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Sommario del 29/07/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa: i volontari siano generosi nel servire i più bisognosi

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Papa Francesco invita a pregare "perché quanti operano nel campo del volontariato s’impegnino con generosità al servizio dei bisognosi” e "perché uscendo da noi stessi sappiamo farci prossimo di quanti si trovano nelle periferie delle relazioni umane e sociali”. Sono le due intenzioni da lui affidate all'Apostolato della preghiera per il mese di agosto. Adriana Masotti ha chiesto a Primo Di Blasio, che nella Focsiv, la Federazione degli organismi cristiani di volontariato, si occupa di formazione, se la realtà dei volontari è sempre viva e importante nelle nostre società: 

R. – La realtà del volontariato è una realtà molto importante perché di fatto nelle società e nelle comunità dove essa è praticata, il volto di quelle comunità è molto diverso. Noi in Italia abbiamo una storia dove il volontariato ha avuto una funzione importante fin dal Medio Evo; non in tutto il mondo accade questo e non in tutto il mondo c’è una cultura del volontariato.

D. – Papa Francesco parla di impegno generoso da parte del volontario a servizio dei più bisognosi. In un discorso proprio a voi, lo scorso dicembre, sottolineava il valore della gratuità e del disinteresse. Dovrebbero essere cose scontate, invece vanno sempre tenute presenti?

R.  – Assolutamente sì, anche perché i recenti fatti accaduti a Roma, ma non solo a Roma, ci dicono che a volte dietro questa attenzione agli ultimi, a chi ha più bisogno, non sempre c’è la cultura della gratuità, del disinteresse, che è tipica del volontariato. Ma abbiamo visto che a volte c’è qualcuno che ne ha approfittato e qualcuno che ha voluto addirittura guadagnare sui bisognosi.

D. – Ecco il volontario è uno che fa, uno che agisce, ma mi viene da dire prima di tutto dovrebbe essere una persona che è, che è in un certo modo…

R. – Le motivazioni che spingono una persona a mettersi al servizio degli altri possono essere diverse tra di loro. C’è qualcuno che parte da profonde motivazioni religiose, ma qualcun altro anche in termini laici si impegna per gli altri. Allora, io credo che se noi vogliamo guardarla genericamente, quella del volontario è la scelta di una persona di essere responsabile della propria comunità, sapendo che dentro la comunità spesso c’è qualcuno che viene marginalizzato e viene lasciato indietro. Allora è quella persona che dice: “Tocca a me, voglio mettermi al servizio degli altri perché nessuno sia abbandonato”. Poi il serbatoio da cui si va a prendere le radici di queste motivazioni sono diverse le une dalle altre.

D. – In particolare per quanto riguarda i volontari della Focsiv, il serbatoio è proprio il rapporto con Gesù, che il Papa in quel discorso raccomandava personale, quotidiano…

R.  – Assolutamente sì. La nostra identità è quella di tradurre i valori cristiani nelle nostre scelte e quindi trovare in Gesù la forza, la capacità, il coraggio, anche nei momenti difficili - per questo il Papa ci invitava: “tutti i giorni ritornate a Gesù, ritornate a Gesù”, perché spesso fare il mestiere del volontario, se posso dirlo in questi termini, è faticoso perché i risultati non ci sono sempre. I volontari devono essere quei soggetti che vogliono cambiare la realtà e aiutare i più bisognosi ad essere protagonisti di questo cambiamento. Sono processi molto lunghi e a volte le sconfitte sono tante. E allora bisogna avere un serbatoio a cui attingere per non perdere la voglia di andare avanti.

D.  – Il volontario è anche uno che guarda all’altro, quindi si mette in ascolto… Il Papa richiama continuamente alla necessità di uscire da se stessi per incontrare gli altri, un invito valido non solo per i volontari ma per ciascuno di noi…

R. – Assolutamente sì, quando si esce fuori da se stessi e ci si mette nella logica degli altri o si guarda il mondo, io dico, con gli occhi degli altri, ci si accorge di tante cose che a volte non riusciamo  a vedere. Noi con l’esperienza del volontariato internazionale abbiamo a volte intercettato problemi che sono arrivati qui in Italia dopo 10, 20, 30 anni. Perché nel momento in cui ci siamo calati dentro società, comunità diverse da noi, abbiamo iniziato a guardare il mondo con quegli occhi. Questo è un po’ uscire fuori da se stessi, non essere noi il centro del mondo ma esserlo insieme agli altri. Noi diciamo sempre che i volontari sono persone che costruiscono percorsi di fraternità.

D. – Dal punto di vista più personale che cosa è per lei questo uscire da sé nella vita quotidiana?

R. – E’ proprio questo quotidiano tentativo di capire le ragioni degli altri: perché quella persona ha quell’atteggiamento, perché quella persona ha fatto quelle scelte? Allora, uscire da sé e cercare di ascoltare, di capire… La verità si trova guardando gli altri e cercandola insieme.

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Santa Sede appoggia accordo contro dazi doganali: aiuta i Paesi poveri

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La Santa Sede appoggia l’accordo siglato in questi giorni da una larga maggioranza di Paesi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio per eliminare i dazi doganali su oltre 200 prodotti tecnologici. Secondi gli esperti si tratta di una intesa che determinerà l’abbassamento dei prezzi, la creazione di nuovi posti di lavoro e il rilancio dell’economia a livello globale. Ascoltiamo il commento di mons. Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Ufficio Onu di Ginevra, al microfono di Sergio Centofanti

R. – E’ un passo in avanti, perché favorisce i Paesi più poveri a partecipare in maniera efficace al mercato mondiale.

D. – C’è la volontà dei Paesi più ricchi di farlo entrare in vigore?

R. – E’ un cammino lento. Mentre la firma di questi accordi è universale, per la sua ratifica servono addirittura degli anni…

D. – Il Papa, nell’ultimo viaggio in America Latina, ha detto che un altro sistema economico è possibile, un’alternativa umana è possibile. Si può cambiare - dice - questa economia che uccide...

R. – Mi pare che Papa Francesco insista, giustamente, sul fatto che l’economia di mercato abbia bisogno di avere delle regole, di mettere dei limiti, in modo che non vi siano quegli eccessi, che sono poi a scapito di categorie di persone o di Stati. L’economia deve essere al servizio della persona e non le persone al servizio dell’economia. Per cui - per esempio - il mercato finanziario non può essere semplicemente speculazione in modo che l’economia reale ne soffra; anche il mercato finanziario deve essere messo al servizio dell’economia reale. E’ un cammino complicato e ci sono interessi di Stati o interessi di categorie di persone che tentano di bloccarlo.

D. – A volte si accusa la Chiesa di avere una posizione anticapitalista…

R. – Non è questione di anticapitalismo. L’economia di mercato ha dato dei buoni risultati, però quello che si vuole dire è che non basta l’economia di mercato in se stessa: c’è anche lo Stato che ha un ruolo da giocare in questa economia, mettendo delle regole in modo da facilitare un equilibrio sociale sempre più efficace.

D. – Quali sono i Paesi che più bisogna convincere per ratificare questi accordi?

R. – Ci sono delle tensioni tra i Paesi più ricchi – quelli dell'Unione Europea, gli Stati Uniti, la Corea del Sud, il Giappone – da una parte e c’è poi la novità dei cosiddetti Brics – Cina, Brasile, Russia, India, Sudafrica – che hanno un potere politico ed economico molto significativo. Si tratta di creare degli equilibri tra i Paesi sviluppati, i Brics e i Paesi più poveri e trovare una strada che limiti sempre di più il gap che esiste tra questi Stati.

D. – Pensando all’Italia, alla posizione dell’Italia anche nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, vediamo questa gravissima crisi che sta attraversando il Paese: come far ripartire l’Italia?

R. – L’Italia è basata sulla piccola e media impresa e questa caratteristica può diventare una grande risorsa per rilanciare il benessere per tutto il Paese. Per fare questo occorre, però, che ci sia una facilità di accesso alle banche, che l’economia finanziaria non si chiuda sulle speculazioni, ma si metta invece al servizio della realtà concreta del Paese, di queste piccole e medie imprese, per facilitarne la produttività e quindi l’assorbimento e l’impiego di più persone. Certo è che la politica entra nel facilitare lo sviluppo dell’economia, per cui non bastano promesse, non bastano slogan: bisogna entrare veramente nel concreto, facilitare quelle forze sane del Paese che non solo sono produttive, ma danno anche la possibilità a nuove generazioni di persone che cercano lavoro di trovarlo.

