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Sommario del 13/05/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: "permesso, scusa, grazie" e la famiglia è solida e felice

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Nella vita di coppia e di famiglia tre sono le parole indispensabili a una vita felice e salda, dove amore reciproco e rispetto hanno la meglio sugli atteggiamenti che minano il rapporto: “permesso”, “scusa”, “grazie”. Lo ha riaffermato Papa Francesco durante la catechesi dell’udienza generale, tenuta in Piazza San Pietro. Il servizio di Alessandro De Carolis: 

Nella casa della buona educazione può abitare Dio o il demonio, dipende. Dipende dalle persone che vivono in quella casa, se nutrono un rispetto reciproco pieno e voluto o se fanno sfoggio di carinerie come paraventi per camuffare indifferenza e altre bassezze, o magari la “mondanità spirituale” in ambito religioso. La cartina di tornasole per capire se le fondamenta di quella casa sono di roccia o sabbia sono le tre parole rese celebri da Francesco – “permesso”, “grazie”, “scusa” –  sulle quali il Papa imposta la catechesi e con la quale, spiega, intende iniziare “una serie di riflessioni sulla vita in famiglia”.

Buona educazione, non buone "maniere"
La prima considerazione è sulla buona educazione in quanto tale. Può essere “mezza santità” – secondo l’espressione di Fracesco di Sales – oppure, afferma Francesco, “maschera che nasconde l’aridità dell’animo e il disinteresse per l’altro”, in una parola “cattive abitudini":

“Il diavolo che tenta Gesù sfoggia buone maniere - ma è proprio un signore, un cavaliere - e cita le Sacre Scritture, sembra un teologo. Il suo stile appare corretto, ma il suo intento è quello di sviare dalla verità dell’amore di Dio. Noi invece intendiamo la buona educazione nei suoi termini autentici, dove lo stile dei buoni rapporti è saldamente radicato nell’amore del bene e nel rispetto dell’altro. La famiglia vive di questa finezza del voler bene”.

Chiedere gentilmente, non pretendere
Quindi, Francesco passa a soppesare la forza d’urto, tutta improntata al bene, che le tre parole hanno sulla vita di coppia e di famiglia. Dire “permesso”, cioè preoccuparsi “di chiedere gentilmente anche quello che magari pensiamo di poter pretendere”, fa sì – osserva – che si ponga un “vero presidio per lo spirito della convivenza matrimoniale e famigliare”:

“Entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. La confidenza, insomma, non autorizza a dare tutto per scontato (...) Prima di fare una cosa in famiglia: “Permesso, posso farlo? Ti piace che io faccia così?”. Quel linguaggio proprio educato ma pieno d’amore. E questo fa tanto bene alle famiglie”.

Un cristiano che non sa ringraziare ha dimenticato la lingua di Dio
Soffermandosi sulla seconda parola, “grazie”, Francesco stigmatizza il fatto che la nostra stia diventando una “civiltà delle cattive maniere e delle cattive parole”, dove chi ringrazia passa per debole ed è addirittura guardato con “diffidenza”. Qui il Papa è netto:

“Dobbiamo diventare intransigenti sull’educazione alla gratitudine, alla riconoscenza: la dignità della persona e la giustizia sociale passano entrambe di qui. Se la vita famigliare trascura questo stile, anche la vita sociale lo perderà. La gratitudine, poi, per un credente, è nel cuore stesso della fede: un cristiano che non sa ringraziare è uno che ha dimenticato la lingua di Dio”.

Mai finire la giornata senza fare la pace in famiglia
Terza, la parola difficile, “scusa”. Quella la cui mancanza allarga le “piccole crepe” che esistono in un rapporto facendole diventare “fossati profondi”. La riflessione del Papa è semplice e assolutamente universale: “Riconoscere di aver mancato, ed essere desiderosi di restituire ciò che si è tolto – rispetto, sincerità, amore – rende degni del perdono. E così si ferma l’infezione”. Ma “se non siamo capaci di scusarci, vuol dire che neppure siamo capaci di perdonare”:

“Se avete litigato mai finire la giornata senza fare la pace in famiglia. E come devo fare la pace? Mettermi in ginocchio? No! Soltanto un piccolo gesto, una cosina così. E l’armonia familiare torna, eh! Basta una carezza! Senza parole. Ma mai finire la giornata in famiglia senza fare la pace. Capito questo? Non è facile, eh! Ma si deve fare. E con questo la vita sarà più bella”.

E alla fine, come fossero note di uno spartito da imparare a memoria, i 25 mila fedeli riuniti in Piazza San Pietro diventano un “coro” diretto dal Papa che ripete e scandisce le tre parole speciali e il principio della pace in famiglia, che non tramonti il sole prima che sia ristabilita.

Test sicurezza in vista del Giubileo
Particolarmente munito si è presentato, in occasione dell’udienza generale, il dispositivo di sicurezza allestito dalle Forze dell’ordine, con barriere e incolonnamenti molto estesi fino a tutta Via della Conciliazione, compresi gli accessi laterali, interrotti da una serie di varchi presidiati da Polizia e Carabinieri. Si è trattato, ha informato la Questura di Roma, unitamente agli uomini dell’Ispettorato di P.S. presso il Vaticano, di un test per valutare le  modifiche da apportare ai piani di sicurezza riguardanti l’area circostante la Santa Sede, anche  in vista del prossimo Giubileo.

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Vaticano. Concerto per i poveri. Il Papa: musica che unisce

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Papa Francesco, prima dell’udienza generale, ha ricevuto organizzatori e sponsor del “Concerto per i poveri” che sarà eseguito domani alle 18.00 nell’Aula Paolo VI in Vaticano dall’Orchestra Filarmonica Salernitana e dal Coro della Diocesi di Roma guidati dal maestro Daniel Oren. Ce ne parla Sergio Centofanti

Protagonisti del Concerto sono i più poveri: saranno loro a occupare i posti d’onore. Ringraziando gli organizzatori per l’iniziativa, il Papa ha ricordato che la musica ci unisce:

“La musica ha questa capacità di unire le anime e di unirci con il Signore, sempre ci porta… è orizzontale e anche verticale, va in alto, e ci libera delle angosce. Anche la musica triste, pensiamo a quegli adagi lamentosi, anche questa ci aiuta nei momenti di difficoltà. Vi ringrazio tanto, perché farà bene a tutti un po’ di spirito nell’affarismo materiale che sempre ci circonda e ci abbassa, ci toglie la gioia. E come credenti abbiamo la gioia di un Padre che ci ama tutti e la gioia di poter fare fratellanza con tutti”.

L’evento è patrocinato dall’Elemosineria Apostolica, dal Pontificio Consiglio della Cultura, dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione e dalla Fondazione San Matteo in memoria del card. Van Thuân. Verranno raccolte offerte che saranno interamente devolute all’Elemosineria per le opere di carità del Papa.

Durante il concerto saranno eseguite musiche di mons. Marco Frisina: arie tratte dall’opera musicale “La Divina Commedia” per celebrare i 750 anni dalla nascita di Dante e brani dedicati al Tempo Pasquale, alla speranza e alla gioia. E proprio della gioia il Papa ha parlato agli organizzatori del concerto:

“Sarà un concerto per seminare gioia, non un’allegria divertente di un momento, no: il seme rimarrà lì nelle anime di tutti e farà tanto bene a tutti. Vi ringrazio per il bene che fate, grazie tante, di cuore”.

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Papa alla Caritas: c'è cibo per tutti, manca la condivisione

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La terra ha cibo per tutti, ma manca la volontà di condividerlo. Dio un giorno chiamerà i potenti a giudizio per quanti soffrono la fame: è questo, in sintesi, quanto ha affermato, ieri pomeriggio, Papa Francesco durante la Messa, nella Basilica San Pietro, per l’apertura della 20.ma Assemblea Generale della Caritas Internationalis. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

La Caritas non è una Ong

Accogliere Dio e l’altro significa vivere il Vangelo. La Caritas – ha detto Papa Francesco - non è una semplice organizzazione umanitaria perché il suo servizio, nel nome di Cristo, ha come radice l’accoglienza, semplice e obbediente, di Dio e del prossimo. Se si taglia questa radice la Caritas muore. La Caritas – ha aggiunto il Santo Padre – è sempre in periferia:

“Non ci sono Caritas grandi e Caritas piccole, tutte sono uguali. Chiediamo al Signore la grazia di capire la vera dimensione della Caritas; la grazia di non cadere nell’inganno di credere che un centralismo ben organizzato sia la strada; la grazia di capire che Caritas è sempre in periferia, in ciascuna Chiesa particolare; e la grazia di credere che il Caritas-centro è soltanto aiuto, servizio e esperienza di comunione ma non è il capo di tutte”.

