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Sommario del 24/07/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa Francesco: contro l'Aids si vince se siamo uniti

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Nella lotta contro l’Aids bisogna essere uniti se si vuole vincere: è questo, in sintesi, quanto afferma Papa Francesco in un messaggio inviato all’ottava Conferenza sull’Aids organizzata dalla International AIDS Society a Vancouver, in Canada, dal 19 al 22 luglio. Il servizio di Sergio Centofanti

Uniti si vince. Questo il senso del messaggio di Papa Francesco che esprime il suo incoraggiamento e la sua “stima” per quanti sono impegnati a salvare vite umane, in particolare attraverso la terapia anti-retrovirale altamente attiva e l’utilizzo del “trattamento come prevenzione”. Tali sforzi - afferma “sono una testimonianza della possibilità di un risultato positivo quando tutti i settori della società si uniscono per uno scopo comune". Quindi, assicura le sue preghiere perché “tutti i progressi nella farmacologia, nella terapia e nella ricerca, possano essere accompagnati da un fermo impegno a promuovere lo sviluppo integrale di ogni persona", ricordando come ogni persona sia "un figlio amato da Dio".

Il messaggio del Papa, a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, è stato inviato al dott. Julio Montaner, co-presidente della Conferenza e direttore del Centro Aids dell’Ospedale di San Paolo a Vancouver. Si tratta di un istituto d’ispirazione cattolica, fondato dalle Suore della Provvidenza, che si è distinto per la cura dell’Aids ponendosi all’avanguardia della ricerca scientifica e riuscendo a dimostrare che la diagnosi precoce e il trattamento delle persone affette da Hiv non solo salvano vite umane, ma è anche efficace al 96 per cento nel prevenire l'ulteriore diffusione della malattia. Infatti, secondo le ultime ricerche, l’assunzione dei farmaci antiretrovirali da parte delle persone con Hiv, oltre a sostenerne lo stato di salute, ha un ruolo fondamentale anche nella prevenzione: le terapie riducono la carica virale e bloccando la replicazione del virus possono impedire il contagio.

Tema principale della Conferenza di quest'anno è stato proprio "Il trattamento come prevenzione". Esperti internazionali hanno affermato che ora ci sono prove scientifiche indiscutibili sul fatto che l'Aids potrebbe non essere più un'emergenza sanitaria entro il 2030, se il 90 per cento di tutte le persone che vivono con l'Hiv potessero avere una diagnosi corretta e iniziare la terapia anti-retrovirale.

Per raggiungere questi ambiziosi obiettivi – è stato detto durante la Conferenza – è necessaria una mobilitazione a favore delle popolazioni più povere che ancora non beneficiano di terapie anti Aids. Attualmente, 15 milioni di persone stanno usufruendo di queste terapie, ma altri 22 milioni ancora non hanno accesso a questi medicinali e molti di essi non sanno neanche di essere contagiati.

Da parte sua, mons. Robert Vitillo,  consigliere speciale della Caritas Internationalis per l’Aids, ha presentato l’impegno delle organizzazioni cattoliche contro questa patologia, in particolare nell'Africa sub-sahariana, che rimane l'epicentro del virus. Il Catholic Relief Services, in nove anni di coordinamento degli aiuti in 10 Paesi del mondo, ha stanziato oltre 740 milioni di dollari nel sostegno del Piano di emergenza americano per l'Aids, raggiungendo 713mila persone con un alto tasso di successo delle terapie. Mons. Vitillo ha anche segnalato i notevoli risultati raggiunti dal Progetto Dream sponsorizzato dalla Comunità di Sant'Egidio in diversi Paesi africani. Del resto, da sempre la Chiesa ha mostrato grande impegno su questo fronte: oltre il 25% delle strutture che nel mondo assistono i malati di Aids sono infatti cattoliche, facendo della Chiesa il primo partner dello Stato nella lotta contro questa patologia.

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Karcher: vi racconto l’estate di Francesco tra preghiera, amici e lavoro

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Il prossimo mercoledì 5 agosto riprenderanno le udienze generali, terminerà così il breve periodo senza impegni pubblici di Papa Francesco, dopo l’entusiasmante viaggio in America Latina. In realtà, anche in questo periodo di vacanza, il Pontefice è “al lavoro” sui suoi importanti prossimi impegni, a partire dall’atteso viaggio a Cuba e negli Stati Uniti. Per una testimonianza diretta di come Francesco stia vivendo questi giorni estivi, Alessandro Gisotti ha intervistato mons. Guillermo Karcher, cerimoniere pontificio e tra i più stretti collaboratori di Jorge Mario Bergoglio: 

R. – Li trascorre con tanta serenità e letizia. Io lo vedo sempre contento, ogni mattina. Sempre al lavoro tra l’altro, perché lo trovo sempre con le mani occupate, pieno di carte, di corrispondenza: lui ci tiene molto a rispondere personalmente. Quindi passa questo periodo in comunicazione con i suoi amici, con la gente a cui tiene. Ne approfitta soprattutto perché può avere più tempo a disposizione e allora si dedica a questo. Più le letture che fa di documenti e di progetti che gli arrivano per il futuro prossimo.

D. - Sull’aereo di ritorno dall’America Latina, il Papa ha detto che si sarebbe messo a studiare – ha usato proprio questo termine - per preparare il viaggio a Cuba e negli Usa. Francesco, chiaramente, sente molto l’importanza di questo atteso viaggio, dopo quello straordinario nella sua terra, l’America Latina…

R. – Sì! Io ritengo che sia bello questo anno soprattutto perché è l’anno in cu “abbraccerà” – si può dire – tutto il continente, quello delle Americhe, come si dice in italiano: noi diciamo l’America, perché lo consideriamo un solo continente... E dico questo abbraccio, perché è andato in Sud America e a settembre toccherà la visita a Cuba, che è Centroamerica, e poi gli Stati Uniti e quindi il Nord America. Ci tiene molto, soprattutto perché potrà plasmare e potrà rendere concreto e visibile quello che è il risultato di un lavoro anche molto diplomatico e molto pastorale, che ha aiutato a riallacciare le relazioni diplomatiche tra Cuba e Stati Uniti. Penso che questo renda questo viaggio molto più interessante: oltre ad essere una visita pastorale, è quasi una visita di ringraziamento a due nazioni che hanno saputo ridarsi la mano. Lui, come uomo venuto dal Sud del Continente, è protagonista di un momento storico.

D. - Papa Francesco ha sempre detto di essere un pastore che ama camminare in mezzo alla gente. Quanto gli manca – secondo lei - questa libertà, specie in un periodo senza incontri pubblici come questo?

R. – Gli manca, sì. Lui era molto abituato a camminare, a camminare e a stare tra la gente. Penso all’estate argentina, al mese di gennaio che è paragonabile a questo luglio così caldo e afoso: lui passava le giornate visitando le favelas di Buenos Aires, condividendo con la gente questo periodo duro, di caldo, di sacrificio anche. Però lo offre a Dio e lo vive come un momento per dare al Signore, in offerta, questo modo di fare il ministero come Papa, vicino – con il suo cuore - alla gente che soffre e che il caldo rende anche loro la vita impossibile: pensiamo a queste baracche, dove non pensiamo certo che esista il ventilare…

D. - Il 5 agosto ricominciano comunque le udienze generali. Il Papa – lo sappiamo e lo ha anche detto, motivando anche la scelta di vivere a Santa Marta – ha bisogno di stare in mezzo, alla gente, al popolo. Questa è un’esigenza che, per lui, non va in vacanza…

R. – Confermo questo. Se parliamo di vacanza, di un periodo in cui ha fatto una pausa, perché sono stati appena pochi giorni di luglio: già è andato in Sud America e si è già consumato il periodo della vacanza e ad agosto riprende il momento importante della settimana in cui fa la catechesi e ri-comincia ad abbracciare il Popolo di Dio. Questo affetto che lo caratterizza si rende anche palpabile quando uno vede quanto amore dà e quanto amore riceve; quando amore scambia… E questo, a lui, lo riempie di energia. E’ bello soprattutto vedere il contatto con gli ammalati, questa sua umanità, che lui può dare e la fede che suscita. E poi questo abbraccio argentino: questo gruppo che è sempre molto consistente e che gli porta l’affetto dell’altra parte dell'Oceano; e poi tanti amici, tanti amici, anche dei parenti… Con tutti ha sempre un momento ricco di esperienza umana e spirituale.

D. – A proposito di Argentina: anche in questo periodo, sappiamo che non manca il mate per Papa Francesco. Lei è argentino come il Santo Padre: perché questa bevanda è così importante per lui e per voi argentini? Gli ricorda la sua amata terra?

R. – Consideri che noi da quando siamo bambini beviamo il mate. Addirittura quando sei bambino la mamma ti dà il mate un po’ più tiepido, vi mischia un pochino di latte addirittura… Si trasforma in una infusione, in un thè un po’ caratteristico che ci accompagna tutta la vita. E poi fa compagnia: il mate è una cosa che rende amici, perché si sta sempre con qualcuno quando lo bevi. Ha un senso familiare molto profondo. Penso che faccia parte delle radici e dell’identità argentina, come anche di altri Paesi quali l’Uruguay, il Paraguay, il Cile… Però l’argentino lo vive come uno strumento di condivisione: non è che uno prende il bicchiere e si disseta da solo, ma c’è questa cosa che si condivide. E poi è molto salutare - lo devo dire – perché aiuta ad abbattere il colesterolo. E per noi che mangiamo tanta carne ... può darsi. Tra l’altro è stata una invenzione dei gesuiti, nelle riduzioni gesuitiche: il mate lo hanno trovato loro come erba per combattere l’alcoolismo degli indios di quell’epoca. Poi è diventata una bevanda medicinale. Ripeto: evidentemente noi argentini soffriamo meno di colesterolo grazie a questo mate, che ci aiuta a mangiare la carne e a non essere così malati di questa malattia.

