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Sommario del 28/07/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa ai giovani: non abbiate paura di sposarvi. Paglia: ha colto nel segno

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“Cari giovani, non abbiate paura del matrimonio: Cristo accompagna con la sua grazia gli sposi che rimangono uniti a Lui”. E’ il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account Twitter @Pontifex, seguito da oltre 22 milioni di follower in tutto il mondo. Sull’incoraggiamento del Papa, a meno di tre mesi dal Sinodo sulla famiglia, Alessandro Gisotti ha intervistato l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia: 

R. – Come spesso accade, Papa Francesco ha colto nel segno. Noi tutti, anche nell’avvicinarsi del Sinodo, sappiamo quanti problemi ruotano attorno al tema del matrimonio, della famiglia. Ma il nodo di fondo è esattamente questo: purtroppo molti giovani hanno paura di sposarsi, non perché essi siano – come dire – peggiori di ieri, assolutamente no! C’è una cultura che spinge ad aver paura, che provoca tale sconcerto sulle scelte definitive per cui è facile tirarsi indietro. Papa Francesco ripete ai giovani oggi: “Non abbiate paura!”. È un po’ singolare che questa affermazione nella Bibbia sia ripetuta 365 volte, una al giorno. Ecco, direi che questa insistenza quotidiana deve essere il ritornello che deve risuonare nel cuore e nella mente dei giovani perché – davvero – se si è legati a Gesù, il matrimonio, l’unione per sempre, riesce a dare quella stabilità che una società troppo liquida invece impedisce.

D. – È molto bello anche che Papa Francesco utilizzi, per incoraggiare i giovani, il tweet, cioè una "modalità giovane" che viene appunto utilizzata dalla gioventù soprattutto, quindi anche una modalità per connettersi con coloro che ascoltano…

R. – Sì appunto, in questo senso ancora una volta si comprende un Papa che esce dagli schemi ordinari un po’ pomposi e solenni per farsi vicino a tutti. Insomma, Papa Francesco quando ci dice di “uscire” non lo dice a parole, lo dice anche con i fatti e anche con questo piccolo straordinario mezzo che è il tweet, che comunque riesce a toccare un po’ la mente e il cuore. Ci auguriamo che davvero giunga al cuore questo tweet!

D. – Che cosa secondo lei la Chiesa può fare per sottolineare la bellezza del matrimonio in un periodo in cui forse la cultura mostra più i pericoli e le difficoltà del mettere su famiglia?

R. – Sì, io credo che la Chiesa abbia un tesoro su questo campo: un tesoro spirituale, umanistico, di una ricchezza incredibile! Penso poco conosciuto e talora anche dimenticato. Oggi si ha bisogno come di tirarlo fuori, e riproporre il matrimonio e la famiglia non come una scelta semplicemente per sé, ma come il modo per cambiare il mondo. Il matrimonio e la famiglia non è una scelta rinchiusa nel recinto dei propri affetti: è una scelta per la società, per il mondo!

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Cor Unum per il dramma siro-iracheno e il 10.mo di "Deus caritas est"

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Papa Francesco continua ad indicare al Pontificio Consiglio Cor Unum, le priorità per gli ultimi, i più poveri ed i dimenticati. Per questo il dicastero vaticano per la Carità del Papa sta organizzando due eventi importanti: il 25 e 26 febbraio 2016 un grande incontro a 10 anni dall’enciclica di Benedetto XVI “Deus caritas est”. Il prossimo 17 settembre è previsto un incontro di coordinamento per le opere di carità in Siria e Iraq, come spiega al microfono di Roberto Piermarini il segretario di Cor Unum mons. Giovanni Pietro Dal Toso

R. – Siamo in fase preparatoria, soprattutto in vista del 17 settembre quando per la terza volta ospiteremo qui a Roma un incontro di coordinamento per i grandi organismi di carità cattolici che stanno operando nel contesto della crisi siro-irachena che, come sappiamo, dal punto di vista umanitario, è probabilmente la più grave crisi da 25 anni a questa parte e che vede la partecipazione e l’impegno di tanti organismi cattolici.

D. – Lei ha già avuto la possibilità di recarsi in Siria per coordinare questi aiuti...

R. – Sì, io sono stato in Siria l’ultima volta alla fine di ottobre dell’anno scorso per un incontro con i vescovi della Siria e abbiamo contatti direi quasi quotidiani con i diversi attori. L’idea è quella di cercare il più possibile di tenere insieme tutti questi soggetti che operano. E’ difficile fare un coordinamento operativo perché si tratta di molti soggetti, perché la situazione è molto delicata, perché il Paese non è accessibile in tutte le sue parti e perché sono in gioco questioni molto di rilievo. Però quello che per noi è importante è cercare il più possibile di tenere insieme tutti questi grandi soggetti, in modo che anche si renda visibile che c’è una testimonianza della Chiesa importante in questo momento a favore dei nostri fratelli e sorelle in Siria e in Iraq che stanno soffrendo. Ovviamente l’impegno della Chiesa cattolica non è solamente per i cristiani ma è per tutta la popolazione.

D. – Questo è in linea con la preoccupazione di Papa Francesco per la Siria e per l’Iraq in questo momento per i profughi soprattutto…

R.  – Sì, diciamo che il Papa ha parlato moltissime volte della Siria e dell’Iraq e tantissime volte ha chiesto che ci sia la possibilità di trovare delle forme di riconciliazione, di pacificazione. E soprattutto si tratta di finire questa guerra che sta durando da più di 4 anni, e che ha provocato più 220 mila morti, solo in Siria, ha provocato grandi sofferenze, come sappiamo, per i cristiani in Iraq che sono dovuti fuggire perché cacciati dalle loro terre e per la prima volta nella storia in queste parti dell’Iraq non c’è più una presenza cristiana. E’ una situazione gravissima e ovviamente il Papa ripetutamente ha preso posizione perché si trovi prima di tutto una soluzione politica per fermare la guerra. D’altro canto, però, in questo momento quello che la Chiesa cattolica può e deve fare e lo fa il più possibile è dare un segno della sua presenza a fianco delle vittime, quindi di favorire l’assistenza umanitaria, di favorire anche l’assistenza pastorale ai cristiani che sono fuggiti, di cercare di creare anche un ambiente il più possibile accogliente per queste persone. E quindi credo che questa presenza a fianco della popolazione è la testimonianza più grande che la Chiesa può dare in questo momento per arginare almeno il più possibile le ferite che questa guerra ha aperto.

D. – A lunga scadenza quale altra iniziativa da parte di Cor unum?

R. – Noi stiamo preparando, con l’incoraggiamento di Papa Francesco, un grande incontro il 25 e il 26 febbraio dell’anno prossimo, a 10 anni della pubblicazione dell’enciclica “Deus caritas est”. Questa enciclica è veramente una pietra miliare per tutto il settore della carità della Chiesa sia perché ha dato un indirizzo teologico a tutta questa attività, a tutto il servizio di carità Chiesa e perché soprattutto ha sottolineato che questo servizio della carità della Chiesa è centrale per la Chiesa, così come lo sono la predicazione della Parola di Dio, come la celebrazione dei Sacramenti. Allora questa Enciclica ha segnato un momento importantissimo per l’attività caritativa della Chiesa e ha avuto anche dei frutti enormi per la Chiesa nei diversi continenti sia per l’attività concreta sia anche direi proprio per la comprensione, per una visione corretta del servizio della carità, e vorrei dire anche per un coinvolgimento più diretto anche dei pastori della Chiesa in questo settore. In questo senso io amo dire che Papa Benedetto ha dato un quadro teologico che Papa Francesco  testimonia quotidianamente, questo servizio all’umanità sofferente al quale Papa Francesco ci chiama continuamente e che lui in prima persona vive. Mi sembra che abbia una sua preparazione da un punto di vista teologico in questa grande enciclica. Per cui c’è sembrato importante celebrare 10 anni di questa Enciclica non solo però con uno sguardo indietro ma soprattutto con uno sguardo in avanti per le prospettive che continua ad aprire per la nostra attività caritativa. E Papa Francesco ha incoraggiato questa iniziativa che giustamente si colloca bene nel quadro dell’Anno della Misericordia.