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Nomine

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Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Lleida (Spagna), presentata da S.E. Mons. Joan Piris Frígola, per raggiunti limiti di età. Il Papa ha nominato S.E. Mons. Salvador Giménez Valls Vescovo della Diocesi di Lleida (Spagna), trasferendolo dalla Sede di Menorca. Mons Giménez Valls è nato a Muro di Alcoy (Alicante), Arcidiocesi di Valencia, il 31 maggio 1948. Si è laureato in Filosofía y Letras, con specializzazione in Storia presso l’Università civile di Valencia ed ha compiuto gli studi ecclesiastici nel Seminario Metropolitano di Valencia (1960-1973). E’ stato ordinato sacerdote a Valencia il 9 giugno 1973. Dopo l’ordinazione è stato nominato Parroco della Parrocchia di “Santiago Apóstol”, di Alborache. Poi è stato Direttore del Collegio diocesano “Claret”, a Xátiva; Rettore del Seminario Minore, a Moncada; Delegato Diocesano per l’Insegnamento; Direttore della Sezione d’Insegnamento Religioso nel Segretariato della Commissione Episcopale d’Insegnamento e Catechesi della C.E.E.; Parroco della Parrocchia di “San Mauro y San Francisco”, a Alcoy (Alicante). Nel 1996 è stato nominato Vicario Episcopale della Vicaria II di Valencia. L’11 maggio 2005 è stato nominato Vescovo Titolare di Abula e Ausiliare di Valencia e consacrato il 2 luglio successivo. Nominato Amministratore Apostolico di Menorca il 21 settembre 2008, il 21 maggio 2009 è stato eletto Vescovo di quella stessa Sede. Nella C.E.E. è Membro della Commissione Episcopale per l’Insegnamento e la Catechesi dal 2005 e di quella per i Mezzi di Comunicazione Sociale dal 2014.

Il Santo Padre ha concesso il Suo Assenso, in conformità al can. 185 § 1 del CCEO, all’elezione canonicamente fatta dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa Patriarcale Maronita del Rev.do Paul Abdel Sater, finora Sincello per gli Affari economici dell’Arcieparchia di Beirut e Parroco della Parrocchia di Saint Jean a Beirut, a Vescovo di Curia Patriarcale, assegnandogli la Sede titolare di Tolemaide di Fenicia. Il Rev.do Paul Abdel Sater è nato il 20 settembre 1962 ad Aïn El Remmaneh. Dopo aver conseguito il baccalaureato in teologia all’Università “Saint‑Esprit” di Kaslik, ha continuato i suoi studi a Boston, negli Stati Uniti, dove si è specializzato in teologia morale e scienze dell’educazione. Ordinato sacerdote il 29 giugno 1987 per l’Arcieparchia di Beirut dei Maroniti, ha svolto per un anno il compito di segretario dell’Arcivescovo, prima di essere inviato negli Stati Uniti d’America a specializzarsi in teologia. Tornato in Libano, è stato nominato vice‑parroco (1992) e poi parroco (1996‑2012) della chiesa “Sacré‑Cœur” di Beirut. Nel contempo ha svolto il compito di direttore di due scuole dell’Eparchia di Beirut: “La Sagesse” di Aïn El Remmaneh (1993‑2003) e “La Sagesse” di Achrafieh (2003‑2012). Recentemente, ha assunto nuovi incarichi: economo eparchiale, sincello per gli affari economici e parroco di “Saint Jean” di Beirut (2012), tenendo alcuni corsi all’Università “La Sagesse” di Beirut.

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Vaticano. Mostra su Giovanni Paolo II e gli ebrei: "Una benedizione reciproca"

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Un viaggio attraverso il passato ma con uno sguardo verso il futuro. Vuole essere questo la mostra “Una benedizione reciproca. Papa Giovanni Paolo II e il popolo ebraico” presentata ieri pomeriggio nella Sala Marconi della nostra emittente ed inaugurata nel Braccio di Carlo Magno in Vaticano. L’esposizione, che resterà aperta fino al prossimo 17 settembre, ripercorre attraverso foto, immagini, manufatti artistici e suoni, il rapporto tra Karol Wojtyla e la comunità ebraica. Il servizio di Marina Tomarro: 

Karol Wojtyla e Jerzy Kruger. Parte dal racconto di un amicizia tra un cattolico e un ebreo, nata in una Polonia devastata dall’ occupazione nazista, la mostra “Una benedizione reciproca”. E nell’esposizione viene ripercorsa attraverso foto, filmati e oggetti dell’epoca, la storia dello speciale rapporto che sin dalla giovinezza il futuro Papa Giovanni Paolo II ha sempre avuto con il popolo ebraico. William Madges è tra i curatori della mostra:

R. – So the exhibit really has multiple purposes…
La mostra, ha più obiettivi. Una parte è educativa, per informare le persone dei rapporti, durati una vita, costruttivi, tra Karol Wojtyla e gli ebrei: dall’infanzia al papato. La seconda parte vuole commemorare il Santo Padre, per gli importanti passi fatti per migliorare i rapporti tra le due comunità di fede. Primo, visitando la Sinagoga; poi firmando un accordo fondamentale che stabilisce rapporti diplomatici tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele; e naturalmente, la sua visita in Israele, e quel momento davvero speciale quando ha collocato le preghiere nel Muro del Pianto, chiedendo a Dio perdono agli ebrei, per quello che hanno dovuto soffrire e impegnando se stesso e la Chiesa nel portare avanti la fratellanza per i popoli dell’Alleanza.

Questa mostra arriva a Roma dopo essere stata già esposta con grande successo a New York, Los Angeles, Chicago e Filadelfia. Ascoltiamo ancora William Madges: 

R. – Well, it is absolutely crucial…
E’ assolutamente cruciale. Prima di tutto, perché Giovanni Paolo II ha avuto il papato più lungo del XX secolo e uno dei più lunghi nella storia della Chiesa. Secondo, perché è stato amato profondamente non solo dai polacchi, ma anche dagli italiani, che gli hanno davvero voluto bene. E terzo, perché questo è il posto dove ha avuto luogo il Concilio Vaticano II, 50 anni fa, e noi pensiamo che la sua vita e specialmente il suo papato hanno fatto prendere vita al Vaticano II in un modo davvero importante e solido.

La seconda parte della mostra ripercorre i grandi passi fatti da Giovanni Paolo II per una riconciliazione tra la comunità cattolica e quella ebraica, partendo proprio da  quell’abbraccio con il compianto rabbino Toaff, in occasione della storica visita al Tempio maggiore di Roma nel 1986, dove per la prima volta un Pontefice entrava in una Sinagoga. Il rabbino capo della capitale Riccardo Di Segni:

R. - Il Pontificato di Giovanni Paolo II si è segnalato per tante cose importanti e una di queste cose è proprio il decisivo miglioramento nei rapporti tra il mondo cristiano-cattolico e quello ebraico, dovuto proprio ai gesti e alla sua volontà di incidere su questo rapporto. Quindi ricordare questo aspetto della sua storia è veramente importante.

D. – Qual è un suo ricordo personale di Giovanni Paolo II?

R. – Io ho avuto varie occasioni di incontro, oltre al fatto che era estremamente presente nella nostra vista per tutti i motivi per cui un Papa è un presente nella vita delle persone. Il mio ricordo personale è quando sono andato a trovarlo nella mia veste nuova di Rabbino di Roma: appena mi ha visto, mi ha guardato in faccia e mi ha detto ‘Giovane!’. Era sorpreso che ci fosse un rabbino giovane alla guida della comunità.

D. – La foto che presenta questa mostra è quella della stretta di mano tra Giovanni Paolo II e il rabbino Toaff: quanto è stata importante questo dialogo tra le due religioni?

