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Sommario del 01/03/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa all’Angelus: in Siria e in Iraq intollerabile brutalità

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Non dimentichiamo quanti soffrono in Siria e in Iraq, a causa di una “intollerabile brutalità”. Preghiamo per le vittime in Venezuela, dove si stanno vivendo momenti di acuta tensione. Sono le esortazioni rivolte da Papa Francesco all’Angelus incentrato sulla trasfigurazione di Gesù. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

Papa Francesco all’Angelus ha ricordato la drammatica situazione in Siria e in Iraq, dove non cessano “violenze, sequestri di persona e soprusi a danno di cristiani e di altri gruppi”:

“Vogliamo assicurare a quanti sono coinvolti in queste situazioni che non li dimentichiamo, ma siamo loro vicini e preghiamo insistentemente perché al più presto si ponga fine all’intollerabile brutalità di cui sono vittime. Insieme ai membri della Curia Romana ho offerto secondo questa intenzione l’ultima Santa Messa degli Esercizi Spirituali, venerdì scorso. Nello stesso tempo chiedo a tutti, secondo le loro possibilità, di adoperarsi per alleviare le sofferenze di quanti sono nella prova, spesso solo a causa della fede che professano”.

Il pensiero del Santo Padre è andato anche al Venezuela, Paese teatro nei giorni scorsi di nuove proteste contro il governo, represse dalla polizia e costate la vita ad un ragazzo 14.enne:

“Prego per le vittime e, in particolare, per il ragazzo ucciso pochi giorni fa a San Cristobal. Esorto tutti al rifiuto della violenza e al rispetto della dignità di ogni persona e della sacralità della vita umana e incoraggio a riprendere un cammino comune per il bene del Paese, riaprendo spazi di incontro e di dialogo sinceri e costruttivi. Affido quella cara Nazione alla materna intercessione di Nostra Signora di Coromoto”.

Ricordando che in questa seconda domenica di Quaresima, la Chiesa ci indica la meta dell’itinerario di conversione, la partecipazione alla gloria di Cristo, Papa Francesco si è soffermato sull’episodio della trasfigurazione di Gesù davanti a Pietro, a Giacomo e a Giovanni. La consegna per noi e per i discepoli è questa:

“Ascoltatelo!. Ascoltate Gesù. E’ Lui il Salvatore: seguitelo. Ascoltare Cristo, infatti, comporta assumere la logica del suo mistero pasquale, mettersi in cammino con Lui per fare della propria esistenza un dono di amore agli altri, in docile obbedienza alla volontà di Dio, con un atteggiamento di distacco dalle cose mondane e di interiore libertà. Occorre, in altre parole, essere pronti a “perdere la propria vita” (cfr Mc 8,35), donandola affinché tutti gli uomini siano salvati e ci incontreremo nella felicità eterna”.

Il cammino di Gesù - ha aggiunto il Santo Padre - sempre ci porta alla felicità:

"Non dimenticatelo: il cammino di Gesù sempre ci porta alla felicità! Ci sarà in mezzo una croce, le prove, ma alla fine sempre ci porta alla felicità. Gesù non ci inganna! Ci ha promesso la felicità e ce la darà, se noi andiamo sulle sue strade".

“Con Pietro, Giacomo e Giovanni – ha concluso il Papa - saliamo anche noi sul monte della Trasfigurazione e sostiamo in contemplazione del volto di Gesù, per raccoglierne il messaggio e tradurlo nella nostra vita; perché anche noi possiamo essere trasfigurati dall’Amore. In realtà l’amore è capace di trasfigurare tutto: l’amore trasfigura tutto! ”.

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Vescovi Nord Africa dal Papa: sfida principale è dialogo con islam

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Inizia questo lunedì in Vaticano, con l'incontro con il Papa, la visita dei presuli della Conferenza Episcopale Regionale del Nord Africa (Cerna). I cattolici nel Maghreb sono una piccola minoranza, composta quasi esclusivamente da cittadini stranieri. Come testimonia la Chiesa locale il Vangelo in questo contesto musulmano e quali sono i limiti legali imposti alla sua attività? Padre Jean-Pierre Bodjoko e Lisa Zengarini hanno intervistato l'arcivescovo di Rabat e presidente dell'organismo, mons. Vincent Landel

R. - Noi viviamo pacificamente e serenamente con i musulmani. E’ vero che in altre parti del mondo non è così, ma da noi in Marocco, Algeria e Tunisia la situazione è normale. Sì, siamo per lo più stranieri, spesso di passaggio, ma le nostre Chiese sono molto giovani. Ad esempio in Marocco, dove la popolazione cristiana conta 30mila persone, l’età media dei fedeli è di 35 anni. Ma le nostre comunità hanno subìto un’evoluzione, in particolare in Libia, dove la situazione è drammatica e dopo i recenti avvenimenti la maggior parte dei cristiani, per lo più filippini o medio-orientali, è dovuta partire. Per cui adesso a Tripoli è rimasto solo il vescovo - mons. Martinelli - insieme a un piccolo gruppo di filippini. Negli altri tre Paesi della regione viviamo nella normalità, lavoriamo con i nostri fratelli musulmani, viviamo in mezzo a loro e abbiamo libertà di culto, a condizione però di esercitarla solo nei luoghi di culto. Il problema è che il proselitismo è un reato e in questo senso l’esercizio della libertà religiosa non è sempre facile.

D. - Lei ha parlato  della Libia che ha vissuto anch’essa quella che è stata chiamata la "Primavera araba". Questi sconvolgimenti hanno cambiato la situazione dei cristiani, in particolare dei cattolici, e i rapporti con le comunità musulmane locali?

R. -  Le Primavere arabe hanno cambiato molto. In Libia prima di questi avvenimenti c’erano 150mila cristiani che erano tutti stranieri, soprattutto lavoratori del settore petrolifero, mentre oggi ne sono rimasti 2-3mila. Tutti gli altri sono dovuti partire. Sono anche partite le religiose chiamate a lavorare negli ospedali dal precedente presidente Gheddafi. Non restano che 4-5 sacerdoti in tutta la Libia con un vescovo a Tripoli e uno a Bengasi. Dunque la situazione dei cristiani è stata sconvolta dalla lotta tra le diverse fazioni politiche nel Paese.