D. – Chi verrà invitato a questo grande evento?

R. – A questo grande evento verranno invitati i rappresentanti delle conferenze episcopali, i rappresentanti dei grandi organismi cattolici di carità e di volontariato e università pontificie e anche rappresentanti e titolari di diverse cattedre che ci sono in giro per il mondo di teologia della carità in modo da dare un po’ anche una spinta a questo tipo di riflessione teologica.

D. – Si svolgerà a Roma questo incontro?

R. – Sì, si svolgerà a Roma, qui nel Palazzo San Pio X. Noi contiamo su una grossa partecipazione  e abbiamo anche contattato  relatori di grande rilievo esattamente perché ci sembra che sia importante continuare a tenere presente la centralità del servizio della carità per la vita della Chiesa perché questo dà una testimonianza importante anche oggi di come la Chiesa vive veramente radicata vicino all’uomo e si prende cura delle sue sofferenze qualunque esse siano e l’uomo nella sua integrità, quindi nei sui bisogni corporali ma anche nei suoi bisogni spirituali.

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Nomine episcopali di Papa Francesco

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In Spagna, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Lleida, presentata da Mons. Joan Piris Frígola, per sopraggiunti limiti d’età. Il Papa ha nominato Mons. Salvador Giménez Valls Vescovo della Diocesi di Lleida, trasferendolo dalla Sede di Menorca.

Papa Francesco ha concesso il Suo Assenso, in conformità al can. 185 § 1 del CCEO, all’elezione canonicamente fatta dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa Patriarcale Maronita del Rev.do Paul Abdel Sater, finora Sincello per gli Affari economici dell’Arcieparchia di Beirut e Parroco della Parrocchia di Saint Jean a Beirut, a Vescovo di Curia Patriarcale, assegnandogli la Sede titolare di Tolemaide di Fenicia.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Famiglia e misericordia: in prima pagina, un editoriale di Lucetta Scaraffia dal titolo "Concretezza del Vangelo".

La sfida delle tre p: intervista di Maurizio Fontana a Joao Chagas, responsabile della sezione giovani del dicastero per i laici.  

All'ombra di uno sparuto oleandro: Marco Valenti descrive l'estate degli anziani tra senso di vuoto e dolci malinconie.

L'educazione prima di tutto: Giovanni Cerro sulla vita quotidiana alla fine del mondo antico.

Un finale che non può essere cambiato: Rosa Matteucci racconta la piéce teatrale ispirata al suo romanzo "Lourdes".  

Cercatori di anime: Cristiana Dobner sulle memorie di Beate e Serge Klarsfeld.

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Oggi in Primo Piano



Borse cinesi in calo: crescita rallentata e divari sociali

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Ancora in calo le Borse cinesi nella giornata di oggi ma con perdite contenute: Shangai cede l’1,68%,Shenzhen l’1,41. In mattinata si era temuto il peggio anche se i dubbi degli analisti e degli investitori restano specie sulla validità delle misure che il governo ha messo in campo, con una nuova iniezione di liquidità e continui acquisti di azioni. Ieri il tonfo della borsa a -8,5% che ha spaventato il mondo e che rispecchia una fase particolare dell’economia del colosso asiatico che potrebbe coinvolgere tutto il mondo. Come leggere quanto accaduto? Gabriella Ceraso lo ha chiesto a Cecilia Attanasio Ghezzi caporedattore del sito China Files e corrispondente da Pechino per la rivista Internazionale: 

R. – Nell’ultimo anno la Borsa cinese è cresciuta del 150%. Questo aveva già portato diversi analisti ad accendere un campanello d’allarme, perché si sa che quando la Borsa cresce a dismisura poi sicuramente crolla.

D. – Quindi quanto avvenuto è stato un ridimensionamento o è stata una battuta d’arresto?

R. – Entrambe le cose. È stata una battuta d’arresto: si è venduto molto, il crollo, se si vedono i grafici, è verticale questo è chiaro. Detto ciò, siamo ancora a +70% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Se vogliamo la cosa è più grave a livello politico: questa leadership ci ha messo la faccia su questo cambiamento epocale dell’economia cinese in cui la finanza acquista maggiore forza e potenza; e nonostante tutte le misure che ha preso a seguito del primo crollo del 12 giugno scorso, non è riuscita ad arginare la discesa.

D. – Proprio a proposito di questo, cosa ci dice in generale? Significa quindi che immettere liquidità di continuo e proteggere i mercati da tutto non è una politica che poi alla fine premia?

R. – Ci dice che bene o male è difficile governare la Borsa, perché significa governare le paure delle persone e il panico che si diffonde dai mercati e dà poi credito all'idea liberista che il mercato debba autoregolarsi. Allo stesso tempo, non sappiamo cosa sarebbe successo se il governo cinese non avesse bloccato la vendita di titoli.

D. – Ma la realtà delle Borse si dimostra anche in questo caso tanto distante da quella che è l’economia e la situazione reale di un Paese: pensiamo anche alla grandi sacche di povertà che la Cina ha e le possibilità di acquisto e di spesa reale, il livello insomma di vita che c’è nel Paese…

R. - Questo è un altro dei grossi scogli che si trova ad affrontare l’attuale leadership. Cresce molto l’economia generale, cresce il Pil pro capite dei cinesi, ma anche vero che aumenta a dismisura la forbice tra chi è molto ricco e chi è molto povero. E di fatto questa vicenda delle borse cinesi, a prescindere da come andrà a finire, ne è un esempio perché qui chi conosceva la Borsa, ovvero i grandi investitori hanno cominciato a comprare prima e quindi hanno venduto durante quello che è stato il boom, durante questl’anno in cui c’è stato il boom delle borse cinesi e sono cresciute del 150%. Loro vendevano e hanno fatto margine di guadagno; chi ha acquistato, preso dall’euforia generale, sono i piccoli investitori, sono loro che adesso si trovano a dover vendere a prezzi stracciati e quind a perdere.

D. - La situazione reale del Paese Cina, può darcene un'idea?

R. - L’economia cinese è sicuramente rallentata, ma cresce; questo significa che il Paese sta entrando in un periodo di transizione: esaurisce la grossa quantità di manodopera a buon mercato, i salari aumentano, aumentano le rivendicazioni sindacali e di fatto le aziende devono diventare più efficienti per sopravvivere e puntare molto sull’innovazione. Questa è la grossa sfida che si trova di fronte la Cina adesso. Se la vince, siamo tutti tranquilli. Le quattro aziende, per esempio, più importanti del mondo sono quattro banche cinesi, la Repubblica popolare importa dal resto del mondo più di 1.500 miliardi di dollari, quindi se il sistema cinese implode si porta appresso buona parte dell’economia mondiale.