Testimoni di Cristo
“Chi vive la missione di Caritas – ha spiegato il Pontefice - non è un semplice operatore, ma un testimone di Cristo”:

“Una persona che cerca Cristo e si lascia cercare da Cristo; una persona che ama con lo spirito di Cristo, lo spirito della gratuità, lo spirito del dono. Tutte le nostre strategie e pianificazioni restano vuote se non portiamo in noi questo amore. Non il nostro amore, ma il suo. O meglio ancora, il nostro purificato e rafforzato dal suo”.

Servire tutti
“Dio - ha detto il Papa – ci prepara la tavola dell’Eucaristia. Caritas prepara tante tavole per chi ha fame”. “Anche oggi – ha osservato - tanta gente aspetta di mangiare a sufficienza”:

“Il pianeta ha cibo per tutti, ma sembra che manchi la volontà di condividere con tutti. Preparare la tavola per tutti, e chiedere che ci sia una tavola per tutti. Fare quello che possiamo perché tutti abbiano da mangiare, ma anche ricordare ai potenti della terra che Dio li chiamerà a giudizio un giorno, e si manifesterà se davvero hanno cercato di provvedere il cibo per Lui in ogni persona (cfr Mt 25,35) e se hanno operato perché l’ambiente non sia distrutto, ma possa produrre questo cibo”.

Non dimenticare i cristiani vittime di ingiustizie
E pensando alla tavola dell’Eucaristia – ha affermato infine il Pontefice – non possiamo dimenticare “quei nostri fratelli cristiani che sono stati privati con violenza sia del cibo per il corpo sia di quello per l’anima”:

“Sono stati cacciati dalle loro case e dalle loro chiese, a volte distrutte. Rinnovo l’appello a non dimenticare queste persone e queste intollerabili ingiustizie”.

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Caritas. Maradiaga: lottiamo contro povertà e ingiustizie

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Sono entrati nel vivo a Roma i lavori della 20.ma Assemblea generale di Caritas Internationalis, sul tema "Una sola famiglia umana, custodire il Creato", aperta ieri dalla Messa di Papa Francesco in San Pietro. Stamani, l’intervento del cardinale Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, presidente della confederazione Caritas. Il servizio di Giada Aquilino

“Nel sangue versato in nome dei poveri sta la nostra forza di continuare a lottare contro la povertà e l'ingiustizia”. Evocando mons. Oscar Romero, che sarà beatificato il prossimo 23 maggio a San Salvador, il cardinale Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga ha avviato i lavori della XX Assemblea generale di Caritas Internationalis. Oltre 300 rappresentanti da tutto il mondo: uno dopo l’altro hanno risposto all’appello, Paese per Paese, a nome dei 165 membri della Confederazione. A loro, il presidente uscente di Caritas Internationalis ha chiesto di trovare “forza e determinazione” per affrontare le sfide future e realizzare lo slogan di quest’assemblea: "Una sola famiglia umana, custodire il Creato". Il 2015, ha rimarcato, è un anno cruciale per il vertice sui cambiamenti climatici a Parigi, il rilancio degli Obiettivi del millennio per lo sviluppo e la prossima Enciclica di Papa Francesco dedicata al Creato. Ma questo, ha aggiunto, è per la Chiesa anche un “momento di trasformazione”: con il Giubileo della misericordia, Papa Francesco – ha spiegato – ci ricorda la vicinanza di Dio ai poveri e ai sofferenti. In questo ancora un richiamo a mons. Romero, una delle due “luci guida” – ha detto il porporato honduregno – di questo anno, assieme a Paolo VI, fondatore della Confederazione Caritas. Proprio mons. Romero, ucciso 35 anni fa da un sicario, è ancora oggi fonte di ispirazione della Caritas di El Salvador. Ce ne parla il presidente, mons. Gregorio Rosa Chávez, che di Romero fu stretto collaboratore e oggi è vescovo ausiliare di San Salvador:

R. – E’ una piccola Caritas, incaricata come ovunque dell’attenzione ai poveri e della promozione umana, ma da noi soprattutto della ricerca di soluzioni ai grandi problemi strutturali nel nostro Paese, come ad esempio il problema della violenza, che da noi è terribile.

D. – La vicinanza ai poveri: come è impegnata la Caritas e quanto è importante per la Caritas l’esempio di mons. Romero?

R. – Mons. Romero ispira tutto quello che si fa da noi, nel lavoro con i poveri e per i poveri. Dopo la Beatificazione di mons. Romero molte cose saranno diverse, perché ci sono persone che non hanno conosciuto Romero, altre che lo hanno attaccato: piano piano queste persone vanno a chiedere perdono sulla tomba di mons. Romero.

D. – Chi era l’arcivescovo Romero?

R. – I vescovi, da noi, dicono tre frasi: uomo di Dio, uomo di Chiesa, servitore dei poveri.

D. – Perché è stato ucciso?

R. – E’ stato ucciso perché ha preso sul serio il Concilio Vaticano II, l’opzione per i poveri, la lotta per la giustizia, la difesa della dignità umana. E perché è diventato voce di quelli che non hanno voce.

D. – Questa è anche la missione del Papa: sono le parole di Papa Francesco. Quanto si riconosce di mons. Romero anche in ciò che dice il Pontefice?

R. – Dirò una cosa un po’ audace: mons. Romero è l’icona del pastore che pensa Francesco, è l’icona della Chiesa che pensa Francesco, una Chiesa povera e per i poveri, che poi è il tema di questa Assemblea della Caritas.

D. – Come portare avanti e formare una Chiesa povera per i poveri?

R. – Penso che in questa assemblea mons. Romero sarà molto presente. Lo è stato nel discorso inaugurale. Mons. Romero è come un’ispirazione per questa Assemblea, ispira il lavoro della Confederazione delle Caritas, perché, come Papa Francesco, mons. Romero evangelizza prima per la sua testimonianza e dopo con il suo stile di vita. Infine, con la Parola. Sono tanto simili, mons. Romero e Francesco: è incredibile.

D. – Qual è la speranza della Caritas di El Salvador, per la Beatificazione di mons. Romero, ma anche per la gente del Paese?

R. – Il Paese ha bisogno di modelli, di intercessori e di persone che indichino il cammino che dobbiamo seguire. Mons. Romero incarna tutto questo.

Ai lavori, in corso fino a domenica, è stato proiettato un video di Papa Francesco, tratto dai messaggi inviati dal Pontefice in occasione della campagna Caritas contro la fame e per l’incontro delle "Catholic Charities" degli Stati Uniti, degli ultimi due anni: nelle parole del Pontefice ancora un invito ad andare verso le periferie del mondo. Dal segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, un messaggio in cui si sottolinea l’impegno per un “significativo, universale accordo sul mutamento climatico” per arrivare, ha scritto, a “un nuovo corso che fornirà una dignità di vita per tutti, proteggendo il pianeta da cui dipendiamo”. Eppure, le catastrofi naturali oggi continuano ad uccidere: in Nepal, con le violente scosse di terremoto, come nelle Filippine, con tifoni e alluvioni. Ce ne parla il direttore esecutivo di Caritas Filippine, padre Edwin Gariguez:

R. – The most important emergency that we have…
L’emergenza più importante che abbiamo avuto è stata quella del super tifone Hayan, alcuni anni fa, i cui danni sono stati davvero catastrofici e hanno richiesto un intervento di "livello 5". Ogni anno, in media abbiamo circa 21 tifoni. A causa dei cambiamenti climatici, però, il numero in realtà sta crescendo. Quindi, stiamo cercando di dare una risposta adeguata in caso di emergenza, ogni volta che si verifica un tifone. C’è anche un’iniziativa che riguarda un programma di prevenzione, per rendere la comunità ancora più resistente. Cerchiamo di prepararla a qualsiasi tipo di calamità, per rispondere adeguatamente a questi disastri.

D. – E la vostra missione per i poveri?

R. – Along with our humanitarian response…
In aggiunta alla nostra risposta umanitaria, cerchiamo anche di alleviare la povertà. Le Filippine, infatti, sono uno dei Paesi più poveri del mondo. La Chiesa si è impegnata a essere una Chiesa per i poveri, sotto la guida del nostro Papa Francesco, del Concilio Vaticano II e dei documenti locali. Abbiamo cercato di rispondere davvero alla più grave povertà. Attualmente, stiamo svolgendo un programma di sviluppo: abbiamo un programma di micro-finanziamenti per un’agricoltura sostenibile e ci si organizza perché la comunità sia in grado di difendere i propri diritti.