D. - Ci sono dei timori per quanto sta accadendo nei Paesi vicini, con l’avanzata del cosiddetto Stato Islamico in Libia?

R: - Sì,  con quello che è successo ai 21 copti assassinati in Libia, ci sono timori, ma credo che non bisogna vivere sempre nella paura, non bisogna farsi prendere dal panico. Il mio grande timore è che si cerchi di risolvere i problemi con la forza. Prima degli ultimi avvenimenti in Libia, la Conferenza episcopale aveva scritto una lettera aperta in cui diceva che non bisogna ricorrere alla forza, ma che bisogna sondare tutte le vie del dialogo e so che alcune associazioni cristiane europee non erano d’accordo con quanto abbiamo scritto.

D. - Un altro problema che riguarda la vostra regione è quello dell’immigrazione. Come affrontano le Chiese locali questo dramma?

R. - E’ vero: siamo nel cuore di una periferia terribile. Dalle coste libiche quest’anno sono passati più di 150mila migranti sub-sahariani per andare verso Lampedusa, in Italia. Per la Chiesa in Libia è difficile fare qualcosa, mentre in Algeria, Tusinia e Marocco, con la Caritas, facciamo quello che possiamo per accompagnare questi migranti, ascoltarli, sostenerli, restituire loro la speranza. Poi decidono loro se portare a termine il viaggio. Qui in Marocco ad esempio, abbiamo il confine con l’enclave spagnola di Melilla: sappiamo che ogni giorno ci sono centinaia di migranti che cercano di passare la frontiera. Ne conosco molti che hanno tentato dieci volte e ricominciano. Sono partiti e non hanno più nulla da perdere. Penso che l’Occidente debba guardare da vicino quello che accade nei Paesi sub-sahariani, cercando di lavorare per il loro sviluppo.

D. - Questo vuol dire appunto che non si tratta di chiudere le frontiere dell’Europa, ma di cercare piuttosto delle soluzioni locali in questi Paesi africani?

R. - Non si devono chiudere le frontiere.

D. - Ma è quello che fa l’Europa …

R. - La gente passerà comunque. Ma è vero che il problema è quello dello sviluppo di questi Paesi, perché c’è bisogno di educazione, di  salute, lavoro, soprattutto per i giovani. Nei Paesi del Maghreb abbiamo decine di migliaia di studenti sub-sahariani . Perché vengono da noi? Perché l’Europa non ne vuole  molti e perché da loro non possono fare gli studi che vorrebbero fare.  Quindi cosa si può fare per aiutare questi giovani a fare questi studi nei loro Paesi?  Se possono studiare in patria sarà poi più facile per loro trovare lavoro e contribuire allo sviluppo dei loro Paesi.

D. - Quali sono le altre sfide pastorali comuni nei vostri Paesi oggi?

R. Siamo al centro di due sfide pastorali, direi due periferie nei nostri Paesi. C’è la  periferia dell’incontro dei cristiani con i musulmani. Questa è una grande sfida per il mondo di oggi. La seconda sfida è quella delle migrazioni, perché i nostri quattro Paesi sono tutti corridoi migratori. Dunque, da un lato, dobbiamo lavorare su queste persone vulnerabili che passano attraverso i nostri Paesi, ma allo stesso tempo avvertire l’Occidente e i Paesi sub-sahariani, sensibilizzare le Chiese e anche i politici dei nostri Paesi di origine. Penso quindi che bisogna lavorare sui due fronti. Per noi sono queste le nostre due sfide principali oggi. Per questo è necessario che i cristiani siano ben formati, non avere paura dell’Islam e poi impegnarsi con determinazione per lo sviluppo del Marocco, della Tunisia, dell’Algeria e della Libia in modo che possano diventare motori di sviluppo anche per altri Paesi. Abbiamo quindi una grande responsabilità e abbiamo bisogno dell’Europa: non di un’Europa sorda e cieca, ma di un’Europa che abbia un cuore aperto e che sia piena di speranza.

D. - In occasione della vostra visita ad limina, che cosa tenete a far sapere all’opinione pubblica, agli altri cristiani e anche al Vaticano?

R. - Vorrei dire a voce alta che si può vivere felici e essere cristiani in un contesto musulmano, quindi vivere la nostra fede, ma allo stesso tempo lavorare insieme ai nostri fratelli musulmani, avere fiducia in loro e con loro guardare con speranza al futuro dei nostri Paesi. Quindi non dobbiamo assolutamente essere pessimisti : anche perché è da noi che sono iniziate le "Primavere arabe", in  Tunisia che oggi ha una costituzione che riconosce la libertà religiosa. E questo non era scontato. Dunque ci sono segni di speranza e non possiamo pretendere che questi Paesi in piena evoluzione facciano in qualche anno quello che le altre democrazie occidentali hanno fatto in diversi decenni. 

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Oggi in Primo Piano



Is libera 29 cristiani; Calzolari: reinterpretare Corano

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Sono stati liberati 29 cristiani rapiti in Siria dal sedicente Stato Islamico il 23 febbraio scorso, ma ora cresce l’apprensione per gli altri, ancora in attesa di giudizio. Preoccupazione anche per il documento di propaganda della jihad di 64 pagine in lingua italiana trovato sul web, mentre in Siria e in Iraq, dove l’Is è più forte, si continua a morire ogni giorno. Il servizio di Roberta Barbi: 