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Nato: solidarietà alla Turchia nella lotta al terrorismo

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Una ferma condanna agli attacchi terroristici e forte solidarietà alla Turchia sono state espresse stamane a Bruxelles al termine della riunione straordinaria  della Nato chiesta dal governo di Ankara. Nelle stesse ore il presidente turco Erdogan ha assicurato che continueranno le operazioni contro il sedicente Stato Islamico e il Pkk, mentre sembra raggiunta un’intesa con gli Usa per la creazione di un’area cuscinetto al confine con la Siria. Il servizio di Marco Guerra: 

“Il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni non può mai essere tollerato o giustificato", è quanto evidenziato dai Ventotto Paesi membri della Nato che hanno ribadito la piena soliderietà alla Turchia. Il segretario generale dell'Alleanza atlantica, Stoltenberg, ha poi spiegato che Ankara non ha chiesto aiuti militari e che la Nato non é coinvolta nel piano per creare un'area cuscinetto liberata dall'Is, al confine settentrionale con la Siria. Si tratta infatti di una iniziativa bilaterale tra la Turchia e gli Stati Uniti. Lo scopo è quello di creare una area protetta tra i territori a Ovest del fiume Eufrate fino alla provincia di Aleppo. L'accordo è volto a consentire anche l’aumento dei raid dei caccia americani sulle postazioni dello Stato Islamico. Intanto lo stesso presidente turco Erdogan ha assicurato che Ankara "continuerà le operazioni militari contro l'Is e il Pkk" e ha detto che con i ribelli curdi non è più possibile portare avanti il processo di pace. Sulla nuova strategia turca nella lotta al terrore sentiamo l’esperta dell’area Valeria Talbot:

R. – La Turchia ha dichiarato guerra al terrorismo sia esso di matrice islamista, sia esso di matrice curda. Quindi si assiste oggi a un cambio di strategia a un ruolo molto assertivo nel conflitto siriano. L’obiettivo della Turchia in Siria oggi è sì fermare lo Stato islamico e quindi, così facendo, si allinea alla coalizione a guida americana contro lo Stato islamico. Allo stesso tempo l’obiettivo di Ankara è quello di evitare un rafforzamento dei curdi siriani che rappresentano comunque una grandissima fonte di preoccupazione non soltanto per i presunti legami con il Pkk, ma per la prospettiva che potrebbero creare una autonomia e un’autonomia riconosciuta a livelli internazionale. Ricordiamo che da quando è stato proclamato lo Stato islamico, da quando è stata formata la coalizione a guida americana i curdi siriani sono stati più attivi sul campo nel fronteggiare lo Stato islamico, nel guadagnare posizioni. E quindi la Turchia teme un rafforzamento dei curdi.

D.  – Questo però potrebbe spaccare il fronte internazionale, la coalizione che invece aveva visto con favore l’emergere di queste forze curde che si sono opposte allo Stato islamico…

R.  – La Turchia, come hanno dichiarato gli Stati Uniti, comunque ha il diritto all’autodifesa, quindi la sicurezza nazionale della Turchia è una priorità non soltanto per Ankara ma anche per gli Stati Uniti. Ricordiamo che il Pkk è un’organizzazione terroristica riconosciuta in Turchia ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Certo, queste azioni contro il Pkk mettono fine a quel processo di pace che era stato avviato dallo stesso Erdogan quando era primo ministro nel 2013. Processo di pace che voleva portare a una soluzione politica, a una soluzione pacifica dell’annosa questione curda e che in questi anni ha avuto diversi alti e bassi, diverse battute di arresto e non da ultima ha subito l’evoluzione delle dinamiche regionali e quindi nello specifico per la crisi siriana.

D. – Infatti, Erdogan comunque si aspetta il pieno appoggio da parte della Nato in questa azione di contrasto all’Is e al PKK…

R. – Senz’altro anche perché ricordiamo che, da mesi, gli Stati Uniti fanno pressing sul governo di Ankara perché si allinei alla posizione americana e Ankara è stata finora riluttante perché aveva condizioni ben precise da far valere nel negoziato con gli Stati Uniti e che sembra adesso essere riuscita in parte ad ottenere. La Turchia ha concesso la base di Incirlik per operazioni militari contro l’Is, in cambio avrebbe ottenuto la creazione di una zona di sicurezza chiamata “Isis free zone” per non allarmare Russia e Iran che sono i principali alleati del regime di Bashar al Assad, quindi un’area cuscinetto in territorio siriano che dovrebbe appunto proteggere una parte del lungo confine che la Turchia ha con la Siria e che dovrebbe consentire un ritorno dei rifugiati siriani. Dovrebbe evitare anche la creazione, respingendo l’Is, di una fascia curda nel Nord della Siria. Quindi il fattore curdo è senz’altro da tenere in considerazione ma in questo momento la Turchia sembra ed è senz’altro impegnata nella lotta contro l’Is.

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L'Ungheria: Paese diviso sulle politiche sull'immigrazione

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Terminerà entro agosto la costruzione della barriera di separazione tra Ungheria meridionale e Serbia, una struttura che, nelle intenzioni del governo di Budapest, fermerà l’immigrazione illegale. L’annuncio di qualche giorno fa è arrivato dal premier Orban, che ha definito gli immigrati irregolari una minaccia per tutta l’Europa, accusando l’Ue di non far nulla per difendersi. Servizio di Francesca Sabatinelli: 

Viktor Orban sfida l’Europa e difende le sue politiche anti-immigrati, addirittura anticipando la fine della costruzione della barriera, annunciata per novembre e ora prevista per il mese prossimo. 176 chilometri, per un’altezza di 4 metri, tutta realizzata in metallo, la struttura, secondo Budapest, dovrà fermare tutti coloro che tenteranno l’ingresso illegale dalla Serbia. Per molti ungheresi, spaventati dagli oltre 80mila arrivi negli ultimi sei mesi, le scelte del premier non sono da condannare. Ce lo spiega mons. Laszlo Kiss-Rigo, vescovo di Szeged, importante città ungherese al confine con la Serbia

“La situazione è molto complicata. Sono a Szeged, a 5 chilometri dalla frontiera con la Serbia e qui sperimentiamo e sentiamo tutto in modo diverso. Ogni giorno quasi 1.500 persone attraversano la cosiddetta “frontiera verde”, quindi non i punti ufficiali, ma il fiume, i campi, le foreste. Più di mille persone ogni giorno! Circa la metà sono realmente profughi, perseguitati, persone in pericolo e davvero bisognose, ma l’altra metà sono persone che quando arrivano e vengono fermate si scopre che hanno con loro cellulari e almeno 4-5 mila euro. Per questo dobbiamo essere molto attenti. Siamo obbligati, specialmente la Chiesa ovviamente, a dare ogni aiuto umanitario possibile ai profughi e ai bisognosi, ma dobbiamo anche pensare: la prudenza cammina sempre insieme alla carità, non sono contrapposte. Noi, come diocesi, abbiamo una Casa di accoglienza per profughi minorenni, ci sono psicologi esperti in pedagogia e in assistenza medica, ci sono assistenti sociali e facciamo di tutto per praticare davvero la carità cristiana. Questo è evidente! Ma dobbiamo anche pensare e cercare di proteggerci in qualche modo. Non è un problema ungherese: è un problema europeo! Se nessuno farà nulla, la situazione diventerà sempre più pericolosa di giorno in giorno”.