Ma le tragedie di oggi sono anche le guerre in corso in tante parti del mondo, che generano morte, distruzione, nuovi flussi migratori. Mons. Antoine Audo, presidente di Caritas Siria e vescovo caldeo di Aleppo:

R. – Aleppo è una città sotto l’attacco, senza tregua, dei gruppi armati. Non si sa quando e dove cadranno altre bombe sulla gente, sui palazzi, per le strade, sulle scuole. È una cosa terribile. Negli ultimi mesi, ci sono stati bombardamenti molto duri. Abbiamo l’impressione che la gente non ce la faccia più a resistere. Soprattutto i cristiani ora dicono: “Basta, non si può più continuare a vivere ad Aleppo”.

D. – Parlando con la comunità cristiana, cosa emerge?

R. – Mi sembra che ora tutti vogliano andare via da Aleppo, verso l’Europa, verso gli Stati Uniti, verso il Canada. Cercano tutti i mezzi, ma è molto costoso. Adesso, poi, c’è un mercato che mira a sfruttare questa situazione: vogliono comprare le case dei cristiani che intendono scappare offrendo una cifra molto più bassa rispetto al valore della casa. Vogliono fare affari con la loro sofferenza.

D. – Lei più volte ha denunciato che la popolazione siriana sta diventando povera. Qual è l’impegno della Caritas?

R. – La gente è povera. Dobbiamo dare cibo a tutta la Siria, più o meno 30 mila razioni alimentari ogni mese. Poi  fornire medicine, educazione, aiutare le famiglie a pagare la scuola, aiutare i profughi ad avere un appartamento in affitto, aiutare gli anziani che vivono da soli.

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Il saluto del Papa agli Ordinari militari d'Europa

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“La professione militare mostra la sua nobiltà e la sua necessità soprattutto quando è messa a servizio di buone cause come il perseguire la pace, il rispetto del diritto, la protezione dei poveri e dei deboli, l‘opposizione a coloro che vogliono la guerra”. Così scrive il card. Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, a nome di Papa Francesco, in una lettera inviata agli Ordinari militari d‘Europa, riuniti a Parigi per il quarto convegno europeo sul tema “Identità e missione degli Ordinariati militari e il loro ruolo a favore della pace”. “Il soldato è chiamato - continua la lettera - a vivere autenticamente la sua vocazione cristiana in maniera molto particolare, fino al dono generoso della propria vita per il servizio di Dio e dei fratelli, in stretta unione al Cristo morto e risorto”. 

L‘inimicizia possa coniugarsi con l‘amore e il perdono
“Il Santo Padre - scrive ancora il card. Parolin - ha a cuore che i fedeli che abbracciano generosamente questa forma di vita e questo ideale, come anche i loro cari, siano confortati, sostenuti ed illuminati dalla Chiesa con la più grande cura, perché la frequentazione del pericolo e della morte possano coniugarsi con la fede e la speranza, l‘aggressività con la temperanza e la giustizia, l‘inimicizia con l‘amore e il perdono”. Il convegno, che si è aperto lunedì con l‘intervento del card. Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i vescovi, durerà tre giorni. 

Missione dei fedeli dell’Ordinariato per la vita e la difesa della pace
“Il quarto Convegno europeo - ha affermato il card. Ouellet nel suo intervento d‘apertura ripreso dall'agenzia Sir - è l’occasione provvidenziale necessaria per riflettere, ad intra e ad extra, sulla storia e la vita degli Ordinariati in questi anni, alla luce della Costituzione apostolica Spirituali militum curae, affinché alla crescita delle strutture pastorali corrisponda una sempre maggiore consapevolezza della peculiare missione dei fedeli dell’Ordinariato nella protezione della vita e difesa della pace”. 

La visione della pace va ben oltre un mero silenzio delle armi
​“Gli Ordinariati militari - ha poi continuato - ricoprono oggi un ruolo importante nell’impegno della Chiesa per promuovere e favorire la pace. Essi promuovono una visione che mette al centro il bene comune dell’umanità anche nelle questioni di guerra e pace e contribuiscono così ad allargare l’ottica nei dibattiti pubblici, per considerare, oltre agli stretti interessi nazionali, le giuste esigenze del bene comune della società mondiale”. “Questa visione - ha concluso Ouellet - nutrita dalle conseguenze dell’annuncio evangelico e della morale cristiana, comprende una visione della pace che va ben oltre un mero silenzio delle armi. Si orienta alla comprensione biblica della pace che si distingue nell’attenzione ai poveri, ai deboli e più bisognosi, una pace che ha come fondamento l’impegno per creare un mondo più giusto e più umano”. Ad oggi, sono 36 gli Ordinariati militari giuridicamente eretti nel mondo. (R.P.)

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Nomina episcopale in India

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In India, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Aurangabad, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Edwin Colaço, e ha nominato al suo posto il sacerdote Ambrose Rebello, cancelliere e vicario generale della medesima Diocesi. Il neo presule è nato il 17 febbraio 1949, a Nirmal, nella Diocesi di Amravati, oggi Aurangabad. Dopo un’esperienza vocazionale giovanile con i PP. Domenicani, ha compiuto gli studi di Filosofia e di Teologia per il sacerdozio al St. Charles Regional Seminary, Nagpur, come seminarista di Amravati. È stato ordinato sacerdote il 22 aprile 1979, per la nuova Diocesi di Aurangabad. Dopo l’Ordinazione sacerdotale ha ricoperto i seguenti incarichi: (1979-1982) Vicario parrocchiale di Christ the King Parish, Malighogargaon; (1982-1983) Parroco di St. Joseph Parish, Borsar; (1983-1988): Parroco di Christ the King Parish, Malighogargaon; (1988-1993): Parroco di St. Joseph Parish, Ragunathnagar; (1994-2008): Parroco di Pasca Parish, Purna; dal 2008:         Parroco di Karuna Matha Mandir Parish, Vaijapoor; dal 2011 Vicario generale di Aurangabad, Direttore del Diocesan Pastoral Centre, Cancelliere e Vice Direttore dell’Education Society della Diocesi di Aurangabad.

La Diocesi di Aurangabad  (1977), suffraganea dell'Arcidiocesi di Nagpur, ha una superficie di 64.525 kmq e una popolazione di 10.119.485 abitanti, di cui 15.750  sono cattolici. Ci sono 34 Parrocchie, servite da 45 sacerdoti  (23 diocesani e 22 Religiosi),  27 fratelli religiosi, 191 suore e 3 seminaristi.

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Definito testo accordo globale tra Santa Sede e Stato di Palestina

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La Commissione bilaterale tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina nel corso dell’incontro odierno in Vaticano ha dichiarato concluso il lavoro sul testo dell’Accordo globale elaborato sull’Accordo di base siglato il 15 febbraio 2000. L'intesa raggiunta allora era stata firmata tra la Santa Sede e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), quest'ultima tra Santa Sede e Stato di Palestina. Il testo ora verrà sottoposto per l’approvazione alle rispettive autorità, prima che sia fissata prossimamente una data per la firma delle parti.

La plenaria odierna, svoltasi in un “clima cordiale e costruttivo” – come si legge in un comunicato ufficiale – ha visto di fronte due delegazioni di alto livello che hanno riconosciuto il lavoro svolto in precedenza a livello informale dal gruppo tecnico congiunto, dopo l'ultimo incontro ufficiale tenutosi a Ramallah, in Palestina, il 6 febbraio 2014.

In particolare, si precisa nella nota, la Commissione – guidata da mons. Antoine Camilleri, sottosegretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati, e dall’ambasciatore Rawan Sulaiman, viceministro degli Affari Esteri per gli affari multilaterali dello Stato di Palestina – ha “preso atto con grande soddisfazione dei progressi compiuti nella stesura del testo dell'accordo, che si occupa di aspetti essenziali della vita e dell'attività della Chiesa cattolica in Palestina”. Aspetti che lo stesso mons. Camilleri ha illustrato in un’intervista all’Osservatore Romano – libertà di azione della Chiesa, giurisdizione, statuto personale, luoghi di culto, la sua attività sociale e caritativa, i mezzi di comunicazione sociale e le questioni fiscali e di proprietà.