Sono stati processati da un tribunale del sedicente Stato Islamico e liberati, i 29 cristiani rilasciati ieri dall’Is. Facevano parte di un gruppo di sequestrati il 23 febbraio scorso nel nordest della Siria, ma sulla consistenza del gruppo le cifre sono incerte: si parla di 220, o addirittura di 350 e c’è apprensione per la loro sorte, sulla quale il tribunale pare non si sia ancora pronunciato, ma secondo altre fonti alcuni sarebbero già stati uccisi. Dubbi anche i luoghi in cui rapimenti sono avvenuti: si è parlato dei dintornii della città di Tal Tamer, ma non si sa di preciso quali villaggi siano stati colpiti. Intanto, come a ogni chiusura del mese, si cerca di tracciare un bilancio delle violenze nei due Paesi ostaggio dell’Is: 1100 le vittime in Iraq stimate dalla missione delle Nazioni Unite nell’area, cui vanno aggiunte le condanne dirette dell’Is. E a proposito di queste: in Siria sono state 1969 le esecuzioni, che hanno avuto per vittime civili, donne e perfino bambini, secondo l’Osservatorio per i diritti umani, negli ultimi otto mesi, cioè da quando è stato proclamato il califfato. Dati che fanno tremare l’Occidente, come sconvolge il documento in italiano individuato ieri sul web ma on line già da diversi giorni. Nel testo multimediale si descrive la vita nella provincia siriana di al Raqqa, da tempo sotto il controllo del califfato che vigilerebbe su prezzi e servizi offerti e dove, grazie all’applicazione della Sharìa, i crimini si sarebbero abbassati del 90%. Segue un elenco dei Paesi in cui sono presenti militanti dell’Is e chiude con la richiesta di sostegno, promettendo la conquista di Costantinopoli e Roma.  

L'avanzata in Medio Oriente e in Nord Africa degli uomini del sedicente Stato islamico e i recenti attacchi terroristici condotti da gruppi integralisti in Europa hanno riproposto l'incubo dello scontro di civiltà: Occidente, da una parte, mondo musulmano, dall’altra. Ma è esatta questa lettura degli avvenimenti? Al microfono di Rosario Tronnolone, risponde il prof. Silvio Calzolari, storico delle religioni e docente di islamologia presso l'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Firenze: 

R. – Io non parlerei di scontro di civiltà come tra due blocchi, da una parte la civiltà o la cultura islamica tout court e dall'altra il mondo occidentale. Parlerei, piuttosto, di uno scontro violento tra derive islamiche. E' un mondo che ha delle radici antiche nella tradizione wahabita, integralista, in certe visioni estremamente radicali e puritane dell’islam, contro un islam che cerca di essere più moderno, più adattato al mondo e alla società di oggi. Quindi è una deriva di certe forme di puritanesimo, integralismo islamico - che poi hanno generato anche l’Is - che si scontrano all’interno della società islamica ed hanno delle conseguenze come onde lunghe anche nel mondo occidentale.

D. – Ma è possibile vedere l’Europa come assediata dall’islam, incapace di reagire, un po’ per la perdita d’identità e per la secolarizzazione in cui è incorsa?

R. - C’è senz’altro una perdita di identità, di quei valori cristiani che un tempo erano alla base della nostra cultura occidentale. In realtà, il mondo occidentale si trova impreparato: nei Paesi del Nord-Africa ci troviamo di fronte ad una situazione che è completamente diversa da quella che noi avevamo pensato e non abbiamo le chiavi di lettura di quello che sta succedendo. L’Is non è soltanto basato su queste versioni, integraliste, è imbevuto anche di dottrine apocalittiche, millenariste, profetiche: tutto è simbolico in queste visioni. Questa espansione dell’Is andrebbe letta come una chiave apocalittica musulmana, dell’escatologia musulmana. E noi non ne abbiamo le chiavi di lettura.

D. - Il grande imam di Al-Azhar, Sheikh Ahmed al-Tayeb, la più autorevole università del mondo islamico sunnita, ha dichiarato che è urgente, necessaria, una radicale riforma dell’insegnamento religioso tra i musulmani, proprio per contenere la diffusione dell’estremismo religioso …

R. - Il Gran Muftì dell’università di Al-Azhar del Cairo ha detto alcune cose straordinarie: prima di tutto che dobbiamo operare una riforma radicale all’interno dell’islam e poi rinnovare la tradizione dell’interpretazione del Corano. Le interpretazioni coraniche furono chiuse alla fine del 12.mo secolo nel mondo islamico con la fine delle grandi correnti filosofiche. Si chiuse l’ijtihad, la possibilità di interpretare. Dobbiamo riaprire l’interpretazione. Questa linea era già in sintonia con quanto diceva agli inizi del 1900 un altro grande muftì del Cairo, Muhammad Abduh, ma poi la riforma fu bloccata. Poi c’è un altro elemento importantissimo che cita il Grand Muftì: “State  attenti perché l’Is bolla tutti di essere dei kafir, cioè dei miscredenti”. I miscredenti non siamo solo noi cristiani ed ebrei, i kafir sono anche quelli che vogliono interpretare il Corano diversamente dalla lettura letterale del testo. Quindi l’interpretazione del Corano porta anche un musulmano ad essere considerato kafir, quindi infedele. È un’impostazione fortissima, una riflessione importante, quella dell’imam di Al-Azhar. Io penso perciò che ci sia veramente un grande segno di speranza per quello che potrebbe succedere nel mondo islamico.

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A Mosca opposizione in piazza per ricordare Nemtsov

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A Mosca, opposizione in piazza per protestare contro il presidente russo Vladimir Putin. Avrebbe dovuto guidare il corteo Boris Nemtsov, da sempre contestatore delle politiche del Cremlino, soprattutto quelle adottate nella crisi ucraina, rimasto ucciso nella notte tra venerdì e sabato in un attentato nel centro della capitale. Questo grave episodio sembra avere tutti i connotati dell’attentato politico, ma non viene ignorata dagli inquirenti neppure la pista del radicalsimo islamico, essendo Nemstov un ebreo praticante. A guidare l'inchiesta è lo stesso Putin che promette di assicurare i colpevoli alla giustizia, mentre l'asassinio ha suscitato reazioni in tutto il mondo, come quella del segretario generale dell'Onu, Ban-ki-moon. Sull'accaduto Giancarlo La Vella ha intervistato Fulvio Scaglione, direttore del sito www.famigliacristiana.it: 

