Logo 50 Radiogiornale Radio Vaticana
Redazione +390669883674 | +390669883998 | e-mail: sicsegre@vatiradio.va

Sommario del 30/07/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Tweet Papa: sposi siano testimoni esemplari. Fragnelli: ascoltare le famiglie

◊  

“La testimonianza più efficace sul matrimonio è la vita esemplare degli sposi cristiani”. E’ il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sull'account Twitter @Pontifex. Già martedì scorso, il Papa – sempre via Twitter – aveva incoraggiato i giovani a non aver paura di sposarsi. Il servizio di Alessandro Gisotti

L’attenzione del Papa per la famiglia non va in vacanza. Negli ultimi tre giorni, Francesco ha utilizzato due volte Twitter per sottolineare la centralità del matrimonio e della famiglia nella vita della Chiesa e della società. Tweet che, anche in un periodo dedicato al riposo e al divertimento, ricordano quanto la famiglia – protagonista del prossimo Sinodo di ottobre – stia a cuore al Papa. E che si connettono in particolare con i giovani, che comunicano sempre più attraverso Twitter e i Social Network. Del resto, al tema specifico del matrimonio il Pontefice ha dedicato due udienze generali, il 29 aprile e il 6 maggio. Nella prima ha messo in particolare l’accento sul capolavoro rappresentato dal matrimonio, in cui si riflette l’amore infinito di Dio. Al tempo stesso, Francesco non ha mancato di soffermarsi sulle difficoltà che oggi si incontrano a causa della “cultura del provvisorio”.

La Chiesa ha bisogno della fedeltà degli sposi
Di fronte  a tanti giovani che “non se la sentono di sposarsi”, è la sua esortazione, la Chiesa deve interrogarsi e cercare vie per ridare fiducia in un “progetto” di un “legame irrevocabile”. Nella catechesi del 6 maggio, il Papa si è invece soffermato sulla bellezza del matrimonio. “E’ commuovente e tanto bella – ha detto – questa irradiazione della forza e della tenerezza di Dio che si trasmette da coppia a coppia, da famiglia a famiglia”. Ancora, Francesco ha evidenziato che “la Chiesa ha bisogno anche della fedeltà degli sposi alla grazia del loro sacramento”. Parole che richiamano il tweet di oggi in cui il Papa ricorda che la “testimonianza più efficace sul matrimonio è la vita esemplare degli sposi cristiani”. Un’affermazione su cui abbiamo raccolto il commento di mons. Pietro Maria Fragnelli, vescovo di Trapani e presidente della Commissione Cei per la famiglia:

R. – Sembra molto bello che il Papa ci inviti a guardare a quella realtà di sposi cristiani che con la loro vita mettono in fuga le grandi paure che sono o culturali o psicologiche che in genere vengono alimentate anche nel nostro tempo. Ricordo la catechesi di fine giugno del Papa, quando diceva che non mancano, grazie a Dio, coloro che sostenuti dalla fede e dall’amore per i figli testimoniano la loro fedeltà a legami nei quali hanno creduto per quanto appaia a volte impossibile farli rivivere. Il Papa insiste su questa dimensione della efficacia della testimonianza e credo sia quello che viene domandato oggi, perché quando si dice che i giovani non hanno più punti di riferimento, sostanzialmente si dice questo: che mancano testimoni che siano capaci di parlare senza parole ma con la loro vita sia nel campo pedagogico, nella scuola, nel campo della giustizia, nel campo della qualità delle relazioni, della capacità di creare gerarchie di valori credibili all’interno della vita di coppia e della vita di famiglia.

D. – I cristiani, ha detto Francesco in una catechesi dedicata proprio al matrimonio, “non si sposano solo per se stessi, si sposano nel Signore in favore di tutta la comunità, dell’intera società”...

R.  – Sicuramente, l’efficacia significa proprio rendere possibile il dono della vita che va ben al di là della famiglia stessa. La famiglia ha una funzione generatrice di vita e di speranza che raggiunge tutto il tessuto sociale. Noi ci accorgiamo molto bene di come le problematiche sociali a cui assistiamo sono in difficoltà fino a quando non ci sono famiglie che decidono di custodire il loro amore all’interno di loro ma anche trasmettere alla società nella quale vivono quel lievito, quel fermento, energie nuove per la società.

D. – La Chiesa, ha affermato il Papa, “è pienamente coinvolta nella storia di ogni matrimonio cristiano, si edifica nelle sue riuscite e patisce nei suoi fallimenti”. Questo è molto importante anche in vista del prossimo atteso Sinodo?

R. - Il Papa ci offre due criteri. Ci dice che bisogna guardare la realtà delle famiglie con lo sguardo di Dio che non smette di guardare con amore, e amore misericordioso, ogni situazione. E inoltre sollecita tutta la Chiesa, le nostre Chiese locali, le parrocchie, ma direi ogni battezzato, a mettersi accanto e quindi anche in silenzio ad ascoltare; o saper stare avanti e quindi aprire piste, trainare le situazioni anche quelle difficili; oppure stare dietro con umiltà, incoraggiando, spingendo, sostenendo nelle difficoltà che le famiglie non riescono a risolvere da soli. E questo significa un cambiamento di mentalità, un cambiamento di cultura che non va nella direzione dell’individualismo ma va nella direzione della solidarietà, della condivisione piena che il Vangelo genera nel cuore umano e rende possibile queste testimonianze efficaci, come ha detto oggi, di vita esemplare degli sposi cristiani. Tutto questo non è un sogno, è possibile. Il Papa ci invita ad avere cuore grande, l’occhio aperto sulle situazioni che sono in cammino e sulle situazioni che hanno bisogno di essere accompagnate perché riprendano il cammino.

inizio pagina

Oggi su "L'Osservatore Romano"

◊  

Potenti e senza potere: Víctor Manuel Fernández sulle radici della crisi ecologica nella "Laudato si'".

Paraguay a testa alta: l'ambasciatore presso la Santa Sede Esteban Kriskovic sul recente viaggio del Papa.

Lucetta Scaraffia sul ritorno dell'Anticristo in un libro di Marco Vannini.

All'origine degli Esercizi spirituali: Carlos Coupeau Dorronsoro sui cinquecento anni di cammino ignaziano.

Romanico e contemporaneo a braccetto: Josep M. Soler sulle opere di Sean Scully nella chiesa di Santa Cecilia di Montserrat.

inizio pagina

Oggi in Primo Piano



Oltre 100 milioni i cristiani perseguitati. Caritas: silenzio preoccupante

◊  

Sono oltre 100 milioni i cristiani vittime di discriminazioni, persecuzioni e violenze messe in atto da regimi totalitari o seguaci di altre religioni. E’ quanto denuncia un dossier della Caritas italiana intitolato “Cristiani perseguitati: tra terrorismo e migrazioni forzate”. Ce ne parla Sergio Centofanti

Solo in Corea del Nord ci sono tra 50 e 70 mila cristiani in campi di detenzione. Poi ci  sono la Somalia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, il Sudan, l’Iran e altri Paesi dove migliaia di cristiani subiscono i più vari tipi di persecuzione. Dal novembre 2013 al 31 ottobre 2014, si calcola  che i cristiani uccisi per ragioni strettamente legate alla loro fede siano stati oltre 4.300, mentre le chiese attaccate per la stessa ragione sono state più di mille. Si assiste, spesso nel silenzio della comunità internazionale, a un preoccupante aumento dell’intolleranza che colpisce molte altre minoranze religiose ed etniche. Il dossier vuole dare voce alle testimonianze silenziose dei tanti cristiani che continuano a custodire la fede a rischio della propria vita. Forte l’impegno della Caritas Italiana a sostegno dei cristiani perseguitati, in particolare in Iraq, dove l’aiuto concreto raggiunge anche la minoranza yazida. Il dossier evidenzia come spesso le cosiddette guerre di religione nascondano precisi interessi politici ed economici, mentre tanti fatti testimoniano l’aiuto reciproco tra la gente semplice, cristiani e musulmani  che rischiano la pelle per salvare una persona di fede diversa: perché è un uomo, una donna, un bambino.

Sugli impressionanti numeri di questo dossier sui cristiani perseguitati, ascoltiamo il commento di mons. Francesco Soddu, direttore della Caritas Italiana, che lo scorso ottobre ha visitato il campo profughi ad Erbil in Iraq. l'intervista è di Marina Tomarro

R. – Questi dati naturalmente destano in noi grande preoccupazione e richiamano quella che è la responsabilità dei governi come anche delle persone: non si può rimanere indifferenti!