Ma il testo dell’Accordo, sottolinea nell’intervista mons. Camilleri, esprime in particolare “l’auspicio per una soluzione della questione palestinese e del conflitto tra israeliani e palestinesi nell’ambito della Two-State Solution e delle risoluzioni della comunità internazionale, rinviando a un’intesa tra le parti”. Sarebbe “positivo – conclude il capo della delegazione vaticana – che l’accordo raggiunto potesse in qualche modo aiutare i palestinesi nel vedere stabilito e riconosciuto uno Stato della Palestina indipendente, sovrano e democratico che viva in pace e sicurezza con Israele e i suoi vicini, nello stesso tempo incoraggiando in qualche modo la comunità internazionale, in particolare le parti più direttamente interessate, a intraprendere un’azione più incisiva per contribuire al raggiungimento di una pace duratura e all’auspicata soluzione dei due Stati”. (A cura di Alessandro De Carolis)

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Madonna di Fatima. Francesco: messaggio di misericordia e tenerezza

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Oggi la Chiesa celebra la memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Fatima. Papa Francesco lo ha ricordato all’udienza generale invitando tutti i fedeli “a moltiplicare i gesti quotidiani di venerazione e imitazione della Madre di Dio”. “Affidatele tutto ciò che siete - ha detto il Papa - tutto ciò che avete, e così riuscirete ad essere uno strumento della misericordia e della tenerezza di Dio per i vostri familiari, i vostri vicini e amici”. In particolare poi ai giovani ha raccomandato “la recita quotidiana del Rosario”, agli ammalati di “sentite Maria presente nell’ora della croce” e agli sposi novelli di pregarla perché non manchi mai nella loro casa “l’amore e il rispetto reciproco”.

Oggi si ricorda anche l’attentato a Papa Wojtyla in Piazza San Pietro avvenuto il 13 maggio di 34 anni fa. E il messaggio di Fatima, tra carisma e profezia, è stato al centro del forum di mariologia che si è tenuto nei giorni scorsi a Roma per iniziativa della Pontificia Accademia Mariana Internazionale in vista del centenario delle apparizioni avvenute nel 1917. Alessandro Filippelli ha intervistato mons. Augusto dos Santos Marto, vescovo di Leiria-Fatima: 

R. – Quando Papa Benedetto è venuto a visitare Fatima nel 2010 ci ha detto: “Faccio voto che questi sette anni che restano ancora per celebrare il centenario siano di aiuto al trionfo del cuore immacolato di Maria, al trionfo dell’amore”. Allora, noi abbiamo fatto un programma di sette anni per far conoscere tutto il messaggio di Fatima. Il primo anno è stato un invito a riconoscere Dio come Dio nell’atteggiamento dell’adorazione e poi, dato che erano sei le apparizioni della Madonna ai pastorelli, abbiamo individuato il tema di ognuna delle apparizioni per ogni anno e così stiamo presentando tutto il messaggio.

D. – Quale attività hanno le apparizioni di Fatima e il messaggio che la Vergine diede ai tre pastorelli?

R. – Il messaggio di Fatima è un  messaggio di misericordia, di speranza, di conforto, per la Chiesa perseguitata, in quel tempo, nel XX secolo dai regimi comunisti, atei. E’ anche un messaggio di speranza per l’umanità minacciata dalle due grandi guerre mondiali. E’ questo un messaggio per l’oggi, nella storia che stiamo vivendo, sia a livello mondiale - dove ci sono fuochi di guerre, di conflitti fra i popoli - sia anche per la Chiesa che vive la persecuzione, ma anche per l’Occidente dove non c’è questa persecuzione ma c’è l’atteggiamento dell’indifferenza verso Dio. Allora, per essere cristiano oggi bisogna essere un cristiano coraggioso, cioè martire, non soltanto nel senso del sangue versato, ma martire nel senso della testimonianza coraggiosa.

D. - Queste apparizioni, riconosciute autentiche, sono un patrimonio di tutta la Chiesa: che significato hanno per il mondo e nell’appello alla conversione interiore?

R. – Il mondo oggi vive attraverso la cultura dominante, si è dimenticato di Dio. C’è indifferenza e la dimenticanza di Dio contagia anche i cristiani che li porta a vivere come se Dio non ci fosse. Poi anche c’è il neopaganesimo che è la sostituzione a Dio degli idoli che occupano il cuore, che è il luogo proprio di Dio.

D. – Quale atteggiamento ha riscontrato verso Fatima in san Giovanni Paolo II, in Benedetto XVI e oggi in Papa Francesco che ha espresso il desiderio di visitare Fatima e il Portogallo nel 2017?

R. – Giovanni Paolo II è stato il Papa di Fatima, è stato quello che attraverso le circostanze,  forse provvidenziali della storia - è stato colpito con quell’attentato del 1981 - ha riscoperto e ha fatto riscoprire anche agli altri il vero messaggio di Fatima. Poi è andato altre volte a Fatima e questo ha messo Fatima nel cuore della Chiesa. Poi Benedetto XVI, che ha detto: “Sbagliano quelli che pensano che il messaggio di Fatima sia già esaurito, è ancora una vera profezia per il cammino del pellegrinaggio della Chiesa nel mondo”. Poi Papa Francesco: sono stato ricevuto da lui 15 giorni fa e mi ha detto subito: “Sì, io voglio andare a Fatima per il centenario”. E abbiamo parlato sull’aspetto della misericordia nel messaggio di Fatima e dell’Anno santo straordinario della misericordia che il Papa ha indetto per quest’anno.

Sull'attualità e l'importanza delle parole affidate da Maria ai pastorelli di Fatima, Alberto Goroni ha sentito il cardinale portoghese Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione delle Cause dei Santi: 

R. – Certamente le apparizioni di Fatima sono un grande avvenimento, non solo per la Chiesa portoghese, ma per la Chiesa universale. La Madonna infatti, ai tre pastorelli, ha ricordato i principi fondamentali del Vangelo. Innanzitutto, la fede in Dio, in un Dio concreto, in un Dio uno e trino. La Santissima Trinità ha un ruolo importante nelle apparizioni di Fatima, tanto che prima che la Madonna  apparisse ai tre pastorelli, ci sono le apparizioni dell’Angelo che ha parlato alla Santissima Trinità. Poi, naturalmente, si dice che Fatima sia l’altare del mondo; ma io aggiungerei che è anche la cattedra del mondo, perché la Madonna è venuta ad insegnare molte cose alla Chiesa. La Madonna non ci ha detto niente di originale: ci ha ricordato alcuni principi, quelli fondamentali del Vangelo, che gli uomini purtroppo, soprattutto del nostro tempo, dimenticano troppo facilmente; vivono come se tali principi non esistessero. Perciò Fatima è importantissima da un punto di vista pastorale, ma anche da un punto di vista dottrinale.

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Il card. Parolin al Bambino Gesù: curare le nuove emergenze

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Il segretario di Stato vaticano, card. Pietro Parolin, ha portato stamani il saluto di Papa Francesco all’Ospedale Bambino Gesù. Il nosocomio romano, fondato quasi 150 anni fa per curare i minori, ha celebrato oggi, nella sede di San Paolo fuori le Mura, il 30.mo anniversario dal riconoscimento come Istituto di Ricovero e Cura a carattere Scientifico. Nel suo intervento, il porporato ha sottolineato che, mai come oggi, l’attività dell’istituzione deve essere ispirata a sentimenti di solidarietà. Ascoltiamo il card. Pietro Parolin nell’intervista di Giancarlo La Vella

R. – La solidarietà per sua natura deve aprirsi al mondo e deve rispondere a tutte le esigenze, a tutte le necessità e a tutti i bisogni. Credo che, quindi, questa sia in un certo senso la strada normale, ovvia, in cui si deve muovere il Bambino Gesù, proprio perché nasce da questa intuizione di carità che poi i Papi hanno ricevuto ed hanno fatto propria ed hanno continuato sostenere ed incoraggiare nel corso del tempo.

D. – L’emergenza oggi nasce soprattutto al Sud dell’Europa: intervenire nei confronti dei più deboli della società che sono i bambini, soprattutto se malati e soprattutto se arrivano dopo le vicende drammatiche che conosciamo …

R. – Certamente. Oggi l’emergenza è quella delle migrazioni, di tutti questi profughi che bussano alle porte dei nostri Paesi tra i quali si trovano anche molti bambini. Direi questo: pensiamo da quali situazioni spaventose  di conflitto, di violenza, di guerra, di miseria queste persone fuggono. Credo che se ci mettiamo in questa prospettiva,  forse anche le nostre reazioni e i sentimenti del nostro cuore possano cambiare.

D. - In questa situazione è possibile far coincidere valori morali, valori religiosi e valori scientifici?

R. - Credo di sì, sempre a partire dall’idea profondamente cristiana della centralità della persona umana. Tutto quello che si fa, anche a livello di ricerca scientifica, deve servire per l’aiuto concreto alla persona umana nelle sue varie necessità.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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La buona educazione: all'udienza generale Papa Francesco parla della famiglia e ripropone le parole chiave della vita in comune.