In Europa intanto è ancora polemica per le foto-choc dei migranti, tra loro donne e bambini, trasportati nei campi di accoglienza stipati su treni chiusi. Per lo più afghani e siriani, hanno viaggiato con un intercity da Pecs, nel sud del Paese, fino a Budapest con le porte chiuse per decisione delle ferrovie: per evitare che le persone scendessero e fuggissero. E se i media locali hanno criticato il provvedimento, così non sembra abbiano fatto i cittadini. Agnes Bencze, docente di storia dell’arte antica alla Cattolica di Budapest:

“Forse la preoccupazione della maggior parte degli ungheresi è un po’ diversa rispetto allo shock provato dai lettori dei giornali europei. Una cosa è sicura: noi riteniamo di attraversare un momento di crisi e quotidianamente ci arrivano i numeri e le notizie relative a questo fenomeno di immigrazione, in maggioranza clandestina, al confine con la Serbia. Ormai sappiamo che, oltre alle circa 80 mila persone che da febbraio sono già arrivate, ogni giorno continuano ad arrivare tra le 1.500 e le 2.000 persone per vie clandestine. C’è una situazione di assoluta emergenza e questo è chiaro. In questa situazione il governo reagisce in un modo e i cittadini ungheresi sono ovviamente divisi nel valutare la reazione governativa. Io posso esprimere solo un parere personale, magari condiviso da tante persone che conosco: non trovo istigazione xenofoba nelle parole e nelle dichiarazioni del governo. Diciamo che non vedo in giro molto dissenso, in generale. C’è comunque un grande dibattito politico riguardo proprio a come gestire la situazione. Quelli che criticano aspramente il governo sono generalmente dei circoli intellettuali legati all’opposizione politica, anche questo bisogna dirlo, e criticano il governo, lo accusano di voler mettere un freno al fenomeno dell’immigrazione, ma gran parte dell’opinione pubblica ungherese, almeno da quanto vedo io, è molto preoccupata per il numero degli arrivi, perché andando avanti così si arriverà a centinaia di migliaia, per forza di cose. L’Ungheria è un Paese piuttosto povero, diciamocelo chiaramente, per essere precisi, qui abbiamo uno stipendio medio che corrisponde a 500 euro al mese, senza parlare poi dei pensionati, dei disoccupati e di altre categorie sociali che si trovano veramente in difficoltà”.

C’è però anche una gran parte della società civile che ogni giorno, nelle due città al confine sud, Pecs e Szeged, si impegna nell’aiuto ai migranti che transitano. In molti sono attivi anche a Budapest, come i volontari della Comunità di Sant’Egidio. Peter Szoke è  responsabile della comunità di Sant’Egidio a Budapest:

R. – Si tratta di una situazione inedita. L’Ungheria non è stata mai un Paese di immigrazione, al contrario siamo stati sempre un Paese da cui le persone, purtroppo, andavano via. C’è chi in questi giorni ricorda agli ungheresi questi fatti, dicendo: “Guardate, anche noi siamo stati accolti”. Ci siamo trovati davanti ad una situazione mai vista in questo Paese, ed è chiaro che le reazioni provocate da questo flusso di rifugiati ed immigrati sono varie, anche estremiste, razziste. C’è stata anche una reazione della società civile: le persone vanno nelle stazioni ferroviarie a portare il proprio aiuto ai profughi. Anche il popolo della rete, in modo veramente efficace e generoso, e sacrificando il proprio tempo libero, porta cibo e vestiti. Due anni fa, anche soltanto un anno fa, il fenomeno quasi non esisteva, sentivamo parlare della tragedia del Mediterraneo, ma ai nostri confini questi profughi hanno cominciato ad arrivare circa sei mesi fa. La loro presenza si è ora moltiplicata in modo veramente  drammatico e devo dire che c’è una reazione di panico. Il popolo ungherese non conosce queste persone, non sa chi siano, i discorsi che vengono fatti sui media parlano del fenomeno, ma non parlano delle persone, delle loro storie, dei loro volti.

D. – Le misure che sono state annunciate dal governo, come la costruzione di una barriera di separazione al confine tra l’Ungheria e la Serbia, i cittadini le condividono?

R. – Secondo i sondaggi purtroppo sì. C’è un appoggio da parte della società che, secondo me, va però letto come una reazione di sorpresa e di panico. E questo perché il discorso di fondo la società non lo ha ancora affrontato: siamo nell’epoca della globalizzazione e, anche se noi siamo rimasti sorpresi da questa moltiplicazione di arrivi, globalizzazione vuol dire anche questo. Allora, c’è chi critica la globalizzazione e dice: noi ungheresi non abbiamo niente a che fare con questa gente e non siamo responsabili delle crisi, delle molte crisi, nel mondo che hanno provocato l’emigrazione di queste popolazioni. Purtroppo c’è un appoggio da parte della maggioranza della società, questo almeno secondo i sondaggi. Secondo me quello che dobbiamo fare, quello che la società civile può fare, è sottolineare che la solidarietà è la prima cosa che va considerata. Io spero che con pazienza e con reazioni e gesti di solidarietà da parte della società civile, anche la linea dura della politica si possa ammorbidire.

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Giornata mondiale contro l'epatite. Oms: puntare sulla prevenzione

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Oggi ricorre la terza Giornata mondiale contro l’epatite, che causa ogni anno nel mondo circa 1,4 milioni di morti, in molti casi evitabili. “Prevenire le epatiti. Agire ora”: questo è lo slogan lanciato quest’anno dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il servizio di Grazia Serra

Le varie forme di epatite virale sono uno dei principali problemi di sanità pubblica a livello mondiale: la denuncia arriva dall’Oms in occasione di questa giornata. Le più gravi, la B e la C da sole provocano l’80% dei decessi per tumore al fegato. In Italia, negli ultimi 25 anni, vi è stato un calo progressivo dell’incidenza delle varie epatiti, ma non della E, causata principalmente dall’ingestione di acqua contaminata e che nel mondo riguarda circa 20 milioni di persone. Conoscere i rischi, richiedere iniezioni sicure, vaccinare i bambini, usare i test diagnostici e seguire le cure: sono i 4 principali punti, individuati dall’Oms, per prevenire le epatiti. La riflessione di Roberto Cauda, professore ordinario di malattie infettive del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma:

R. – Esistono vari virus che si rendono responsabili di epatite; alcuni si trasmettono attraverso gli alimenti mentre altri attraverso i rapporti sessuali, attraverso le trasfusioni e quindi attraverso il contatto con il sangue. C’è anche da dire che il sangue che viene dato oggi è assolutamente sicuro, perché ci sono stati – soprattutto in questi ultimi anni – dei controlli estremamente importanti riguardo a questo.

D. – Quali sono i principali sintomi dell’epatite?

R. – Tutte le epatiti sono abbastanza simili nei sintomi: i sintomi sono quelli di una grande stanchezza; in alcuni soggetti c’è la colorazione gialla della cute, l’ittero; in genere queste forme durano 4-5 settimane e ovviamente con disturbi che più importanti all’inizio, che tendono poi a scemare.

D. – In molti casi l’epatite diventa anche una malattia cronica: in che modo si può convivere con questa malattia?

R. – Anche qui la diversità dei virus determina il diverso grado di cronicizzazione. Alcune forme, come l’Epatite A o l’epatite alimentare non cronicizza affatto; ci sono invece la forma B e la forma C che invece cronicizzano. Evidentemente le forme croniche sono forme che durano nel tempo e che non sempre hanno la stessa manifestazione clinica: in alcuni soggetti è più pronunciato il danno e in altri meno.