D. – Papa Francesco mette spesso in evidenza il silenzio intorno a queste vittime. In che modo si può andare oltre questo silenzio?

R. – Innanzitutto con una buona informazione. Il fatto che i dati sulla persecuzione dei cristiani vengano taciuti oppure non venga data loro una giusta risonanza, per noi è già un qualcosa di preoccupante. Per quanto riguarda i cristiani è una responsabilità che va a toccare quella che è la comunione, che deve essere sempre tessuta tra confratelli, tra Chiese sorelle. E’ quanto ci è stato chiesto da loro: nella visita che abbiamo fatto qualche mese fa ad Erbil, ciò che ci veniva chiesto era, appunto, di non essere dimenticati! Perché se al grande dolore della persecuzione, si aggiunge anche quello dell’essere dimenticati dai confratelli, si va veramente alla deriva. Questo è quello che noi non vogliamo!

D. – La Chiesa cosa può fare per aiutare questi fratelli?

R. – Non nascondere questi dati, tenerli sempre vivi, accompagnarli con la preghiera, con la solidarietà, dando loro un giusto risalto nella formazione dei ragazzi e dei giovani, di modo che tutto ciò che si può fare venga fatto. Per quanto riguarda la nostra comunità, anzitutto la solidarietà, perché molti soffrono anche la fame… Il vescovo di Erbil, mons. Warda, ci ricordava che sarà necessario provvedere anche al cibo di queste persone, che nella sua diocesi sono oltre un milione. Quindi l’attenzione alla solidarietà, anche quella più banale, quella cioè del contribuire affinché queste persone possano avere un pasto quotidiano, è molto importante. In secondo luogo contribuire anche attraverso la collaborazione nella costruzione delle case, nella costruzione delle scuole di modo che da quei luoghi possano andar via il minor numero possibile di persone.

D. – Le istituzioni, dal canto loro, cosa dovrebbero fare?

R. – Quello che è nella elementarità del dato richiesto: fare in modo che i diritti fondamentali delle persone – i diritti fondamentali! – vengano rispettati, non solo riconosciuti e messi nei documenti.. Questo semplicemente non basta! E’ come se volessimo appendere un quadro in aria, che poi non è visibile da nessuno: non regge la descrizione che se ne fa … così come non regge la Dichiarazione dei diritti universali, se questi non vengono fatti rispettare.

inizio pagina

Appello dei Francescani ai pellegrini: non abbandonate la Terra Santa

◊  

Non c’è alcun “ragionevole motivo” per non organizzare un pellegrinaggio nei Luoghi Santi: la sicurezza nei Santuari e nelle zone frequentate dai fedeli “è garantita”. Lo sottolinea padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, di fronte ad un “drammatico calo” dei pellegrinaggi nei luoghi di Gesù, a causa - prosegue - “della paura ingenerata dalle guerre in Medio Oriente e dagli attentati perpetrati da gruppi fondamentalisti che hanno insanguinato anche i Paesi d’Occidente”. In un appello affidato alle pagine di Terrasanta.net, il religioso francescano evidenzia come solo dall’Italia, nell’ultimo anno, ci sia stata una diminuzione stimata in “oltre il 40%”. A nome delle comunità cristiane che vivono in Israele e Palestina si esorta dunque i pellegrini a non abbandonare la Terra Santa e a visitarla. Della situazione nella regione parla padre Ibrahim Faltas, economo della Custodia di Terra Santa, intervistato da Giada Aquilino

R. – E’ la prima volta, dopo tantissimi anni, che i pellegrini hanno paura di venire qui, nonostante la situazione sia tranquilla e non ci siano problemi. Stiamo vivendo veramente un momento molto difficile, perché i pellegrini in giro sono pochissimi. Questo ci danneggia molto, soprattutto i nostri cristiani: perché il 90 per cento dei cristiani locali in Terra Santa lavora nel settore del turismo.

D. – Questo calo dei pellegrinaggi in Terra Santa può essere legato alle tante crisi che sconvolgono il Medio Oriente?

R. – Sì, ci sono problemi in tutto il Medio Oriente, in Siria, in Iraq, in Egitto, in Yemen, in Libia, ma la Terra Santa è tranquilla. Forse la gente, i pellegrini pensano che sia così in tutto il Medio Oriente e quindi anche in Terra Santa, ma davvero da noi la situazione è buona. Non c’è mai stato un problema con un pellegrino, un turista.

D. – In particolare, dall’Italia si stima un calo del 40% dei pellegrinaggi. Avete fatto appello alle Chiese particolari, alle diocesi, alle parrocchie a non abbandonare la Terra Santa?

R. – Abbiamo fatto un appello, rivolgendoci a tutti i nostri amici - vescovi, sacerdoti, parroci – perché i pellegrini non rinuncino alla Terra Santa. L’Italia contava il gruppo più numeroso di pellegrini. Adesso, in giro, non si trovano italiani, non ci sono. In genere, dal mese di agosto al mese di ottobre, non si trovavano stanze negli alberghi per quanti italiani c’erano. Ora non è più così.

D. – Lei ha detto che i pellegrinaggi sono da sempre un sostegno concreto ai cristiani di Terra Santa. Adesso come vivono in questa condizione?

R. – Vivono male. Quelli che avevano messo soldi da parte, li stanno spendendo tutti. I cristiani che lavorano negli alberghi, nei ristoranti, nei negozi di souvenir e cose di questo tipo si lamentano. Stanno tutti male. E c’è da dire che durante la Seconda Intifada – che ho vissuto - gli italiani venivano più di adesso.

D. – Ma come vi spiegate che dall’Italia ci sia un calo così vistoso?

R. – Non so. Per la paura, per la crisi, perché mancano i soldi. Ma se fosse per paura, dico a tutti: “Vincete la paura! In Terra Santa non c’è da averne”.

D. – C’è il pericolo che in questa situazione i cristiani abbandonino quelle zone, come già successo?

R. – Certo. Questa è la nostra paura, la nostra preoccupazione, perché quando la gente non lavora, scappa, va via. Durante la Seconda Intifada venivano pellegrini, veniva gente, anche se non era molta: e ciò nonostante sono andate via 3 mila persone da Betlemme e anche 3 mila cristiani da Gerusalemme. Non vogliamo che i Luoghi Santi rimangano senza cristiani locali. Io dico sempre loro che rimanere in Terra Santa è una sfida, una vocazione, un messaggio per tutto il mondo. Noi, come Custodia, stiamo facendo di tutto per far restare i cristiani in Terra Santa: abbiamo quasi duemila posti di lavoro per i nostri cristiani in Palestina e in Israele. Abbiamo costruito case, scuole, abbiamo fatto tutto il possibile.

D. – Tra l’altro i Luoghi Santi nel tempo sono stati fatti oggetto anche di atti vandalici. E’ delle ultime ore la notizia che i due sospetti dell’incendio alla chiesa della Moltiplicazione dei pani e dei pesci siano stati ufficialmente accusati dalle autorità giudiziarie di Nazareth…

D. – Succede tutto questo, come una persecuzione. Per questo dico: vivere in Terra Santa è veramente una sfida, una sfida per tutti, ma anche un vocazione. Dobbiamo rimanere in questa terra.

inizio pagina

Siria: peggiora crisi umanitaria. Mons. Khazen, “No a zona cuscinetto”

◊  

Nuove violenze si registrano nelle aree di crisi del Medio Oriente. Attentati e combattimenti in Yemen, Iraq, Siria e Libia che vedono coinvolti i miliziani del sedicente Stato Islamico. Intanto continuano i raid della coalizione a guida Usa sulle roccaforti jihadiste, mentre stamane tre soldati turchi sono stati uccisi dai curdi del Pkk. In questo caos arriva l’ennesimo allarme del segretario Onu Ban Ki-moon, secondo il quale la crisi siriana continua a deteriorarsi in tutti gli aspetti. Per una testimonianza della situazione in Siria Marco Guerra ha intervistato il vicario apostolico di Aleppo mons. Georges Abou Khazen: 

R. – In città, la situazione continua ad essere come prima, non c’è sicurezza, tra colpi di mortaio e bombardamenti. Dal punto di vista, però, della vita quotidiana, ci sono miglioramenti per l’acqua e la luce. Non è, comunque, una situazione sicura; ancora non è finita - non c’è sicurezza, non c’è calma – e la gente ha paura di quello che sta succedendo e di quello che potrebbe accadere. Adesso, ha paura soprattutto della confusione che creerà la Turchia. Speriamo di no.