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Sinodo vescovi per la famiglia: nuovo elenco di membri e sostituti

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In occasione della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che avrà luogo in Vaticano dal 4 al 25 ottobre 2015 sul tema “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”, la Sala Stampa vaticana ha pubblicato un quarto elenco dei membri e dei sostituti eletti da alcune Conferenze Episcopali e ratificati dal Santo Padre.

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Nomina episcopale di Papa Francesco in Colombia

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In Colombia, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Cúcuta, presentata da mons. Julio César Vidal Ortiz, in conformità al can. 401 § 2 del Codice di Diritto Canonico. Il Papa ha nominato vescovo di Cúcuta mons. Víctor Manuel Ochoa Cadavid, finora vescovo di Málaga – Soatá.

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Crisi in Medio Oriente: Santa Sede, non rimaniamo a guardare

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Di fronte alle crisi mediorientali, non rimaniamo a guardare impotenti: lavoriamo uniti per una soluzione pacifica ai conflitti. Così l’arcivescovo Bernardito Auza, osservatore permanente della Santa Sede all’Onu, in occasione del dibattito al Palazzo di Vetro di New York dedicato ieri alla situazione in Medio Oriente e in particolare alla questione palestinese. Il servizio di Giada Aquilino

Di fronte ad un Medio Oriente insanguinato da tanti conflitti che “continuano a intensificarsi”, non possiamo rimanere a guardare “impotenti”, da bordo campo. L’arcivescovo Auza constata “purtroppo” che la comunità internazionale sembra quasi si sia “abituata” a questi conflitti nella regione, non riuscendo ancora ad elaborare una “risposta adeguata”.

In particolare sulla situazione in Siria, il rappresentante della Santa Sede sottolinea come la crisi umanitaria che colpisce “più di metà della popolazione” richieda un “rinnovato impegno da parte di tutti”, al fine di giungere ad una “soluzione politica” del conflitto. Un “grande Paese”, aggiunge, rischia la distruzione: tale realtà richiede dunque di mettere da parte “interessi particolari” per privilegiare “quelli della Siria e degli stessi siriani”.

In quelle zone, come in Iraq, evidenza inoltre il nunzio, vanno avanti gli “atti terroristici perpetrati dal cosiddetto ‘Stato Islamico’”: si tratta di una sfida non solo regionale “ma per tutta la comunità internazionale”, che è chiamata a cooperare “con unità di intenti” per contrastare “questa piaga terrorista, che sta espandendo le proprie attività in diversi Paesi”. Tale crisi ha inoltre generato “milioni di rifugiati” in Libano e Giordania, che “hanno urgente bisogno della solidarietà” di tutti. In particolare per il Paese dei cedri, la Santa Sede – aggiunge mons. Auza – auspica che sia in grado di risolvere presto l’attuale periodo di “instabilità istituzionale”, legato anche alla carica di presidente della Repubblica vacante da più di un anno.

Non dimenticando le “sofferenze di intere popolazioni”, l’arcivescovo ricorda le difficoltà che cristiani, altre minoranze etniche e gruppi religiosi stanno vivendo, con la conseguenza che in molti sono costretti, anche con la forza, “a lasciare le loro case”. “La diminuzione della presenza cristiana è una grave perdita per l'intera regione”, afferma l’osservatore permanente all’Onu: in quelle zone i cristiani sono presenti da secoli e “sperano di continuare a cooperare con i loro concittadini nella costruzione di società armoniose, lavorando per il bene comune, come promotori di pace, di riconciliazione e sviluppo”.

“Apprezzamento” poi per l’intesa sul nucleare iraniano raggiunta da Repubblica islamica e gruppo del 5+1, cioè Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Cina, Russia e Germania.

L’arcivescovo Auza ricorda quindi la sigla dell’accordo globale tra Santa Sede e Stato di Palestina, il 26 giugno scorso, indicativo dei “progressi” compiuti dal Paese negli ultimi anni, riconosciuto anche dalle Nazioni Unite in qualità di osservatore come Stato non membro. L’auspicio della Santa Sede, riferisce il nunzio, è che tale intesa possa essere “di stimolo” al raggiungimento della soluzione dei due Stati, ponendo termine al lungo conflitto israelo-palestinese, e possa offrire un buon esempio “di dialogo e cooperazione” nella complessa realtà mediorientale. A tal proposito, mons. Auza ricorda le parole del Papa durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa dell’anno scorso, quando esortò a “trovare il coraggio” per una pace definitiva. La delegazione vaticana ribadisce infine che il processo di pace può andare avanti solo se “direttamente negoziato tra le Parti, con il sostegno della comunità internazionale”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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A chi guardava solo l'albero, ha mostrato il bosco: l'arcivescovo di Asuncion, Edmundo Valenzuela, traccia un primo bilancio della visita del Papa in Paraguay.

L'intelligenza ha abbandonato la Chiesa?: Lucetta Scaraffia sulle riflessioni dell'intellettuale francese Alain Besancon.

L'aratro e il Vangelo: Giampietro Dal Toso su ambiente, uomo e Dio nella visione della "Laudato si'".

Mistica di un misantropo: Giuliano Zanchi illustra le tesi del padre della matematica intuizionistica.

Rocco e le sue donne: Emilio Ranzato sui personaggi femminili nel capolavoro di Luchino Visconti.

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Oggi in Primo Piano



Nuova tragedia dell'immigrazione. Migrantes: tornare a Mare Nostrum

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Nuova tragedia del mare al largo della Libia. Una quarantina i morti, tra cui donne e bambini, per l’affondamento di un gommone. Oltre 800 i migranti salvati in tre diverse operazioni. Intanto emerge che a capo dell’organizzazione che gestisce il traffico di migranti c'è un etiopico su cui sta indagando la direzione investigativa antimafia di Palermo. Alessandro Guarasci: 

Ci sarebbero anche 5 minori tra le vittime del naufragio avvenuto al largo delle coste libiche. Lo afferma Save The Children che ha sentito una parte dei 283 migranti giunti ad Augusta sulla nave militare tedesca Holstein. In totale i morti sarebbero una quarantina. I profughi erano su uno dei gommoni soccorsi, a bordo del quale, afferma l'organizzazione umanitaria, c'erano 120-125 migranti, tutti uomini, 88 dei quali sono stati tratti in salvo. Il natante durante la traversata ha cominciato ad imbarcare acqua ed è affondato. Oltre 800 migranti sono stati tratti in salvo in altre tre operazioni di salvataggio. E secondo Skynews, si chiama Ermias Ghermay, è etiopico ed è l'uomo che organizza e guida il traffico di esseri umani che, dalle coste libiche a bordo di carrette del mare. Si è arrivati a lui tramite intercettazioni della Dia di Palermo: l’uomo agirebbe indisturbato in Libia perché al momento non c'è alcuna collaborazione da parte di quel Paese.

La nuova tragedia del mare ripropone il ruolo dell’Europa nella gestione dei flussi migratori. Abbiamo sentito il direttore generale della Fondazione Migrantes della Cei, mons. Giancarlo Perego, che chiede il ripristino dell'operazione di salvataggio Mare Nostrum: 

R. – Si era detto come fosse prioritario il salvataggio in mare. Di fatto quest’anno le morti sono aumentate e il salvataggio in mare è stato indebolito. E quindi la prima urgenza è il ritorno a quel Mare Nostrum che già era stata un’esperienza fondamentale di salvataggio in mare, e che, di  fatto, è stata indebolita quest’anno con la sua fine. E queste morti ci dicono ancora una volta l’altra grande necessità: la necessità di accompagnare questi viaggi, la necessità di canali umanitari, che diventano sempre più un’urgenza. Ogni attesa, ogni rimando, è segnato profondamente da morti che sono ancora una volta una provocazione grossa alla nostra coscienza, ma soprattutto una coscienza di un’Europa che non è in questo momento solidale e dimentica questi viaggi della speranza.

D. – Ci si aspetta dall’Europa una grande azione diplomatica per attivare dei canali umanitari magari da quei Paesi che non sono coinvolti in questo traffico dei migranti…

R. - Forse questo è il salto di qualità che dovrebbe fare l’Europa in questo momento: da una parte, per costringere alcuni Paesi a rendersi conto di come tante persone partono dai loro territori in un viaggio senza speranza; e, dall’altra, proprio per accompagnare un viaggio che diversamente si trasforma in tragedia.

D. – Alcune forze politiche continuano a dire: facciamo un blocco navale davanti alla Libia, ma questo non avrebbe senso secondo le condizioni attuali tra l’altro…

R. - Significherebbe ancora di più morte e ancora di più la separazione tra l’Europa, che si chiude in una cittadella nei suoi interessi e dimentica la tragedia, e la storia di popoli che sono in cammino, che invece è la storia da guidare, da costruire, il nostro domani.

