il controllo dello Stato islamico. Attivisti locali collegati alle reti d'informazione curde riferiscono di un graduale ritorno alle proprie case degli abitanti fuggiti davanti all'offensiva jihadista. Secondo fonti locali contattate da Fides, anche l'arcivescovo siro cattolico Jacques Behnan Hindo ha fatto ritorno a Hassakè, dopo essersi rifugiato per alcune settimane a Qamishli insieme con i fedeli.

Da Hassakè erano fuggite 4mila famiglie cristiane
La città siriana di Hassakè, maggiore centro abitato della provincia nord-orientale di Jazira, a fine giugno era stata oggetto di una irruente offensiva dei miliziani dello Stato Islamico (Daesh), che erano riusciti a occupare diversi quartieri, provocando l'esodo di massa di almeno 120mila persone. Tra i primi a fuggire c'erano state anche 4mila famiglie cristiane appartenenti a varie Chiese (caldei, assiri, siri cattolici e siri ortodossi) che in larga parte ancora vivono come rifugiate nella vicina area urbana di Qamishli. (G.V.)

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Libano: patriarca Rai invoca l'elezione del presidente

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Il patriarca maronita Beshara Rai ha espresso preghiere e speranze perché finisca il vuoto presidenziale in Libano, che dura da più di un anno. Celebrando la Messa di ieri ad Annaya, in occasione del 50.mo anniversario della beatificazione di san Charbel - riferisce l'agenzia AsiaNews - egli ha chiesto di “pregare per le elezioni di un capo di Stato che possa rivitalizzare le istituzioni costituzionali”. Il patriarca ha anche pregato san Charbel perché terminino i conflitti in Medio Oriente e i profughi possano tornare nella loro patria e soprattutto perché egli illumini i politici libanesi a compiere il loro dovere.

Vani i tentativi del patriarca di unire le formazioni cristiane
Dal maggio 2014 si sono tenute molte sessioni per eleggere il nuovo Presidente, ma il parlamento libanese non ha mai raggiunto il quorum per il voto a causa del boicottaggio da parte del gruppo detto dell’ 8 Marzo (che raccoglie diversi partiti ed Hezbollah, insieme ai cristiani legati a Michel Aoun). Il patriarca ha spesso tentato di radunare le formazioni cristiane perché designino un candidato comune, ma i gruppi sono divisi fra coloro – come Aoun -  legati a Hezbollah e all’Iran e i gruppi legati all’Arabia Saudita, da sempre grande patron della politica libanese.

Forze Libanesi e sauditi preoccupati per l'accordo sul nucleare iraniano
​Proprio ieri, il capo delle Forze Libanesi, Samir Geagea, si è recato a Jeddah in Arabia Saudita per colloqui con il re Salman bin Abdul Aziz su “i recenti sviluppi nell’arena libanese”. I timori di Geagea e dei sauditi si concentrano sull’accresciuto peso politico dell’Iran nella regione dopo la firma dell’accordo sul nucleare. (R.P.)

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Paraguay: vescovo Caacupè condanna atti di violenza nel nord

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Il vescovo di Caacupé, mons. Catalino Claudio Giménez Medina, ha lamentato l'ondata di violenza che si è abbattuta nel nord del Paese, dove in meno di una settimana sono stati uccisi cinque poliziotti. "Ci sentiamo tutti profondamente delusi dal fatto che tra paraguaiani siamo così disumani" ha detto il vescovo, che ha dedicato la sua omelia durante la Messa domenicale di ieri nel Santuario di Caacupé, ai due attentati di San Pedro e Amambay, domenica 12 e venerdì 17 luglio, che hanno provocato la morte violenta di cinque poliziotti.

Questi atti di violenza esprimono un totale disprezzo per la vita
Secondo quanto riferisce l'agenzia Fides, dopo aver citato la dichiarazione della Conferenza episcopale che condanna questi omicidi, esprimendo “ripudio, dolore e indignazione”, mons. Giménez ha affermato nell’omelia che "questa ostilità di lunga data, piena di odio profondo, esprime un totale disprezzo per la vita" e ha deplorato l'atteggiamento dei criminali, che "eliminano il nemico con una crudeltà assoluta". Davanti a questi atti criminali “abbiamo bisogno di fare una sosta e ripensare seriamente a ciò che ci accade, come Chiesa e come Paese. Che cosa sta succedendo tra noi?" si è ancora chiesto il vescovo. Gli assassini del nord fanno parte di quanti "vagano senza meta, come persone disperate. Solo perché c'è disperazione possiamo pensare ad azioni di questa natura" ha detto.

La presenza di gruppi estremisti e narcotraffico
Secondo dati raccolti da Fides, il nord del Paraguay è in stato d’assedio da parte dell’Epp (Esercito del Popolo Paraguayo) che ha ripreso ad attaccare e uccidere i poliziotti con estrema crudeltà. La stampa locale sottolinea la presenza del narcoterrorismo nella zona e la crescita degli atti di violenza armata. Dal 2013 sono 29 gli assassinati in questa zona, tra uomini della polizia e militari. (C.E.)