R. – Quella foto rappresenta un momento importante. Giovanni Paolo II aveva l’intuito di trasmettere messaggi importanti in modo rilevante dal punto di vista mediatico e quindi quella foto è un’icona di un passaggio storico.

D. – E’ forte anche adesso la continuazione con Papa Francesco di questo dialogo?

R. – Certo! Con questo Papa, così come con il suo predecessore, il dialogo continua: ciascuno con il proprio stile, le proprie sensibilità e il proprio carattere, ma sempre positivamente. 

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Perdono di Assisi. Fra Perry: portare al mondo la misericordia di Dio

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Inizia oggi il triduo di preparazione alla Solennità del Perdono di Assisi. Migliaia i fedeli che in questi giorni si recheranno alla Porziuncola per ottenere l’indulgenza plenaria. Sulla storia del "Perdono" voluto da San Francesco, ascoltiamo fra Michael Perry, ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori, al microfono di Alberto Goroni

R. – In primo luogo dobbiamo tenere presente il contesto in cui San Francesco ha chiesto questa grazia. Il contesto era quello di un mondo in guerra, in conflitto, in cui i ricchi cercavano di mantenere il potere; c’era poi la guerra fra la Francia e la Germania, c’erano le Crociate in Terra Santa tra i cristiani e i musulmani; ma c’erano anche conflitti all’interno delle famiglie e anche conflitti all’interno della Chiesa. Questo è il contesto importante da tenere in mente per capire meglio il significato di questa Festa del Perdono di Assisi. Guardiamo poi anche l'esperienza di Francesco: in una notte del 1216, Francesco era immerso nella preghiera alla Porziuncola, come sempre faceva; ha visto una luce, una luce molto forte. Francesco vide sopra l’altare il Cristo e alla sua destra la Madonna e gli angeli, che gli chiesero cosa desiderasse per la salvezza delle anime. La risposta immediata fu: “Benché io sia misero e peccatore, ti prego di concedere ampio e generoso perdono". Francesco ha chiesto e ha ricevuto dal Papa Onorio III il 2 agosto 1216 questa grazia di celebrare la Festa del Perdono a Santa Maria degli Angeli. In tutte le parrocchie francescane, ovunque nel mondo, è concessa l’indulgenza a chi si comunica, si confessa e prega per il Papa. Credo che questa festa esprima il desiderio di ricevere la grazia della liberazione interiore e della liberazione a livello relazionale, perché non essendo più schiavi del nostro passato e dei nostri limiti umani possiamo entrare nel Regno dei figli e delle figlie di Dio. Credo sia diventare un po’ una benedizione e portatori della misericordia spirituale e materiale verso tutta l’umanità e anche verso tutto il Creato. Questo è secondo me il significato di questa festa del Perdono di Assisi.

D. – Nei giorni della solennità migliaia di persone si recano alla Porziuncola per confessarsi. Ecco, come vivere oggi la confessione in modo maturo?

R. – Prima di tutto vorrei dire che ci sono diverse dimensioni di questa Confessione. Prima di tutto, questo percorso comincia a livello personale, quindi la dimensione personale. Vediamo che le persone cercano sempre la misericordia di Dio nella propria vita e fanno in qualche modo una confessione personale nel cuore, nella profondità del loro cuore e della loro esperienza umana. Questo è il primo passo verso una vita riconciliata. Poi c’è una dimensione ecclesiale. La Chiesa offre sempre la possibilità ai cristiani di confessarsi nel Sacramento della Riconciliazione, quindi la Chiesa riconosce la dimensione sociale e sacramentale dell’atto o meglio del movimento interiore della persona che vuole avvicinarsi di nuovo a Dio e che vuole anche ricevere questa grazia del Sacramento della Riconciliazione. Poi c’è la Chiesa che serve come strumento di questa grazia tramite la Confessione. In tutte le parti del mondo i francescani  vedono un aumento numerico dei cattolici che vogliono ricevere questa grazia del Sacramento. Infatti, sono stato qualche giorno fa a Chicago e prima in Asia e ho sentito che ci sono più cristiani adesso, rispetto agli ultimi 5, 10 anni, che stanno riprendendo questa pratica di andare a confessarsi chiedendo la benedizione, il perdono e la possibilità di riprendere la propria vita. Però per questo ci vuole anche una conversione matura. La Chiesa deve formare i cristiani a superare la pratica tradizionale di confessarsi o presentare un elenco superficiale di fatti e cercare di identificare le radici del loro peccato, dell’esperienza di vivere come schiavi. E poi credo sarebbe importante presentare il Sacramento come una vera esperienza di liberazione, di conversione, di riconciliazione, di gioia. E infine aiutare i cristiani a fare quello che Papa Francesco ci ha detto nella sua indizione del Giubileo della misericordia, cioè di confessarsi e poi di agire e produrre i frutti della carità e della giustizia nel mondo di oggi.

D. – Papa Francesco ha detto che questo è il tempo della misericordia, cosa significa per la Chiesa?

R.  – Tutto il tempo della storia della nostra vita è il tempo della misericordia. Allora, noi siamo veramente molto contenti che Papa Francesco abbia indetto quest’anno. Però mi sembra, secondo quello che lui ha detto già in diversi luoghi, che questo tempo della misericordia non è solo limitato a quest’anno di grazia, quest’anno del Giubileo: il senso di questo tempo è diventare una persona che viva della misericordia di Dio e che condivida questa misericordia con tutte le persone con cui viviamo, che incontriamo, ed estendere questo al mondo: di diventare missionari della misericordia e approfondire questa esperienza del perdono nella nostra vita, di sentirsi amati, accolti, abbracciati da Dio, così come il Figliol prodigo. E poi possiamo diventare segno concreto per il mondo di oggi che sta cercando questa riconciliazione e questa misericordia. Questo mi sembra un po’ il senso di questo tempo della misericordia.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Eurotunnel di disperazione: un morto nel tentativo di migliaia di persone di irrompere nel collegamento ferroviario sotto la Manica.

Juan Manuel de Prada su un argentino prima di Francesco: nel 1964 lo scrittore Leonardo Castellani immaginò Giovanni XXIV.

La sterile visitata: la vita di Rachele raccontata da Sandro Carotta e Maria Manuela Cavrini.

Materia ed energia: Gabriele Gionti sull'ultima edizione del Marcel Grossman Meeting.

Il sortilegio delle parole antiche: Silvia Guidi su Lina Sastri in "Passio hominis".

Mai più detenuti per un sogno: l'episcopato statunitense contro la carcerazione di famiglie migranti.

Chiari e scuri di Michelangelo: Nicola Gori sul restauro del lato settentrionale della basilica di San Pietro.

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Oggi in Primo Piano



Afghanistan: giallo su morte mullah Omar. Governo: verifiche in corso

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Il governo afghano sta esaminando le notizie diffusesi nelle ultime ore riguardo alla morte del leader supremo dei talebani, il mullah Omar. Il servizio di Giada Aquilino

Ancora nessuna conferma o smentita. La notizia dell’uccisione del mullah Omar si rincorre da ore, ma non è la prima volta che succede. Per questo il governo di Kabul, in una conferenza stampa convocata frettolosamente dal vice portavoce presidenziale, Zafar Hashemi, ha annunciato verifiche in corso dopo che un alto funzionario aveva dato comunicazione dell’uccisione del leader dei talebani, a seguito - si era detto - di una riunione dei vertici della sicurezza afghana. Dubbi sono stati espressi dal Pakistan, che venerdì prossimo ospiterà a Islamabad un secondo round di colloqui fra emissari dei talebani ed esponenti del governo afghano per negoziare una difficile pace, dopo la guerra iniziata nel 2001. Proprio nei giorni scorsi, mentre il sedicente Stato Islamico incitava i combattenti della regione ad unirsi al ‘Califfato” di al Baghdadi, il sito web dell’autoproclamato Emirato Islamico dell’Afghanistan pubblicava un messaggio attribuito al mullah Omar in favore del dialogo fra insorti e rappresentanti del governo del presidente Ashraf Ghani. Ma la notizia della presunta morte del mullah Omar sembra lasciare indifferente la popolazione afghana. Lo testimonia Luca Lopresti, presidente di Fondazione Pangea Onlus, raggiunto telefonicamente a Kabul:

R. – Come tutte le grandi notizie che riguardano l’Afghanistan, anche questa coinvolge emotivamente più l’Occidente che gli abitanti di questo Paese, che sono sempre e solo travolti dagli eventi. Spesso si è detto della morte del mullah Omar, ma mai finora è stata confermata. Certo oggi è una data importante, perché è vigilia di incontri per le trattative di pace: la notizia della morte del mullah Omar, che stranamente veniva dato in queste ore come aperto ad una mediazione per il dialogo di pace, potrebbe sconvolgere gli equilibri. Il suo successore naturale sarebbe il figlio, un ragazzo giovane che si dice essere molto più predisposto alla guerra che non alla pace.