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Siria: la Turchia attacca l'Is. Padre Sahoui: siamo nelle mani di Dio

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In Siria per la prima volta la Turchia ha attaccato direttamente lo Stato Islamico. Caccia dell’esercito hanno colpito i jihadisti nel nord della Siria e il governo ha dato la disponibilità della base di Incirlik alla coalizione internazionale che combatte contro l’Is. “E’ necessario un passo diverso”, ha detto il presidente Erdogan, a pochi giorni dall’attentato nel sud della Turchia che è costato la vita a 32 persone. Intanto in Siria continua l’emergenza umanitaria, come spiega al microfono di Michele Raviart, padre Ghassani Sahoui, direttore del Jesuit Refugee Service di Aleppo: 

R. – Viviamo ad Aleppo, quindi stiamo imparando a vivere giorno dopo giorno la vita con quello che ci presenta. Infatti ad Aleppo diciamo sempre: “Siamo nelle mani di Dio”, perché viviamo sempre con il rischio di morire, in ogni momento… Questa crisi ha fatto sì che vivessimo insieme, cristiani e musulmani. Siamo in contatto quotidiano con i musulmani. E anche i musulmani mi chiamano “padre”.

D. – Come si vive quotidianamente ad Aleppo? Come si va avanti?

R. – Le famiglie devono pagare per avere l’elettricità, talvolta – menomale – un’ora viene fornita dallo Stato. Ma la maggior parte del tempo non c'è perché ci sono dei problemi. Anche per l’acqua è la stessa cosa. E quindi la gente si trova talvolta ad aspettare in fila - una lunga fila - davanti ai rubinetti delle strade, delle chiese o delle moschee per avere dell’acqua.

D. – E come si affrontano i bombardamenti?

R. – Purtroppo siamo esposti in ogni momento al rischio della caduta di una bomba o di un missile. Nella maggior parte della zona dove ci troviamo sono poche le bombe che cadono. Certamente ci sono vittime, però purtroppo questo è un po’ il disastro della guerra: trovare gente senza mani, senza piedi, che ha perso qualcosa: un figlio o la loro casa… è un dramma!

D. – La comunità cristiana come sta vivendo nello specifico questa situazione?

R. – Dall’inizio della crisi credo che la metà degli abitanti della città di Aleppo siano già partiti. La gente, anche i cristiani, quasi la metà o anche di più, hanno lasciato Aleppo, sia per altre città in Siria, più sicure, sia per l’Europa. Quelli che vivono ora ad Aleppo, o non hanno la possibilità di viaggiare - sono quindi destinati a vivere lì e a subire tutto questo ambiente di guerra - oppure hanno scelto di rimanere, malgrado tutto. E questo non è facile: per quanto riguarda le famiglie cristiane, ad esempio, queste provano ad uscire, però ci sono tanti problemi. Talvolta la moglie vuole rimanere e invece il marito vuole partire, oppure accade l’inverso. Facciamo un lavoro di discernimento spirituale con le famiglie. Talvolta i bambini e i giovani vogliono partire, perché non c’è un futuro... È difficile lasciare i luoghi dove sono stati abituati a vivere, a lavorare, trovare un po’ di vita, è difficile! Perciò sono crisi talvolta che viviamo nelle famiglie. Dobbiamo accompagnare sempre questi cristiani che pongono delle domande.

D. – Due anni fa circa spariva padre Dall’Oglio: lei lo ha conosciuto personalmente…

R. – È un grande uomo, un nostro amico e un nostro compagno. Credo che abbia avuto voluto dare tutta la sua vita per la causa del popolo siriano. Ha preso una direzione sulla base delle sue convinzioni. Però io ho sempre lodato il suo coraggio… Purtroppo lui è assente da due anni, non sappiamo niente del suo destino. Ci sono solo delle voci secondo le quali forse sarebbe stato ucciso. Vivere in questa crisi in alcune zone è difficile, siamo a rischio di essere uccisi o rapiti. Però non posso trovare un senso alla mia vita senza questa gente.

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Al via la visita di Obama in Kenya e Etiopia

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Barack Obama torna in Africa, a tre anni dall’ultima visita di Stato nel continente. Sbarcato oggi a Nairobi, il presidente Usa visiterà il Kenya e l’Etiopia, dando priorità, come confermato dalla Casa Bianca, alle relazioni commerciali fra Stati Uniti e Africa orientale e al tema della lotta al terrorismo internazionale, su cui pesa l’instabilità della vicina Somalia. Sul piatto, come spiega Sergio Baldi - docente dell’Università Orientale di Napoli - anche la crescente influenza cinese nel continente. Il suo commento al microfono di Giacomo Zandonini.  

R. – Il viaggio del presidente Obama in Kenya credo sia ispirato a due motivi. Un primo, di origine puramente personale, considerando gli ascendenti che lo legano a quel Paese. Il motivo principale, però, senz’altro, è l’importanza strategica che il Kenya in questo momento ha in Africa Orientale. Gli attentati di alcuni anni fa alle ambasciate e quello che è successo nell’attacco all’Università, rappresentano un grosso problema per la stabilità dell’area. Ci dobbiamo ricordare che il Kenya è vicino alla Somalia, quindi è importante per la stabilità della zona oltre che in ambito africano. Basti pensare alla lotta portata avanti da Kenyatta, uno dei leader storici, insieme a Nyerere, Nkruma, Sekou Touré e Senghor... sono quelli che hanno portato l’Africa all’indipendenza. Ed è un Paese che ha sempre avuto nell’ambito africano una notevole influenza. D’altra parte, l’America negli anni ’60, nel momento in cui i Paesi africani diventavano indipendenti, si era interessata, per contrastare l’influenza russa e in parte anche cubana - pensiamo ai militari inviati da Castro in Angola - poi quando venne meno questo interesse, sia russo che cubano, per l’Africa, anche l’America negli anni ’70 si è disinteressata. Ora si interessa di nuovo per contrastare la politica cinese.

D. – Per quanto riguarda invece l’Etiopia, è anch’esso un Paese strategico…

R. – Certamente, innanzitutto si trova anch’esso nell’area dell’Africa orientale, confinante con la Somalia, e poi ha una grandissima storia, millenaria. Il ruolo che ha avuto nell’ambito africano è notevole. D’altra parte, credo che sia anche interesse di Obama per l’Etiopia e per il Kenya di contrastare la politica cinese, che sta cercando di inserirsi in tutti i Paesi africani sia come grande potenza sia anche per cercare di acquisire terreni coltivabili al fine di sfamare la sua popolazione.

D. – La Cina investe in modo molto forte in Africa, però senza avere un ruolo strategico anche militare che invece gli Stati Uniti hanno. Forse anche questo è uno degli aspetti al centro della visita di Obama?

R. – Certamente. Sull’influenza militare della Cina, al momento forse non c’è, ma potrebbe anche in un futuro essere nelle prospettive di quel Paese. Ad un certo punto, gli interessi economici sono i primi ad essere facilmente ottenuti, poi magari possono arrivare delle fasi militari.     

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Francia: no all'eutanasia per Vincent Lambert, ma battaglia continua

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In Francia, i medici dell'ospedale di Reims hanno deciso di continuare il trattamento di alimentazione e idratazione di Vincent Lambert, 38 anni, che ha subito danni giudicati irreversibili al cervello dopo un incidente stradale nel 2008. La Corte europea dei diritti dell’uomo, con una sentenza molto discussa, aveva autorizzato l’interruzione dei sostegni vitali dell’uomo. La vicenda è al centro di una dura battaglia giudiziaria tra la moglie, che chiede l’eutanasia, e i genitori che lo accudiscono senza riserve. Vincent non è attaccato ad alcun macchinario, respira autonomamente e risponde agli stimoli. La sua – dicono i genitori - è una condizione di gravissima disabilità, non di fine vita. Per dimostrarlo hanno diffuso un video dove si vede Vincent che interagisce, in qualche modo, con chi gli sta intorno. La Chiesa francese ha lanciato un appello alle autorità politiche, giuridiche e mediche in unione con credenti e non credenti: “Chi deve giudicare sappia che dietro la persona di Vincent Lambert è in gioco il simbolo della vita più fragile per l’avvenire della nostra società”. In Francia ci sono circa 1.700 persone nella stessa condizione di Vincent. Sulla decisione dei medici di Reims, ascoltiamo il commento di Tugdual Derville, delegato generale di Alliance Vita, al microfono di Sarah Bakaloglou:

R. - C'est d'abord pour nous cette décision…
Prima di tutto per noi questa decisione rappresenta un sollievo, ma temiamo sempre che alla fine si arrivi alla decisione di provocare la morte di Vincent. Siamo in attesa di vedere quanto accadrà. Noi comprendiamo che ci sia un dibattito molto duro e molto doloroso intorno ad una famiglia, ma abbiamo anche coscienza che il caso di Vincent Lambert è divenuto emblematico: molte voci, sia sul piano nazionale che internazionale, si sono levate per dire quali pesanti conseguenze ci sarebbero se si cadesse nella decisione di provocare la morte di un uomo che non è in fin di vita, che non è in coma e che è mantenuto in vita: in effetti ognuno di noi è alimentato e idratato, a partire dai neonati fino alle persone anziane, altrimenti morirebbero in pochi giorni … Si tratta veramente di una partita tra la vita e la morte quella che si sta giocando. Al momento c’è una sentenza di “grazia” e noi siamo sollevati per questo e abbiamo la speranza che verrà confermata la nostra richiesta affinché Vincent venga preso in carico - perché non sia più seguito con cure palliative, che non sono assolutamente appropriate – da una struttura specializzata per i pazienti neurovegetativi come lui, che hanno bisogno di presenza, di terapie e di cure specifiche.