D. – Sì, infatti la Turchia vuole creare una zona cuscinetto tra la Siria e i suoi confini, per espellere i miliziani dello Stato islamico da queste aree…

R. – Noi abbiamo paura di questo: che con la scusa dell’Is, la Turchia abbia tutta un’altra intenzione, tutto un altro progetto. Noi sappiamo bene che i miliziani dell’Is arrivano in Siria e in Iraq attraverso la Turchia. E’ molto più facile, quindi, per la Turchia, invece di combattere, impedirgli di entrare: non addestrarli più, non far arrivare più le armi. Quindi, noi non vogliamo che aumenti il caos, che la guerra entri in Turchia. Noi vogliamo, piuttosto, sempre più restringere queste ostilità e non incrementarle. Invece facendo pressione sui curdi, i curdi faranno pressione su altri e così via. E’ tutta una catena, purtroppo, di morte, di aggressioni e di violenza e noi non vogliamo questo. Abbiamo detto, invece, di creare non solo zone di sicurezza, ma di rendere tutto il Paese sicuro. Perché non fare pressione sulle parti per fare la pace, per dialogare insieme?

D. – Voi non auspicate quindi una zona cuscinetto, volete la pace per tutto il Paese…

R. – Vogliamo la pace per tutto il Paese! Noi siamo contrari ad una sorta di divisione. Ce ne sono già abbastanza: divisioni tra gruppi etnici, tra gruppi religiosi, nel territorio. Non vogliamo aumentare questa confusione. Perché non si fa pressione sulle parti per stare insieme e dialogare?

D. – C’è ancora lo spazio e un margine per il dialogo?

R. – Sicuro, perché la gente è stanca, la gente non vuole saperne più della guerra: la gente vuole vivere in pace, tutti i siriani, sia quelli che sono in Siria, sia i profughi che, poveretti, sono fuori. Purtroppo, la maggioranza assoluta dei combattenti sono stranieri, non sono siriani.

D. – Quindi, il primo obiettivo, secondo lei, deve essere: impedire ai combattenti stranieri di arrivare in Siria…

R. – Certo, e anche di non addestrarli, di non dargli armi. La guerra è cominciata fra le parti e le fazioni siriane, ma pian piano ha preso tutto un altro aspetto, ha preso un aspetto radicale e jihadista, cosa che ha attirato questi combattenti dall’estero. La Siria ha vissuto finora con 23 differenti gruppi etnici e religiosi e vivevano tutti insieme in armonia, era un bel mosaico.

D. – La comunità cristiana, quindi, di Aleppo come sta vivendo questi ultimi tempi?

R. – La gente che ha potuto ha lasciato e finora chi può, sta continuando a lasciare la città. Nonostante tutto, però, nonostante le difficoltà, la sofferenza, i cristiani vivono anche la loro vita normale, per quello che è possibile, e soprattutto la loro vita cristiana, compiendo i loro doveri religiosi, mandando i bambini all’oratorio, al catechismo e alle varie attività. E’ una grande consolazione, veramente, e una cosa che commuove: vivono in pace tra tutte le altre comunità nel territorio siriano; vivono con i musulmani di tutte le denominazioni e con altri. Loro quindi possono giocare un ruolo per avvicinare tutte le altre comunità e non solo: essere un mezzo di pace, di pacificazione e di conciliazione.

inizio pagina

Francia-Iran, Fabius a Teheran: al via la distensione

◊  

Si è svolta ieri la visita di Stato del ministro degli Esteri francese Laurent Fabius in Iran, la prima per un rappresentante dell’Esagono dal 2003. A due settimane dalla firma dell’accordo sul nucleare, Parigi preme per ristabilire buone relazioni con un partner commerciale importante, lasciandosi alle spalle decenni di incomprensioni. Un auspicio confermato dal presidente iraniano Rohani, che visiterà la Francia il prossimo novembre. Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies, spiega l’importanza di questo momento al microfono di Giacomo Zandonini

R. – Questa è una visita che si inserisce nel solco del pragmatismo francese, che ha sempre caratterizzato le relazioni tra Iran e Francia. Parigi è sempre stata animata da una politica sostanzialmente anti-iraniana e filo-araba, senza tuttavia mai disprezzare le opportunità economiche che l’Iran, a più riprese, ha offerto all’industria francese. In quest’ultima fase del negoziato, in particolar modo, si era registrata una politica di netta chiusura da parte della Francia, soprattutto in virtù dei rapporti con l’Arabia Saudita, quindi della richiesta da parte dell’Arabia Saudita di boicottare in ogni modo il processo negoziale conclusosi a Vienna. La Francia aveva, da questo punto di vista, ottemperato alla richiesta, lasciando tuttavia intendere agli iraniani che, qualora il negoziato fosse andato in porto, la Francia avrebbe comunque manifestato interesse nella prosecuzione delle relazioni commerciali. Quindi, questo viaggio è sostanzialmente la conclusione di questo strano pragmatismo francese. La Francia, dopo aver boicottato sistematicamente il negoziato, si presenta a Teheran per battere cassa. Va a battere cassa chiedendo sostanzialmente una grossa fetta dell’industria automobilistica iraniana e una buona parte dei programmi relativi alla telefonia mobile nel Paese.

D. – Sembra che ci siano disponibilità da parte dell’Iran, per lo meno a livello formale, a migliorare le relazioni con il Paese…

R. – È sicuramente nell’interesse dell’Iran quello di aprire alla Francia e quindi di riconquistare la Francia nel novero degli alleati politici ed economici, perché questo significa sottrarli alla rete di influenza dei Paesi rivieraschi del Golfo, soprattutto le monarchie: quella saudita, degli Emirati Arabi Uniti. Che tuttavia le relazioni politiche della Francia riprendano a navigare a gonfie vele con l’Iran - come fu in passato - credo che non sarà possibile, almeno nell’immediato.

D. – Il rapporto, in passato per lo meno, privilegiato di Israele con la Francia ha pesato anche sui negoziati: cosa sta succedendo adesso?

R. – Sicuramente Israele ha una grande capacità di influenza sull’esecutivo francese, e sicuramente la Francia ha adottato molte delle linee indicate da Tel Aviv nell’ambito della sistematica opposizione al negoziato esercitata dai francesi. Credo tuttavia che la maggiore capacità di influenza rimanga quella saudita. Pesano nel rapporto tra Parigi e Tel Aviv alcune divergenze, non di poco conto, su alcuni dossier delicati – soprattutto in relazione ai rapporti con i palestinesi, ad Hamas e quant’altro… E quindi credo che in quest’ambito la politica francese tenda a mantenere un profilo di indipendenza che, sebbene sia alimentato da interessi economici, sia meno premiante rispetto a quello che invece la lega a Riyad.

D. – Per quanto riguarda l’area, attraversata da grandi conflitti, da più parti è arrivata la speranza che questo accordo possa portare una maggiore stabilità. Un ruolo francese nell’area, anche a livello di strategia geopolitica, esiste?

R. – Nell’ambito di questo contesto regionale il ruolo della Francia è marginale. La Francia ha interessi essenzialmente economici, molto blandi da un punto di vista politico, e ancor più blandi da un punto di vista militare. Il grosso del ruolo francese si limiterà ad una presenza economica, con una scarsa capacità politica di esercizio della politica estera e soprattutto con una quasi nulla ormai capacità di spinta militare nell’ambito di quelle che sono poi le principali operazioni in corso nell’area e soprattutto quelle di lotta al fenomeno del terrorismo.

D. – La visita di Fabius arriva poi subito dopo la visita della rappresentante della politica estera dell’Unione Europea, Mogherini: è un gesto isolato quello della Francia rispetto alla comunità europea?