Una tavola per tutti: il Papa ricorda che su cibo e ambiente Dio giudicherà i potenti della terra.

Sulle spalle del nostro pastore: in prima pagina, Manuel Nin sull'Ascensione del Signore nella tradizione bizantina.

Per il bene di tutta la società e della Chiesa: intervista a monsignor Antoine Camilleri, sotto-segretario per i Rapporti con gli Stati, a conclusione della riunione plenaria delle delegazioni della Santa Sede e dello Stato di Palestina.

Una contadina al posto dell'operaio: Giulia Galeotti sul doppio anniversario del Catholic Worker.

Forti nella volontà: Arturo Paoli sul diritto di dirsi cristiano.

Per poveri e per la Chiesa: Giampietro Dal Toso, segretario del Pontificio consiglio Cor unum, sul "dinamismo istituzionale" di Caritas internationalis.

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Oggi in Primo Piano



Nepal. Ancora crolli e vittime, il dramma di Kathmandu

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Il Nepal continua a tremare, ma l’attenzione della stampa cala e le Ong lanciano l’allarme. Ieri, la scossa più forte di magnitudo 7.3 seguita da decine di repliche con crolli e frane che hanno ucciso una settantina di persone e ne hanno ferite circa 2.000. Disperso anche un elicottero dei Marines. In molti hanno trascorso la notte all’aperto tornando con la memoria al drammatico sisma del 25 aprile, come racconta da Katmandu Francesca Schraffl, responsabile comunicazione per il network europeo "Alliance 2015". L’intervista è di Gabriella Ceraso

R. – Al momento sembra di essere tornati indietro di due settimane. Dopo il terremoto di ieri, la gente è molto spaventata, dorme di nuovo per la strada, all’aperto. Anche noi abbiamo dormito nella lobby dell’albergo e siamo dovuti scappare fuori due volte perché ci sono state delle forti scosse di assestamento. Moltissimi negozi sono chiusi e soprattutto si è rotta l’illusione di sicurezza che si era iniziata a creare negli ultimi giorni. Sono tornati a credere di essere ancora molto vulnerabili. Siamo ancora al punto che protezione e riparo sono bisogni molto urgenti, seguiti poi da cibo e da acqua.

D. – I problemi di rifornimento sono stati risolti rispetto all’inizio dell'emergenza?

R. – La situazione è migliorata, però ad esempio ieri a un certo punto l’aeroporto, a causa del terremoto, ha chiuso per qualche ora e questo sicuramente non ha aiutato. Al momento in realtà il problema, più di far entrare i materiali nel Paese, è quello di distribuirli nelle zone remote, perché alcune strade erano inaccessibili prima e ora a causa del terremoto di ieri ci sono state moltissime frane, quindi ci sono alcune zone inaccessibili e lì non si riesce a portare gli aiuti.

D. – Il fatto che molta stampa sia andata via e quindi non ci siano gli inviati è un segnale negativo, la questione Nepal rischia di essere messa a tacere... Questo a voi che siete a lavoro lì sul terreno fa paura? Vuoi fare un appello?

R. – Sì, assolutamente. Infatti mi fa molto piacere che voi invece ci abbiate contattato. Il Nepal in questo momento ha bisogno del supporto della comunità internazionale più di prima. Non sono stati raccolti soldi a sufficienza a seguito dell’appello lanciato dalle Nazioni Unite. Purtroppo dopo due settimane l’attenzione dei media è calata, ma non è il momento. Anche se non ci fosse stato il terremoto di ieri, ci sono ancora fortissimi bisogni nel Paese. Quindi, chiedo veramente alle persone di continuare a mantenere l’attenzione e, possibilmente, di donare attraverso le varie ong italiane e internazionali perché la gente ha veramente tanto bisogno di aiuti esterni.

D. – Tu hai già detto varie volte che il Nepal era già un Paese povero e che ora questa gente sembra non avere più  futuro. Ci vorrà tanto, tanto tempo per pensare a una ricostruzione. Ma c’è chi ha addirittura detto: “Il Nepal è un Paese finito”. Tu che sei lì, cosa puoi dire a riguardo?

R. – Non credo. Io sono andata nelle zone montane la settimana scorsa. È stata un’esperienza molto intensa: ho visto persone spaventate, preoccupate per il loro futuro, ma ho visto anche moltissima solidarietà: le comunità si aiutano a vicenda.Chi ha una casa ancora in piedi ospita altre persone, chi ha una cucina funzionante fa da mangiare per gli altri. La situazione è sicuramente preoccupante, ma io vedo un senso di ottimismo e di voler dire: “Ce la facciamo”. Ci vorrà un sacco di tempo, ci vorrà sicuramente un grande sostegno da parte della comunità internazionale. Però, credo che le possibilità ci siano, vedendo anche le emozioni e le sensazioni tra la gente.

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Approvata l'Agenda sull'immigrazione: l'Italia non più sola

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Via libera della Commissione europea all’Agenda per l’immigrazione, il piano per affrontare l’aumento dei flussi, che stabilisce un sistema di quote obbligatorio per la redistribuzione dei richiedenti asilo fra i Paesi dell’Unione. In Italia arriverà il 9,94% dei 20 mila profughi che risiedono in campi profughi all'estero e che hanno i requisiti per ottenere lo status di rifugiati, e l'11,84% dei richiedenti asilo già presenti in Europa, o che entreranno direttamente in territorio europeo. “E’ una giornata storica per l’Italia”, questo il commento del capo della diplomazia dell’Unione Europea, Federica Mogherini, per la quale ora la responsabilità dell’accoglienza, finora quasi unicamente italiana, diventa europea. Francesca Sabatinelli ha intervistato Edoardo Greppi docente di Diritto dell'Unione Europea e di Organizzazione internazionale all’Università di Torino: 

R. - Se questa agenda, approvata nei termini che vedremo, cominciasse davvero a prendere atto del fatto che l’immigrazione è un problema dell’Unione e non di uno Stato membro, allora questo sarebbe già un grosso passo avanti.

D. - Il fatto che sia un problema, diciamo così, per tutta l’Unione lo dimostrano le quote di redistribuzione che in qualche modo riconoscono all’Italia, e non solo anche a  Malta, Grecia, Spagna, il fatto di essere Paesi in prima linea. Questo quindi mette in discussione il trattato di Dublino che prevedeva il dover rimanere dei richiedenti asilo nei Paesi di arrivo?

R. – Il regolamento di Dublino è sempre stato giustamente criticato di questi tempi, perché offre una rappresentazione della realtà che non è più adeguata o che almeno non lo è adeguata in un’ottica di condivisione della responsabilità. Se è vera la premessa che tutti quanti conosciamo, e cioè che queste migliaia di persone non guardano all’Italia come punto di arrivo definitivo, il dire: “Si approda in Italia, quindi è un problema italiano”, pare a tutti quanti, e apparentemente adesso anche alla commissione europea nella sua interezza e in primo luogo nel suo presidente, un po’ una sottovalutazione della reale portata del problema. Quindi, se questo davvero portasse a una modifica dell’impianto normativo, bene! Ben venga.

D. - Uno degli altri punti dell’Agenda europea sull’immigrazione riguarda la missione di sicurezza e difesa contro trafficanti e scafisti, che dipenderà però dai tempi dell’approvazione della risoluzione che verrà dibattuta alle Nazioni Unite. Non saranno azioni di guerra, questo è ciò che è stato ripetuto …