D. – Quindi è un primo passo, per voi?

R. – Oui, c'est une étape de soulagement, surtout parce que on avait annoncé ...
Sì, è un passo che ci dà sollievo, soprattutto perché era stato annunciato, come una evidenza, che l’équipe medica avrebbe provocato la morte di Vincent Lambert. Sappiamo bene che adesso ci sono dubbi, ci sono perplessità e ci sono dei medici che si sono espressi in modo sfavorevole… Quello che noi speriamo ora è che altre voci si facciano sentire in modo sempre più forte e si esprimano ai più alti livelli per dire che la nostra società si valuta proprio riguardo a quello che fa verso i più deboli e più vulnerabili, che possono sembrare per molti inutili... La vita merita di essere accompagnata, senza mai trasgredire quel divieto di uccidere che è il fondamento della nostra vita sociale: ci si prende cura gli uni degli altri, ci si protegge gli uni gli altri e sono proprio i più vulnerabili che hanno più bisogno di questo. Dunque oggi è una attesa che resta dolorosa, che ci interroga e ci preoccupa a proposito di Vincent Lambert e di tutte quelle persone che sono come lui e che vivono una stato molto, molto fragile.

D. – Se la decisione definitiva è quella di mantenere le cure, avete speranza che la vicenda Vincent Lambert possa fare giurisprudenza?

R. – Si la décision de poursuit l'alimentation et l'hydratation…
Se la decisione di proseguire l’alimentazione e l’idratazione di Vincent - che ricordo  non è in fin di vita – sarà presa in modo definitivo, allora questo rappresenterà un segnale di speranza per tanti altri pazienti che vivono perfino situazioni ancora peggiori e di maggior dipendenza di quella di Vincent – ne conosco! – e che sono molto preoccupati dalla discussione intorno al caso di Vincent. Sono anche molto preoccupati che dei benpensanti comincino a dire che situazioni come queste sono troppo lunghe, che non si possono comprendere e che sono troppo costose … e addirittura indegne! E questa è una valutazione che può avere conseguenze molto pesanti per la vita di queste persone: vita che resta un mistero, un mistero da rispettare, perché è così che l’umanità si umanizza sempre più.

D. – Continuerete ad essere mobilitati?

R. – Oui, je crois que ….
Sì, credo che dobbiamo tutti continuare a mobilitarci e che proprio grazie a questa mobilitazione, grazie anche alla voce del cardinale Barbarin e dei vescovi della regione, grazie ai medici che si relazionano con questi pazienti neurovegetativi, possiamo far sentire una voce che dice: “Attenzione, stiamo giocando con il fuoco!”. Noi chiediamo che Vincent venga liberato da quella stanza nella quale è chiuso, che venga curato in modo idoneo, che ci si prenda cura di lui. Questa è la risposta umana che noi chiediamo da mesi e stiamo cercando di ottenere. Abbiamo ancora la speranza di riuscire ad ottenerla!

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Scuole paritarie dovranno pagare Ici. Don Macrì: chiuderemo

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La Corte di Cassazione ha riconosciuto la legittimità della richiesta del pagamento dell'Ici, avanzata dal Comune di Livorno nel 2010, agli istituti scolastici del territorio gestiti da enti religiosi, in riferimento agli anni dal 2004 al 2009. La sentenza, resa nota oggi, ribalta di fatto quanto stabilito nei primi due gradi di giudizio, equiparando l’attività scolastica a quelle a carattere commerciale. Secondo il giudice è inoltre “giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, essendo di per sé il conseguimento di ricavi indice sufficiente a stabilire il tipo di servizio svolto. A seguito della sentenza, in una nota il Comune fa sapere che provvederà a notificare agli istituti in questione anche gli importi dovuti per le annualità 2010 e 2011 e assume “rilievo ai fini dell'interpretazione delle disposizioni in materia di Imu, relativamente all'imposizione fiscale dall'anno 2012. Per un commento Adriana Masotti ha sentito don Francesco Macrì, presidente della Fidae, Federazione Istituti di attività educative: 

R. – Sono sentenze che lasciano interdetti, perché costringeranno le scuole paritarie a chiudere. Sono scuole che hanno già dei bilanci profondamente in rosso; scuole che allo Stato costano quasi nulla, pur garantendo un servizio alla Nazione equiparabile a quello statale. Quindi, di fronte a queste sentenze, si rimane senza parole. In Italia, cioè, noi ci troviamo nella condizione che le istituzioni non riconoscono il servizio nella direzione del bene comune, svolto da queste scuole. A differenza di quanto capita in Europa, dove le scuole paritarie vengono sostenute in tutti i modi - sotto il profilo legislativo, sotto il profilo economico, sotto il profilo fiscale - in Italia, in tutte queste direzioni, vengono continuamente penalizzate, quindi costrette a sparire. E sparendo, sparisce una dimensione importante della struttura organizzativa, educativa della Nazione.

D. – Anche se ci fosse un profitto da queste scuole perché, secondo voi, non è giusto equiparare gli Istituti scolastici ad un’attività commerciale?

R. – Il profitto nelle scuole, che non siano i cosiddetti diplomifici, non esiste. Queste scuole finora sono sopravvissute perché sostenute dai religiosi – preti o suore – che lavorano a titolo completamente gratuito.

D. – Il giudice di legittimità ha precisato comunque che è giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, risultando sufficiente l’idoneità tendenziale dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio…

R. – Certamente le famiglie pagano qualcosa. Quindi c’è un passaggio di denaro dalla famiglia verso queste istituzioni scolastiche. E’ un’istituzione scolastica, però, che pur essendo gestita da un privato, svolge una funzione pubblica nell’interesse pubblico. E’ un concetto che in Italia fa fatica ad entrare nella testa di chi governa le istituzioni. La legge 62 del 2000 ha riconosciuto in maniera aperta ed inequivocabile questa funzione pubblica della scuola paritaria. Quindi equiparare la scuola paritaria ad una qualsiasi attività commerciale è veramente fuori di senso, va al di là della legge.

D. – Questo è il primo pronunciamento di questo tipo in Italia. Lei teme che ci saranno altri ricorsi da parte di altri Comuni?

R. – Io penso di sì, perché i Comuni, con i tagli che hanno subito, cercheranno in tutti i modi di rastrellare qualche soldo. E chi è il soggetto più debole, a portata di mano? E’ la scuola paritaria. Quindi, certo io ho timore, ma timore fondato, che molti Comuni, specialmente quei Comuni governati da chi ha pregiudizi nei confronti della scuola paritaria, si muovano in questa direzione. Quindi in Italia sparirà questa presenza, che tra i tanti meriti ha il fatto di essere una presenza che è nata moltissimo tempo prima che lo Stato nazionale avvertisse l’urgenza di rivolgersi a formare la popolazione, il popolo, le classi medio-basse. Ecco, questa scuola ha svolto per secoli una funzione di supplenza di fronte ad uno Stato latitante rispetto alle classi medio-basse.   

D. – E con un governo ancora latitante per quanto riguarda i finanziamenti alle scuole paritarie…

R. – Sì, anche l’ultima legge, la 107, appena approvata dal Parlamento, è una legge che ignora la presenza di queste istituzioni, che tra l’altro sono migliaia su tutto il territorio. Sostanzialmente, la norma non ha valorizzato quel principio della legge 62, che parlava di un sistema unitario, integrato, costituito da scuole statali e scuole paritarie.

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Scioperi a Roma. Il Garante: inascoltato su moratoria per Giubileo

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Trasporti pubblici ancora nel caos. A Roma ci sono ancora ritardi sulle linee metro A e B, mentre a Fiumicino si registrano oltre 60 cancellazioni di voli per lo sciopero di 24 ore di piloti e assistenti Alitalia proclamato da Anpac. Uno sciopero giudicato non opportuno da Roberto Alesse, presidente dell`Autorità garante per gli scioperi, che denuncia anche come la sua richiesta di "tregua sindacale" durante il Giubileo sia caduta "completamente nel vuoto". Alessandro Guarasci ha sentito lo stesso Alesse: 

R. – In Italia, si continua a scioperare ancora troppo – dati alla mano – se si guarda anche all’esperienza europea. I servizi pubblici essenziali devono funzionare sempre in modo regolare, con efficienza. Quindi lo sciopero, in questo settore, dovrebbe essere l’ipotesi residuale. Invece assistiamo ad un conflitto collettivo di lavoro, in questo settore, che continua ad essere molto alto, perché le cause sono strutturali e non si riesce a rimuoverle al fine di prevenire il conflitto collettivo di lavoro.

D. – Lo sciopero del trasporto aereo era opportuno farlo in un momento, in sostanza, di esodo estivo?

R. – No, secondo me no.

D. – Lei è soddisfatto della precettazione di lunedì 27 dei lavoratori del trasporto pubblico a Roma, che avevano indetto uno sciopero?

R. – Certamente, noi l’abbiamo sollecitata ai sensi dell’art. 8 della Legge 146 del ’90. Il danno all’utenza continua ad essere veramente un danno costante e da questo punto di vista bisogna assolutamente porgli rimedio. Anzi, più volte io ho auspicato che il governo e il parlamento modificassero la legge e attribuissero direttamente all’Autorità di garanzia per gli scioperi il potere di precettazione.

D. – Nel frattempo, il trasporto pubblico a Roma è letteralmente nel caos. Si parla di "sciopero bianco", a volte metro che passano ogni 20-30 minuti. Voi a che cosa siete arrivati su questi forti disservizi, che sono tuttora nella capitale?