R. - È un episodio che ricorda, per molti versi, quello compiuto qualche anno fa ai danni della Politkovskaja, la famosa giornalista che si occupava di Cecenia, anche lì con contorni molto forti nei confronti del Cremlino. Questo per dire che si tratta di un episodio che si presta ad una duplice lettura: può essere letto come un ulteriore attentato alla libertà d’espressione, di opposizione politica nei confronti del Cremlino, e in questo caso in particolare della politica del Cremlino nei confronti dell’Ucraina. E può anche essere letto, però, come una provocazione nei confronti del Cremlino, perché certamente uccidere il leader dell’opposizione, alla vigilia di una manifestazione dell’opposizione di cui Nemtsov sarebbe stato protagonista, è un pazzesco errore politico. Indubbiamente, nell’uno e nell’altro caso, è un omicidio politico e bisogna purtroppo rilevare che la politica russa di questi fatti è fin troppo ricca negli ultimi anni. Questo, comunque, è un elemento di forte critica nei confronti di Putin e del Cremlino stesso.

D. - Il presidente dell’Ucraina Poroshenko ha definito Nemtsov un importante ponte tra Mosca e Kiev, un personaggio che viene a mancare proprio mentre si cerca di riannodare i rapporti tra i due Paesi …

R. - Su questo ho qualche dubbio, perché il peso specifico di Nemtsov nella politica russa era molto scarso. Il valore dell’opposizione di Nemtsov era soprattutto simbolico: faceva vedere che l’unanimismo preteso da Putin in realtà non c’era, però le conseguenze pratiche dell’azione politica di Nemtsov sulla politica russa erano molto scarse.

D. - E ora il momento delle indagini di cui il presidente Putin ha assunto personalmente il controllo. C’è la speranza che vengano eseguite in tempi brevi?

R. - Io non ho molta fiducia, non tanto sui tempi, ma sui risultati di queste indagini. Questo omicidio cade in un ben determinato clima politico. 

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Pakistan, anniversario morte Bhatti. Il ricordo del fratello Paul

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Questa domenica, con una una Messa celebrata nella Chiesa romana di San Bartolomeo all'Isola Tiberina, dove è conservata la Bibbia del ministro pachistano Shahbaz Bhatti, si è ricordato il quarto anniversario della sua uccisione avvenuta il 2 marzo 2011. Un omicidio con il quale gli estremisti intendevano mettere fine all’impegno di Bhatti nella difesa delle minoranze religiose del Paese. A promuovere l'evento, la Comunità di Sant’Egidio in collaborazione con l’Associazione dei pachistani cristiani in Italia. “Finché avrò vita – si legge nel testamento di Bhatti – continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi e i poveri”. Un servizio che continua grazie alla sua associazione, fondata nel 2002, e che oggi è guidata dal fratello Paul Bhatti. Al microfono di Benedetta Capelli così ricorda quella drammatica giornata: 

R. – Ogni volta che arriva questo mese di marzo, chiaramente si riaccende la memoria di quel momento, quando io ero medico qui in Italia: mio fratello, già da qualche tempo, mi continuava a richiamare in Pakistan, per andare a lavorare insieme con lui. Avevo una vita tutto sommato tranquilla, per me e per la mia famiglia; mia madre viveva con lui e mio padre era deceduto un mese prima del suo assassinio. Quel giorno stavo andando in clinica, a Treviso: era mattina, ho sentito la notizia del suo assassinio. E’ stata una notizia veramente scioccante e ha completamente cambiato la mia vita e quella della mia famiglia per sempre! Immediatamente mi sono preoccupato per mia madre, perché mia madre viveva con lui… Poi ho saputo che lei avevo sentito addirittura gli spari, quando hanno ucciso mio fratello, perché era vicino casa. Nonostante tutto, io ho visto come mia madre sia stata coraggiosa, quanto ha trovato forza nella sua fede. Addirittura quando sono andato a dirle che avrei voluto continuare la missione di mio fratello, lei mi ha detto: “Sì, perché la sua missione deve continuare!”. Io ero molto arrabbiato e quando sono tornato in Pakistan pensavo di dire addio per sempre al mio Paese. Ma poi sono rimasto lì, e sono rimasto anche volentieri. Avevo la carica e avevo la voglia di continuare la sua missione, vedevo i lavori bellissimi che aveva fatto; ho vissuto l’amore che lui aveva condiviso con le altre fedi, con i musulmani, con i politici e con le guide religiose di varie fedi. E’ stata un’esperienza bellissima! Nella mia carriera in Pakistan ho avuto più appoggio dai musulmani che da persone di altre religioni. Sono sicuro che, prima o poi, si vedrà la pace, vedremo i risultati della missione di Shahbaz, il suo sogno di una convivenza pacifica e specialmente la protezione dei più poveri, di quelli più emarginati e dei perseguitati si avvererà.

D. – A quattro anni distanza, cosa ha seminato – secondo lei – il “sacrificio commovente”, come lo aveva definito Benedetto XVI, di suo fratello?

R. – Da una parte, per noi come famiglia, è stata una giornata nera, una giornata triste; ma dall’altra, ha acceso una luce sulla causa della libertà religiosa. Lui aveva una particolare sensibilità per il tema e così lo aveva condiviso con tutti e tutto il mondo se ne è accorto e sono sicuro che, prima o poi, arriverà ad una conclusione definitiva, si arriverà ad una pace. Specialmente in Pakistan, questo assassinio ha dato una carica molto forte ai giovani, ai giovani cristiani che credono, che credono in una fede che Shahbaz ha dimostrato di vivere fino al suo ultimo respiro. Perciò questo è un esempio di fede, una fede conclusa con il martirio in Pakistan e che ha rappresentato una carica molto forte per i nostri giovani.