R. – No, di fatto ognuno dei grandi Paesi europei si sta organizzando per attivare il proprio rapporto bilaterale con l’Iran. C’è in questo momento una spinta molto veloce e concreta nel riportare a Teheran delegazioni politiche e commerciali. Quelle della Francia è senz’altro una delle più importanti dal punto di vista della composizione, ma non è né la prima né sicuramente sarà l’ultima. Ci saranno nel corso delle prossime settimane una serie di ulteriori visite, e credo che prima della fine dell’estate la gran parte dei Paesi avrà non solo visitato Teheran, ma anche discusso su come riaprire a Teheran una missione centralizzata di rappresentanza dell’Unione.

inizio pagina

Scola: proposta per un'accoglienza degli immigrati che vinca la paura

◊  

“Un’accoglienza diffusa, fatta di piccoli gruppi, in ognuna delle 1107 parrocchie della Diocesi di Milano”. A promuovere questo modello di ricezione dei profughi sul territorio è stato ieri il card. Angelo Scola, arcivescovo di Milano, durante la sua visita a “Casa Suraya”, centro di accoglienza profughi sorto nel giugno 2014 nel capoluogo lombardo per iniziativa della Caritas Ambrosiana e delle Suore della Riparazione. “I parroci parlino con i fedeli per superare paure comprensibili ma che non portano da nessuna parte” ha aggiunto il porporato. Ascoltiamolo, al microfono di Fabio Colagrande: 

R. – Ci siamo resi conto che tanta paura per l’arrivo dei profughi, che può essere umanamente comprensibile, viene talora da una concentrazione eccessiva di persone in una struttura. Pensando alla capillarità delle nostre più di 1.100 parrocchie abbiamo visto che l’idea di distribuire in ognuna di esse quattro o cinque persone, mandando prima gli incaricati dei canali regionali della Caritas a spiegare al consiglio pastorale cosa significa questo - perché è importante - e mantenendo alla Caritas la responsabilità attraverso le sue cooperative di gestione, può essere davvero una soluzione positiva. Anche perché è un modo per far vedere che il problema dell’immigrazione - che non è più un’emergenza ma è e sarà sempre più strutturale - può diventare lentamente un fattore di educazione reciproca e un principio di civiltà sana. Vedo che talune parrocchie stanno già rispondendo. Penso che possa essere un modello da prendere in considerazione da parte di tutti.

D. – Fra i cittadini italiani, lo abbiamo visto nelle settimane scorse, c’è però molta paura nei confronti dell’arrivo di così tanti profughi soprattutto in un periodo di grave crisi economica. E’ una paura giustificata?

R. – La paura per un verso è sempre giustificata perché nasce da un disagio obiettivo. E’ evidente che allargare le braccia per tanti anni, soprattutto come Chiesa, come buon samaritano, a tutta questa gente che passa calvari terribili per arrivare qui - come ho potuto sentire a Casa Suraya - è un’attività che scomoda, mette in gioco, domanda qualcosa di diverso, di più, domanda a noi cristiani quella condivisione del bisogno che Gesù ci ha sempre insegnato. Quanto al fatto che questo appesantisca i problemi strutturali di fatica e difficoltà che stiamo attraversando in questo tempo di grande cambiamento, lì bisogna che gli uomini delle istituzioni, che hanno una funzione di guida nei corpi intermedi, spieghino bene che ci sono aspetti che vanno valutati oggettivamente. Per esempio, gli esperti dicono che non è vero che un’accoglienza fatta bene sottragga lavoro ai nostri. Certo, in un tempo di fatica e disagio fare spazio a questi fratelli e sorelle che sono nel bisogno implica sacrifici, questo è vero. Però io credo che non soltanto noi cristiani ma tutti i cittadini seri e spalancati al senso della solidarietà e della comunità non possano non farsi carico di situazioni che hanno implicato e implicano tragedie  terribili.

D. – Eminenza, lei ieri ha appoggiato anche la proposta di corridoi umanitari per i richiedenti asilo, per evitare le stragi che continuano in questi mesi…

R. – Esatto. Evidentemente mi rendo conto che ci sono componenti tecniche non facili per realizzare un tipo di strumento di questo genere che è riferito a coloro che hanno diritto all’asilo. Io credo che, se anche all’apparenza può sembrare una soluzione di “lusso”, forse, meditandoci bene può essere una delle indicazioni più sagge. Certo, questo domanda che l’Europa faccia un salto di qualità e questo è il nostro grande problema: cioè, tutto questo ci conduce a dire che l’Europa deve ritrovare quel senso potente della comunione delle culture, delle esperienze, con cui i nostri grandi padri fondatori hanno cominciato questo progetto. E’ vero: anche loro, hanno cominciato dal carbone  e dall’acciaio, perché si deve cominciare dalle cose concrete. Però poi bisogna animarle dall’interno con un’offerta di senso, di significato e di direzione di cammino di cui tutti i cittadini europei hanno bisogno.

 

inizio pagina

Grazia a 7000 detenuti in Birmania: a novembre le elezioni

◊  

In Birmania, concessa la grazia presidenziale a quasi 7.000 prigionieri, tra cui alcuni ex funzionari dei servizi segreti militari. Il ministero dell'Informazione spiega sul suo sito web che 6.966 prigionieri, tra cui 210 stranieri, saranno liberati da varie prigioni in tutto il Paese "per motivi umanitari e in vista della  riconciliazione nazionale". Le decisioni del presidente Thein Sein arrivano in occasione di una importante festa religiosa buddista e soprattutto in vista delle elezioni generali di novembre. Fausta Speranza ne ha parlato con la studiosa di Sudest asiatico Cecilia Brighi, segretario generale di "Italia-Birmania Insieme": 

R. - Le elezioni sono sicuramente uno dei motivi principali per cui il presidente Thein Sein ha deciso la liberazione di quasi 7 mila detenuti. Aveva già deciso in passato – doveva essere entro la fine nel 2013 – di liberare  tutti i prigionieri politici: in realtà, ancora adesso, non è chiaro se tra questi quasi 7 mila detenuti vi siano i 163 prigionieri politici ancora in carcere. Questo non è molto chiaro… Tradizionalmente in vista delle elezioni la Giunta militare ha fatto una serie di amnistie, e ora anche l’attuale governo. Questo serve per sciogliere un po’ le tensioni, per far vedere che c’è una disponibilità, una buona volontà nei confronti della popolazione. Ma soprattutto questa liberazione è servita anche a mascherare il fatto che tra i detenuti liberati ci sono 155 cinesi, condannati a lunghissimi anni di carcere - 153 addirittura all’ergastolo e 2 a pene di oltre 10 anni - per traffico di legname nel Nord della Birmania. Questa condanna, che era stata definita recentemente, aveva causato una presa di posizione diplomatica molto dura della Cina nei confronti della Birmania. C’è, però, anche da dire che le nuove norme sul traffico illegale di legname sono molto severe… Per anni, essendo il confine tra la Birmania e la Cina molto poroso, c’è stato un enorme traffico non solo di legname, ma anche di giada e la giada birmana è la migliore giada al mondo. Probabilmente, quindi, l’amnistia è servita soprattutto, su pressioni della Cina, per liberare questi detenuti.

D. – Diciamo qualcosa di queste prossime elezioni?

R. – Le prossime elezioni rappresentano una scadenza molto importante per la Birmania, perché sono la cartina di tornasole del cambiamento politico che la Birmania dice di aver fatto. Oggi Aung San Suu Khy ha registrato il suo partito per le elezioni in una circoscrizione agricola… Quindi le elezioni rappresenteranno sicuramente la verifica del comportamento più o meno corretto di questo nuovo governo semi-civile e non più militare. Ricordo che il 25 per cento dei seggi del Parlamento viene dato su nomina dei militari a militari: quindi i militari sono l’elemento chiave per la presa di decisioni importanti, come appunto il cambiamento della Costituzione. Il mese scorso si sono votati alcuni emendamenti che avrebbero permesso una leggera modifica della Costituzione, ma i militari si sono imposti; si sono imposti anche rispetto alla disponibilità al cambiamento costituzionale del partito di governo ed hanno così impedito questi cambiamenti.

D. – Da tempo parliamo di apertura del Paese, del processo verso una possibile democratizzazione del Paese: che tappa vediamo in questo momento?