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Card. Bo: Myanmar unito come una sola famiglia

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“Ci aspettiamo che i nostri governanti siano buoni genitori per tutta la nazione. Nella nostra cultura, i genitori sono venerati come divinità. Secondo le nostre tradizioni, i nostri governanti hanno il diritto e il dovere di promuovere il benessere di tutti”: è l’appello rivolto dal card. Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, ai leader della nazione birmana. 

Il sistema economico sta distruggendo le famiglie
In un messaggio inviato a Fides e diffuso in occasione della “Giornata dei genitori”, il cardinale afferma: “Per 50 anni, nei giorni bui della dittatura, il popolo non ha avuto famiglia. Quando è venuta la democrazia, abbiamo sperato che avrebbe portato lo spirito di famiglia in tutti. Grandi aspettative sono riposte sui nostri leader: la nazione guarda a loro per rendere questo Paese una vera famiglia”. Il card. Bo nota però le forti difficoltà in questo cammino: “Il nostro sistema economico sta distruggendo le famiglie. Milioni di nostri giovani sono lontani dai loro genitori. Ci hanno resi poveri, e l'integrità della famiglia viene erosa dalla povertà del Paese. Lo spirito di famiglia è debole. La maggior parte dei figli e delle figlie del Myanmar sono poveri”.

Il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà
Il censimento recente – ricorda il porporato – fornisce un quadro doloroso: il 40% della popolazione birmana vive al di sotto della soglia di povertà e negli Stati di Chin e Rakine la povertà tocca il 70%. La povertà genera il fenomeno della migrazione, e in molti villaggi ci sono solo persone molto anziane e bambini molto piccoli. “Le famiglie sono ulteriormente divise per la tratta degli esseri umani nelle città di confine. Le famiglie si disgregano per mancanza di istruzione, per minacce di droga, o per i conflitti armati” commenta l’arcivescovo. Per questo il card. Bo nota: “i nostri governanti non sono stati all'altezza delle nostre aspettative come genitori. Sono diventati protettori di un capitalismo clientelare, come ha avvertito il Papa in America Latina, in un'economia che ha il profitto come unico movente”.

Birmani di tutte le religioni e razze, sono colpiti dall'odio
Il testo del messaggio prosegue: “Il mondo si pone una domanda: i nostri governanti sono capi per tutti o solo per pochi? Per secoli abbiamo vissuto insieme come fratelli e sorelle. Le diverse fedi vivevano in armonia. Per cinque decenni il Myanmar è stato modello di una società compassionevole, anche se il popolo era oppresso da uomini malvagi”. Ma a partire dal 2010, “i nostri leader, che sono come i nostri genitori, non sono riusciti a controllare le manifestazioni di odio diffuse da frange religiose estremiste. La guerra va avanti in varie parti del Paese. Nostri fratelli e sorelle, di tutte le religioni e razze, sono colpiti da questo odio. Più di 200.000 nostri fratelli sono ora sfollati interni”.

I governanti formino una nazione unita come una sola famiglia
​Il cardinale conclude: “Sapranno i governanti di questo Paese evitare ogni tentazione di discriminare le persone per razza o religione? Sapranno accettare l'uguaglianza e costruire una nazione unita come una sola famiglia? A prescindere dalla loro volontà, i nostri leader hanno bisogno delle nostre preghiere. Preghiamo per i nostri genitori: i governanti”. (P.A.)

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Lesotho: la Chiesa denuncia la crisi nel Paese

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Resta alta la tensione in Lesotho, dopo la recente uccisione dell’ex Capo di Stato Maggiore, il generale Maaparankoe Mahao. Secondo i suoi familiari, il generale sarebbe stato assassinato da uomini in uniforme militare, alla guida di veicoli dell’esercito. Numerose le proteste contro il governo del premier Pakalitha Mosisili, accusato, in particolare, di violare gravemente i diritti umani. A denunciare la situazione è anche la Commissione Giustizia e pace (Ccjp) della Conferenza episcopale del Paese, in una dichiarazione congiunta con il “Lesotho Law Society and Transformation Resource Centre” (Trc).

Nessuna legge può giustificare la tortura
Nel documento, siglato a fine giugno, si denunciano torture, arresti arbitrari e intimidazioni nei confronti dei familiari dei militari arrestati in relazione al fallito golpe di fine agosto 2014 che ha visto il primo ministro Jacob Thabane fuggire nel vicino Sud Africa. Con la mediazione della Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe si è poi arrivati alla riapertura del Parlamento ed a tenere, nel febbraio scorso, le elezioni, vinte da Mosisili. “Lanciamo un appello al governo del Lesotho – si legge nella dichiarazione congiunta – affinché ordini all’esercito di porre fine alle torture sui soldati detenuti ed avvii un’inchiesta per cercare soluzioni a lungo temine alla crisi attuale”. “Non c’è alcuna legge né in Lesotho, né nel resto del mondo – continua il testo – che giustifichi la tortura e le punizioni extra-giudiziarie su sospetti di qualsiasi genere”.