D. – L’epatite si può prevenire con un vaccino?

R. – L’epatite sicuramente si può prevenire! Ci sono vaccini efficaci per l’Epatite A e sono vaccini consigliati – ad esempio – per i viaggiatori internazionali, perché se l’Epatite A, quella che si trasmette attraverso gli alimenti non rappresenta più un grande problema da noi, può invece essere un problema importante in altre aree del mondo, soprattutto nei Paesi emergenti. Quindi questo può essere sicuramente un vaccino da consigliare a coloro che si recano in quelle aree. L’Epatite B, ormai da molti anni, è soggetta ad un vaccino efficace: tra l’altro in Italia questa vaccinazione è una di quelle vaccinazioni che viene fatta alla popolazione generale e ai bambini ed è quindi un vaccino estremamente efficace e sicuro. Per altre forme – come per l’Epatite C – non esiste un vaccino, ma oggi disponiamo di farmaci molto efficaci e proprio parlando di Epatite C si può ipotizzare che, con questi farmaci altamente efficaci, si potrebbe sradicare per la prima volta una malattia attraverso non una vaccinazione – come ad esempio è avvenuto per il vaiolo – ma attraverso dei veri e propri farmaci antivirali.

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Estate solidale: Caritas ambrosiana a sostegno dei bisognosi

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“Emergenza agosto, Caritas non va in vacanza”: questa l’iniziativa presentata stamattina a Milano da Caritas ambrosiana per illustrare il ricco programma di iniziative a sostegno delle persone sole e maggiormente bisognose. Elvira Ragosta ne ha parlato con il direttore della Caritas del capoluogo lombardo, don Roberto Davanzo

R. – Ci sono delle criticità più "storiche": gli anziani che rimangono soli, che fanno fatica a uscire di casa… Da diversi anni, nel mese di agosto, ci mettiamo a disposizione per una consegna pasti, ogni anno in un quartiere diverso della città, in collaborazione con il Comune. Offriamo loro oltre che il pasto, anche la possibilità di essere accompagnati magari a una visita, piuttosto che di far la spesa. E c’è un quartiere in particolare a Milano – il quartiere Forlanini – dove la Caritas è molto presente, e nel mese di agosto, oltre a tenere sempre aperto un centro d’incontro per loro, organizza anche il pranzo insieme. Poi naturalmente abbiamo a che fare con la criticità rappresentata - come possiamo bene immaginare - dal flusso dei profughi e dei migranti. Le nostre cooperative, che gestiscono spazi di accoglienza, ospiteranno in questo mese più di 700 persone. Gli arrivi dei migranti specialmente nel periodo estivo - lo sappiamo tutti - aumentano, e quindi a maggior ragione non possiamo tirarci indietro. E poi non ignoriamo un’altra atavica criticità, che è tutto il mondo dei gravi emarginati, dei senza dimora, per i quali la Caritas garantisce oltre che una struttura di dormitorio per una sessantina di persone, anche un centro diurno.

D. – A proposito di cibo e delle spreco del cibo di cui si parla anche a Expo a Milano in questi mesi, sono tante le iniziative di Caritas: tra queste c’è la “Cena sospesa” a cui aderiscono 28 ristoranti milanesi, e poi un’iniziativa che avete previsto per il giorno di Ferragosto con l’Osservatorio di Milano: ce le può raccontare?

R. – Sì, questa iniziativa della “Cena sospesa” prevede la possibilità, nei ristoranti di Milano che hanno aderito, per i loro clienti di lasciare un’offerta in una teca sigillata: offerte che poi alla fine del mese di ottobre verranno trasformate in “ticket restaurant” per le persone da noi variamente seguite, che possono usufruire di qualche ristorante per concedersi un pranzo o una cena. Questa iniziativa si lega poi a tutte le iniziative di tipo alimentare – noi abbiamo delle mense storiche a Milano gestite dai frati cappuccini che erogano più di 2000 pasti al giorno. Ma poi abbiamo queste piccole esperienze distribuite un po’ su tutto il territorio, legate a Caritas, che erogano circa 500 pasti al giorno e si avvalgono di centinaia di volontari. Ma il punto è che noi siamo convinti che la questione vera non sia soltanto una questione di “stomaco da riempire”… siamo convinti che il vero problema sia – come per gli anziani – quello di sconfiggere una solitudine. Ecco che abbiamo allora colto l’offerta, l’invito, dell’Osservatorio di Milano – realtà nata già da diversi anni per l’intuizione di Massimo Todisco – e vorremmo che alcuni degli ospiti dei nostri centri o persone senza dimora possano essere ospitati per il pranzo di Ferragosto in una famiglia. Il problema – ripeto – non è quello di sfamare qualcuno, semmai quello di regalare qualche ora di simpatica amicizia, di fraternità, di convivenza.

D. – Sono 1000 i volontari della Caritas Milano per queste iniziative di agosto: quanto è importante la loro funzione?

R. – I volontari sono il segno, la cartina di tornasole, che la nostra azione culturale-educativa produce dei risultati: è facile dare dei soldi! La cosa più difficile da regalare è il tempo, perché i soldi si rifanno, il tempo non ritorna… E certo non ce la faremmo a fare tutto quello che facciamo se dovessimo pagare degli operatori stipendiati. Ma, d’altra parte, ci servono per capire se il nostro modo di fare la carità è capace di contaminare. Tanto quanto in una società cresce il numero di chi regala delle ore della propria vita, piuttosto che dei soldi: questo diventa l’indicatore dell’efficacia di un’attività caritativa.

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Nuove droghe, Ripamonti: dilagano con la crisi della società

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Le nuove droghe, gli attuali canali di distribuzione e di consumo. Sono questi i temi al centro di un interessante articolo pubblicato oggi dal “Corriere della Sera” in cui si sottolinea anche come i vuoti generati dalla società alimentino vizi e dipendenze. Amedeo Lomonaco ne ha parlato con l’autore, il giornalista e medico Luigi Ripamonti, responsabile delle Pagine Salute del quotidiano: 

R. – Le nuove droghe sono moltissime. In questi ultimi anni si è assistito ad una trasformazione del mercato. Non abbiamo più le “banali” - banali si fa per dire -  eroina, cocaina e marjuana o cannabis -  ma abbiamo oltre a queste, che tra l’altro sono molto più potenti rispetto al passato, una serie di mix di droghe sintetiche, variamente combinate e in continua trasformazione. Molti mix, molte droghe chimiche.  E quindi anche la modalità di produzione si è relativamente semplificata. Per produrre degli oppiacei, bisogna coltivare l’oppio, avere il raccolto, lavorarlo, esportarlo, spacciarlo. Queste sono cose che si possono fare in modo relativamente più facile e con una produzione più difficile da controllare e in continua trasformazione. Uno dei fenomeni più preoccupanti è che anche i medici del Pronto Soccorso ci dicono che fanno fatica a capire di cosa un ragazzo si sia fatto! Le sostanze che circolano oramai sono moltissime e mischiate in vario modo.

D. – Di fronte a queste criticità, diventano allora cruciali le risposte dell’informazione e della politica…

R. – La prima cosa che va fatta è informare e cerchiamo di farlo noi che siamo operatori dei media, ma è chiaro che l’informazione dovrebbe essere a 360 gradi, attraverso la scuola, l’educazione… E la politica – ovviamente – dovrà farsi carico di affrontare questo nuovo panorama con strumenti nuovi: le strutture di informazione, di accoglienza e di trattamento delle tossicodipendenze non possono più essere orientate all’eroinomane, cui potevamo essere abituati negli anni Settanta.