R. – Ci sono molte contraddizioni - a mio avviso – e prima fra tutti quella dei negoziati per la pace con le organizzazioni militari degli stati etnici che non stanno andando avanti. Ci saranno nuovi incontri all’inizio di agosto e ovviamente tutti sperano che si arrivi ad un accordo nazionale di cessate-il-fuoco prima delle elezioni.

inizio pagina

Rapporto Svimez: economia Sud Italia peggiore della Grecia

◊  

Per il settimo anno consecutivo il Prodotto interno lordo del Sud Italia è negativo. E’ quanto emerso oggi nella presentazione del rapporto Svimez, secondo cui il divario di Pil procapite tra le regioni del Sud e quelle del Centro-nord è tornato ai livelli del 2000, mentre a livello europeo l'economia del Sud, tra il 2001 e il 2004, ha fatto registrare un andamento peggiore a quello della Grecia. Il servizio di Elvira Ragosta

E’ un Paese sempre più diviso e diseguale l’Italia fotografata dal "Rapporto Svimez 2015" sull’economia del Mezzogiorno, con un Sud che scivola sempre di più nell’arretramento. Il 2014 si è chiuso col segno meno per il Pil di tutte le regioni italiane, ma è di oltre un punto percentuale il divario tra il Prodotto interno lordo delle regioni del Centro-nord, -0,2%, rispetto a quelle del Mezzogiorno, -1,3%. Gli effetti della crisi al Sud si fanno sentire con prepotenza: una persona su 3 è a rischio povertà, il 62% guadagna meno di 12mila euro l’anno e il tasso di occupati nel 2014 nel Mezzogiorno è sceso ai livelli del 1977, con segnali di piccolo miglioramento solo nell’ultimo periodo dello scorso anno e a pagare di più, anche in questo settore, sono le donne e i giovani. Sono tre milioni e mezzo, infatti, i giovani che non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione. E incrociando i dati a livello europeo, se dal 2008 al 2013 il Pil è aumentato del 3,6% nell’area Euro, la valutazione a parità di potere d’acquisto vede una crescita al Sud Italia equivalente solo a un quinto di quella delle regioni deboli dei nuovi Stati membri dell’Unione. La riflessione di Adriano Giannola, presidente della Svimez:

R. – È un problema italiano, anche delle regioni del Nord. Le regioni del Nord stanno meglio, ma stanno molto male. Il Mezzogiorno è l’emergenza! Il problema è una strategia nazionale di ripresa dello sviluppo, e in questo il Mezzogiorno ha fortissime potenzialità che da solo non potrà mai sviluppare. Purtroppo oggi non vediamo nessun disegno, nessuna strategia. Ci vuole una politica! Ci sono i fondi strutturali, che devono essere orientati rispetto a degli obiettivi e integrati alle opportunità: le opportunità per il Mezzogiorno sono i suoi vantaggi comparati in termini di energie alternative, di economia verde, della logistica a valore... Ora, queste non sono "cose meridionali": sono cose che l’Italia o le utilizza o perde.

D. – I dati sono preoccupanti soprattutto per le donne, i giovani, che soffrono maggiormente la crisi nel Sud Italia. Allora, che consiglio dare ai giovani soprattutto, sia a quelli che lasciano le Regioni meridionali sia a quelli che vi fanno ritorno dopo magari un periodo di studio o di lavoro fuori?

R. – Il dramma è che c’è un effetto selettivo: chi lascia è chi può lasciare, e in genere è di un certo ceto sociale, di una certa educazione; e non è un problema di mobilità. La mobilità è un grande valore, ma se c’è un’andata e un ritorno, e se magari c’è anche qualche andata dal Nord che viene al Sud. Io sfido chiunque a dire che questi fenomeni, ai quali assistiamo da dieci anni - 600.000 giovani saldo netto di emigrazione, 50% laureati: questi non tornano se possono! Poi, se saranno disperati anche al Nord forse torneranno, ma il dramma è questo! E se intanto poi stiamo smantellando le università e se favoriamo questi processi senza creare alternative per un rientro o per non farli partire, non diamo opportunità a nessuno di restare.

inizio pagina

Ad Avezzano il Meeting nazionale dei giovani orionini

◊  

Sono oltre 150 i ragazzi provenienti da tutta Italia, che da ieri pomeriggio ad Avezzano partecipano al Meeting nazionale dei giovani italiani promosso dalla Pastorale Giovanile Vocazionale Orionina. L’incontro, che porterà i giovani in diverse zone dell’Abruzzo, si concluderà domenica prossima. Ascoltiamo don Sylwester Sowizdrzal, consigliere generale della congregazione e incaricato internazionale per la Pastorale Giovanile al microfono di Marina Tomarro: 

R. – Il tema comincia con un hashtag “Nec frangar nec flectar”, che allude alle parole di San Luigi Orione; significa che non mi lascerò né schiacciare né piegare. E quindi i giovani orionini che si incontrano quest’anno a Marsica vogliono dare un loro sì di adesione ai valori, perché abbiamo capito che senza valori non si va avanti. E quindi il sottotitolo che si è dato a questo incontro è questo: “Per essere rivoluzionari, per andare controcorrente, per rifiutare la cultura del provvisorio, per essere capaci di amare veramente”. I giovani orionini da alcuni anni stanno lavorando su questi temi dei valori, hanno capito che se si vive secondo i valori si può raggiungere la felicità nella propria vita.

D. – Perché avete deciso di fare il Meeting nel territorio della Marsica?

R. - Unendo questo tema dei valori agli anniversari che stiamo vivendo nella famiglia orionina, cioè il 75.mo della morte di don Orione, il centenario della Fondazione delle Piccole Suore Missionarie della Carità, insieme al centenario del terremoto della Marsica, in cui San Luigi Orione ha svolto un ruolo importantissimo, si è deciso di fare questo Meeting quest’anno nei luoghi dei terremoti, sia del terremoto della Marsica nel 1915 sia anche nei luoghi del terremoto dell’Aquila del 2009. E adesso in questi giorni il Meeting si svolgerà proprio in questi posti, a partire da Avezzano, e dall’Aquila, dove le gru sporgono e regnano ancora sopra tutta la città. E quindi, seguendo questi segni, i giovani imparano ciò che è più importante nella vita; e lo fanno anche nella natura, a contatto con l’ambiente, vogliono anche vedere quello che bisogna ricostruire e come ricostruirlo. E si fa quindi anche riferimento all’ultima Enciclica del Papa, “Laudato si”. Infatti alla fine di queste giornate, i ragazzi faranno un momento di meditazione e di riconciliazione nel Santuario di Pietracquaria.

D. – Quali sono i valori di San Luigi Orione che oggi ritrovano questi giovani?

R. – La carità, la carità verso tutti! San Luigi Orione diceva che se vogliamo educare un giovane, bisogna soprattutto spiegargli che cosa è il bene, e poi insegnargli a fare del bene, insegnargli a sentire il bene come qualcosa di piacevole. E così il giovane comincerà a vivere questo bene e questi valori.

D. – Cosa spinge, secondo lei, un ragazzo a partecipare a questo Meeting?

R. – Io credo che quello che spinga questi giovani a venire e a partecipare al Meeting sia l’autenticità della testimonianza di coloro che vivono lo spirito di don Orione oggi. Vivere senza valori è come fare una partita senza segnare goal. Dare un significato alla propria vita: è questo che attira i giovani. Noi spesso pensiamo che i giovani vivano il momento attuale senza approfondire la vita, ma non è così! In realtà i giovani sono molto profondi, cercano dei valori, come l’amicizia, la carità, l’autenticità e la fede nelle cose che facciamo. I giovani si accorgono molto velocemente se una persona vuole loro bene in maniera autentica o sta con loro solo per starci. E quindi è questa la cosa importante: ridare un senso alla vita dei giovani vuol dire stare con loro e far vedere che siamo per loro, perché vogliamo camminare insieme.

inizio pagina

Un film del Centro Televisivo Vaticano al Festival di Venezia

◊  

Sarà presentato fuori concorso alla prossima Mostra del Cinema di Venezia il film di Gianfranco Pannone “L’esercito più piccolo del mondo”, prodotto dal Centro Televisivo Vaticano e con il quale per la prima volta la Santa Sede è presente al Festival. Protagonisti alcuni giovani che prestano il loro servizio militare nella Guardia Svizzera Pontificia. Il servizio di Luca Pellegrini

Giurano solennemente, le nuove reclute nelle loro divise antiche e sgargianti, il 6 maggio di ogni anno, nella cornice del Cortile di San Damaso in Vaticano. La data ricorda un episodio tragico di storia, simbolo oggi di fedeltà: in quel giorno del 1527, furono 147 le guardie svizzere che perirono mentre Roma veniva saccheggiata. Sono passati secoli da allora, tutto pare immobile, tutto è, invece, cambiato, nel mondo e nelle aspettative di questi giovani che dalla Svizzera, appunto, si mettono in viaggio verso la Santa Sede per questo prestigioso servizio al Papa e alla Chiesa. Valeva la pena raccontare tutto questo per immagini e il Centro Televisivo Vaticano ha affidato alle mani discrete e competenti di Gianfranco Pannone il compito e la responsabilità di girare il primo film dedicato a quello che, come richiama lo stesso titolo, è “L’esercito più piccolo del mondo”. Abbiamo chiesto al regista come è nata l’idea del film e quali sono stati i primi passi:

R. - Ero già in contatto con il CTV, con don Dario Viganò, su un progetto che avrei dovuto fare sulla Chiesa cattolica, come si rapporta in qualche modo alla contemporaneità. Improvvisamente però sono stato chiamato per questo altro progetto che all’inizio poteva sembrare un po’ più classico, un documentario sulla Guardia Svizzera. E’ diventato, invece, sempre più uno sguardo da dentro, una sorta di dietro le quinte in un’istituzione appunto più che centenaria che i più non conoscono o che, se conoscono, è sempre attraverso un’idea un po’ stereotipata, che si confonde un po’ nei colori sgargianti della divisa della Guardia Svizzera.