Minacce ad avvocati e giudici, una violazione dello stato di diritto
Inoltre, i firmatari sottolineano che “secondo i referti medici, alcuni dei trattamenti punitivi inflitti ai detenuti possono provocare disabilità permanenti a livello fisico, mentale ed emotivo”, senza parlare dei “traumi sofferti dai figli e dai parenti” delle vittime di tortura. La Ccjp ed il Trc denunciano, poi, gli atti intimidatori, perpetrati da uomini dell’esercito, contro gli avvocati dei soldati detenuti e contro i giudici alla guida dei relativi processi: “Si tratta, chiaramente, di un chiaro disprezzo della legge, un crimine che minaccia lo stato di diritto, la democrazia e la separazione dei poteri all’interno del governo”, scrivono i due organismi.

Formare una Commissione di inchiesta inclusiva
“Ci appelliamo alla magistratura – continuano - affinché non si faccia intimidire e porti avanti i suoi incarichi senza indugi, per proteggere l’inviolabilità della Corte nel Paese”. Quindi, la dichiarazione congiunta avanza alcune richieste: sostenere le famiglie dei soldati detenuti con un servizio di consulenza psicologica; mobilitare, attraverso la Corte Costituzionale, iniziative contro la tortura, e formare una commissione di inchiesta “inclusiva”, comprendente membri del governo, dell’opposizione, della società civile, delle ong e dell’avvocatura.

Necessarie riforme istituzionali per assicurare la stabilità nel Paese 
Tale commissione dovrebbe, con uno specifico mandato, determinare le cause della crisi attuale; individuare le vittime di tortura ed i loro carnefici; stilare un elenco di raccomandazioni per avviare “riforme istituzionali, legali e costituzionali” atte ad “assicurare la stabilità nel Paese ed il rispetto dei principi democratici all’interno delle forze armate”; portare i colpevoli davanti alla Corte. Inoltre, si chiede che questa commissione operi “in sessioni pubbliche” per garantire “l’affidabilità e la trasparenza” del suo lavoro.

Appello per la pace ed il rispetto dei diritti umani
​“Pace, democrazia, rispetto dei diritti umani, una buona governance – concludono i firmatari della dichiarazione – sono gli obiettivi principali” da raggiungere, grazie anche al “lavoro con la società civile, per far progredire il Paese in modo costruttivo”. (A cura di Isabella Piro)

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Angola: pellegrinaggio dei consacrati al santuario di Muxima

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“La mistica del vivere insieme rende la nostra vita un pellegrinaggio sacro”: su questo tema si è concluso ieri, un pellegrinaggio di due giorni dei consacrati dell’Angola al santuario mariano di Muxima. Organizzato dalla Conferenza dei superiori maggiori degli Istituti religiosi del Paese, l’evento è stato pensato per celebrare l’Anno della Vita Consacrata, indetto da Papa Francesco nel contesto del 50.mo anniversario del Concilio Vaticano II, in particolare del decreto Perfectae Caritatis sul rinnovamento della vita religiosa. Inaugurato ufficialmente il 30 novembre 2014, lo speciale Anno si concluderà il 2 febbraio 2016.

Rafforzare la mistica apostolica degli Istituti di vita consacrata
Il pellegrinaggio dei consacrati angolani si è articolato in celebrazioni eucaristiche, momenti di preghiera e testimonianze di numerosi religiosi. La Messa conclusiva dell’evento è stata presieduta da mons. Zacarias Kamuenho, arcivescovo emerito di Lubango, il quale ha ribadito l’importanza di rafforzare la mistica apostolica degli Istituti di vita consacrata.

La Vergine di Muxima, “mamma del cuore”
Da ricordare che il santuario di Muxima si trova sulle rive del fiume Kwanza, a circa 120 km dalla capitale dell’Angola, Luanda. Costruito dai portoghesi tra il 1594 e il 1602, grazie a Baltazar Rebelo di Aragona, è il santuario più caro alla pietà popolare angolana, tanto che i fedeli lo chiamano “casa di Mamã Muxima” e si rivolgono alla Vergine con l’affettuoso nome di “Mamã do coração", “mamma del cuore”: nella lingua locale, infatti, il kimbundo, “muxima” significa “cuore”. Attualmente, esiste un progetto – già presentato a Benedetto XVI durante la sua visita al Paese africano nel 2009 – per la costruzione di una basilica destinata ad accogliere al suo interno circa 4mila persone e altre 120mila nel piazzale antistante. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 201

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.