D. – Sono mutati anche molto i canali di distribuzione. Com’è cambiata negli anni, in particolare, la figura dello spacciatore?

R. – In base alle informazioni raccolte, il problema è che una volta lo spacciatore era l’“uomo nero”, non nel senso della pelle. Era una figura che, chi voleva procurarsi della droga, andava a cercare in determinati posti. Ora la circolazione di queste nuove droghe fa in modo che lo spaccio, o comunque il canale di distribuzione, possa essere molto più ramificato. E quindi è facile che il tuo compagno di banco si sia procurato della droga in qualche modo, magari da un altro e poi te la dia, come è successo recentemente a Riccione. Quel ragazzo che è morto, è deceduto perché aveva preso dell’ecstasy che gli aveva procurato il suo amico, il quale a sua volta se la sarà procurata da qualche altra parte. Ci sarà, quindi, una figura di spacciatore sicuramente all’inizio, però la droga ti può arrivare anche da qualcuno che conosci bene e che se la è procurata così, con leggerezza, da qualcun altro.

D. – Anche i consumatori sono profondamente cambiati…

R. – Prima c’era lo stigma verso l’eroinomane, anche verso il cocainomane più recentemente, che venivano identificati come figure relativamente ai margini della società. Ora chi consuma queste droghe sintetiche è una persona, un ragazzo e spesso un adulto perfettamente integrato. Quindi anche la diffusione è meno visibile, meno percepibile a livello sociale. Poi si percepisce quando accadono le tragedie, che purtroppo sono sempre più frequenti…

D. – Ed è cambiata molto anche la spinta verso le droghe: prima c’era la ricerca della trasgressione, della novità; oggi c’è altro e, soprattutto, la crisi di valori e di prospettive…

R. – Prima c’era la trasgressione, ora chi si droga non è che ce l’abbia con la società, con i carabinieri, col papà o con la mamma, con la scuola. Si droga per soddisfare un desiderio che, evidentemente, trova il suo terreno di coltura in una società in cui la frustrazione tra i giovani è sempre meno sopportabile, sempre meno ammessa. Io mi sono permesso, nel mio articolo sul Corriere della Sera di oggi, di sottolineare che c’è una differenza importante tra piacere e felicità: siamo abituati a soddisfare sempre di più i piaceri in modo immediato, perché il piacere è un oggetto. Un oggetto che può essere la droga o i soldi nel gioco d’azzardo... Questo fa perdere di vista che, forse, la felicità – ciò che si cerca veramente, che lo si sappia o meno – non ha un oggetto preciso e si consegue soprattutto – non solo, ma soprattutto – attraverso le relazioni. E le relazioni, in questo momento molto “social” - nel senso di social media - probabilmente sono anche un po’ impoverite. Questo, probabilmente, è uno degli ingredienti che porta alla diffusione di queste forme di soddisfazione relativamente facili, veloci e immediate, che creano dipendenza. Credo che la distinzione tra felicità e piacere sia un cosa importante da tenere presente nella società di oggi e in generale…

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Film dai cinque continenti alle Giornate degli Autori

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Sono state presentate a Roma le prossime Giornate degli Autori – Venice Days, una delle sezioni indipendenti accolte nell’ambito della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, che si svolgerà da 2 al 12 settembre. Uno sguardo alle cinematografie del mondo e un’attenzione particolare all’Europa. Il servizio di Luca Pellegrini

Molti colori, molte culture e un'Europa che sa guardare altrove. Con queste parole Giorgio Gosetti, il delegato generale delle Giornate degli Autori, ha sottolineato la varietà dei titoli che formano la selezione ufficiale – tre sono gli italiani in concorso: “Viva la sposa” di Ascanio Celestini, “La prima luce” di Vincenzo Marra e “Arianna” di Carlo Lavagna – esprimendo anche un augurio.

R. – Speriamo che sia davvero la verità che viene captata poi dagli spettatori. Noi facciamo il programma delle Giornate, pensando soprattutto agli spettatori, perché l’intelligenza diventi divertimento e il divertimento sia intelligente. Non è un caso che quest’anno apriamo con un film spagnolo, che è un vero e proprio action thriller, con un sottofondo di attualità e di forza politica, ma soprattutto un grande spettacolo in cui un autore all’opera prima dimostra che gli europei sanno fare il genere, con l’aggiunta di un’intelligenza che spesso l’industria non ha.

D. – E’ particolarmente contento che il mondo sia rappresentato alle Giornate…

R. – E’ stata una gran fortuna. Se ne è accorto Sylvain Auzou, che è il vicedirettore delle Giornate. Quando sei immerso nella selezione, infatti, vincono la passione, l’innamoramento, il caso, la disponibilità dei film; poi guardi il percorso e dici: “Toh, ci sono proprio tutti”. Sì, ci è piaciuto molto lavorare sul cinema australiano quest’anno. E’ una tradizione la nostra attenzione al Quebec e al Canada e quindi al Nord America. In qualche modo, non solo perché ospitiamo un progetto europeo, come “28 Volte Cinema”, ma ci sentiamo molto europei. Sono particolarmente contento di una new entry, quasi dell’ultima ora, come l’opera prima polacca “Klezmer”. Nell’anno del Figlio di Saul è interessante avere una coniugazione così diversa, ma di un autore che ha più o meno la stessa età e che sa affrontare il tema dell’Olocausto e della brutalità umana anche lui con un taglio e un senso adatto alla sua generazione, perché la memoria non sia semplicemente qualcosa di polveroso.

Il Parlamento europeo ha, infatti, istituito il Premio Lux che assicura al film vincitore tra i tre finalisti prescelti la proiezione nei 28 Stati membri dell'Unione, dai quali provengono anche i 28 giurati, - uno per Paese - che assegneranno il Premio delle Giornate, ragazzi che lavoreranno sotto la guida del regista Laurent Cantet. In alcuni film troviamo anche un'umanità dolente, che contrasta le vorticose trasformazioni del paesaggio urbano e sociale, come accade nel bellissimo “Underground fragrance”, opera prima del cinese Pengfei:

R. – Ascoltando la presentazione del programma della Settimana della Critica ci siamo detti: “Pensiamo le stesse cose; qualche volta amiamo molto anche gli stessi film”. Perché è vero: il tema della famiglia, il tema del conflitto che diventa sociale, ma nasce come generazionale, il tema del sopra e del sotto, del sottosuolo e della superficie e dello spaesamento culturale – noi li abbiamo chiamati, con una frase di moda, ‘i non luoghi’ – ebbene sì, sono cose che stanno percorrendo a grandissima velocità tutte le cinematografie e sono, secondo me, il sintomo di un’urgenza. Sembrano temi inesorabilmente eterni - è dall’epoca dell’”Iliade” che i padri si scontrano con i figli. Però, il senso che c’è adesso di urgenza, rispetto a delle voci e delle soluzioni, di fronte a questo stridore, a questo conflitto, a questa disperazione, secondo me vuol dire che il cinema capisce prima qualcosa che sta per diventare un’emergenza collettiva.

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Nella Chiesa e nel mondo



Secam indice Anno Africano per la Riconciliazione

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In occasione del suo 46.mo anniversario di fondazione, il Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam) ha indetto uno speciale Anno Africano per la Riconciliazione. Dedicato al tema “Un’Africa riconciliata per una pacifica coesistenza”, l’anno sarà lanciato domani 29 luglio con una solenne celebrazione eucaristica ad Accra, in Ghana, per concludersi il 29 luglio 2016, durante la 17.ma Assemblea plenaria dell’associazione in Angola.