R.  – E’ chiaro che qui siamo di fronte a una delle colonne portanti dell’ordinamento internazionale, cioè la comunità internazionale, il diritto internazionale, riconosce ancora il tradizionale principio di sovranità dello Stato come punto di riferimento normativo essenziale. E’ chiaro, quindi, che non si possono realizzare operazioni che implichino l’uso della forza senza il consenso dello Stato territoriale, dello Stato “sovrano”. Il problema ovviamente è che la Libia non è uno Stato sovrano, lo Stato è “sovrano”, essenzialmente, in quanto controlla effettivamente il territorio, esercita i propri poteri sovrani sulla popolazione del territorio, ecc. E in Libia abbiamo almeno due governi, entrambi che avanzano pretese di rappresentatività del tutto, quello di Tobruk, e quello di Tripoli, in più abbiamo tutta una serie di altre entità para-sovrane, attori non statali, che in qualche misura controllano diverse porzioni del territorio. Allora, in questi casi, l’ordinamento delle Nazioni Unite prevede che la comunità internazionale, rappresentata in questo caso dal Consiglio di sicurezza, possa anche decidere azioni implicanti l’uso della forza, con ciò passando sopra l’asserita sovranità statale. Se il Consiglio di sicurezza decidesse in questo senso, evidentemente ci sarebbero tutti i presupposti perché un certo numero di Stati, e si ipotizza a comando integrato italiano, esercitasse questi poteri sul territorio libico e nelle acque. E’ chiaro che nelle scorse settimane e mesi, secondo me, si è un po’ in modo leggero girato intorno a idee come quella del blocco navale: il blocco navale è un’azione di guerra. Vorrei vedere francamente chi con serenità nell’ordinamento internazionale oggi si sentirebbe di dire: “Spariamo sui barconi”. Se così fosse io personalmente riterrei di dovermi dissociare dalla legittimità di un’operazione di questo genere. Non sono in grado io di valutare la praticabilità di misure coercitive di questo genere. Noi abbiamo specialisti nelle nostre forze armate, e nelle forze armate degli altri Paesi potenzialmente interessati, che sono in grado di dire quello che sarebbe praticabile e quello che invece sarebbe troppo rischioso per questa povera gente che fugge tragedie epocali e che ha diritto al rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti umani fondamentali. Qualcuno giustamente è più prudente e più attento a dire: va bene, se diamo il via libera all’uso della forza, attenzione a come lo configuriamo questo uso della forza. Cioè, cosa vuol dire impedire ai barconi di partire? Cosa vuol dire distruggere o disarticolare il sistema che porta i barconi ad attraversare il Mediterraneo? Quali mezzi si possono adoperare? In che misura la forza militare potrà essere ritenuta adeguata e per ottenere quale risultato specifico? A che distanza dalle coste? Sono tutti elementi tecnici che però non sono irrilevanti nella presa di una decisione politica e giuridica.

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Sud Sudan: medici e missionari lasciano Stato di Unity

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Decine di migliaia di persone che abbandonano le loro case, ma anche medici e missionari costretti ad evacuare: è la situazione nello Stato sud sudanese dello Unity. Uno dei tre Stati del Paese africano in cui si fronteggiano i sostenitori del presidente, Salva Kiir, e i ribelli del suo ex vice, Riek Machar, ma la lotta per il potere tra i due uomini forti del più giovane Stato africano sembra aver riaperto le ferite di tensioni tra Dinka e Nuer, principali etnie del Paese, mai sopite. Fausta Speranza ha raggiunto telefonicamente in Sud Sudan, Anna Sambo, responsabile degli operatori della ong Asi: 

R. – Quello che sappiamo è che lo Stato dello Unity è uno dei tre Stati dove i combattimenti vanno avanti dal dicembre del 2013 e in questo momento si sono intensificati. C’è, quindi uno scontro tra l’esercito governativo e l’esercito dei ribelli. Sappiamo anche che dallo Stato dei Laghi, Lake State, dove noi abbiamo dei progetti, stanno passando molti mezzi militari. Oggettivamente, c’è un contrattacco da parte dell’esercito governativo nei confronti dei ribelli, proprio nello Stato dello Unity. Quello che sappiamo è che la Croce Rossa Internazionale e Medici senza Frontiere hanno evacuato gli ospedali in cui stavano lavorando. E’ una notizia grave e anche triste, perché significa che loro che sono lì sempre, da tanto, anche in situazioni molto pericolose, non hanno proprio le condizioni per poter soccorrere le persone. Si vede che non hanno più nessun aiuto dalla popolazione, dalle forze che sono presenti nello Stato dello Unity. E sappiamo che i Comboniani che hanno una missione a Leer, che è nello Stato dello Unity appunto, sono dovuti scappare, cosa che era già successa dopo lo scoppio della guerra a gennaio del 2014. Proprio l’altro giorno, domenica, sono stata a Messa in una Chiesa di Comboniani e c’erano proprio queste persone che erano scappate dalla missione.    

D. – Quando pensiamo al Sud Sudan, pensiamo immediatamente al conflitto con il Nord. Ma si tratta di altre situazioni, vero?

R. – Sì, infatti. Sembra ci siano state delle tensioni con il Sudan, perché ci sono state recentemente le elezioni. In realtà, però, il conflitto è proprio interno, tra l’esercito governativo, quindi del presidente Salva Kiir, e l’esercito dei ribelli.

D. – Lei dove si trova?

R. – In questo momento sono nello Stato dei Laghi, a Rumbek, che è la capitale. Sono in missione per una settimana, per visitare alcuni luoghi dove sono presenti i nostri progetti. Normalmente, però, di base sono a Juba, la capitale del Sud Sudan.

D. – Qual è lo stato d’animo della popolazione?

R. – Lo stato d’animo della popolazione è di preoccupazione, soprattutto per la crisi economica che c’è in questo momento. L’elemento più grave è, infatti, che il pound sudanese – la moneta locale – si stia svalutando alla velocità della luce. Nella pratica, dunque, gli stipendi delle persone valgono sempre meno. I prezzi sul mercato aumentano sempre di più e questo causa grosse difficoltà ai sud sudanesi. Di conseguenza, c’è preoccupazione nelle persone, che temono di non poter riuscire a comprarsi da mangiare.

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Battesimo figlio immigrata. De Luca: accogliere è abbattere muri

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Oggi alle 16.30 nella Concattedrale di Santa Maria Assunta di Policastro Bussentino, in provincia di Salerno, il vescovo della diocesi di Teggiano-Policastro, mons. Antonio De Luca, battezza  la bambina di una coppia di immigrati nigeriani arrivati in Italia con uno dei tanti barconi della speranza. La madre, giunta incinta dopo aver affrontato una traversata difficile e rischiosa per la propria vita e quella della nascitura, ha deciso di chiamare la piccola Immacolata. Federico Piana ne ha parlato con in vescovo di Teggiano–Policastro e responsabile Migrantes della Conferenza Episcopale Campana, mons. Antonio De Luca

R. – Io vorrei cogliere l’occasione di questo aspetto cristiano, il Battesimo, per evocare tutta la grande responsabilità che ci prendiamo nell’accogliere. Il Battesimo è accoglienza nella comunità; il Battesimo cristiano è accoglienza nella vita in Cristo. E noi faremo il Battesimo di una bambina nata nelle nostre strutture di accoglienza da una giovane coppia che vuole esprimere anche con un’adesione di fede, con la richiesta del Battesimo, l’accoglienza che è riservata a chiunque entri in un nuovo contesto e in un nuovo territorio. Pertanto la nostra comunità si incammina verso questa prospettiva di evangelizzazione ma senza cadere nel pericolo del proselitismo.

D. – La sua diocesi è una diocesi di frontiera che sta accogliendo tanti immigrati. Qual è l’opera della diocesi, la sua opera di vescovo nell’accogliere le persone che arrivano lì?

R. – La nostra diocesi è arrivata a quota 950 immigrati, una piccola realtà, quella territoriale, che ci riguarda come Chiesa. E tuttavia, di fronte alla progressiva e incalzante domanda di accoglienza e di ospitalità, abbiamo risposto con le nostre strutture diocesane, con gli organismi della Caritas e con le strutture collegate al nostro impegno ecclesiale nel fare accoglienza. La nostra è un’accoglienza, soprattutto. Oltre a donare cose materiali, generi di prima necessità, oltre a un tetto e un  piatto di riso, è un’accoglienza promuovente, un’accoglienza che mette la persona in una condizione di rispetto dei propri diritti e del riconoscimento anche di doveri. Cerchiamo di avviare un percorso formativo attraverso una molteplicità di presenze di mediatori culturali: accogliamo la famiglia, accogliamo singoli migranti, favoriamo la vita, l’istruzione, molti dei ragazzi, bambini, frequentano le nostre scuole. Noi crediamo che l’accoglienza sia un problema che riguarda la nostra cultura, riguarda le radici cristiane delle nostra Europa. Non è possibile pensare di ridimensionare l’accoglienza  ponendo in essere un’opera di ostilità nei confronti dei migranti.

D. – Bisogna davvero a questo punto cambiare il nostro concetto di accoglienza?

R. – Noi crediamo fermamente nei gesti profetici che la Chiesa nel corso dei secoli ha sempre operato. Siamo convinti che le identità nazionali, culturali, religiose, non si edificano innalzando barriere, non si edificano rafforzando confini. Le identità si esprimono nell’abbattimento dei muri. San Giovanni Paolo II ha riconfermato questa grande attitudine della cultura cristiana: è l’abbattimento dei muri che consente l’incontro dei popoli. Allora noi crediamo che questa vicenda delle migrazioni dei popoli non possa essere vissuta esclusivamente come un fatto episodico o un’emergenza occasionale.