Nato nei pressi di Kandahar nel 1959 da una famiglia pashtun e fondatore di una scuola islamica, sul mullah Omar si sono rincorse negli anni voci contrastanti. Si è parlato dell’alleanza con Osama Bin Laden, ucciso nel 2011, col quale condivise la resistenza all'invasione sovietica: durante quel periodo avrebbe perso un occhio in battaglia. I talebani si impossessarono poi dell’Afghanistan nel 1996 e cominciarono lunghi e sanguinosi anni di applicazione radicale della Sharia. Quando gli americani sferrarono l’operazione Enduring Freedom nel 2001, a seguito degli attentati dell’11 settembre, si diffuse la notizia di una sua fuga in motocicletta dall'assedio di Baghran. Da allora fece perdere ogni traccia, malgrado la taglia di 25 milioni di dollari posta dagli Stati Uniti sulla sua testa: negli ultimi anni le ricerche si erano concentrate nel vicino Pakistan, nella regione di Quetta. L’Afghanistan rimane intanto un Paese che anela alla stabilità, aggiunge Luca Lopresti, che con Pangea Onlus lì si occupa di programmi di microcredito alle donne, ma anche di servizi sanitari ed educativi:

R. - Servirebbero veramente trattative di pace; servirebbe che i soldi investiti venissero spesi per la popolazione. Si consideri che nella capitale le strade non sono asfaltate e non ci sono le fogne e che in Afghanistan, dal 2001 ad oggi, sono stati investiti 600 miliardi di dollari! La paura forte tra la gente non è tanto della guerra trascorsa, ma del periodo precedente, della guerra civile: una guerra di tutti contro tutti, in cui le fazioni tribali combattevano tra loro per una fetta di potere e la città di Kabul, per esempio, era totalmente distrutta dai colpi di mortaio.

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Unione Africana tra sfide di democrazia e lotta a terrorismo

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Nessuno deve essere Presidente a vita. Questo il messaggio di Obama che ieri ha parlato all’Assemblea dell’Unione Africana ad Addis Abeba, a conclusione del suo tour di quattro giorni in Kenya e in Etiopia. “I dirigenti africani che si rifiutano di lasciare il potere alla fine del loro mandato – ha detto il Presidente Usa - frenano il progresso democratico per tutto il continente”. Ha citato il caso del Presidente Nkurunziza in Burundi, che, a dispetto della costituzione che vieta il terzo mandato, si è imposto nelle elezioni di luglio gettando il Paese nelle proteste e nei disordini. Ma anche gli analoghi tentativi di abusi in Congo e Rwanda.  Del difficile processo di democratizzazione nel continente africano Fausta Speranza ha parlato con Aldo Pigoli, africanista dell’Università Cattolica: 

R. – L’area sub-sahariana presenta diversi regimi che sono formalmente democratici, ma che poi nella sostanza non vedono realizzata una reale alternanza al potere. Abbiamo Presidenti al potere da oltre 30 in diversi Stati africani: pensiamo all’Angola, al Camerun; pensiamo anche agli Stati dell’Africa centrale e della regione dei Grandi Laghi, come l’Uganda e il Ruanda che hanno Presidenti al potere ormai da decenni come Museveni e Kagame. Di recente c’è stato lo scontro politico in Burundi, per le le forzature alla Costituzione cui abbiamo assistito e che ha citato Obama. E poi c’è il discorso di un continente africano che va visto sotto diversi punti di vista: il processo di sviluppo democratico sta avvenendo, ma avviene in maniera diversa a seconda delle aree e dei contesti. Ci sono anche casi di reale democrazia – almeno così come la intendiamo in Occidente – e penso al Botswana, penso al Ghana, penso ad altre realtà del continente africano in cui la democrazia si sta applicando e realizzando.

D. – Quale può essere la risposta dell’Unione Africana all’appello forte di Obama?

R. – Dobbiamo considerare che l’appello di Obama è sulla linea delle richieste occidentali degli ultimi decenni di maggior trasparenza, di maggior alternanza al potere e appunto di vera democrazia. La risposta dei Paesi africani al momento è varia. In molti casi si reclama un’indipendenza, un’autonomia nel valutare e nel giudicare i processi democratici del continente.

D. – Al centro del viaggio di Obama c’era l’obiettivo della lotta contro il terrorismo. L’Unione Africana sta facendo e può fare qualcosa?

R. – L’Unione Africana sta facendo e può fare diverse cose. C’è un costante tentativo di confronto e di dialogo all’interno del sistema dell’Unione Africana e all’interno delle singole realtà regionali, delle singole organizzazioni regionali, che compongono il sistema dell’Unione Africana. Le risposte sono concrete. Vediamo l’intervento delle attività di peacekeeping anche rivolto al contrasto delle organizzazioni di matrice terroristica o comunque del radicalismo islamico nel Corno d’Africa, ad esempio in Somalia. Quindi c’è una risposta concreta. E’ un processo che – come dicevo prima – gli africani rivendicano come autonomo e indipendente: ne vogliono la paternità! Vogliono chiaramente essere sostenuti da un punto di vista finanziario, da un punto di vista delle tecnologie militari e politico, ma vogliono percorrere una strada che sia indipendente e autonoma. 

Per capire l’importanza del viaggio di Obama in Africa in una fase in cui il continente sta vivendo l’espansione sempre più significativa del potere economico cinese, Fausta Speranza ha intervistato Antonello Biagini, docente di rapporti internazionali all’Università La Sapienza di Roma: 

R. – Direi che gli Stati Uniti si stanno riproponendo in una posizione internazionale. L’ultima parte del mandato di Obama è tutta in questo senso, se pensiamo all’accordo con l’Iran… Dall’altro lato, questo discorso con l’Africa è estremamente importante. Devo dire che nella tradizione americana la presenza in Africa è stata sempre molto relativa. Bisogna anche dire onestamente questo: non era tra le priorità e gli interessi nazionali statunitensi, salvo situazioni di conflitto dove allora era necessario intervenire quando gli Stati Uniti si attribuivano un po’  questo ruolo di 'gendarme del mondo'. Poi questa cosa, anche per la crisi economica, è venuta via via scemando. Però ora, risolti alcuni problemi interni, come quello dell’occupazione, dell’economia, è chiaro che gli Stati Uniti tornano protagonisti, anche perché una grande potenza non può lasciare libero campo a Cina o terrorismo. Teniamo conto che poi la presenza dei cinesi in Africa è stata, anche a prescindere dalla volontà dei cinesi, un motivo di tanti conflitti perché sono arrivati lì comprando il petrolio, aggiudicandosi quasi il monopolio di alcune risorse energetiche e quindi causando disordini in zone dove i conflitti erano già presenti - e quindi non è una responsabilità diretta cinese - ma dove sicuramente questo nuovo ingresso ha determinato un accentuarsi dei conflitti preesistenti.