D. - Con quali aspettative ha iniziato le riprese in Vaticano?

R. - Io ho trovato una grande apertura dentro la Guardia Svizzera. Io stesso sono rimasto sorpreso, forse anch’io soffrivo di un pregiudizio. Credo che però questa impressione diversa e positiva sia fortemente influenzata dalla presenza del Santo Padre, Papa Francesco, che è una figura che in qualche modo compare sempre sullo sfondo, ma è importantissima e che in qualche modo determinerà anche la soluzione di alcuni dubbi di uno dei nostri testimoni, René che è una Guardia Svizzera che si interroga: lui si sta per laureare in teologia per cui ha dei dubbi sul suo ruolo di soldato che veste un abito di più di 500 anni fa.

D. - Si capisce che nel film non è interessato solo alla storia e alla tradizione che circonda la Guardia Svizzera, ma alla vita di questi ragazzi.

R. - Racconto la vita quotidiana di alcuni ragazzi, in particolare di Leo, René, Michele, Marco, di cui seguo questo percorso e apprendistato fino a che non giurano fedeltà al Papa e alla Chiesa diventando effettivamente guardie svizzere. E’ un dietro le quinte però, c’è quindi la quotidianità. Ho puntato molto su un aspetto che secondo me anch’esso è fortemente legato a questo papato: l’umanità, cioè non raccontare i soldati ma raccontare le persone, che cercano in qualche modo di collocarsi nel mondo. E quindi c’è la loro normalità, ci sono le passeggiate, le chiacchierate, le confidenze, i dubbi… Non è un film celebrativo quello che ho fatto e credo che forse per questo Alberto Barbera l’abbia preso al Festival di Venezia. E’ uno sguardo ad altezza d’uomo, è la vita di camerata, la mensa, le passeggiate per Roma. E’ anche però l’entusiasmo di poter correre dentro i giardini vaticani piuttosto che chiacchierare sull’emozione di fare la guardia al Papa durante la notte a cinque metri dalla sua stanza. E’ stata per me un’esperienza straordinaria da questo punto di vista, perché mi si è aperto un mondo, insomma. Da credente, che però difende fortemente la propria dimensione laica, per me è stata una grande scoperta e una straordinaria esperienza.

inizio pagina

Nella Chiesa e nel mondo



Thailandia vieta pratica dell'utero in affitto per profitto

◊  

 Giro di vite della Thailandia contro la pratica dell'utero in affitto. È entrata in vigore oggi la legge che tutela maggiormente i neonati e vieta la maternità surrogata "per profitto", in particolare alle coppie straniere. La norma rende illegale per le cliniche fornire servizi di maternità surrogata, compreso l'acquisto e la vendita di sperma e ovociti e l'affitto di uteri di madri surrogate. Una pratica finora molto diffusa, tanto che la Thailandia - riferisce il sito del quotidiano Avvenire - era diventata una delle mete preferite delle coppie di tutto il mondo, anche omosessuali. Solo le coppie senza figli, sposate ed eterosessuali potranno accedere ai servizi di riproduzione assistita negli ospedali, purché provviste di certificato medico. Le coppie straniere sono escluse; le coppie composte da un thailandese e una straniero (o viceversa) dovranno attendere tre anni dalle nozze per poter candidarsi a una maternità surrogata. Un ufficio pubblico valuterà caso per caso se dare il permesso alle coppie. 

Pene severe per chi trasgredisce la legge
Con la nuova legge sarà ristretto alle sorelle biologiche il campo delle donne che prestano il proprio utero, ma nel caso in cui gli aspiranti genitori siano entrambi figli unici o non abbiano sorelle, è ammesso il ricorso a una madre surrogata esterna alla famiglia. Per i medici che non rispetteranno la legge è prevista una pena fino a un anno di carcere e una multa salata; le donne che affittano il proprio utero per denaro possono essere incarcerate per un massimo di 10 anni; le coppie che contravvengono alla legge rischiano fino a 5 anni di carcere.

Le mostruosità dell'utero in affitto
A spingere il governo e il parlamento di Bangkok a legiferare per proibire il ricorso a donne thailandesi per gravidanze a pagamento sono stati diversi casi di cronaca. Il primo è stato quello di Baby Gammy, il bambino nato con la sindrome di Down e non riconosciuto dalla coppia australiana che lo aveva "commissionato". Il secondo fu la vicenda di un uomo giapponese, padre di 16 bambini avuti da diverse madri surrogate e che puntava ad arrivare a cento figli 

Il caso della bimba che doveva essere affidata ad una coppia gay
​Più di recente ha fatto notizia il caso di una coppia gay (uno americano e l'altro spagnolo) bloccata dall'inizio dell'anno in Thailandia per non rinunciare a Carmen, bimba nata con la maternità surrogata a gennaio. I due hanno adottato la piccola in base alla vecchia normativa, abrogata a febbraio. Qualche settimana dopo il parto, la mamma di Carmen, o meglio, la donna che l'ha partorita dato che l'ovulo apparterrebbe a una donatrice, ha cambiato idea. E ha rifiutato ai due il permesso per l'espatrio. La ragione, secondo quanto ha spiegato la donna, sarebbe stata la scoperta che Carmen sarebbe stata cresciuta da una famiglia omosessuale. (R.P.)

inizio pagina

Usa. Vendita tessuti fetali abortiti: appello card. O’Malley

◊  

 Continua a suscitare scalpore, negli Stati Uniti, la denuncia di una Associazione nazionale che, attraverso un video, ha svelato le pratiche abortive illegali e il commercio di parti di feti umani in uso all’interno di una catena di cliniche abortiste del Paese. Per questo, il card. Sean O’Malley, arcivescovo di Boston e presidente del Comitato per la vita della Conferenza episcopale locale, ha diffuso una dichiarazione in cui, citando Papa Francesco, spiega: “L’aborto è il prodotto di una mentalità del profitto, di una cultura dell’usa e getta che, attualmente, hanno schiavizzato i cuori e le menti di tante persone”.

Aborto: attacco diretto alla vita nella sua condizione più vulnerabile
“I recenti casi di cronaca – continua il porporato – devono richiamare la nostra attenzione su due temi di ampia portata, coinvolgendo anche le istituzioni della società”. Il primo tema è “l’aborto stesso, un attacco diretto alla vita umana nella sua condizione più vulnerabile”. Il secondo tema è “la pratica, ormai standard, di ottenere tessuti ed organi fetali tramite l’aborto”. Ed entrambe queste pratiche, ribadisce il card. O’Malley, “negano il rispetto dovuto all’umanità ed alla dignità della vita umana”. Di qui, l’auspicio che simili episodi risveglino “l’attenzione del dibattito pubblico”.

Progetto Rachele, l’aiuto della Chiesa per chi ha vissuto il trauma dell’aborto
​Infine, l’arcivescovo di Boston ricorda che tutti coloro che hanno vissuto il trauma dovuto all’aborto “possono trovare accoglienza, compassione ed assistenza grazie al “Progetto Rachele”, portato avanti dalla Chiesa cattolica”. Fondato nel 1984 nell’arcidiocesi di Milwaukee, con il tempo esso è diventato l’apostolato dei vescovi Usa per la guarigione spirituale dopo l’interruzione di gravidanza. Oggi, i “Progetti Rachele” sono attivi in più di 100 diocesi statunitensi ed in diversi Paesi del mondo. Il nome dell’iniziativa deriva dalle Sacre Scritture: “Rachele piange i suoi figli; lei rifiuta di essere consolata perché i suoi figli non sono più” (Ger 31, 15-17). (I.P.)

inizio pagina

Cina: appello vescovo di Wenzhou per rimozione delle croci

◊  

Il vescovo Zhu Weifang di Wenzhou e il suo clero si appellano ai cattolici perché protestino contro la campagna di rimozione delle croci iniziata dai funzionari del governo. In una lettera del 27 luglio - riferisce l'agenzia Misna - rivolta a tutti i cattolici, si dice che la campagna del governo, originariamente progettata per correggere "strutture illegali" ora deliberatamente si sta diffondendo in tutto il Paese e prende di mira i cristiani nel libero esercizio della loro fede.