R. -  E’ vero che è stato raggiunto qualche giorno fa un accordo su come rilanciare le relazioni industriali. Vedremo se questo accordo sortirà effetti benefici, ma fino adesso certamente notiamo una grande difficoltà di dialogo. Abbiamo un’azienda che non riesce ad approntare un piano di ristrutturazione industriale all’altezza della situazione; abbiamo un “universo mondo” di sindacati che guarda al futuro con la lente di ingrandimento del passato. Devo dire che entrambi sono responsabili dell’aggravamento del conflitto, a danno dell’utenza.

D. – Ma voi, a Roma, avete accertato dei boicottaggi?

R. – Noi abbiamo aperto un fascicolo e quando avremo gli elementi istruttori decideremo sul da farsi.

D. – Con queste basi, che Giubileo ci dobbiamo aspettare quando arriveranno a Roma circa 33 milioni di pellegrini e turisti? Possiamo pensare ad una moratoria degli scioperi per un anno?

R. – Certamente nel 2000, tutti i protagonisti del conflitto, anche su input dell’Autorità di garanzia e del governo, si misero intorno ad un tavolo e firmarono un protocollo di intesa, di tregua sindacale. Io ho rilanciato questo tema, ma è caduto completamente nel vuoto - ho scritto al governo, ho scritto alle parti della realtà sociale  - nessuno ha raccolto questo invito. Sarebbe opportuno, effettivamente, che si aprisse un dialogo immediato, perché nessuno sa quello che potrebbe accadere.

D. – La legge sugli scioperi è datata e se lei dovesse fare una modifica quale farebbe subito?

R. – Certamente c’è da inasprire tutto l’apparato sanzionatorio, che è inadeguato rispetto a certi comportamenti abnormi, che vengono posti in essere, non soltanto dalle aziende, ma anche da singoli lavoratori. Mi preme dire, però, che è arrivato veramente il momento di trasformare l’Autorità di garanzia per gli scioperi in una autorità a tutti gli effetti delle relazioni industriali, perché da questa situazione di cronicizzazione dei problemi si esce veramente andando a studiare a fondo le cause da cui origina lo sciopero; un’autorità che a tutti gli effetti si cali nel merito delle controversie di lavoro, anche con forti poteri di conciliazione. Non possiamo dare soltanto risposte sul piano della repressione dei comportamenti, bisogna prevenire il conflitto collettivo di lavoro.

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P. Funes: presto per parlare di forme di vita su "Kepler 452b"

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Si chiama Kepler 452b ed è l’altra “Terra possibile”, che la Nasa ha individuato nella costellazione del Cigno, a 1400 anni luce da noi. Un pianeta “gemello” per dimensioni, movimento e caratteristiche naturali, anche se troppo lontano per essere osservato con precisione. Eppure la fantasia e l’entusiasmo, che spingono da sempre l’uomo alla ricerca della vita nelle galassie lontane, si sono già accesi. Il servizio di Gabriella Ceraso

Sembra proprio un Terra 2.0, il nuovo pianeta "Kepler 452 b": ha un diametro simile - il 60% maggiore - e ruota intorno ad una stella analoga al Sole ma più vecchia, con un periodo di rivoluzione di 385 giorni, poco più del nostro anno, ma soprattutto lo fa ad una identica distanza. Ed è questo che fa esultare gli astronomi. Ne abbiamo parlato con padre Josè Gabriel Funes direttore della Specola Vaticana:

R. – La novità di questa scoperta è che ci troviamo davanti ad un pianeta simile alla Terra, ma un pochino più grande, come quelle che si chiamano “super-terre”. Gira attorno ad una stella molto simile al nostro Sole e si trova in quella che si chiama la "zona di abitabilità" che potrebbe essere ospitale alla vita.

D. – Ma ci darebbe anche qualche input in più per capire quello che è accaduto in origine sul pianeta Terra?

R. – Siamo molto lontani ancora da questo. Dobbiamo prima stabilire se si tratta di un pianeta terrestre, quindi della stessa composizione e densità della nostra Terra. Poi - forse fra 10 anni - saremo in grado di osservare l’atmosfera di questi pianeti e vedere se ci sono degli elementi che ci dicono che ci sia realmente una possibilità di vita, come l’ossigeno, l’idrogeno, il carbonio. Però la cosa importante è continuare con questi sforzi della ricerca, perché ci aiutano e ci mettono davanti ad una prospettiva dell’essere umano più larga rispetto a quella di tutti i giorni. In questo senso penso che sia una cosa importante.

D. – Scienza e fede in questo genere di ricerca sono in armonia?

R. – Non c’è una differenza. I risultati scientifici sono quelli che la comunità scientifica accetta come validi. Non c’è una "scienza cattolica" e una "scienza non cattolica", c’è la scienza, che ha certamente un modo di avvicinarci alla realtà diverso da quello che ci offre la religione o la fede, ma sono due cose complementari. Questo certamente! E si possono quindi anche aiutare a vicenda. Penso che siamo su questa strada…Direi senz'altro che la teologia potrà dire qualcosa su questo argomento solo una volta che troveremo qualche risultato scientifico… Bisogna aspettare e avere pazienza. Intanto studiamo e continuiamo con le nostre ricerche.

D. – Quindi l’umiltà, forse, è la cosa che più ci insegna questa scoperta?

R. – Sì e che c’è molta strada da fare, che facciamo progressi e questi progressi vengono compiuti grazie al lavoro di tante persone. Questo dimostra l’importanza io direi anche della scienza ed è una cosa molto bella, che può ispirare i giovani.

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Cinema: presentata la Settimana Internazionale della Critica

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Compie 30 anni la Settimana Internazionale della Critica, la prestigiosa sezione collaterale presente alla Mostra del Cinema di Venezia, in programma dal 2 al 12 settembre, presentata ieri a Roma. Sette film in concorso per l’opera prima e tre eventi speciali, con un tema diversamente declinato dai registi: la famiglia e la memoria. Il servizio di Luca Pellegrini: 

Famiglie in viaggio, famiglie che attendono, si dividono e si ritrovano, camminano verso un futuro oggi più che mai incerto e emergono da dolorosi passati. Nei sette film selezionati tra le 400 opere prime, e che partecipano al concorso della Mostra veneziana per il Leone del futuro, padri e figli, madri e figlie, si ritrovano al centro di scontri e solitudini, affetti e gesti d’amore, ma in un mondo che cambia e si modifica rapidamente. Dall’isola di Tanna nelle Vanuatu al Nepal - per la prima volta presente a Venezia con un lungometraggio - dalla Romania a Singapore, dal Portogallo alla Turchia, la Settimana propone nei suoi film un viaggio di persone e con persone che vivono il nostro tempo, e chiedono di condividere le loro esperienze. Tra tradizioni e modernità, religione e laicità, contrasti e affetti. Anna Maria Pasetti, critica e selezionatrice, così descrive le scelte della Commissione e i temi che l’hanno maggiormente colpita:

R. – Confermo che la famiglia, la memoria intesa nelle varie declinazioni - di memorie relazionali, territoriali, memorie del cinema - e quindi una grande attenzione nel dettaglio alla creazione di una profonda individualità, ma anche collettività: sono i temi, gli argomenti, che questi registi esordienti ci hanno proposto con grande vigore. E questo chiaramente in un mosaico casuale, perché quando si vedono film non si sta a pensare a che cosa raccontano nella loro complessità, ma si sta a guardare ogni film per quello che è. Devo dire che abbiamo avuto grande soddisfazione nelle opere che sono arrivate dall’Oriente, in particolare dalla Cina: la qualità del cinema cinese non è una novità, ma sta crescendo a vista d’occhio. E l’Oriente tutto, comunque, in questa sua mutazione frenetica, sta arrivando a dei livelli quasi di contraddizione e di – ripeto – complessità, che poi sfociano in un grandissimo cinema. Che dire? Attenzione ai rapporti familiari, soprattutto intesi come madre-figlia, padre-figlio, che non sono novità, ma è interessante vedere come i giovani continuino e vogliano approfondirli, forse proprio per una risoluzione attraverso il cinema, che è vita.

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Nella Chiesa e nel mondo



Card. Braz de Aviz a religiosi asiatici: porre al centro Cristo

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Porre Cristo al centro e mettersi al servizio del Suo popolo nelle periferie del mondo: così i consacrati e le consacrate in Asia possono servire la missione evangelizzatrice della Chiesa del Continente. Con questo invito il card. Joao Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica si è rivolto ai partecipanti al Simposio “La vita consacrata al servizio della nuova evangelizzazione” in corso fino al 24 luglio a Pattaya, in Thailandia. 

Al centro del Simposio le sfide della nuova evangelizzazione in Asia
L’incontro, iniziato il 20 luglio è stato organizzato dalla Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (Fabc) per raccogliere i frutti di due momenti forti della vita della Chiesa: il Sinodo generale dei vescovi sul tema della nuova evangelizzazione, svoltosi ad ottobre 2012, e l’Anno della Vita Consacrata. Vi partecipano una novantina tra vescovi, sacerdoti e religiosi che in questi giorni hanno discusso delle sfide della nuova evangelizzazione in Asia: dalla globalizzazione, alla povertà, all’ecologia, alla libertà religiosa, e delle strategie per valorizzare “il ruolo profetico della Chiesa” nei rapporti con lo Stato, le società e le altre Chiese e religioni del Continente.