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Al via la 68.ma edizione del Festival di Cannes

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Il 68.mo Festival del cinema di Cannes prende il via questa sera. Dalle 19 la cerimonia di apertura, nel segno della Francia, con la presentazione di “A testa alta”, film della regista-attrice Emmanuelle Bercot, storia di un ragazzo e della sua redenzione attraverso le tante pagine dolorose di una adolescenza vissuta senza il supporto della famiglia. Il servizio da Cannes di Miriam Mauti

Cannes 68 prende il via oggi, in un'atmosfera di maggiori controlli di sicurezza e di attesa per i film e le star che arriveranno. Dodici giorni di cinema, che rendono la cittadina del sud della Francia la capitale non solo per i cinefili, ma per gli operatori del mercato. Cannes diventa infatti per quasi due settimane il luogo in cui vendere, comprare, vedere film, stringere accordi. L'apertura stasera è affidata al francese "La tete haute", "A testa alta", firmato dall'attrice-regista Emmanuelle Bercot. Una delle rare aperture del festival affidate a una regista donna, che ha realizzato con l'aiuto di Catherine Deneuve, Benoit Magimel, e un cast riuscito, un film dal forte impegno su temi sociali: la storia di Malony, interpretato da Rod Paradot, con rabbia e dolcezza, abbandonato dalla madre giovanissima nell'ufficio di un giudice minorile, Catherine Deneuve, che vedremo seguire, con severità e apprensione, l'escalation di errori del bambino che diventa ragazzo. Un film in cui tutti sbagliano, in cui nessuno può dirsi completamente innocente, se non quel bambino, nei primi minuti del film.

Cannes parla inglese
"La tete haute" è fuori concorso in un Festival che presenta ben cinque autori francesi, anche se la lingua più parlata sarà l'inglese, scelto non soltanto da due degli autori italiani in competizione, Paolo Sorrentino e Matteo Garrone con le loro produzioni internazionali, ma anche dal greco Yorgos Lanthimos e dal norvegese Joachim Trier. Molti anche i titoli dall'Asia, con la presenza di alcuni maestri riconosciuti, dal giapponese Kore-da al cinese Ja Zang Kie, a Hou sia sien. Diciannove titoli in totale in concorso per la Palma d'oro, che verrà assegnata domenica 24 maggio da una giuria di star, a cominciare dai presidenti di giuria, per la prima volta due, Ethan e Joen Coen.

I centenari della Bergman e di Wells
Il tutto sotto lo sguardo di Ingrid Bergman, attrice del quale il 29 agosto si celebra il centenario della nascita e che Cannes ha voluto come immagine simbolo di questa edizione, che ricorderà anche il centenario, appena trascorso, della nascita di Orson Welles. E tra gli omaggio fuori concorso, quello a "Rocco e i suoi fratelli", il film di Luchino Visconti che verrà presentato restaurato dalla Cineteca di Bologna.

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Nella Chiesa e nel mondo



Burundi: generale annuncia destituzione presidente Nkurunziza

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In atto un tentativo di golpe in Burundi. Il generale Godefroid Niyombare, già capo di Stato maggiore dell'Esercito e poi responsabile dei servizi di intelligence sostituito in febbraio, ha annunciato la destituzione del presidente Pierre Nkurunziza. Il generale ha detto che sta "collaborando con la società civile" e con "altri" soggetti allo scopo di "formare un governo di transizione". A far precipitare la situazione la pretesa di Nkurunziza di candidarsi alle presidenziali del 26 giugno prossimo, nell'intento di conquistare il terzo mandato quinquennale consecutivo, malgrado la Costituzione ne preveda al massimo due. L'annuncio del golpe è stato minimizzato dal portavoce presidenziale. Il capo di Stato burundese è attualmente in Tanzania per un vertice della Comunità dell'Africa Orientale. intanto, a Bujumbura continuano le manifestazioni contro il presidente Nkurunziza, con la polizia che è già intervenuta duramente. Migliaia di dimostranti stanno protestando davanti alla Tv di Stato protetta da militari fedeli al presidente.

 

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Siria: ostaggi cristiani assiri rischiano di diventare “scudi umani”

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Da quattro giorni le forze della coalizione a guida Usa impegnate in interventi militari mirati contro le postazioni dei jihadisti del sedicente Stato Islamico (Is), hanno intensificato i raid aerei sulla sponda orientale del fiume Khabur, area della provincia siriana nord-orientale di Jazira, attaccata e occupata dall'Is lo scorso febbraio. Fonti locali riferiscono all'agenzia Fides che i raid della coalizione sono a supporto alla controffensiva di terra compiuta dalle milizie curde, che di recente hanno riconquistato alcuni villaggi dell'area, facendo arretrare i miliziani dell'Is.

Il dramma di 230 ostaggi assiri presi in ostaggio
​Lungo la valle del fiume Khabur, affluente perenne dell'Eufrate, c'erano più di 30 villaggi cristiani, fondati negli anni Trenta del secolo scorso, dove avevano trovato rifugio i cristiani assiri e caldei dell’Iraq, fuggiti dai massacri perpetrati allora dall'esercito iracheno. Il 23 febbraio scorso l'area è stata attaccata dai jihadisti dell'Is, che hanno provocato la fuga di massa della popolazione assira e ancora detengono nelle loro mani più di 230 cristiani presi in ostaggio da allora. Riguardo alla loro sorte, nei giorni scorsi l'Assyrian Network for Human Rights ha rilanciato le indiscrezioni secondo cui a marzo i jihadisti avrebbero chiesto in cambio della loro liberazione un riscatto globale di 22 milioni di dollari, equivalenti a quasi 100mila dollari per ciascun ostaggio. Davanti all'impossibilità conclamata di poter corrispondere a tale richiesta astronomica da parte della comunità assira, le trattative si sarebbero interrotte e tutti i tentativi di riaprire canali di negoziato attraverso alcuni capi di clan tribali locali sarebbero andati a vuoto. 

Gli ostaggi potrebbero essere usati come "scudi umani"
Fonti locali, contattate da Fides, riferiscono che sono stati gli stessi jihadisti a far sapere che non intendono più trattare la liberazione degli ostaggi su base economica. Le stesse fonti ritengono che i jihadisti potrebbero aver cambiato strategia, nella prospettiva di utilizzare gli ostaggi assiri come potenziali scudi umani davanti a eventuali offensive operate contro le loro postazioni dalle milizie curde o dagli aerei della coalizione. (G.V.)

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Richiesta Ong all'Ue: minerali causa di conflitti nel mondo

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Più di 40 organizzazioni della società civile, tra cui la ong dei Gesuiti Alboan, hanno firmato una dichiarazione indirizzata all'Unione Europea (Ue) criticando "l’impatto minimo e insufficiente” della proposta di legge europea sull’estrazione ed il commercio dei minerali provenienti dalle zone di conflitto, che non ritengono indirizzata a favorire un commercio "responsabile". Come segnalano queste organizzazioni, tale legge “raccomanda ma non esige” quindi "non garantirà la cessazione degli scambi di minerali che finanziano i gruppi armati in quei Paesi".

Chiesta una legge forte sul controllo della fornitura dei minerali
Tale progetto di legge regolamenta l'estrazione, la fornitura e la commercializzazione di quattro minerali (stagno, tantalio, tungsteno e oro) da parte delle imprese europee. Tuttavia non obbliga le aziende a comunicare all'Ue le loro catene di estrazione e distribuzione, lasciando la libertà di farlo volontariamente. Le ong ritengono che la Commissione dell’Ue abbia perso l'opportunità di "fare una legge forte, che imponga alle imprese e non solo consigli, un maggiore controllo sulla fornitura dei minerali".

40% dei conflitti degli ultimi 60 anni legati alle risorse minerarie
​Nella nota ripresa dall'agenzia Fides si ricorda che, secondo l'Onu, il 40% dei conflitti degli ultimi 60 anni è stato in qualche modo legato all'accesso alle risorse minerarie. Inoltre, insieme ai conflitti, arrivano le inevitabili violazioni dei diritti umani e l’aumento della povertà. Di fronte a questa situazione, molte organizzazioni legate alla Chiesa, insieme a diversi gruppi della società civile, si sono attivate promuovendo una petizione da presentare entro il 18 maggio 2015 al Parlamento Europeo. Quel giorno infatti l'assemblea di Strasburgo si riunirà in sede plenaria per votare la normativa già discussa nei mesi scorsi, ritenuta però deficitaria e inefficace. (C.E.)