In Zhejiang rimosse 1.200 croci
Finora in Zhejiang, sono state rimosse più di 1.200 croci e diverse chiese sono state demolite dalla fine del 2013. "Anche la nostra manifestazione pacifica con il sostegno dei laici è stata considerata come un'azione illegale" è scritto nella lettera, riferendosi alla manifestazione di protesta tenutasi il 24 luglio, dove alcuni sacerdoti e laici responsabili sono stati convocati da agenti di sicurezza per spiegare la loro azione. Nella stazione di polizia, ad alcuni è stato chiesto di scrivere una lettera di pentimento.

Appello per la libertà religiosa, la dignità e la giustizia
Nell'appello, il clero locale esprime la preoccupazione che la Cina, ora entrata in un periodo di sviluppo stabile, possa cadere in un nuovo disastro. “I cattolici cinesi e tutte le persone con un senso di giustizia – si legge nella lettera - non possono rimanere in silenzio, ma devono gridare insieme per combattere per la libertà religiosa, la dignità e la giustizia”.

L'opposizione alle rimozioni delle croci ha risvegliato la solidarietà del clero
​Un cattolico di Wenzhou, identificato come Thomas, ha detto all'agenzia Ucanews che l'opposizione alla campagna di rimozione è un buon segno per la Chiesa locale perché ha risvegliato una solidarietà tra il clero, che prima non si era mai vista. Al vescovo e al clero di Wenzhou si sono uniti anche il vescovo Yang Xiangtai di Handan nella provincia di Hebei, che ha criticato la campagna perchè viola la libertà di credo religioso. Nella provincia del Fujian, il vescovo Vincent Zhan Silu, di Mindong, nel suo blog personale ha criticato la campagna, affermando che si è andati oltre la legge e, al posto di mirare alle strutture illegali, si mira alle croci. (P.L.)

inizio pagina

Manila: assegnati i Nobel asiatici

◊  

Un indiano attivista per la campagna anti-corruzione e un altro che ricicla vestiti per i poveri sono tra i destinatari di quest'anno del Ramon Magsaysay Award delle Filippine, spesso considerato come l’equivalente asiatico del Premio Nobel.

Premi contro la corruzione e il sostegno dei più poveri
La fondazione per il premio ha annunciato che Sanjiv Chaturvedi, 40 anni, che ha iniziato a studiare ed a denunciare le anomalie del governo come ufficiale forestale, nel 2005, ha vinto il premio per la sua “leadership esemplare, per l’integrità, il coraggio e la tenacia nel denunciare la corruzione del governo".Anshu Gupta, 44 anni, il cui gruppo di volontari offre abbigliamento e altri oggetti riciclati ai poveri e produce assorbenti a basso costo per le donne, è stato premiato per "la sua visione creativa nel trasformare la cultura del dare in India".

Personalità birmana coinvolta in opere di carità
L’assistente sociale e popolare attore birmano Kyaw Thu, 55 anni, noto soprattutto come fondatore della Società birmana per i funerali gratuiti (Ffss), è stato selezionato per aver fornito più di 120.000 funerali gratuiti alle famiglie del Myanmar. Egli gestisce anche una clinica sanitaria gratuita e ha ispirato molti giovani birmani di essere coinvolti in opere di carità. A Kyaw Thu il riconoscimento è stato dato per " la sua generosa compassione nell’affrontare i bisogni fondamentali sia dei i vivi che dei morti in Myanmar".

Premi per la promozione della donna in Laos e la salvaguardia dell'arte nelle Filippine
La fondazione ha detto che Chanthavong, 71 anni, del Laos, il cui impegno nel far rivivere l'arte antica del suo Paese di tessitura della seta ha creato sostentamento per migliaia di poveri laotiani che sono stati sfollati a causa della guerra, ha contribuito a "preservare la dignità della donna e l’inestimabile tesoro culturale della seta tramandata nel suo Paese”. Mentre Fernando-Amilbangsa, 71 anni, delle Filippine, che ha studiato e promosso una forma di danza nel sud delle Filippine che risale ai primi abitanti della regione, è stato riconosciuto per la sua "crociata a senso unico nella conservazione del patrimonio artistico in via di estinzione" nel sud delle Filippine.

La premiazione a Manila il 31 agosto
Il premio prende il nome dal settimo e popolare Presidente filippino, Ramon Magsaysay, morto in un incidente aereo nel 1957. La cerimonia di premiazione si terrà a Manila il 31 agosto, anniversario della nascita di Magsaysay. (P.L.)

inizio pagina

Vescovi Kenya: boicottare farmaco antipolio non testato

◊  

I vescovi cattolici del Kenya hanno invitato i cittadini a ‘boicottare’ una campagna di vaccinazione antipolio di massa a meno che la sicurezza del vaccino non venga confermata attraverso test scientifici. L’inizio delle vaccinazioni nel Paese, promosse da Oms e Unicef - riferisce l'agenzia Fides - è previsto per il prossimo 1 agosto 2015. In vista del lancio della campagna, i vescovi hanno messo in discussione la sicurezza del vaccino, dicendo che il produttore non ha fornito le informazioni richieste e il governo ha ignorato la domanda di prove sulla validità dello stesso. 

La Chiesa vuole che siano assicurati vaccini sicuri
L’allarme dei vescovi è scaturito in seguito ad un recente incidente che pare abbia causato la paralisi di 30 bambini che avevano ricevuto una iniezione di un farmaco anti malaria in un dispensario nel Kenya occidentale. Secondo i vescovi, il medicinale che si credeva chinina per casi avanzati, conteneva l’antidolorifico paracetamolo. Immediata la risposta del Ministero della Sanità kenyota che ha esortato tutti i sostenitori, in particolare i leader della Chiesa Cattolica, a continuare a sostenere la campagna. Mons. Philip Anyolo, vescovo della diocesi di Homa Bay e presidente della Conferenza episcopale del Kenya, ha riferito in una recente conferenza stampa tenuta a Nairobi: “non siamo in conflitto con il Ministero della Salute, ma abbiamo il dovere apostolico e morale di assicurare ai kenioti vaccini sicuri”. 

La Chiesa non vuole che la popolazione soffra per cause esterne
​All’inizio dell’anno i vescovi avevano già avuto a che dire con il governo locale in seguito ad una campagna di vaccinazione neonatale di massa contro il tetano lamentando che fosse una velata forma di controllo della popolazione. Entrambe le istituzioni si sono poi accordate sulla sperimentazione di tutti i vaccini prima, durante e dopo la campagna. “Non vogliamo fare la guerra a nessuno”, ha detto il card. John Njue, vescovo di Nairobi, “desideriamo solo evitare che la nostra popolazione soffra per cause esterne”. (A.P.)

inizio pagina

Nigeria. Card. Onaiyekan: matrimonio è unione tra uomo e donna

◊  

Gli insegnamenti della Chiesa sul matrimonio quale unione tra un uomo e una donna restano immutati “anche se alla gente possono non piacere”. Lo ha dichiarato il card. John Onaiyekan durante una visita nei giorni scorsi nella vicina diocesi di Makurdi.

Non esiste un matrimonio tra due uomini o tra due donne
L’arcivescovo di Abuja ha risposto così indirettamente alle dichiarazioni del Presidente americano Barack Obama sui diritti degli omosessuali durante la sua visita in Kenya. Il 25 luglio, rispondendo a una domanda al termine del colloquio con il presidente Kenyatta, il Capo della Casa Bianca aveva affermato che le persone omosessuali “devono avere la stessa protezione e lo Stato non deve discriminare".  Un’affermazione che ha provocato reazioni critiche da parte delle Chiese nel Paese africano. 

Non esiste un matrimonio tra due uomini o tra due donne
​Il card. Onaiyekan, ha ribadito, da parte sua, la Chiesa cattolica ritiene di dovere portare “il vessillo della verità in un mondo che si è lasciato seriamente fuorviare”. “Sfortunatamente viviamo in un mondo in cui queste cose sono diventate accettabili adesso, ma il fatto che siano accettate non significa che siano giuste”, ha detto il porporato citato dall’agenzia Cisa. “Non esiste un matrimonio tra due uomini o tra due donne, quello che avviene tra loro non può essere chiamato matrimonio”. (A.D.-L.Z.)

inizio pagina

Los Angeles. Messa per gli immigrati: segno di speranza

◊  

“Siete un segno di fede e di speranza, un segno della fede della Chiesa e della speranza degli Stati Uniti”: con queste parole l’arcivescovo di Los Angeles, mons. José Horacio Gómez, si è rivolto ai partecipanti alla tradizionale “Messa di riconoscimento degli immigrati”, celebrata nei giorni scorsi nella cattedrale di Nostra Signora degli Angeli. Nell’omelia il presule di origini ispaniche ha ricordato l’importanza della presenza degli immigrati nel Paese, invitando i cittadini statunitensi ad “aprire i loro cuori” e le autorità a lavorare per una riforma dell’immigrazione “giusta, efficace e immediata”.