D. – Se l’Unione Europea lavorava per un processo di democratizzazione è arrivata la Cina che è accusata di non rispettare i diritti umani…

R. – Sì, infatti tra l’altro c’è anche questo aspetto… Certo, è importante dare un segnale forte che gli Stati Uniti sono presenti anche in quella parte del continente dove negli ultimi tempi si sono addensate anche presenze di tipo terroristico, di tipo politico fondamentalista islamico, che poi poco ha a che vedere con l’islam ma purtroppo strumentalizza quella religione. E poi c’è il grande valore dei discorsi che ha fatto sulla riaffermazione di un modello democratico che, certo, in Africa avrà bisogno di più tempo per affermarsi. In Africa non c’è la tradizione statunitense che poi nasceva dalla rivoluzione francese, da Tocqueville, insomma dal principio della divisione dei poteri … E’ una storia lunga, sono 500 anni di storia, quindi è chiaro che è difficile il processo in Paesi che sono stati colonizzati e hanno avuto l’indipendenza solo da poco tempo, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, e nemmeno completamente. E’ chiaro che è un discorso di alto profilo democratico, di istituzioni democratiche fa più fatica ad affermarsi … Il mondo, l’Europa gli Stati Uniti hanno conosciuto, hanno avuto il tempo anche della storia per poter costruire questi sistemi. In Africa questo tempo non c’è stato perché si è passati da una soggezione di Paesi stranieri a una forma di indipendenza gestita, in cui si sono riproposte o sono sopravvissute vecchie lotte anche interne di tipo tribale… Poi, c’è il problema di come sono stati fatti i confini anche se in molti Paesi dell’Africa furono tracciati geometricamente quasi sempre per interesse delle potenze europee, tipo la Siria. Furono accorpati arbitrariamente. La stessa Libia, in fondo, è il prodotto dell’unione della Cirenaica, della Tripolitania, del Fezzan. Sono situazioni e popolazioni che non erano mai state insieme e che non avevano neanche questo gran desiderio di stare insieme.

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Assalti Eurotunnel, muore migrante. Londra: situazione preoccupante

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Per la seconda notte consecutiva circa duemila migranti hanno preso d’assalto il sito francese dell’Eurotunnel, a Calais, per raggiungere il Regno Unito. Nel fallito tentativo di attraversare la galleria sotto la Manica, un giovane sudanese è morto investito da un camion. Il premier britannico David Cameron ha espresso preoccupazione e il ministero dell’Interno ha convocato una riunione di emergenza. Il servizio di Marco Guerra

“L'invasione più massiccia che l'Eurotunnel abbia conosciuto in questi mesi di pressione migratoria”: le autorità di entrambe le sponde della Manica hanno descritto così i tentativi, avvenuti nelle ultime due notti, di entrare nell'imbocco francese dell’infrastruttura da parte di circa 2.000 migranti. Uno di loro ha perso la vita dopo essere stato investito da un camion che scendeva da un treno navetta. Si tratta della nona vittima da inizio giugno. La situazione sembra fuori controllo. Da parte britannica è stato sconsigliato ai viaggiatori di percorrere l'Eurotunnel. “Stiamo lavorando a stretto contatto” con le autorità francesi, ha detto il premier Cameron in visita a Singapore; per discutere l’emergenza il ministro dell’Interno di Londra ha convocato una riunione del ‘Comitato sull’immigrazione’. Il suo omologo francese ha incrementato le forze di sicurezza all’imbocco del tunnel. Intanto la società che gestisce l’Eurotunnel ha fatto sapere che almeno 37mila migranti sono stati bloccati nel tentativo di attraversare la galleria dallo scorso gennaio. Ma su questo flusso senza precedenti sentiamo l’esperto di politiche migratorie dell’Unione Europea e ricercatore dell’Ispi, Matteo Villa:

R. – L’ultimo giorno è stato forse il peggiore degli ultimi mesi da quando i migranti hanno preso d’assalto l’Eurotunnel. In realtà, la miccia che ha fatto scoccare tutto è stato lo sciopero degli euro-trasportatori in Francia, che ha creato code lunghissime e che ha permesso a dei migranti che si sono accumulati nei mesi precedenti a Calais di iniziare a cercare di entrare nei camion e di farsi trasportare verso l’Inghilterra. Allora, la cosa interessante che si scopre andando un po’ indietro nel tempo è che le pressioni migratorie verso Calais esistono da decenni: l’operazione, per esempio, che Cameron ha messo in piedi per contrastare questo fenomeno è stata attivata negli ultimi undici anni 95 volte, quindi non è un fenomeno nuovo, né è nuova l’intensità. Ieri 2.000 migranti; nell’ultimo mese e mezzo 450 trovati mentre cercavano di passare. Di solito ce ne sono una ventina al mese: è la pressione che cambia, non il fenomeno in sé. Che cosa abbia determinato questo fenomeno? Ovviamente il fatto che stiano arrivando sempre più migranti a Calais e quindi è chiaro che questo complica le cose.

D. – Sono i migranti che fanno parte di quel flusso delle rotte del Mediterraneo: chi sono? Da dove vengono? Perché vogliono raggiungere l’Inghilterra?

R. – È chiaro che le stime non possono essere precisissime, soprattutto perché è un fenomeno ancora recente e si stima soltanto chi viene preso. Però si sa che in buona parte sono etiopi, eritrei e sudanesi. Questi non corrispondono al flusso che di solito ci aspettiamo vada verso l’Inghilterra. Noi sappiamo che negli ultimi anni la gran parte dei migranti che arrivavano per cercare asilo era data da afgani e iracheni. In questo caso arrivano da Sud. Anche dalla Francia, con il problema di Ventimiglia con l’Italia - ci hanno chiuso le frontiere in deroga al Trattato di Schengen, anche se dicono non sia così - succede che migliaia di persone, arrivati in Italia, scavalchino il confine e cerchino di andare verso il Regno Unito, perché lì ci sono comunità storiche di diaspora sia eritree, sia etiopi, sia sudanesi, molto importanti. Per esempio quella sudanese è quella più grande d’Europa, quella etiope è la seconda dopo quella italiana. E quindi questi migranti cercano di non farsi bloccare mai in Italia, di non farsi trovare in Francia, come di non fare richiesta di asilo in questi due Paesi, ma di raggiungere il Regno Unito e cercare di arrivare lì.

D. – Cameron ha definito la situazione “preoccupante” e ha detto che il governo londinese lavora a stretto contatto con le autorità francesi. In realtà sembra che ci sia un rimpallo di responsabilità…

R. – Sì, è vero. La Francia ogni volta che negli ultimi mesi bloccava il flusso, arrestava i migranti e poi li lasciava liberi in buona parte. Questo perché le autorità francesi sanno benissimo che non è la Francia la destinataria ultima di questi migranti e non vuole farsene carico. Per il sistema di Dublino il Paese di primo ingresso di un migrante è quello che deve poi registrare la richiesta di asilo. E se non si riesce a capire da dove sia arrivato il migrante, il Paese in cui il migrante viene fermato dovrebbe registrare la richiesta di asilo. Quindi la Francia, così come ha fatto l’Italia l’anno scorso, li lascia liberi, non ne prende la richiesta, i migranti ovviamente sono d’accordo perché non vogliono fare richiesta in Francia – ciò li obbligherebbe a rimanere lì – e quindi in questa situazione è il Regno Unito che si ritrova una questione migratoria fortissima, con le autorità francesi ferme. Negli ultimi giorni pare che il ministro dell’Interno francese stia lavorando più a stretto contatto per cercare di capire insieme a Cameron se si possa velocizzare il rimpatrio forzato di queste persone, considerato che anche questa è una mossa in teoria illegale per i Trattati. Perché se si tratta davvero di eritrei, etiopi, sudanesi, queste persone in buona parte vedono le loro richieste di asilo accolte: questo vuol dire che in buona parte queste persone sarebbero davvero da accogliere.

anti cercano di non farsi beccare mai in Italia, di non farsi trovare in Francia, come di non fare richiesta di asilo in questi due Paesi, ma di raggiungere il Regno Unito e cercare di arrivare lì.