D. – Oggi l’impegno di Bhatti in difesa delle minoranze in che modo sta continuando?

R. – Noi abbiamo l’Alleanza di tutte le minoranze, che è una associazione, un movimento che ha formato lui. E in questa associazione, insieme a noi, ci sono tanti altri musulmani, che sono con noi, che ci appoggiano. E’ stato molto importante la causa per blasfemia di Rifta Masih, che è stata poi liberata, era la  prima volta che ciò avveniva nella storia del Pakistan. Tutto è successo grazie al consenso dei musulmani e, per la prima volta, è stato messo in prigione un musulmano che aveva accusato falsamente la bambina. Adesso tutto il mondo, specialmente il Pakistan, è unito nella causa della libertà religiosa. Non ci sono più casi di accuse come quelle di Asia Bibi o di persone che sono state accusate falsamente e che sono in prigione. E sono sicuro che un giorno saranno prima di tutto i musulmani a difendere i cristiani!

D. – Lei ha citato Asia Bibi: com’è la sua situazione, ma anche quella di tanti altri cristiani che sono accusati ingiustamente di blasfemia?

R. – Attualmente, c’è qualcosa che sta cambiando in Pakistan. Io sono certo che Asia Bibi verrà liberata! E sono certo che verranno liberati anche gli altri. Di quanto dico non ho prove per dimostrarlo, ma la mia fede, la mia convinzione e i sacrifici che abbiamo fatto, come famiglia, con la morte di mio fratello e anche con l’uccisione del governatore del Punjab dovranno portare risultati. Io penso che questa donna sarà liberata.

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Gaza, Padre Da Silva: disastro umanitario, non dimenticatevi di noi!

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La situazione a Gaza resta drammatica. A sei mesi dalla fine della guerra, le condizioni in cui versano i palestinesi sono critiche e la ripresa è ancora lontana. Anna Zizzi ha sentito il superiore della comunità religiosa “Istituto del Verbo Incarnato”, padre Mario Da Silva che opera a Gaza: 

R. – Le condizioni qui a Gaza, specialmente dopo la guerra, sono un disastro umanitario, perché i lavori di ricostruzione non sono ancora iniziati. C’è solo un piccolo lavoro di pulizia, che è l’unica cosa che possono fare prima che arrivino i soldi che hanno promesso per la ricostruzione. Le persone che sono state colpite dalla guerra vivono ancora tra le macerie delle loro case e ora, ancora di più, la situazione è molto difficile per il freddo. In una settimana, un mese fa, sono morti 4 bambini a causa del freddo. Non c’è l’elettricità e neanche il gas. Non si possono riscaldare le case. E’ un disastro umanitario e questa la nostra situazione qui, specialmente dopo la guerra.

D. – Quali sono le necessità maggiori al momento e quali i maggiori disagi?

R. – Ci sono diversi livelli di necessità. C’è necessità di cibo per queste persone rimaste senza casa e tantissimi senza lavoro: il 50 percento della popolazione non ha lavoro. Ma penso che ancora più grande sia la necessità delle case. Tutta la frontiera di Gaza è stata distrutta, le persone non hanno case, vivono o dai parenti, o nei container, che ha dato loro l’Onu, o altrimenti vivono fra le macerie. La necessità principale che abbiamo noi qui, ora, è la ricostruzione delle case.

D. - Quali sono gli aiuti maggiori che elargite alla popolazione del posto?

R. - Il nostro aiuto principalmente, tramite la parrocchia o le istituzioni cattoliche, è per le necessità basiche delle persone, in modo speciale cibo, coperte e qualcosa per riscaldare la casa, abbiamo regalato pure bombole di gas, ma le necessità qui sono grandissime, quello che offriamo noi è molto poco.

D. – Oltre al vostro aiuto ci sono altre organizzazioni che si occupano di risolvere questi disagi?

R. – Ci sono altre organizzazioni. Principalmente l’Onu è quella incaricata di ricostruire, ma per fattori politici non possono ricevere i soldi che sono stati promessi. Quindi non può fare molto. C’è pure la Caritas, ci sono associazioni musulmane che cercano di aiutare, ma è molto poco quello che arriva, soprattutto perché ora il mondo si dimentica un po’ e allora gli aiuti non è che arrivano subito com’era dopo la guerra.

D. – Quali sono le richieste che fate alla comunità internazionale?

R. – La nostra richiesta alla comunità internazionale è questa: non dimenticatevi di noi, la guerra è passata ma ne restano ancora le conseguenze; ci sono le case distrutte, migliaia di persone che non hanno un tetto dove abitare. Non dimenticatevi di noi! Volevo dire anche che come conseguenza di quello che stiamo vivendo con lo Stato islamico, i cristiani hanno paura che questi movimenti possano entrare pure qui. Pregate pure per noi, pregate per la nostra situazione qui, pregate in modo speciale per i cristiani che qui soffrono.

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Economia: segnali positivi dall'Eurozona, Italia torna a crescere

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Migliorano le prospettive dell’economia europea e di quella italiana. Per Roma l’Istat prevede nel primo trimestre 2015 un ritorno alla crescita, sia pure dello 0,1%. E venerdì per la prima volta dal 2010 lo spread – il differenziale di rendimento – tra i titoli di debito italiani e quelli tedeschi è tornato sotto quota 100. Su quest’ultimo dato, Davide Maggiore ha raccolto il commento di Carlo Altomonte, docente di Economia dell’integrazione europea all’Università Bocconi di Milano: 

R. - Sicuramente vediamo gli effetti dell’annuncio della Banca centrale europea di acquisto di titoli del debito pubblico italiano. Ovviamente questo riduce ulteriormente i tassi di interesse in Italia e rende soprattutto per il sistema bancario meno conveniente investire in titoli di Stato e quindi più conveniente prestare alle aziende e di conseguenza fare riaffluire il credito alle aziende. In questo senso vediamo già dei segnali dagli indicatori che stiamo monitorando.

D. - Più investimenti, più credito alle aziende. Quindi la prospettiva di un’economia che riparte e in questo senso l’Istat prevede una ripresa del Pil per il primo trimestre del 2015, anche se leggera; solo dello 0,1 per cento ….