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Kenya: leader cristiani ricordano le vittime di Garissa

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“Nel rendere omaggio alle vittime dell’attacco terroristico di Garissa, dobbiamo continuare a pregare per coloro che hanno ucciso perché si convertano e abbiano rispetto per la vita”: così ha esortato il card. John Njue, arcivescovo di Nairobi, nel corso della preghiera ecumenica in ricordo delle vittime dell’assalto del 2 aprile all’Università di Garissa, nel corso del quale 148 persone hanno perso la vita. L’attacco è stato rivendicato dagli Shabaab somali. L’incontro di preghiera ha visto la partecipazione dei leader religiosi della Chiesa cattolica, dell’Africa Inland Church, della Deliverance Church e di quella Presbiteriana.

L'insicurezza crea divisione tra i gruppi religiosi
L’insicurezza nella quale vivono diverse aree del Kenya è stata denunciata di recente dalla locale Conferenza episcopale. Su questo punto è ritornato mons. Martin Kivuva Musonde, arcivescovo di Mombasa, che ha lanciato l’allarme sul fatto che l’insicurezza “sta creando una divisione tra i gruppi religiosi”.

Maturità politica del Kenya spazzata via da terrore e banditismo
​“Alcuni dicono che Dio ci ha abbandonato - ha affermato mons. Kivuva -. Siamo stati l’orgoglio dell’Africa per diversi anni. Eravamo conosciuti per la nostra maturità politica, come un centro per gli affari e per il turismo, ma tutto questo ora è stato spazzato via dal terrore e dal banditismo”. Eliud Wabukala, primate della Chiesa anglicana del Kenya, ha infine condannato “la cultura della memoria corta, dove, dopo ogni attacco, al rumore iniziale segue un calcolato silenzio” ed ha esortato il governo ad assicurare la giustizia, perché “abbiamo sentito di arresti e di persone portate di fronte alla Corte, ma mai della conclusione di questi casi”. (L.M.)

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Conferenze episcopali dell’Europa centro-orientale sulla famiglia

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A Bratislava nella Repubblica Slovacca si è concluso ieri un incontro internazionale dei vescovi della Europa centro-orientale con la partecipazione di presuli di Lituania, Croazia, Ucraina, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Bielorussia e Slovacchia. In  un comunicato reso noto al termine dell’incontro, i vescovi affermano che stanno pregando affinché il prossimo Sinodo dei vescovi porti una nuova luce per la cura pastorale delle famiglie. “Esprimiamo la nostra sincera gratitudine a tutte le famiglie fedeli, nelle quali i valori evangelici sono onestamente vissuti e trasmessi alle future generazioni. Questo è indispensabile – scrivono i presuli - perché se distruggiamo la famiglia, la società stessa verrà distrutta. Ci auguriamo perciò che la Chiesa cattolica diventi per tutti una vera casa paterna, dove anche ogni peccatore che si pente possa trovare la grazia di Dio”.

Le sfide per la famiglia segnata da comunismo e secolarizzazione
“Siamo consapevoli – affermano i vescovi dell’Europa centro-orientale -  che sotto il forte influsso della secolarizzazione, il matrimonio e la famiglia stanno affrontando varie sfide, risultanti dai grandi cambiamenti culturali e sociali, avvenuti soprattutto negli ultimi decenni. Possiamo constatare che nei nostri Paesi dolorosamente segnati dal comunismo, ci sono numerose famiglie con un unico genitore, tanti bambini nati fuori del vincolo matrimoniale, un numero elevato di cattolici divorziati. Sempre più numerose sono le coppie che vivono insieme senza matrimonio né canonico né civile”.

Formazione permanente per coppie e famiglie
​“Sentiamo la forza dell'insegnamento di Cristo che ci ha rivelato la piena verità sull'uomo secondo il disegno del Creatore. La proposta formata durante il nostro incontro a Bratislava – osservano - suggerisce la formazione sistematica delle coppie e delle famiglie, non soltanto nel periodo precedente al matrimonio, ma anche per tutta la vita, sia con l'aiuto dei sacerdoti sia con quello dei movimenti familiari e le famiglie cristiane mature”. Infine i presuli si augurano  che l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia - e specialmente il contributo di san Giovanni Paolo II a questo tema - diventi sempre più conosciuto ed accettato. (R.P.)

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Papua Nuova Guinea: no dei vescovi alla pena di morte

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“Mentre molti Paesi hanno abolito la pena di morte come un atto estremo di violenza eseguita in nome del popolo e dato l'insegnamento della Chiesa cattolica, noi vescovi della Papua Nuova Guinea e Isole Salomone ci opponiamo fermamente al ricorso alla pena capitale: essa non può avere posto in un Paese cristiano, dove dovrebbero prevalere la vera giustizia e la misericordia. Quando le esecuzioni sono effettuate dallo Stato, le persone sviluppano l'atteggiamento per cui è accettabile rispondere alla violenza con la violenza. Preghiamo che il rifiuto di questa forma di violenza pubblica possa essere un esempio e porti al rifiuto della violenza domestica e di tutte le forme di violenza nella nostra società”: lo affermano i vescovi della Papua Nuova Guinea e Isole Salomone in un nuova Lettera pastorale sul tema della pena di morte.

Il tema della difesa della vita
Nel 1991 la Papua Nuova Guinea ha reintrodotto la pena di morte. Nel 2013 il codice penale è stato modificato per definire i modi accettabili per farlo, approvando l’iniezione letale. Il governo ha sostenuto che “questo è il modo migliore per proteggere la società dal ripetersi di crimini terribili”. Proprio in risposta a questa legislazione politica, i vescovi di Papua Nuova Guinea e Isole Salomone affrontano nella lettera il tema della difesa della vita, indicando diverse ragioni principali per dire “no” alla pena capitale.

La pena di morte porta con sé la logica della vendetta
​La prima è che la pena di morte non offre spazio alla riabilitazione, né dissuade dal commettere crimini. In secondo luogo essa “viola la santità e la dignità della vita umana”, che è “al centro dell'insegnamento evangelico”. Inoltre essa rappresenta una sorta di giustificazione e di palliativo, in quanto “distrae dalla necessaria ricerca di risolvere le cause del crimine” alla radice. Infine essa “può portare a ingiusta condanna ed esecuzione” nel caso di errori giudiziari. La pena di morte porta con sé la logica della vendetta, “dell’uccidere se una persona ha ucciso”, secondo la “legge del taglione”. Per questo, in una società realmente giusta, la pena capitale non può trovare spazio, concludono i vescovi. (P.A.)

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Filippine: missionari di Mindanao in difesa dei contadini

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I missionari delle aree rurali del Mindanao settentrionale, nelle Filippine, lanciano l’allarme contro l’olio di palma. L’espansione incontrollata delle piantagioni di questo albero sta infatti mettendo in ginocchio l’economia locale e arrecando gravi danni all’ambiente.  E’ quanto denuncia una dichiarazione diffusa in questi giorni, in occasione di una conferenza a Davao City dedicata al problema che tocca diversi Paesi emergenti nel mondo.

No all’accaparramento di terre contro i diritti delle popolazioni rurali
“Trent’anni di produzione di olio di palma hanno prodotto solo promesse fallaci di sviluppo, nuove risorse di sostentamento e sicurezza alimentare”, si legge nella dichiarazione, sottoscritta insieme ad altre organizzazioni per la difesa dei diritti delle popolazioni rurali e indigene. I missionari puntano il dito contro il fenomeno dell’accaparramento delle terre perpetrato dalle multinazionali dell’industria agroalimentare ai danni delle popolazioni rurali indigene, anche con metodi violenti. Chi si oppone all’espansione  delle piantagioni di palma da olio è infatti oggetto di minacce, intimidazioni e rischia anche la vita. A questo si aggiunge lo sfruttamento della manodopera ai limiti dello schiavismo.

Gravi i danni ambientali prodotti dalle palme da olio
Nella dichiarazione si denunciano anche i danni ambientali provocati dall’ampio uso di pesticidi nelle coltivazioni delle palme. “Queste sostanze chimiche sono pericolose non soltanto per chi lavora nelle piantagioni a diretto contatto con i prodotti tossici, ma anche per tutte le comunità locali colpite dalla contaminazione delle falde idriche”.  Senza contare la massiccia distruzione delle foreste con i suoi effetti negativi sui cambiamenti climatici e i danni alla biodiversità. Di qui il pressante appello alle autorità e alle aziende ad affrontare con urgenza queste problematiche, considerati i “danni irreversibili all’ambiente che colpiranno le generazioni future”. (L.Z.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 133

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