D. – Cameron ha definito la situazione “preoccupante” e ha detto che il governo londinese lavora a stretto contatto con le autorità francesi. In realtà sembra che ci sia un rimpallo di responsabilità…

R. – Sì, è vero. La Francia ogni volta che negli ultimi mesi bloccava il flusso, arrestava i migranti e poi li lasciava liberi in buona parte. Questo perché le autorità francesi sanno benissimo che non è la Francia la destinataria ultima di questi migranti e non vuole farsene carico. Per il sistema di Dublino - come sapete - il Paese di primo ingresso di un migrante è quello che deve poi registrare la richiesta di asilo. E se non si riesce a capire da dove sia arrivato il migrante, il Paese in cui il migrante viene catturato dovrebbe registrare la richiesta di asilo. Quindi la Francia, così come ha fatto l’Italia l’anno scorso, li lascia liberi, non ne prende la richiesta, i migranti ovviamente sono d’accordo perché non vogliono fare richiesta in Francia – ciò li obbligherebbe a rimanere lì – e quindi in questa situazione è il Regno Unito che si ritrova una questione migratoria fortissima, con le autorità francesi ferme. Negli ultimi giorni pare che il ministro degli Interni francese stia lavorando più a stretto contatto per cercare di capire insieme a Cameron se si possa velocizzare il rimpatrio forzato di queste persone, considerato che anche questa è una mossa in teoria illegale per i Trattati. Perché se si tratta davvero di eritrei, etiopi, sudanesi, queste persone in buona parte vedono le loro richieste di asilo accolte: questo vuol dire che in buona parte queste persone sarebbero davvero da accogliere.

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Medici di famiglia sui tagli alla santà: sprechi sono altrove

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Dopo l’approvazione, ieri in Senato, del maxiemendamento sugli Enti locali che prevede tagli per 2,3 miliardi di euro nella sanità, crescono le preoccupazioni di medici e cittadini sul ridimensionamento delle prestazioni gratuite erogate dal sistema sanitario nazionale. Su questo provvedimento, che dovrà ottenere ora l’ok della Camera, Elvira Ragosta ha intervistato la dottoressa Donatella Gialdini, vicepresidente dell’Associazione italiana medici di famiglia (Aimef): 

R. – Il provvedimento, in minima parte, può essere anche giusto, perché effettivamente negli ultimi anni i pazienti hanno un po’ usufruito in maniera esagerata delle analisi e degli accertamenti, anche in modo erroneo. Questo con la compiacenza di alcuni medici che, magari per paura di perdere il paziente, hanno assecondato le loro richieste. Ma questo solo in minima parte, perché in realtà lo spreco esagerato della sanità non riguarda questo settore, quanto il comprare robot in esubero, il costruire ospedali che non sono mai stati aperti o gli stipendi dei direttori sanitari… Dobbiamo quindi risparmiare su altre cose. Per esempio: il prezzo di una siringa varia tantissimo a seconda della regione; sappiamo che ci sono regioni del sud che hanno voragini di 5 miliardi… Bisogna partire da lì, rispetto a regioni più virtuose come la Toscana o il Veneto.

D. – Le modalità con cui applicare questi tagli saranno note tra un mese, quando il ministro per la salute Lorenzin emanerà i relativi protocolli. Ma cosa cambia in generale? Cosa comporta questo provvedimento per i pazienti e per i medici di famiglia?

R. – Per quanto ne sappiamo fino ad oggi, lo Stato ci fornirà un elenco di esami che continueranno ad essere mutuabili e poi ci sarà un elenco di esami ed accertamenti che invece non saranno previsti. Quindi ci stiamo avvicinando verso una medicina privata e, chiaramente, chi ne farà le spese saranno i meno abbienti. Ci stiamo avvicinando praticamente al modello degli Stati Uniti, in cui si sarà una privatizzazione della sanità e il medico sarà punito, perché gli verrà decurtato lo stipendio - cosa ne non viene fatto a nessun altro professionista, né tantomeno ai politici come ben sappiamo … - se non si atterrà a queste regole. Almeno questo è quello che sappiamo. Non credo che sarà intaccato il rapporto di fiducia medico-paziente, perché se un medico di famiglia ha lavorato bene, si assume le sue responsabilità e soprattutto agisce per il bene del paziente – come cerchiamo di fare noi dell’Associazione di Medici di famiglia italiani – e se c’è quindi questo rapporto di fiducia solido, io credo che non vada intaccato. Però non sempre è così! Ci sono quelli che sotto minacce dell’Asl o delle regioni o dell’azienda sanitaria magari cercano di risparmiare perché hanno incentivi.

D. – Dal mondo della sanità si annuncia una mobilitazione in risposta a questo provvedimento che – ricordiamo ancora – dovrà ottenere l’approvazione della Camera dei Deputati. Voi come associazione avete preso delle iniziative?

R. – Ne dobbiamo parlare ancora e, soprattutto, dovremo leggere il decreto attentamente, perché vogliamo capire bene, fino in fondo, che cosa comporta, su cosa possiamo essere d’accordo e su cosa faremo invece sicuramente battaglia.  

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Campionato di Serie A: partite al via con l'inno di Giovanni Allevi

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Precederà l’avvio di tutte la partite di calcio della Serie A quando le squadre saranno già schierate in campo e i tifosi saranno carichi di aspettative e tensione. Stiamo parlando dell’inno “O generosa” scritto e composto dal maestro Giovanni Allevi, un brano polifonico per coro a quattro voci e orchestra, con testo in latino e in inglese. “Ha ritmo contemporaneo, impostazione lirica e un carattere dirompente” racconta lo stesso Allevi al microfono di Gabriella Ceraso, spiegando come è arrivato a questa composizione: 

R. – Sono stato molto orgoglioso di questa idea e quindi ho cercato di mettere in quelle note tutta la mia passione nei confronti della musica, pensando che l’energia – almeno così è nella mia speranza – sarebbe arrivata al cuore di tantissime persone.

D. – Quando glielo hanno detto ha pensato subito a cosa esprimere nello specifico?

R. – Lì per lì, quando me lo hanno detto, non ho avuto un'idea immediata, ho fatto in modo che fosse la musica a manifestarsi spontaneamente nella mia testa, e poi l’ho soltanto seguita. E quindi adesso c’è “O Generosa”, un madrigale per coro e orchestra.

D. – C'è un coro a quattro voci e c'è il fior fiore dei musicisti italiani. Nella musica, tradizione e innovazione: ci dice quali sono stati i suoi segreti?

R. – Il segreto è sempre quello: soltanto se comprendiamo in profondità la storia che abbiamo alle nostre spalle, abbiamo la possibilità di spingere i nostri orizzonti il più lontano possibile. Quindi sono andato ad affondare le mani, le dita, nella nostra tradizione vocale soprattutto del Cinquecento, inizio Seicento, quando il madrigale iniziava a manifestarsi come una forma libera. I miei miti sono sempre stati Claudio Monteverdi, Carlo Gesualdo da Venosa, Luca Marenzio: grandi madrigalisti italiani, non voglio certo rapportarmi a loro, ma ho guardato a loro come un esempio. E quindi ho pensato che poteva essere molto bello ed entusiasmante come viaggio artistico, scrivere usando un linguaggio che si avvicina a quelle atmosfere, ma al tempo stesso anche alle ritmiche della contemporaneità .E questo è il risultato.

D. - Non si può non pensare all’inno della Champions: anche lì c’è stato un compositore, Tony Britten nel 1992, che si è ispirato a Händel. Non bisogna avere paura quindi di portare anche a un pubblico come quello calcistico, la tradizione, in questo caso la tradizione musicale?

R. - L'esempio che fa è lampante: trovo di una bellezza straordinaria il fatto che le tifoserie abbiano completamente metabolizzato un linguaggio musicale che affonda le radici nella musica di Händel. Allora, probabilmente, noi dobbiamo iniziare a pensare alle tifoserie, anche alle masse - così non abbiamo questa paura delle masse - come a un insieme di individui che vivono la musica, che sono anche curiosi. Quindi non bisogna temere di rompere un po’ le regole soprattutto quando proponiamo qualcosa che affonda le radici nella nostra tradizione.

D. – Ma lei è stato particolarmente coraggioso, perché questo suo inno ha un testo che è in latino in parte, e che parla di “magnitudo”, cioè parla di forza, di dignità, di potenza, di eccellenza nel mondo sportivo. Perchè ha scelto questa lingua?