R. - Sostanzialmente stanno girando in positivo tutti gli indicatori; dovremmo avere un 2015 che si chiude in positivo accelerando, fino a un totale probabilmente dello 0,6-0,7 per cento sull’anno; quindi i prossimi trimestri potrebbero vedere una crescita ancora più sostenuta per due fattori: un fattore esterno che indubbiamente ci aiuta, ovvero il fatto che il prezzo del petrolio sia molto basso e l’euro si sia svalutato rispetto al dollaro anche grazie alle azioni della Banca centrale europea, e dall’altro questo inizio di sostegno al mercato interno, ai consumi e agli investimenti attraverso i tassi di intesse bassi. Questo secondo canale in realtà è ancora indietro e i numeri non sono ancora positivi.

D. - Però vediamo che virano verso il positivo anche gli indicatori di altri Paesi europei che in questi anni di crisi sono stati in difficoltà come l’Irlanda, il Portogallo o la Spagna. Possiamo veramente credere in una ripresa a livello europeo?

R. - Sì, l’Eurozona dovrebbe fare +1,5 per cento, quindi quasi il doppio dell’Italia sul 2015, e andare altrettanto bene nel 2016. Sostanzialmente per gli stessi fattori ne beneficiano tutti i Paesi. L’Italia sconta di più un mercato interno più anemico, perché il crollo dei consumi e degli investimenti è stato più forte da un lato e dall’altro siamo un Paese molto indebitato e quindi evidentemente l’azione di finanza pubblica in Italia è stata più severa che in altri Paesi.

D. - Ma sono stati superati i fattori di sistema che avevano causato la crisi o è solamente una congiuntura positiva?

R. - I problemi dei bilanci delle banche finalmente sono stati superati grazie alle azioni della Banca centrale europea durante il 2015 e con l’avvio dell’Unione bancaria. Quello che manca è che probabilmente non possiamo superare il fatto che i Paesi europei sono tra loro molto diversi e quindi hanno delle produttività  tra loro molto diverse. Questa cosa tendenzialmente crea degli squilibri all’interno di un’area con una moneta unica che possono essere risolti solo attraverso un sistema di trasferimenti fiscali di natura implicita o esplicita.

D. - Quindi cosa di può fare per rendere stabile questa ripresa sia a livello europeo che dei singoli Paesi?

R. - Se noi vogliamo mettere definitivamente in sicurezza l’unione monetaria e consentirle di portare i  benefici che tutti si aspettano in termini di crescita, dopo la “pulizia” dei bilanci delle banche e quindi l’unione bancaria va anche messa in piedi un minimo di unione fiscale e di solidarietà fiscale tra Stati, un po’ come all’interno dell’Italia, dove c’è un trasferimento fiscale tra Nord e Sud per compensare i differenziali di produttività. La Grecia è un po’ il banco di prova dell’unione economica e monetaria perché con la Grecia e sulla Grecia dobbiamo metterci d’accordo sul tipo di solidarietà fiscale che gli Stati vogliono avere per i Paesi meno avvantaggiati e cosa chiedono in cambio in termini di riforma.

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Un libro racconta il rapporto tra cinema e preghiera

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Sarà presentato questo lunedì alle 12.00, nella Chiesa della Santissima Trinità dei Monti di Roma, il libro di Dario Cornati e Dario Edoardo Viganò “Il fuoco e la brezza del vento. Cinema e preghiera” delle edizioni San Paolo. Alla tavola rotonda, cui sarà presente anche mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, partecipano don Ivan Maffeis, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo, il regista Philip Gröning e l’attrice Elena Sofia Ricci. Il servizio di Luca Pellegrini

Andare al cinema con occhi nuovi: è quanto gli autori del piccolo libro auspicano accada al lettore attento e che ama la settima arte anche come spazio di riflessione. Dalla preghiera momento intimo – ma non privato – di dialogo con Dio, al film in una sala buia, che nel silenzio e nella condivisione può suscitare lo sguardo attento di uno spettatore in dialogo con il regista. La prima parte del volume è scritta da don Dario Cornati, docente di Teologia Fondamentale alla Facoltà Teologica di Milano. Nelle sue pagine approfondisce l’aspetto più esistenziale della buona preghiera, ossia la condizione del silenzio e dell’ascolto:

R. - In quelle paginette introduttive, cerco proprio di mostrare come l’esperienza cristiana, ma forse l’esperienza umana universale della preghiera, è proprio quella di un legame, di un rapporto che a noi pare quasi insostenibile, introvabile con Dio, ma che proprio perché Lui vuole rendere possibile e che ci ha dato. Cercavo appunto attraverso l‘articolazione di queste quattro parole -  parola, silenzio, la crisi, abbandono a Dio - di spiegare la bellezza del pregare proprio nei termini di un osare questa relazione affettiva, profonda, al tempo stesso vera, con il Signore. Credo che da questo punto di vista, la vita di Gesù, i suoi 33 anni da quando era nelle braccia della sua mamma fino a quando è salito sul Calvario e sulla Croce, ci dimostrino che Lui vuole per ciascuno di noi, a partire da ogni discepolo, un’esperienza fragrante, vera, al tempo stesso liberante.

D. - Potrebbe essere ardito, ma tra il silenzio, condizione del pregare, e il silenzio di una sala cinematografica, potrebbe esserci una qualche analogia...

R. - Intanto la prima analogia fra la settima arte, il cinema e l’esperienza della preghiera mi sembra proprio che sia data da questo motivo dello sguardo, ma di uno sguardo che sa essere in qualche modo più silenzioso. Lo sguardo è in fondo quello di Dio sotto il quale il Signore Gesù, il Figlio, ma anche ciascuno di noi, vorrebbe sempre un po’ più stare per imparare da Lui, per imparare le cose buone del mondo. D’altra parte, questo sguardo se come nel cinema non fosse custodito da un silenzio, da un rispetto, da un garbo, da una gentilezza, rischia di diventare – noi lo capiamo bene – anche un modo di violare l’altro, di entrare nella vita dell’altro, di curiosare nelle pieghe dell’esistenza dell’altro. È per questo che trovavo questo gancio: il silenzio di Dio e del credente; il silenzio del regista e al tempo stesso dell’artista e dello spettatore, che apprezzano, che gustano, che rispettano e non vanno ad invadere.