Una risposta all’invito di Benedetto XVI nell’ ”Africae Munus”
L’iniziativa – riporta l’agenzia cattolica africana Canaa, risponde all’invito rivolto nel 2011 da Benedetto XVI agli episcopati africani nell’Esortazione apostolica post-sinodale “Africae Munus” “a promuovere un anno della riconciliazione a livello continentale per chiedere a Dio un perdono speciale per tutti i mali e le ferite che gli esseri umani si sono inflitti gli uni gli altri in Africa, e affinché si riconcilino le persone e i gruppi che sono stati offesi nella Chiesa e nell’insieme della società”.(Am 157). Nelle parole del Papa emerito “si tratterebbe di un Anno giubilare straordinario durante il quale la Chiesa in Africa e nelle isole adiacenti rende grazie con la Chiesa universale e prega per ricevere i doni dello Spirito Santo’, specialmente il dono della riconciliazione, della giustizia e della pace”. "La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace" è stato infatti il tema della II Assemblea Speciale per l'Africa del Sinodo dei vescovi, svoltasi nel 2009, in continuità Il con il primo Sinodo africano convocato nel 1994 da Giovanni Paolo II e incentrato sugli aspetti interni alla Chiesa africana: la famiglia, l’educazione, la catechesi.

Collette per la seconda Giornata del Secam
Il tesoriere del Secam, mons. Charles Palmer Buckle,  a nome del presidente mons. Gabriel Mbilingi , ha esortato in una lettera le conferenze episcopali del continente a celebrare questo anno speciale promuovendo programmi ed iniziative sul tema scelto in collaborazione con le rispettive Commissioni Giustizia e pace. L’arcivescovo di Accra ha esortato  altresì tutti i vescovi africani a organizzare nelle proprie diocesi, in una domenica da loro scelta, collette speciali per la seconda Giornata del Secam. La Giornata è stata istituita due anni fa dalla XVI Assemblea dell’associazione per finanziare, tra l’altro, progetti di evangelizzazione, la promozione della giustizia e della pace e dei media cattolici. 

37 conferenze episcopali e 8 conferenze regionali oggi membri del Secam
Il Secam, che riunisce oggi 37 conferenze episcopali nazionali e 8 conferenze regionali africane, fu istituita nel 1969 e inaugurata da Paolo VI nel luglio di quell’anno,  in occasione della sua visita pastorale in Uganda, la prima di un papa nel Continente africano. (A cura di Lisa Zengarini)

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Siria. Patriarca Giovanni X: vogliamo rimanere nella nostra terra

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“La nostra regione è in grande difficoltà, sull’orlo della disperazione, ma noi, cristiani ortodossi, non siamo disperati. Nonostante la nostra sofferenza, siamo determinati a rimanere nella nostra terra, sappiamo dove è il nostro futuro. Abbiamo un grande ruolo da svolgere per la guarigione delle ferite e la ricostruzione”. Con queste parole il patriarca di Antiochia e di tutto l’Oriente Giovanni X si è rivolto negli Stati Uniti alla Convention della Chiesa ortodossa di Antiochia all’indomani dell’appello lanciato a Roma da papa Francesco per la liberazione di padre Paolo Dall’Oglio, e dei due vescovi ortodossi rapiti il 22 aprile del 2013 da un gruppo di uomini armati vicino ad Aleppo, la città nel nord della Siria. Si tratta dei vescovi Youhanna Ibrahim e Paul Yazji, fratello del patriarca Giovanni X. 

Il grido di dolore del patriarcato di Antiochia
“Abbiamo Metropoliti e sacerdoti che sono stati rapiti da più di due anni, in un silenzio internazionale sospettoso e vergognoso”, ha detto il patriarca. “Abbiamo sacerdoti, monaci, suore, persone e martiri il cui unico crimine è quello di mantenere vivo il cuore del cristianesimo. Noi rimaniamo nella nostra terra perché siamo sempre stati lì”. Le parole del patriarca Giovanni X pronunciate negli Stati Uniti e rilanciate all'agenzia Sir dal patriarcato di Antiochia sono un grido di dolore.

Nel dramma siriano il patriarca chiede aiuto agli Stati Uniti
“Mentre il conflitto sta infliggendo il terrore su tutti, una delle principali vittime è la comunità cristiana in Siria e in Iraq e anche in Libano”. Il patriarca da voce all’esodo continuo di milioni di cristiani da Siria e Iraq, parla degli sfollati “in cerca di un riparo per se stessi e le loro famiglie”. “Centinaia di persone sono state uccise. Decine di nostre chiese sono state saccheggiate e distrutte. Migliaia e migliaia di nostre icone e manoscritti sono stati bruciati, o venduti sul mercato illegale”. E aggiunge: “Noi non siamo nati per essere rifugiati in terre straniere. Non siamo fatti per essere umiliati”. “Nonostante la nostra sofferenza, la nostra volontà è forte, la nostra determinazione è assoluta. Noi restiamo nella nostra terra e svolgiamo un ruolo di primo piano nel futuro della regione. Ma per fare questo abbiamo bisogno del vostro aiuto. Abbiamo bisogno dell’aiuto degli Stati Uniti, e degli altri amici e potenze di tutto il mondo, per aprire canali di dialogo, mettere a tacere i tamburi di guerra, e dare al nostro popolo la possibilità di un futuro”.

Dialogo, convivenza, progresso culturale: punti di riferimento anche per il futuro
​“Uniamo le nostre teste e i nostri cuori e agiamo con urgenza per fermare il vortice di genocidi e massacri di massa; lavoriamo insieme per ricostruire i pilastri della convivenza religiosa - conclude il patriarca - e della nostra comune umanità. Il dialogo, la convivenza, e il progresso culturale sono stati i nostri comuni punti di riferimento nel passato. Continueranno ad esserlo oggi e in futuro. Il luogo di nascita delle grandi religioni del mondo sta cadendo a pezzi. Oggi grida aiuto, non solo perché ne ha bisogno, ma perché lo merita”. (R.P.)

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Caritas Grecia: impegno per rifugiati e immigrati

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Il precipitare della crisi greca ha reso ancora più drammatica la già difficile situazione dei migranti  che continuano a entrare in Grecia per potere raggiungere altri Paesi europei. A confermarlo sul sito della Caritas Internationalis è Irma Sofia Espinosa Peraldi, della Caritas di Atene, dove vengono trasferiti la maggior parte dei migranti approdati sulle isole greche.

Quintuplicato il numero dei migranti arrivati in Grecia nel 2015
Nell’ultimo anno il numero di migranti che hanno raggiunto il Paese è quintuplicato rispetto al 2014. La maggior parte proviene da Siria, Afghanistan, Nigeria, Sierra Leone e Repubblica Democratica del Congo, Paesi devastati dalla guerra e dalle pulizie etniche.  Una situazione che è diventata ingestibile per le autorità greche, a causa della mancanza di fondi e di personale per fornire assistenza umanitaria e legale a queste persone, ma che sta mettendo a dura prova anche le organizzazioni umanitarie, già impegnate a sostenere i cittadini greci ormai allo stremo: “La vita dei greci, quella dei migranti e il nostro lavoro è stata resa più complicata dalla crisi" spiega la responsabile di Caritas Atene.