R. – Il latino e l’inglese sono le due lingue internazionali per eccellenza, una del passato e una del presente. Anzi, direbbe il dottor Franco Sanna che ha supervisionato il mio testo, il latino, per nulla lingua morta, è perfetto per esaltare ideali nobili, ideali di purezza. Io stesso mi sono accorto, utilizzandolo, che potevo sentire queste parole ancora più pregnanti: “O generosa magnitudo”, "o forza nobile". Volevo che il testo partisse proprio dalla invocazione di una forza, una forza nobile e pura che dovrebbe animare il vincitore di una competizione ma che possa anche trascendere l’ambito puramente agonistico e rivolgersi ad ogni aspetto dell’agire umano e quindi riguardasse ognuno di noi. Ognuno di noi può rivedere infatti, attraverso una competizione sportiva, la propria vita: il superamento dei problemi, l'incitamento alla vittoria e il confronto con la sconfitta.Insomma lo sport è una metafora della vita.

D. – E nel vincitore di cui parla il suo testo, un ruolo fondamentale lo gioca l’onestà. Lei fa anche riferimento all’astenersi dalla corruzione: può essere un augurio per il mondo calcistico, ma anche per l’umanità?

R. – Non mi sarei mai permesso di mettermi in cattedra per indicare una via corretta per l’agire umano. L'essere umano è imperfetto; ogni strato della società e del nostro essere è percorso dall’incertezza e dall’imperfezione. Io prima di tutto. Ma non per questo, come dice Kant, dobbiamo rinunciare a tendere verso un ideale, un ideale di purezza e di rettitudine che rappresenta la massima realizzazione di sé. E questo ideale diventa un principio che deve regolare le nostre azioni: quando accettiamo di farlo, come imperativo categorico, siamo raggiunti da una gioia incontenibile e inaspettata, perchè l'essere umano finalmente trova in questa purezza la sua realizzazione. Ci tenevo a dire che questo è l'impegno prima di tutto mio, però ho voluto raccontare questa dinamica kantiana anche all’interno del nostro inno.

D. – Che reazione si aspetta dallo stadio all’ascolto della sua opera?

R. – Quando sono uscito per le strade di Milano ieri, ho incontrato un gruppo di ragazzi che mi hanno accolto col sorriso. Uno di loro mi ha salutato dicendomi: "O generoso!", con una fierezza nello sguardo,come se già questa musica stesse iniziando a portare i suoi effetti. Mi piace pensare che la solarità, la magnificenza e le fierezza di questa musica, che derivano dal nostro Rinascimento e quindi dal passato, possano contagiare i cuori delle squadre in campo e dei tifosi sulle curve.

D.- Guardando il video della registrazione che lei ha fatto con il coro dell' Opera di Parma e l'Orchestra sinfonica italiana, sembra in realtà che già voi vi siate divertiti molto e che si sia già creata un'atmosfera di squadra e un clima di grande solarità. E' così?

R.- Sì, è così: è stato molto divertente e coinvolgente, sono stato molto contento di avere davanti grandi talenti che hanno onorato le mie note di passione e studio. Io ero sereno e loro hanno visto il mio sorriso...quindi questa avventura non poteva cominciare in modo migliore!

D. - Ma lei per quale squadra tifa?

R.- Io sono orginario di Ascoli Piceno e quindi non posso che essere legato con il cuore ai miei concittadini, alla mia piccola e stupenda città...quindi forza Ascoli!

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Nella Chiesa e nel mondo



Siria. Mons. Khazen: Is nelle mani delle grandi potenze

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“Lo Stato Islamico (Is) è uno strumento nelle mani delle grandi potenze, da loro sono stati creati, armati e sostenuti. Invece di combatterli sul terreno comprano da loro il petrolio e i reperti archeologici rubati in queste terre”. Lo ha denunciato ieri sera il vicario apostolico di Aleppo dei latini, mons. Georges Abou Khazen, in un’intervista al Tg2000, il telegiornale di Tv2000. “Sappiamo bene chi sta comprando queste cose dall’Is”, ha aggiunto mons. Khazen, parlando della presenza di “veri e propri campi d’addestramento” nei Paesi “limitrofi della Siria, tra cui anche la Turchia”. “Gli uomini dell’Is - ha dichiarato il vicario di Aleppo - hanno preso le zone dove c’è il petrolio, l’hanno cominciato a vendere a 10 dollari al barile e adesso a 30 dollari. E chi sta comprando petrolio e reperti archeologici? Sicuro non sono i somali o quelli della mauritania”. 

Le perplessità sull'attacco della Turchia contro Is e curdi
Mons. Khazen - riferisce l'agenzia Sir - ha poi commentato le operazioni militari che la Turchia sta eseguendo contro l’Is in Siria e contro i curdi del Pkk in Iraq. “La gente teme che i turchi vogliano combattere i curdi sotto la scusa dell’Is”. “Se è una lotta contro l’Is va bene - ha precisato - ma se è una scusa della Turchia per creare una zona indipendente dalla Siria, allora diventa un po’ pericoloso”. “Sappiamo bene - ha annotato - che la Turchia ha permesso all’Is di entrare, di armarsi e avere il loro addestramento”. (R.P.)

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Appello Kirill a Putin e Poroshenko: fermare spargimento di sangue

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“Con il cuore addolorato, a nome della Chiesa ortodossa russa” il patriarca Kirill ha chiesto ai Presidenti di Russia e Ucraina di “compiere ogni sforzo per fermare lo spargimento di sangue”. La richiesta è contenuta in una lettera inviata a Vladimir Putin e Petro Poroshenko di cui dà notizia il servizio d’informazione del patriarcato russo. Occasione è stata la celebrazione svoltasi ieri per i mille anni della morte di san Vladimiro, venerato come “principe pari agli apostoli” perché ha fatto conoscere il cristianesimo alla Rus’ e l’ha battezzata, “ha gettato le basi per l’unità spirituale dei popoli russo e ucraino e ci ha insegnato l’amore cristiano e il perdono”. Così - riferisce l'agenzia Sir - il patriarca chiede “la piena cessazione delle ostilità, la rigorosa osservanza degli accordi di Minsk e l’istituzione di un dialogo diretto tra tutte le parti in conflitto”.

Il pensiero a anziani, bambini e disabili che non possono lasciare le case
Se gli accordi hanno “fermato l’escalation del conflitto e ispirato la speranza in un completo cessate il fuoco tra le parti”, “le operazioni belliche, pur in misura minore, continuano fino a oggi” sottolinea Kirill nel suo messaggio ai due Presidenti, e il cui pensiero va alle persone “particolarmente vulnerabili, anziani, bambini, persone con disabilità” che non “hanno la forza e la possibilità di lasciare le loro case”. Kirill ricorda che “la Chiesa offre tutta l’assistenza possibile alle vittime da entrambe le parti”, attraverso preghiere quotidiane e sforzi incessanti per la pace del metropolita Onufry e di tutta la Chiesa ortodossa ucraina.  (R.P.)

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Usa: Chiesa plaude a rilascio famiglie centroamericane detenute

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La sentenza del 24 luglio dal giudice Dolly Gee della Federal District Court della California dove ordina l'amministrazione Obama di liberare le famiglie fermate in fuga dalle violenze in America Centrale, è stata applaudita da mons. Eusebio Elizondo, vescovo ausiliare di Seattle e presidente della commissione per le Migrazioni della Conferenza episcopale degli Stati Uniti. L'amministrazione aveva avviato una politica di detenzione per queste famiglie (giovani madri con bambini) come un mezzo per scoraggiare altre famiglie di migrare verso gli Stati Uniti.

La sentenza annulla una politica sbagliata e ingiusta di trattamento di queste famiglie
​"Accolgo con favore la decisione della Corte ed esorto l'amministrazione ad agire rapidamente", ha detto il vescovo Elizondo. "Accolgo la decisione, che senza, non farebbe che prolungare una politica sbagliata e ingiusta di trattamento di questa popolazione vulnerabile come criminali". Durante i primi mesi dell’anno, l'arcivescovo Gustavo Garcia-Siller di San Antonio; mons. James Tamayo di Laredo, in Texas; e mons. Elizondo hanno visitato le famiglie al centro di detenzione a Dilley, Texas, per chiedere la fine alla detenzione delle famiglie e l'uso di forme alternative alla detenzione. (C.E.)