Mons. Viganò, direttore del Centro Televisivo Vaticano, per la seconda parte ha preso spunto da una bella intuizione di Papa Francesco sulla preghiera:

R. – “La preghiera ci cambia il cuore, ci fa capire meglio come è il nostro Dio”. Questa è una delle frasi di Papa Francesco. È una meditazione mattutina di Santa Marta. Quindi proprio da lì, mi è venuta voglia di percorrere la storia del cinema, in particolare soffermarmi su alcuni dei grandi film degli ultimi dieci anni, per capire come è stato raccontato il luogo intimo, personale, insieme esistenziale e comunitario, della preghiera.

D. - Ci potrebbe fare qualche esempio di film preso in esame nel libro?

R. - Diciamo che è un piccolo libro che raccoglie certo alcuni iceberg della storia del cinema. Però, al di là dei grandi classici che vanno appunto da Rossellini, Dryer, Bergman, Bresson, penso ad esempio ad alcuni grandi film che abbiamo conosciuto in quest’ultimo decennio. Prima di tutto “L’isola” di Pavel Lounguine, un film straordinario, che diventa una parabola glaciale sul peccato, la follia e la santità. E in particolare padre Anatolij è un uomo che ci conduce al cuore della preghiera: “Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente abbi pietà di me”: questo lui continuamente ripete negli spostamenti sull’isola, lui che come lavoro fa il fuochista, rivela l’oppressione del senso di colpa per il peccato che grava sulla sua anima. Possiamo dire che è un film che mette sempre in luce la domanda che risuona nel cuore sull’isola: perché Caino ha ucciso Abele? Questo è un film molto interessante. Certo, qual è il paradigma del racconto della preghiera nel cinema? Dobbiamo tornare molto indietro. Penso in particolare al film del ’53 – “Il ritorno di don Camillo” – dove appunto il prete parla con il Crocifisso. Questo è molto interessante perché la preghiera, come dice Papa Francesco, non è quella dei pagani, cioè parlare con parole vuote, ma parlare con la realtà, quindi mettersi davanti al Crocifisso e raccontare la propria vicenda concreta, quotidiana, come fecero i discepoli di Emmaus. Nel film di don Camillo questo è molto presente. Proviamo a pensare a quando don Camillo dice: “Signore, come è pesante portarsi a spalla la tua Croce” e il Crocifisso che risponde: “Lo dici a me? Io l’ho portata a lungo, in un cammino molto più aspro”, e don Camillo: “Signore, siete voi, la vostra voce, siete voi che mi parlate”, e Gesù che dice: “Guarda che io non ho mai smesso di parlarti, ma tu non mi sentivi, perché avevi le orecchie chiuse dall’orgoglio della violenza”. Questo è un po’ il paradigma della preghiera nel cinema: il parlare della vicenda personale, concreta, con il Signore Gesù.

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Nella Chiesa e nel mondo



Indonesia: a Giakarta Quaresima di missione verso le periferie

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Per i fedeli di Giakarta la Quaresima è un tempo privilegiato per la missione nelle periferie. Le comunità dell’arcidiocesi, dalle parrocchie più grandi a quelle più piccole, dalle congregazioni religiose a gruppi e associazioni laicali - riferisce l'agenzia Fides - cercando di rispondere all’appello lanciato da Papa Francesco, hanno avviato uno speciale impegno pastorale per raggiungere e portare il Vangelo in situazioni di disagio, povertà, emarginazione.

In Quaresima incarnare lo spirito della gratitudine
La missione in periferia è il tema centrale della Lettera pastorale diffusa per la Quaresima dell’arcivescovo di Giakarta, mons. Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo, e consegnata a tutte le comunità locali. Nel testo l’arcivescovo chiede di pregare “affinché ciascuno di noi, le famiglie e la nostra comunità, siano sempre più grate e premurose” incoraggiando ogni fedele a “incarnare lo spirito della gratitudine”. La Quaresima è “un tempo di pellegrinaggio spirituale che sarà più significativo se è contrassegnato dalla preghiera”, che permette di “cogliere i frutti di redenzione della vita nuova, donataci da Dio”, in cui “fare tutto a gloria di Dio”, scrive mons. Suharyo.

Ogni cristiano è chiamato a “farsi pane” offendo se stesso al prossimo
L’arcivescovo riflette sulla “dinamica Eucaristica” e la propone come modello per ogni credente: come Cristo si fa “pane spezzato” che si offre per alimentare la vita dei discepoli, così ogni cristiano è chiamato a “farsi pane” offendo se stesso per la vita del prossimo. Soprattutto accompagnando e curando “i lebbrosi del nostro tempo”, gli emarginati di oggi, quanti sono reietti e abbandonati, vivono nell’indigenza, sono vittime di tratta di esseri umani o della criminalità, e la loro dignità umana è ampiamente calpestata. (P.A.)

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Iraq: annunciato inizio corsi Università cattolica di Erbil

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Il 2015 è l'anno in cui prenderanno il via i corsi dell'Università cattolica di Erbil, l'Ateneo fortemente voluto dalla Chiesa caldea anche come forma concreta di aiuto ai giovani cristiani in Medio Oriente. Nei giorni scorsi l'arcivescovo caldeo Bashar Matti Warda, ordinario dell'arcidiocesi di Erbil e grande sponsor dell'opera, ha annunciato con una lettera l'imminente inizio delle attività per quattro facoltà universitarie, compreso il college di studi economici (Business Administration). Nella lettera, diffusa sui media ufficiali del Patriarcato e ripresa dall'agenzia Fides, l'arcivescovo fa appello a tutti i potenziali sponsor e collaboratori dell'iniziativa a contattare l'arcidiocesi per mettere a disposizione dell'ateneo le proprie eventuali donazioni e le proprie competenze nel campo dell'insegnamento universitario.