Porre Cristo al centro
Aprendo l’incontro il card. Braz de Aviz, ha esortato i religiosi e le religiose asiatici a un impegno rinnovato per l’evangelizzazione.  “Non possiamo evangelizzare con le armi o la politica", ha sottolineato nel suo intervento ripreso dall’agenzia Ucan. "Dobbiamo vivere amando le persone che serviamo con quella passione che ci viene mettendo Cristo, e non il denaro e il potere, al centro delle nostre vite”. Il prefetto per gli Istituti di vita consacrata ha inoltre messo in guardia i religiosi dalla presunzione: “Non siamo meglio di altri nella Chiesa, e il radicalismo evangelico non è un’esclusiva della vita consacrata, ma appartiene a tutti, perché non esistono cristiani di serie A e cristiani di serie B”. Questo riguarda anche i rapporti tra gli stessi religiosi che - ha detto - devono vivere “come fratelli e sorelle e non come superiori e subalterni”.

Più rispetto tra uomini e donne consacrate
A questo proposito il card. Braz de Aviz ha esortato anche al rispetto tra uomini e donne consacrate: “Gli uomini da soli non rappresentano tutta l’umanità e lo stesso vale per le donne. C’è bisogno di ambedue perché siamo stati tutti creati ad immagine dell’amore di Dio”, ha affermato , ricordando come Papa Francesco auspichi una presenza più incisiva delle donne nella Chiesa. (L.Z.)

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Card. Sistach presenta al Papa libro su pastorale nelle grandi città

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L'arcivescovo di Barcellona, il card. Lluís Martínez Sistach ha consegnato a Papa Francesco l'edizione spagnola, italiana e catalana del libro “La Pastorale delle grandi città” che raccoglie gli interventi, i documenti e le conclusioni del I Congresso Internazionale su questa pastorale che si è svolto in due fasi, a maggio e a novembre del 2014.

Un'idea diventata realtà nel pontificato di Francesco
Il congresso sulla Pastorale delle grandi città è nato a partire di varie conversazioni sul tema avute durante il 2013 dall’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio con il cardinale Martínez Sistach a pochi giorni della sua elezione al soglio pontificio.  Già dalla presentazione dell’incontro, l’arcivescovo di Barcellona aveva sottolineato l’importanza di questo tema per il Santo Padre, visto il suo interesse per uscire alle “periferie esistenziali” che sono particolarmente evidenti proprio nelle periferie delle grandi citta. Infatti, nel discorso ai partecipanti in questo congresso, il Pontefice aveva segnalato le principali sfide della pastorale delle grandi citta: una pastorale evangelizzatrice  più dinamica e audace per toccare la vita delle persone; il dialogo con la multiculturalità e un dialogo pastorale senza relativismo, senza negoziare la propria identità cristiana; la valorizzazione della religiosità popolare e la vicinanza ai poveri “urbani”.

Rappresentati 100 milioni di cattolici
Più di 100 milioni di cattolici sono stati rappresentati da pastori, cardinali e arcivescovi di grandi città come Bombay, Manila, Kinshasa, Santiago de Chile, Seul, Saigonn, Douala, Abuja, San Francisco, Monterrey, Buenos Aires, Bogotá, Tegucigalpa, Río de Janeiro, Sao Paulo, e uno per ogni Stato Europeo. Insieme a loro un'equipe di esperti in diverse aree di competenza ecclesiastica, sociale e economica. 

Una prima pubblicazione per ripartire
Il libro presenta le nove prolusioni presentate durante la prima fase del congresso dal sociologo spagnolo Manuel Castells; dall’antropologo francese, Marc Augé; dal cattedratico e ricercatore, Javier Elzo; dall’esperto in patristica, Angelo di Berardino; dal messicano esperto di pastorale Benjamín Bravo; dal vicario episcopale di  Milano, Luca Bressan; dal rettore dell’ Università Cattólica del Congo, Jean-Bosco Matand Bulembat; dal vicario general di Liege (Belgio), Alphonse Borras e dal teologo argentino Carlos María Galli il quale ha dato alcune indicazioni sul progetto teologico-pastorale e missionario di Papa Francisco sul tema delle grandi città.

Nel libro l'intervento del Papa
Oltre agli Atti del congresso, la pubblicazione presenta il documento di sintesi, a firma di  Armand Puig e Joan Planellas, decano e vice-decano, rispettivamente, della Facoltà di Teologia di Catalogna, con il quale hanno lavorato i cardinali e gli arcivescovi nella seconda fase del Congresso. Il libro si chiude con il discorso del Papa rivolto ai partecipanti, durante l’udienza del novembre scorso nella Sala  del Concistoro del Palazzo Apostolico, nel quale si evince una continuità sul tema della Pastorale delle grandi città. In effetti, due sono state le proposte di Papa Francesco davanti alle sfide sempre più impegnative e cambianti per l’evangelizzazione nei grandi centri urbani:  uscire per incontrare Dio che vive nella città e tra i poveri, facilitare l’incontro con il Signore e lavorare per una Chiesa samaritana “come testimone concreto di misericordia e dolcezza presente nelle periferie esistenziali e tra i poveri”.(A.T.)

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Colombia: leader religiosi chiedono al governo una pace definitiva

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Circa una quindicina di leader religiosi della Colombia sono stati ricevuti dal Presidente Juan Manuel Santos, mercoledì scorso, al palazzo presidenziale “Casa de Nariño”, per chiedere al governo di perseverare nei negoziati fino al raggiungimento pieno della pace nel Paese. I rappresentanti religiosi hanno consegnato una lettera che racchiude le motivazioni della Campagna interreligiosa “Credere nella riconciliazione” promossa da 26 comunità religiose e spirituali della nazione.

La cultura del perdono, vaccino contro la vendetta
Durante l’incontro, i leader religiosi hanno esortato al Presidente di portare avanti il dialogo del governo con la guerriglia delle Farc in corso a L’Avana fino ad arrivare ad un accordo solido e concreto di pace. La lettera sottolinea “l'urgenza di recuperare la cultura del perdono come vaccino e cura contro il perverso ed continuo ritorno della vendetta”. Il gruppo di religiosi ha ribadito il compito fondamentale del governo di avanzare nel dialogo “fino al termine del conflitto armato senza alzarsi del tavolo dei negoziati con un accordo post bellico”, mentre ha invitato i gruppi armati, a consegnare le armi. “Le armi -si legge nel testo - sono la sconfitta della parola e la negazione del supremo valore della bontà,della generosità e della compassione”.

Santos  conferma la credibilità della voce delle comunità religiose
L’importanza e la credibilità che ha la voce delle comunità religiose ed spirituali tra i colombiani è stato il primo aspetto sottolineato dal Presidente Santos, durante l’incontro. “E’ fondamentale l’esempio che i leader religiosi possono dare al mondo – ha detto il Capo di Stato - nel mostrare che, nonostante le differenze, possono unirsi per una causa comune, appoggiare la lotta contro la violenza e porre fine a decenni di conflitto armato.

Per leader religiosi quella della Colombia è una crisi spirituale
I capi religiosi hanno sintetizzato alcuni aspetti rilevanti della dichiarazione congiunta frutto di un processo di dialogo appoggiato dall'iniziativa "Riconciliazione Colombia" volta a recuperare la fiducia dei colombiani nelle istituzioni e nella propria Patria. Nella lettera, con data del 5 luglio, i leader religiosi ricordano che l’importanza della dichiarazione congiunta ha le sue basi nella consapevolezza che la crisi in Colombia è una crisi spirituale ed è proprio con l’impegno spirituale che può essere superata.

Le armi hanno impedito il progresso del Paese
Nel documento si legge: “Vogliamo dire che non giustifichiamo le armi. Con l’uso delle armi sono stati trasgrediti i più elementari principi di umanità: uccisione di civili indifesi, donne violentate, bambini reclutati e assassinati, attacchi indiscriminati che hanno causato ingenti danni alla natura e crimini di guerra che, non solo hanno denigrato la dignità della vita dei colombiani, ma anche lacerato gravemente il tessuto umano di questo Paese e impedito il suo sviluppo e progresso giusto e equo”

Preghiera congiunta per la pace del Paese
​A conclusione dei colloqui con il Presidente Santos, i leader religiosi hanno partecipato ad una preghiera congiunta per la pace del Paese. La Chiesa cattolica è stata rappresentata dal padre Pedro Mercado, direttore del Dipartimento di Promozione dell’unità e del dialogo e Segretario aggiunto della Conferenza episcopale della Colombia. Hanno partecipato anche i delegati del Consiglio Evangelico, del Centro Culturale islamico, la Comunità buddista tibetana–Guelugpa, le Chiese luterana, mennonita, anglicana episcopale, presbiteriana, ortodossa, le Donne tessitrici di Mampujà, la Giunta maggiore dei Parolieri Wayuù, e altre comunità spirituali, insieme a organizzazioni come Rete pro Pace, Giusta Pace, Ponti di Pace e la Fondazione per la Riconciliazione. (A cura di Alina Tufani)

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Nepal: aiuti Caritas a 300mila persone. Dall'Italia 1 milione di euro

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Sono 65.837 le famiglie, oltre 300mila persone, finora raggiunte dagli aiuti Caritas nel Nepal colpito dal terremoto tre mesi fa, il 25 aprile: in particolare - riferisce l'agenzia Sir - viveri, acqua e prodotti per l’igiene, coperte e teli, materiale per l’allestimento di ripari temporanei, ma anche sostegno psicologico per 2.600 persone. Sono state 8.800 vittime, 590.000 abitazioni completamente distrutte, 285.000 danneggiate, 2,8 milioni di persone colpite. “Quello che mi ha più impressionato è la capacità di reazione delle persone. È una situazione tragica, di grande sofferenza, ma la gente non ha perso la speranza. Questo mi incoraggia molto e sono sicuro che il Nepal si rialzerà”, ha dichiarato padre Pius Perumana, direttore di Caritas Nepal. 