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Sacerdoti Usa con i vescovi per dire no alla pena di morte

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L’Associazione dei sacerdoti cattolici degli Stati Uniti (Auscp),  si schiera compattamente con la Conferenza episcopale (Usccb) per chiedere l’abolizione della pena di morte nel Paese. E’ quanto afferma il suo presidente padre Bernard Bonnot che in un comunicato esprime il pieno sostegno nella “preghiera e nella testimonianza pubblica” dei sacerdoti statunitensi alle reiterate prese di posizione dell’episcopato contro la pena capitale.

Il 99% dei sacerdoti con il Papa per l’abolizione della pena capitale
Il comunicato giunge a pochi giorni dalla nota “Per costruire una cultura della vita, la pena capitale deve essere abolita”  diffusa dalla Usccb in occasione del decimo anniversario della campagna contro la pena di morte, lanciata dai vescovi americani nel 2005. Nel documento, firmato da mons. Thomas Wenski dal card. Sean O’Malley, presidenti, rispettivamente, della Commissione per la giustizia e lo sviluppo umano e del Comitato in favore della vita, i presuli auspicavano che nel Paese si smetta di “cercare di insegnare a non uccidere, uccidendo gli assassini”, perché “questo circolo vizioso di violenza sminuisce tutta l’umanità”. Citando la lettera di Papa Francesco del 20 marzo scorso a Federico Mayor, presidente della Commissione internazionale contro la pena di morte i vescovi, hanno ribadito che  “la pena di morte è inammissibile quale che sia la gravità del crimine commesso e che si tratta di un reato contro l'inviolabilità della vita e della dignità della persona umana”. Una posizione pienamente condivisa dai membri dell’Auscp: il 99% in un sondaggio condotto lo scorso aprile ha dichiarato che l’associazione dovrebbe sostenere l’appello di Papa Francesco appoggiando la posizione della Usccb. (A.D. - L.Z.)

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Londra: card. Nichols contro progetto di legge sul suicidio assistito

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Il card. Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, ha fortemente ribadito l’opposizione della Chiesa cattolica inglese alla legalizzazione del suicidio assistito, dicendo che “è una grande bugia cercare di convincere la gente che la vita vissuta con grave malattia non è degna di essere vissuta”. Nell’omelia pronunciata a Lourdes domenica scorsa in occasione della Giornata per la Vita - riferisce l'agenzia Sir - il cardinale è tornato ad affermare che ogni vita umana ha un valore intrinseco, a prescindere dalla condizione di salute o disabilità. 

Il diritto di morire non diventi il dovere di uccidere
Facendo riferimento al progetto di legge presentato da Rob Marris, che mira a rendere possibile, per i malati terminali adulti, la scelta di porre fine alla propria vita con una specifica assistenza medica, il cardinale ha detto: “Questo è il motivo per cui ci opponiamo a chi vuole approvare leggi che assistono il suicidio, dando alle persone il diritto di morire quando vogliono”. Ed ha aggiunto: “non possiamo accettare che il diritto di morire diventi per qualcun altro il dovere di uccidere; dobbiamo avere a cuore la vita e al tempo stesso abbracciare la morte”. (R.P.)

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Bolivia: Chiesa invoca dialogo tra governo e minatori di Potosí

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Lunedì scorso è iniziato il dialogo fra il comitato civico di Potosí e diversi rappresentanti del governo. Benché c’è la disponibilità a risolvere la situazione di conflitto che dura da più di venti giorni, non c’è stato accordo sui principali punti da definire come prima cosa nell’incontro.

Vescovo Potosì chiede un dialogo sincero
La Chiesa nella persona di mons. Ricardo Ernesto Centellas Guzmán, vescovo della diocesi di Potosí - riferisce l'agenzia Fides ha fatto sentire, ancora una volta, la sua voce, chiamando al dialogo sincero: "Siamo convinti che l'unica soluzione possibile per cercare un accordo con il popolo è quello di instaurare un dialogo sincero e immediato, così esorto per amore a Bolivia e a Potosí d'ascoltare la richiesta che promuove l'incontro tra il governo e il popolo, nel contesto del rispetto e della libertà in quanto è sempre possibile in uno Stato di diritto", conclude il comunicato della diocesi. (C.E.)

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Paraguay: incontro in difesa degli indios 'senza contatto'

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La protezione dei popoli nativi "senza contatto" con i bianchi: è questo il tema dell'incontro in corso ad Asunción tra esperti e rappresentanti di organizzazioni indigene di Bolivia, Ecuador, Colombia, Perù e Paraguay. Un confronto - riferisce l'agenzia Misna - al quale partecipano anche esponenti della Cooperazione internazionale spagnola e dell'Ufficio dell'Alto commissario Onu per i Diritti Umani (Acnudu). L'obiettivo è analizzare la situazione delle comunità che vivono nella foresta senza contatti. Saranno valutate le direttive dell'Acnudu per definire strategie regionali che migliorino le politiche attuali e piani di intervento specifici.

Le terre degli Indios occupate dai grandi latifondisti
I popoli nativi abitano tradizionalmente territori oggi spesso a cavallo tra due o più Paesi, motivo per il quale le problematiche devono essere affrontate con un approccio transnazionale. Tra il Paraguay e la Bolivia, ad esempio, vivono gli Ayoreo Totobiegosode, una delle comunità in isolamento volontario maggiormente in pericolo. Survival International, movimento impegnato a sostegno dei popoli indigeni, sostiene che “molti Ayoreo sono stati forzati ad abbandonare le loro terre dalle occupazioni da parte dei grandi allevatori e soffrono a causa di una diffusione sproporzionata di malattie come tubercolosi, diabete e malnutrizione”. I primi contatti con i bianchi possono avere conseguenze drammatiche perché gli Ayoreo non dispongono degli anticorpi adatti a combattere le nuove patologie o perché la foresta, per effetto dei diserbanti diffusi per via aerea, non produce più le erbe che li proteggevano in modo naturale. (S.M.)

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Eliminare uso acqua in bottiglia di plastica per salvare l’ambiente

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Eliminare l’uso dell’acqua in bottiglia nel mondo per i danni che provoca all’ambiente e perché è un ostacolo all’accesso universale all’acqua. E’ la proposta avanzata a un recente incontro a Ginevra dalla Rete ecumenica per l’acqua (Ecumenical Water Network - Ewn), organismo del Consiglio mondiale delle Chiese di cui fanno parte anche rappresentanti della Chiesa cattolica in America Latina e in Africa, da anni impegnato a sensibilizzare i propri membri sull’emergenza legata alle questioni idriche nel mondo.

Un processo di produzione e smaltimento altamente inquinante
L’incontro ha evidenziato l’effetto altamente inquinante del processo di produzione e di smaltimento delle bottiglie di plastica. Invece di essere riciclate, infatti, circa tre quarti di quelle usate finisce nelle discariche, nei corsi d’acqua e negli oceani dove non potranno mai decomporsi completamente. A questo si aggiunge il fatto che spesso i Governi, grazie alla distribuzione di acqua in bottiglia , eludono il proprio compito di costruire reti idriche per fornire acqua potabile alle fasce di popolazione meno abbienti. Nei Paesi più sviluppati, invece, le industrie produttrici hanno progressivamente influenzato le abitudini dei consumatori convincendoli, attraverso campagne di marketing aggressive, che l’acqua imbottigliata è più sicura e più sana di quella del rubinetto.

Il plauso dell’EWN per l’Enciclica di Papa Francesco Laudato si’
Durante la riunione di Ginevra, i responsabili dell’EWN ha anche deciso di lanciare dalla Palestina la sua campagna quaresimale “Sette settimane per l’acqua” (Seven Weeks for Water) del 2016, come “pellegrinaggio di giustizia e di pace a Gerusalemme”. La campagna, che affronta la questione idrica anche sotto l’aspetto del giusto accesso all’acqua, fa anche da sfondo a un incontro sul clima programmato in Egitto. Essi hanno anche ribadito di aver accolto con grande entusiasmo l’enciclica di Papa Francesco “Laudato si’”, plaudendo alla sua “visione profonda” e alla sua particolare attenzione alle questioni relative alla salvaguardia del creato, alle ingiustizie legate all’acqua, al cambiamento climatico e alle conseguenze della perdita della biodiversità. (A cura di Lisa Zengarini)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 210

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.