Lavoro nero e illegalità per i migranti
I più vulnerabili sono i rifugiati, i richiedenti asilo e gli immigrati economici che hanno quindi bisogno degli aiuti più urgenti”. Le difficoltà per i migranti regolari (rifugiati e immigrati economici), ma anche per i nuovi arrivati sono, infatti, sempre maggiori.  L’alto tasso di disoccupazione tra i cittadini greci riduce al minimo le possibilità per gli immigrati di trovare lavoro, costringendoli a lavorare in nero e quindi ad entrare nell’illegalità. Tra i richiedenti asilo crescono, invece, i timori di vedere allungati i tempi per il trattamento della loro pratica.

L’aiuto della Caritas ai rifugiati siriani
Per fare fronte all’emergenza, Caritas Atene ha lanciato a gennaio un vasto programma di aiuti per i rifugiati siriani che vivono ad Atene finanziato dalla Caritas italiana e vuole adesso estenderlo alle isole con la collaborazione dei Catholic Relief Services, l’opera caritativa della Conferenza episcopale degli Stati Uniti.  Ma alle strutture delle Caritas si rivolgono anche tanti cittadini greci che frequentano le mense dell’organizzazione caritativa cattolica alle quali contribuiscono enti privati. Il problema è che si stanno riducendo anche le donazioni alle Chiese, ortodossa, cattolica e protestanti che assistono i migranti.  Anche i greci, infatti si trovano in una situazione disperata. E tuttavia non hanno voltato le spalle all’emergenza, soprattutto nelle isole:  “Nonostante le difficoltà  - evidenzia Espinosa Peraldi - abbiamo visto molta solidarietà da parte degli abitanti nelle isole. Tanti cittadini hanno dedicato il loro tempo per aiutare a portare cibo e vestiti ai rifugiati”. (A.D. - L.Z.)

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Canada: appello vescovi contro legge sul suicidio assistito

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I vescovi della provincia canadese di Saskatchewan, hanno messo in guardia i fedeli sulla gravità di una possibile approvazione della legge sul suicidio assistito e eutanasia, attualmente allo studio del Parlamento. In una lettera pastorale i presuli ribadiscono la preoccupazione già manifestata dalla conferenza episcopale canadese, nel maggio scorso, sull’impatto che questa legge potrebbe avere sulle persone più vulnerabili della società - gli anziani, i malati terminali e chi è affetto da disabilità fisica o mentale - e sugli operatori sanitari, che potrebbero vedersi costretti ad agire contro la propria coscienza. 

Eutanasia: omicidio camuffato
Nel testo,  i presuli si dicono turbati dalle implicazioni etiche, morali e sociali che questa legge potrebbe avere. “Eufemismi come ‘assistenza medica a morire’, ‘morte assistita’ , e ‘morire con dignità’ - si legge- mirano solo a camuffare il fatto che l’eutanasia altro non è che togliere deliberatamente la vita a una persona e che il suicidio assistito fornisce intenzionalmente a una persona le conoscenze e gli strumenti per suicidarsi”. 

Eliminare una vita non è la risposta alla sofferenza
I vescovi ricordano che, sebbene ci siano tanti pazienti che rifiutano trattamenti medici che ritengono troppo pesanti, dare un farmaco per alleviare il dolore non è eutanasia, perché l’intento è di ridurre la sofferenza e non di accelerare la morte, tantomeno di “uccidere il paziente” come si propone invece con il suicidio assistito e l’eutanasia. “Eliminare la vita non è la risposta giusta alla sofferenza”, affermano i presuli che indicano come alternativa la promozione delle cure palliative di un’adeguata assistenza al fine vita.

Garantire l’obiezione di coscienza
Nel ricordare che la Chiesa cattolica promuove la sacralità e la cultura della vita in cui ogni essere umano deve essere protetto e ogni persona si sente responsabile della cura e del benessere degli altri fino alla morte naturale, i vescovi di Saskatchewan esortano quindi i fedeli a “reagire con coraggio alle  sfide poste dalla sentenza della Corte Suprema alzando la propria voce  in difesa della vita e della dignità delle persone, specialmente le più vulnerabili”. Essi li esortano segnatamente a  sollecitare il Governo federale a un’ampia consultazione per assicurare che la nuova legislazione sia il più restrittiva possibile, a chiedere leggi che assicurino il rispetto del diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari che non possono accettare l’uccisione di una persona come una soluzione al dolore e alla sofferenza.  

Coinvolgere  le comunità religiose nel dibattito
Nel pronunciamento della Conferenza episcopale del Canada di  maggio scorso, i vescovi avevano chiesto al Ministro della giustizia di essere inseriti insieme alle altre comunità confessionali tra gli organismi consultati dal Governo nell’ambito della nuova legge sul suicidio assistito, sia per garantire la tutela della vita e la salute dei cittadini, sia la libertà di coscienza degli operatori sanitari. Inoltre, avevano chiesto di essere informati sulla data d’inizio della consultazione popolare, indetta dal governo, per l’approvazione del progetto legge. (A.D.)

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Taizè: raduno dei giovani in memoria di frère Roger

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Taizé si prepara a vivere un’estate speciale di ricorrenze. Nel 2015 si celebrano infatti tre anniversari importanti: il 12 maggio, frère Roger, il fondatore, avrebbe compiuto 100 anni e il 16 agosto sarà il 10° anniversario della sua morte. Inoltre quest’anno si celebra il 75° anniversario della fondazione della comunità. Per la prima volta - riferisce l'agenzia Sir - tutti i fratelli che vivono nelle fraternità dei diversi continenti rientreranno a Taizé.

Raduno per una nuova solidarietà
Il culmine delle celebrazioni sarà dal 9 al 16 agosto: si svolgerà in questa settimana il “raduno per una nuova solidarietà” rivolto in particolare ai ragazzi tra i 18 e i 35 anni. Il programma prevede, dopo la preghiera del mattino, una meditazione guidata da un frère sul trittico “gioia, semplicità, misericordia”. Poi ci saranno una serie di forum con testimonianze di persone impegnate nella società. Nel pomeriggio, una decina di atelier permetteranno ai partecipanti di condividere la loro esperienza della solidarietà in diversi ambiti. In programma anche atelier artistici e una mostra fotografica, con le testimonianze di giovani del mondo intero. 

Un grande evento ecumenico
Un centinaio di relatori - fanno sapere i frère di Taizé - parteciperanno agli atelier ai quali si uniranno numerosi responsabili delle Chiese. La lista di coloro che hanno già confermato la loro presenza è stata pubblicata sul sito web della comunità. Tra i rappresentanti delle Chiese cristiane, parteciperanno il card. Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità, come rappresentante del Papa; il segretario generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, rev. Olav Fykse Tveit; il metropolita Emmanuel, vice presidente della Conferenza delle Chiese Europee; il pastore François Clavairoly, presidente della Federazione protestante di Francia; il card. Laurent Monsengwo Pasinya, arcivescovo di Kinshasa; mons. Georges Pontier, arcivescovo di Marseille, presidente della Conferenza episcopale di Francia, e i vescovi di Autun; Strasburgo e Oran, Algeria.

Preghiera in memoria di frère Roger
Il 16 agosto alle 16, la comunità invita a una preghiera in memoria di frère Roger che riunirà un centinaio di responsabili delle Chiese, i rappresentanti di altre religioni e giovani di tutti i continenti. La comunità fa infine sapere che da domenica 30 agosto a domenica 6 settembre, si terrà un seminario internazionale sul contributo di frère Roger al pensiero teologico. Questo incontro è rivolto a giovani teologi e teologhe fino a 40 anni: studenti di teologia, ricercatori o impegnati da anni in un ministero della Chiesa. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 209

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.