Seconda fase degli aiuti per sostegno socio-economico e psico-sociale
Caritas Nepal ha prolungato fino a settembre il programma di aiuti d’urgenza, prevedendo interventi in tutti i 14 distretti più colpiti per un costo complessivo di oltre 4 milioni di euro. Nel frattempo, prosegue l’elaborazione della seconda fase dell’intervento da avviarsi nei prossimi mesi finalizzata principalmente alla ricostruzione, alla riattivazione socio-economica, al rafforzamento delle comunità e riduzione del rischio, al sostegno psico-sociale. 

Dalla Caritas italiana 1 milione di euro
​Caritas italiana - grazie anche alla colletta nazionale indetta dalla Cei il 17 maggio - ha potuto offrire sostegno a Caritas Nepal e sta contribuendo alla realizzazione di 10 interventi di congregazioni religiose e altre organizzazioni, per un importo di oltre un milione di euro. “Caritas Nepal ha letteralmente spostato le montagne per portare aiuto ai più bisognosi”, ha detto Manindra Mall, responsabile delle operazioni di aiuto di Caritas Nepal: “I nostri operatori, soprattutto nella regione di Sindhupalchowk, una delle più colpite, hanno dovuto liberare le strade da grosse pietre e rocce per poter passare con i camion e portare aiuti alle comunità più isolate prima dell’intensificarsi delle piogge monsoniche”. “Un esempio concreto - ha sottolineato don Francesco Soddu, direttore di Caritas italiana - della carità in azione, che supera i confini e ci aiuta a capire ancor più quanto ribadito da Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’: abbiamo bisogno gli uni degli altri, abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo”. (R.P.)

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Iraq. Mons. Yaldo: la preghiera dei bambini per la pace

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“Questa settimana a Baghdad ogni giorno si sono verificate esplosioni, attacchi bomba, violenze, ogni giorno sentiamo scoppi, anche vicino al patriarcato, e poi morti, feriti, oltre100 nel primo giorno di festa per la fine del ramadan. Una situazione drammatica”. È quanto racconta all'agenzia AsiaNews mons. Basilio Yaldo, vescovo ausiliare della capitale e stretto collaboratore del patriarca Louis Raphaël I Sako, secondo cui “il futuro è incerto, oscuro, nessuno sa cosa potrà succedere perché ogni giorno vi è un nuovo episodio di violenza”. Tuttavia, aggiunge il prelato, “il popolo sembra essersi abituato a queste notizie di sangue, che non vengono più nemmeno riportate nei telegiornali, sono considerate una normalità… la gente poco dopo un’esplosione è già in strada, come se nulla fosse”. 

Governo è incapace di perseguire un progetto di unità
In queste ultime settimane si è registrata una nuova ondata di violenze in Iraq, una nazione che appare sempre più divisa al suo interno per etnie e confessioni. Sciiti, sunniti, arabi, turcomanni, curdi sono al centro di una lotta per il potere che viene combattuta a colpi di mitra, bombe e attentati sanguinosi mentre il governo appare incapace di perseguire un progetto di unità. Anche per questo si moltiplicano le voci e i commenti, alcuni dei quali con intento provocatorio, di una divisione confessionale di una nazione ormai sull’orlo del baratro e priva di una vera “coscienza nazionale”. Tuttavia la presenza cristiana, benché decimata, resta sempre un messaggio di pace, armonia e unione come sottolinea una volta di più il vescovo ausiliare della capitale. 

I cristiani vogliono solo la pace e la convivenza
“Noi come cristiani - spiega il prelato - lavoriamo per la riconciliazione, l’unità… perché non abbiamo interessi specifici o sete di potere, vogliamo solo la pace e la convivenza. Spesso il patriarca Sako invita le varie parti in causa a momenti di incontro, discussione, per una vera riconciliazione nazionale. E, in alcuni casi, la risposta è positiva perché sunniti e sciiti hanno fiducia in noi cristiani”. Purtroppo, aggiunge, “ogni parte, ogni partito ha la propria idea ma anche chi, come il governo, non vuole la divisione alla fine non riesce a costruire un vero percorso di unità”. 

Sempre incerto il destino dei profughi cristiani fuggiti da Mosul
Intanto continua il dramma dei rifugiati cristiani, che da oltre un anno vivono nei campi di accoglienza dopo che le loro case e le loro terre - a Mosul e nella piana di Ninive - sono state occupate dai miliziani dello Stato islamico. “Ancora oggi non sappiamo quale sarà il loro destino - ammette mons. Yaldo - e alle loro domande non sappiamo dare risposte certe. La situazione sembra peggiorare sempre più, ma noi come cristiani ci diamo coraggio, fede, speranza”. 

Solenne preghiera per la pace in Iraq
Fra questi piccoli segnali di speranza, racconta l’ausiliare di Baghdad, c’è il lavoro di preparazione “per una solenne preghiera per la pace nel Paese”. Ogni Messa, aggiunge, ha proprio la pace in Iraq come intenzione speciale. “Anche oggi - aggiunge mons. Yaldo - durante la Messa per la prima comunione di 28 bambini della capitale, abbiamo voluto pregare per la pace”. Negli ultimi giorni, conferma il vescovo, 182 ragazzi e ragazze hanno ricevuto la prima comunione e “anche questo è un piccolo segno di speranza e la testimonianza di una comunità viva”. 

Il sogno di tutti i bambini è la pace
​“I bambini hanno la pace come unico sogno, è questo che ci chiedono” sottolinea mons. Yaldo. In questi giorni a Baghdad “fa molto caldo, oltre 50 gradi, mancano elettricità e corrente ed è difficile trovare refrigerio. Tuttavia i bambini chiedono “cose semplici, vogliono giocare con gli altri, partecipare a gite, uscire in strada e divertirsi ma non possono farlo per paura delle bombe, delle esplosioni, delle violenze. Noi però - conclude - insegnamo loro ad essere strumenti di pace, a non usare la violenza, e a guardare al futuro con speranza e fiducia”. (D.S.)

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Iraq: a Erbil un'università cattolica grazie alla Chiesa australiana

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I cattolici in Iraq stanno “sfidando” il sedicente Stato islamico (Is) non con le armi o con la violenza, ma con l’educazione e l’insegnamento, grazie al contributo e al sostegno dell’Università cattolica australiana. Il prossimo ottobre, infatti, prenderanno il via i corsi dell’Università cattolica di Erbil, l’ateneo fortemente voluto dalla Chiesa caldea in Iraq anche come forma concreta di aiuto ai giovani cristiani in Medio Oriente.

Il sostegno della Chiesa australiana
Nei giorni scorsi - riferisce l'Osservatore Romano -  l’arcivescovo di Erbil dei caldei, mons. Bashar Matti Warda, ha incontrato i rappresentanti dell’Australian Catholic University (Acu) e il presidente della Conferenza episcopale australiana e arcivescovo di Melbourne, mons. Denis James Hart, per coordinare al meglio gli aiuti necessari a completare i lavori del nuovo ateneo in una città abitata in maggioranza da cristiani. Era stata la Chiesa caldea a mettere a disposizione i trentamila metri quadri su cui far sorgere l’ateneo. L’obiettivo fin dall’inizio era quello di creare un polo d’insegnamento universitario privato aperto a tutti, conforme alle esigenze del mercato e strettamente associato alla ricerca scientifica. 

L'università vuole essere un segno concreto di aiuto ai giovani cristiani iracheni
A distanza di quasi tre anni, dopo i drammatici eventi che hanno travolto le regioni settentrionali dell’Iraq e hanno portato proprio a Erbil, nel sobborgo di Ankawa, migliaia di profughi cristiani costretti alla fuga dai jihadisti dello Stato islamico, l’università vuole essere un segno concreto di aiuto ai giovani cristiani iracheni, inevitabilmente tentati dall’idea di fuggire all’estero e lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra e le incertezze e le minacce che pesano sul futuro.

Un segno che i cristiani sono radicati in Iraq
L’inizio delle attività è previsto a ottobre per quattro facoltà universitarie, compreso il college di studi economici (Business administration). La struttura, aperta a tutti, senza differenze di religione, ospiterà circa tremila studenti impegnati in corsi umanistici e tecnico-scientifici. Secondo l’arcivescovo Warda, che ha fortemente voluto la nascita dell’ateneo cattolico, «la Catholic University of Erbil è un messaggio per coloro che vogliono buttarci fuori dal cerchio della storia. Questo significa che noi restiamo perché siamo profondamente radicati in questa terra da migliaia di anni. Non abbiamo nessuna intenzione di andare via».

Scambio di professori e studenti con l'Australia
Secondo padre Anthony Casamento, direttore di Identità e missione dell’Acu, è importante sostenere il nuovo ateneo e «noi stiamo individuando i mezzi più efficaci per aiutarlo». Tra le tante iniziative vi sarà lo scambio tra professori da un’università all’altra, la possibilità per gli studenti di approfondire i propri studi in Australia usufruendo di borse di studio e tornare a Erbil per insegnare. L’arcivescovo Warda ha sottolineato che «una delle cose più importanti è stata quella di pregare per il popolo iracheno e di dar voce a che non ce l’ha», e noi — ha replicato padre Casamento — «ci impegniamo a farlo».