Gli immigrati fanno parte della storia degli Stati Uniti
Mons. Gómez ha sottolineato che gli immigrati fanno parte della storia di Los Angeles, della California e di tutti gli degli Stati Uniti, “un Paese  costituito da tante nazionalità e popoli”: “Lo spirito migrante – ha aggiunto - è anche lo spirito della Chiesa cattolica universale, che è un popolo pellegrino, la famiglia di Dio proveniente da tutti i Paesi e da tutti i confini della Terra”.

Un sistema migratorio che non funziona
Commentando la prima lettura del giorno, l’arcivescovo di Los Angeles, ha osservato che a volte “ci sentiamo un po’ come il profeta Geremia e siamo tentati di dire: ‘Guai a quei pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo’, perché purtroppo alcune persone della nostra società agiscono come quei pastori, lasciando che i nostri fratelli e sorelle immigrati soffrano per un sistema migratorio che non funziona”.  Un sistema che disperde  e respinge ai loro Paesi di origine “milioni di brave persone, madri, padri, sorelle fratelli e figli”.

Non perdere la speranza e impegnarsi per fare dell’America una casa ospitale
Mons. Gòmez ha esortato a non perdere la speranza, perché nella società e nella Chiesa esistono anche tanti “buoni pastori “ che hanno a cuore la sorte degli immigrati;  perché Dio non ci abbandona e perché, come ha detto Papa Francesco in Paraguay, “la Chiesa è una madre con un cuore aperto”. Quindi in conclusione l’invito “a continuare a pregare e ad impegnarsi per la riforma dell’immigrazione e per la dignità degli immigrati e per fare di Los Angeles e l’America una casa accogliente e ospitale”. (A cura di Lisa Zengarini)

inizio pagina

Vescovi Usa: appello per il salario minimo dei lavoratori

◊  

Il salario minimo federale deve essere “equo e giusto per tutti i lavoratori”, migliorando “la sicurezza finanziaria di milioni di famiglie americane” e promuovendo la loro “formazione e stabilità”. Scrivono così, in una lettera al Congresso, i vescovi statunitensi, rappresentanti, in questa occasione, da mons. Thomas Wenski, presidente del Comitato per la giustizia e lo sviluppo umano. A siglare la missiva è anche sr. Donna Markham, presidente delle organizzazioni caritative cattoliche del Paese.

Economia prospera solo se è incentrata su dignità dei lavoratori
“Un’economia prospera solo quando è incentrata sulla dignità ed il benessere dei lavoratori e delle loro famiglie – si legge nel documento – Come pastori, vediamo ogni giorno le conseguenze provocate dal fallimento di una società che non onora questa priorità”. Infatti, spiegano i presuli, “in un anno, un lavoratore a tempo pieno con il salario minimo non riesce a fare abbastanza per strappare i propri figli alla povertà”. E questo si verifica, sottolinea mons. Wenski, perché “il salario minimo federale è una cifra statica, che non cambia, e così ogni anno, per un lavoratore, diventa sempre più difficile ‘sbarcare il lunario’”.

San Giovanni Paolo II: stroncare fenomeni vergognosi di sfruttamento
Ma non solo: i presuli statunitensi ribadiscono che tale situazione porta ad un aumento della domanda di servizi caritativi e di beneficenza: infatti, “recenti ricerche indicano che il 73% di coloro che ricevono un sussidio pubblico proviene da una famiglia in cui c’è una persona che lavora”. Di qui, il richiamo che i vescovi fanno a San Giovanni Paolo II, in particolare all’enciclica “Centesimus Annus”, in cui si legge: “La società e lo Stato devono assicurare livelli salariali adeguati al mantenimento del lavoratore e della sua famiglia, inclusa una certa capacità di risparmio. Ciò richiede sforzi per dare ai lavoratori cognizioni e attitudini sempre migliori e tali da rendere il loro lavoro più qualificato e produttivo; ma richiede anche un'assidua sorveglianza ed adeguate misure legislative per stroncare fenomeni vergognosi di sfruttamento, soprattutto a danno dei lavoratori più deboli, immigrati o marginali”. (n.15)

Tutelare e promuovere la famiglia e la sua stabilità
​“Tutelare i lavoratori a salario minimo e promuovere la loro capacità di formare e crescere una famiglia – conclude la lettera – è una responsabilità condivisa e fondamentale per la costruzione di una società più equa. E uno dei modi in cui il Congresso può contribuire a quest’opera di promozione del bene comune è assicurando che il salario minimo federale possa promuovere la formazione della famiglia e la sua stabilità”. (I.P.)

inizio pagina

Ucraina: due religiosi ortodossi assassinati in pochi giorni

◊  

Suor Alevtina, del convento di Florovsky a Kiev, è stata trovata assassinata nel suo appartamento mercoledì scorso, secondo quanto riferito dall'Unione delle Confraternite ortodosse dei Cristiani dell'Ucraina a Interfax-Religion. "Sappiamo che - ha detto un portavoce - mancando l'acqua calda nel convento, la suora si era recata presso il suo appartamento in città per lavarsi e cambiarsi prima di sottoporsi ad un intervento chirurgico. Più tardi - riferisce l'agenzia Fides - il nipote ne ha trovato il corpo con le mani legate e tracce di torture" . La suora aveva 62 anni. Interfax non è riuscita ad avere altre informazione ufficiali sul caso da parte delle forze dell'ordine a Kiev.

Martedì scoro era stato ucciso un sacerdote
Questo è il secondo omicidio in pochi giorni inflitto alla Chiesa ortodossa ucraina del patriarcato di Mosca. Lo stesso mercoledì mattina, un sacerdote di 40 anni della Chiesa di San Tatiana a Kiev, padre Roman Nikolayev, è morto per le ferite alla testa da arma da fuoco che aveva subito la settimana precedente. (C.E.)

inizio pagina

Vescovi Africa australe: nuovi media digitali per evangelizzare

◊  

La formazione delle nuove leve di sacerdoti e religiosi in Africa non può ormai più prescindere dalla conoscenza e dall’uso dei nuovi media digitali. E’ quanto ribadito all’Incontro Interregionale dei vescovi dell’Africa Australe (Imbisa) che ha riunito a Pretoria gli episcopati di Angola, Botswana, Lesotho, Mozambico, Namibia, Sao Tomé e Principe, Sudafrica, Swaziland e Zimbabwe. A sottolinearlo è stato mons. Bernadin Mfumbusa, vescovo di Kondoe e presidente della Commissione per le comunicazioni sociali della Conferenza episcopale della Tanzania (Tec) chiamato ad intervenire sul tema l’”Evangelizzazione nell’era digitale”.  

La presenza della Chiesa on-line “non è più un’optional”
Nella sua relazione – riporta l’agenzia Cisa - il presule tanzaniano ha  ribadito quanto detto un anno fa alla 18ª Assemblea dell’Amecea, l’Associazione delle Conferenze episcopali dell’Africa Orientale:  ossia che oggi “la presenza della Chiesa on-line non è più un optional”. Per adempiere al mandato di Gesù a fare discepoli in tutte le nazioni occorre infatti essere capaci di comunicare il suo messaggio con mezzi adeguati ai tempi.  Di qui l’invito ai formatori e teologi africani a pubblicare i loro testi su internet. “L’assenza di contenuti cattolici dalla rete – ha ammonito – lascia un vuoto che permette ad altri contenuti di dominare il cyber-spazio”. Sulla stessa linea l’intervento dell’arcivescovo di Pretoria, mons, William Slatter, che ha esortato i formatori nei seminari in Africa ad incoraggiare propri studenti ad usare i nuovi mezzi digitali così importanti per la nuova evangelizzazione.

Anche per l’Amecea la Chiesa deve essere presente nei nuovi media digitali
Indicazioni analoghe a quelle discusse all’incontro dei vescovi dell’Africa Australe erano emerse lo scorso maggio da un seminario a Nairobi, destinato ai responsabili della comunicazione dell’Amecea, in cui era stata sottolineata l’urgenza per la Chiesa di trovare il modo per ottimizzare l’uso delle tecnologie nella comunicazione per rendere più efficace la sua missione evangelizzatrice. (L.Z.)

inizio pagina

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 211

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.