L'Ateneo: segno concreto di aiuto ai giovani cristiani iracheni
La prima pietra della nuova Università era stata posta ad Ankawa, il sobborgo di Erbil abitato in maggioranza da cristiani, il 20 ottobre 2012. Era stata la Chiesa caldea a mettere a disposizione i 30mila mq su cui far sorgere l'Ateneo. L'obiettivo fin dall'inizio era quello di creare un polo d'insegnamento universitario privato aperto a tutti, conforme alle esigenze del mercato e strettamente associato alla ricerca scientifica. A distanza di quasi tre anni, dopo le convulsioni che hanno travolto le regioni settentrionali dell'Iraq e hanno portato proprio ad Ankawa migliaia di profughi cristiani costretti alla fuga dai jihadisti del sedicente Stato Islamico, l'Università vuole essere un segno concreto di aiuto ai giovani cristiani iracheni, inevitabilmente tentati dall'idea di fuggire all'estero e lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra e le incertezze e le minacce che pesano sul futuro. (G.V.) 

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Egitto. Legge elettorale incostituzionale, elezioni rinviate

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Sono state rinviate le elezioni politiche in Egitto, previste inizialmente per il 21 marzo prossimo. La decisione è stata presa in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale egiziana che ha respinto la legge elettorale. La sentenza d’incostituzionalità, da parte del giudice, si concentra in particolare sul regolamento dei confini delle circoscrizioni elettorali, e ha reso necessario il rinvio dell’appuntamento con le urne, molto atteso perché in Egitto non si effettuano consultazioni per il rinnovo del Parlamento dal 2012. Nel 2014, invece, si sono tenute le elezioni presidenziali in cui è stato eletto Abdel Fattah el Sisi e poi un referendum proprio per l’approvazione della nuova Costituzione. E proprio il presidente al Sisi ha ordinato le modifiche al testo che promette sarà pronto entro un mese per procedere il prima possibile con il voto. Queste elezioni, infatti, sono considerate un passo importante per il processo di democratizzazione del Paese dopo la deposizione di Mohammed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, il 3 luglio 2013.

La condanna ai Fratelli Musulmani
Intanto l’Egitto continua a opporsi a un ritorno in politica dei Fratelli Musulmani. Il movimento – dopo la deposizione di Morsi – è stato bandito dal Paese e ieri il tribunale penale del Cairo ha condannato per la quarta volta al carcere a vita Mohamed Badie, guida generale dei Fratelli Musulmani, riconosciuto colpevole di omicidio plurimo, istigazione alla violenza e detenzione abusiva di armi, in relazione alla morte di 12 oppositori durante un corteo di protesta del giugno 2013. (R.B.)

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Elezioni legislative in Lesotho: attesa per i risultati

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C’è attesa per i risultati delle elezioni politiche svoltesi ieri nel Lesotho, piccolo regno africano di montagna il cui territorio, interamente circondato dal Sudafrica. A essere chiamati alle urne per le elezioni legislative anticipate, sono un milione e 200mila elettori. Il voto, che ha avuto luogo senza incidenti, è stato indetto nel tentativo di porre fine agli scontri sanguinosi tra fazioni che da mesi si stanno verificando nel piccolo Paese dopo la crisi politica dello scorso anno.

La crisi politica
Circa sei mesi fa, infatti, il premier Thomas Thabane, sospese le attività parlamentari in seguito alla disgregazione della propria coalizione e fuggì nel vicino Sudafrica denunciando un tentativo di golpe contro la propria persona, per poi rientrare in Lesotho scortato dai militari sudafricani. Secondo gli analisti, nessuna delle forze politiche in lizza riuscirà neppure in questa tornata elettorale a raggiungere la maggioranza e si renderà perciò necessario un nuovo governo di coalizione.

La delegazione dei vescovi
L’Inter-regional meeting of the bishops of Southern Africa (Imbisa) ha inviato nel Lesotho in occasione delle elezioni, una coalizione di presuli che hanno effettuato attività di osservazione sull’esercizio del voto. Si tratta di vescovi provenienti da Angola, Mozambico e Swaziland e due laici da Mozambico e Zimbabwe, oltre al coordinatore dell’ufficio Giustizia e pace dell’Imbisa, padre Dos Reis. L’Imbisa, infine, ha una funzione di collegamento e collaborazione pastorale tra alcune conferenze episcopali africane.

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Bolivia: Campagna per i bambini poveri del Tipnis

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Sotto lo slogan "Pane spezzato per la vita del mondo", la Chiesa di Cochabamba si propone di raccogliere fondi, nella Quinta domenica di Quaresima, il 22 marzo, per acquistare farmaci ed alimenti per combattere la malnutrizione che affligge i bambini del Tipnis (Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro Sécure). L’iniziativa è stata presentata da padre José Gallo, delegato episcopale per la Pastorale sociale Caritas dell'arcidiocesi di Cochabamba. Come riferisce l'agenzia Fides, nella nota della Chiesa boliviana ci si augura che questa iniziativa possa inaugurare un programma organico di solidarietà dell'arcidiocesi nella zona del Tipnis.

Nel Tipnis occorre un intervento organico e costante
La situazione infatti non è cambiata di molto da quando la Chiesa aveva elaborato un rapporto al riguardo nel 2012, e lo aveva presentato all'Assemblea permanente dei Diritti Umani. Il rapporto era stato redatto su sollecitazione delle stesse organizzazioni indigene della zona. 
In quel periodo la Chiesa si è impegnata a lavorare nella zona "al servizio delle persone e delle comunità in situazione di bisogno, povertà ed esclusione sociale, in collaborazione e armonia con altri organismi pubblici e privati”. Alle iniziative sporadiche sarebbe ora necessario sostituire un programma organico e costante di interventi.

I bambini muoiono per malnutrizione e mancanza di assistenza sanitaria
Il Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro Sécure, più conosciuto come Tipnis, è situato tra i dipartimenti di Beni (provincia di Moxos) e Cochabamba (Chapare), è il quarto parco naturale più grande e importante della Bolivia. Secondo i dati raccolti da Fides, nel Tipnis vivono più di 60 comunità, la povertà è diffusa e molti bambini muoiono per mancanza di assistenza medico-sanitaria, per malnutrizione e altre malattie. (C.E.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 60

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.