L'università aperta anche ai musulmani
Durante l’incontro con i responsabili dell’Australian Catholic University, monsignor Warda ha ricordato che «i cristiani sono ancora perseguitati e abbiamo il dovere di essere solidali con loro. La nuova università abbraccerà i nostri giovani, uomini e donne, cristiani e yazidi che sono stati sfollati con la forza e le minacce dalle loro aree e dalle loro abitazioni nella Piana di Ninive e a Mosul. L’università — ha proseguito — aprirà le sue porte anche ai musulmani che vogliono imparare e studiare fianco a fianco con i cristiani e gli yazidi al fine di formare un nuovo e promettente futuro per l’Iraq».

Un progetto per frenare la fuga all'estero dei giovani
La prima pietra dell’università è stata posata il 20 ottobre del 2012. In quell’occasione, l’arcivescovo Giorgio Lingua, nunzio apostolico in Giordania e Iraq, presente alla cerimonia, aveva sottolineato che si era di fronte a «un atto di coraggio rimarchevole», di «un progetto contro corrente, perché mentre molti, soprattutto giovani, pensano a lasciare l’Iraq, c’è chi reagisce offrendo loro un’occasione per rimanere e addirittura contribuire al futuro del Paese». Un’opera che per il nunzio apostolico porterà benefici a tutti i cristiani iracheni: «Ogni università cattolica offre un importante contributo alla Chiesa nella sua opera di evangelizzazione». (I.P.)

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Bolivia: manifestanti delle miniere accolti nelle parrocchie

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Il conflitto tra governo boliviano e gruppi sindacali di Potosì, che chiedono tutela e garanzie per quanti lavorano nelle miniere della zona, prosegue da 18 giorni senza che si veda ancora una via di uscita. Negli ultimi scontri fra polizia e manifestanti ci sono stati numerosi feriti e 50 arresti. "Voi sapete che la Chiesa è il popolo e il popolo è la Chiesa, quindi stiamo pensando di aprire le parrocchie per accogliere i gruppi di manifestanti per questa vicenda e così chiedere al più presto possibile al governo l'apertura di un dialogo serio" ha affermato mons. Ricardo Ernesto Centellas Guzmán, vescovo della diocesi di Potosì.

Gruppi sociali chiedono l'intervento del governo
​Nella nota ripresa dall'agenzia Fides, mons. Centellas informa che le porte di 9 parrocchie si apriranno per accogliere le famiglie delle persone che chiedono l'intervento del governo per una soluzione al problema minerario e il rilascio dei detenuti di questi ultimi giorni, arrestati per aver manifestato chiedendo giustizia. "E' del tutto inaccettabile che un problema del genere arrivi al 18° giorno senza trovare una soluzione" conclude il vescovo. La situazione è molto tesa e si sta trasferendo anche a La Paz. Diversi gruppi sociali chiedono l'intervento del governo per dare risposta alle richieste dei lavoratori delle miniere nella zona del Potosì, problema vecchio e sempre rimandato. (C.E.)

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Austria: Chiesa assiste il 10% dei richiedenti asilo

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La Chiesa austriaca fornisce assistenza continuata a 4.400 richiedenti asilo su un totale di 43.000 in tutta l’Austria, attraverso l’azione della Caritas, delle comunità parrocchiali, dei monasteri e dei volontari. Inoltre altri 10.500 profughi sono accuditi periodicamente e aiutati sia per l’assistenza sanitaria che per l’accoglienza. Sono alcuni dei dati diffusi ieri da Caritas Austria, dai quali si evince - riferisce l'agenzia Sir - come la Chiesa austriaca assista da sola il 10% dei richiedenti asilo: nell’ultimo anno sono 1.700 i posti aggiuntivi per le persone in cerca di protezione e i servizi di cura mobile raggiungono oggi il doppio delle persone del 2014, come ha confermato il segretario generale di Caritas Austria, Bernd Wachter.

Le Caritas locali aumentano i posti di accoglienza
L’esempio viene dalla diocesi di Eisenstadt, che vuole aumentare i posti alloggio dagli attuali 54 a circa 200 entro la fine dell‘anno. Lo stesso vale per la Caritas di Admont, che ha acquistato un dormitorio dalla provincia di Stiria ed a settembre accoglierà altri 70 richiedenti asilo. Anche Horn im Waldviertel, nella Bassa Austria, è un modello di solidarietà: "Grazie al supporto del sindaco e del comune, la Chiesa ha aperto un nuovo campo per 100 donne, bambini e uomini” e, ha precisato Wachter, “Siamo pronti a continuare a fornire ulteriori alloggi”. 

Ci sono ancora situazioni di precarietà
Gli sforzi della Chiesa austriaca per i richiedenti asilo “si stanno rivelando un successo”, ha detto Michael Prüller, responsabile delle comunicazioni dell‘arcidiocesi di Vienna e portavoce del card. Schönborn: per la Chiesa austriaca la sfida è giungere entro l’anno in corso a dare assistenza, possibilità di una vita sicura e alloggio a 5.000 profughi. Ma ci sono ancora delle situazioni di assoluta precarietà, come il campo profughi viennese di Traiskirchen, per il quale la Caritas chiede alla politica federale atti di disponibilità. 

Sforzo incredibile di solidarietà della società civile
Il segretario generale di Caritas Austria, Wachter, ha sottolineato la necessità urgente di aiuti: “Le immagini dei bambini senza casa e delle loro madri nel Centro di prima accoglienza federale stordiscono e rattristano” e per il segretario generale di Caritas Austria “la società civile è impegnata in uno sforzo incredibile di solidarietà”. Per questo Wachter lancia alla politica federale un appello: “Lasciatevi toccare da questo coraggio e dalla disponibilità e solidarietà della popolazione, e mettetevi d’impegno per garantire il vostro aiuto affinché non si debbano più vedere le immagini dei bambini soli senza casa a Traiskirchen”. (R.P.)

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Uganda: seminario di Giustizia e Pace sulla riconciliazione

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Un seminario per condividere esperienze e pianificare future strategie ed iniziative sulla riconciliazione: è quello che hanno vissuto, nei giorni scorsi, a Kampala, i membri della Commissione Giustizia e pace della Conferenza episcopale ugandese (Uec). Numerosi i temi in esame: il legame tra la riconciliazione e la guarigione; il rapporto tra verità, giustizia e pace; l’importanza dell’Eucaristia nei processi di riconciliazione e il ruolo dei laici nella promozione della pace. “La riconciliazione – si legge in una nota pubblicata sul sito dell’Uec – è l’obiettivo primario nella costruzione di una pace sostenibile e nella prevenzione del riaccendersi dei conflitti”.

Pensare alla pace secondo il piano di Dio
“Nella Chiesa dell’Uganda – prosegue la nota - molte persone sono state testimoni, in tanti modi, della riconciliazione dopo tanti anni di violenze. Per questo, bisogna pensare al piano di Dio per la pace così come Lui stesso ce lo ha rilevato attraverso le Scritture e la vita della Chiesa, basti pensare al Sinodo speciale per l’Africa”, svoltosi nel 2009 proprio sul tema “La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace” e dal quale è derivata l’Esortazione apostolica “Africae Munus”, siglata da Benedetto XVI nel 2011.

Verità e giustizia, parti vitali del processo di riconciliazione
“La riconciliazione – spiega l’Uec – significa la costruzione di relazioni tra persone e gruppi nella società e tra lo Stato ed i cittadini per affermare che la morale, la verità e la giustizia sono parti vitali del processo di guarigione”. In chiusura dei lavori, mons. John Baptista Kauta, segretario generale dell’Uec, ha esortato i partecipanti al seminario a cercare la grazia di Dio attraverso la riconciliazione: “La riconciliazione – ha concluso – porta le vittime a perdonare i colpevoli, ma necessita della grazia di Dio”, perché “l’unità è sempre un dono dello Spirito Santo, un segno dello Spirito di Dio nel mondo”.

L’impegno della Chiesa ugandese per porre fine al conflitto tra governo e Lra
Da ricordare che la Chiesa ugandese ha svolto e svolge un ruolo importante nella promozione della pace e della riconciliazione nel nord del Paese, dove i ribelli del Lord's Resistance Army (Lra) combattono il governo da decenni. Decine di migliaia i morti e quasi due milioni gli sfollati causati dal conflitto. Tra le iniziative più rilevanti, la Lettera pastorale dei vescovi sul tema "La sollecitudine per la pace, l’unità e l'armonia in Uganda", in cui i presuli, nel 2004,  hanno chiesto ai ribelli e al governo di porre fine alla guerra.

La pace deve essere sostenibile
Nel 2007, inoltre, l'Uganda Joint Christian Council (Ujcc), organizzazione ecumenica che riunisce cattolici, anglicani ed ortodossi, ha pubblicato "Una cornice per il dialogo sulla riconciliazione e la pace in Nord Uganda". Due anni dopo, la Chiesa cattolica, in collaborazione con il Consiglio interreligioso dell’Uganda, ha organizzato una Conferenza  sul tema della riconciliazione, della giustizia e della pace sostenibile, cui hanno partecipato leader religiosi, di organizzazioni culturali e di ong, insieme a esponenti politici e governativi. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 205

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.