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Sommario del 04/03/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: è vile scartare gli anziani, siamo loro grati

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Una civiltà che non ha al suo interno un posto per gli anziani “porta con sé il virus della morte”. Papa Francesco ha preso nuovamente le difese della terza età, contro la cultura dello scarto, durante la catechesi dell’udienza generale in Piazza San Pietro. Parlando dei nonni, il Papa ha messo in risalto in questa occasione i deficit di solidarietà che si riscontrano oggi verso gli anziani, rinviando a una successiva catechesi la descrizione dei valori di questa stagione della vita. Il servizio di Alessandro De Carolis

Diventare vecchi e quindi sfrattati dalla “società dell’efficienza”, che non sa che farsene dei tempi lenti di un anziano e dei suoi bisogni. Essere vecchi e spesso malati e diventare in famiglia più che qualcuno da amare, qualcuno cui “badare”.

Francesco si lancia con determinazione in un tema che fa parte del suo magistero più sentito. Affronta uno dei cortocircuiti del progresso umano, che allunga la vita ma non sempre offre il modo di custodirla e rispettarla quando essa si fa più fragile. E che spesso volta le spalle agli anziani, i quali invece – afferma – “sono una ricchezza”, anzi “la riserva sapienziale del nostro popolo” – e quindi “non si possono ignorare”.

“In una civiltà c’è attenzione all’anziano? C’è posto per l’anziano? Questa civiltà andrà avanti se saprà rispettare la saggezza, la sapienza degli anziani. In una civiltà in cui non c’è posto per gli anziani o sono scartati perché creano problemi, questa società porta con sé il virus della morte”.

Scartare i deboli
Il vecchio – questa “zavorra” che non produce e che dunque deve scontare il suo essere un “peso” – è davvero qualcosa di indigesto per Papa Francesco, che usa parole durissime contro l’indegna attitudine che costringe gli anziani, dice, “a sopravvivere in una civiltà che non permette loro di partecipare, di dire la propria”:

“C’è qualcosa di vile in questa assuefazione alla cultura dello scarto. Ma noi siamo abituati a scartare gente. Vogliamo rimuovere la nostra accresciuta paura della debolezza e della vulnerabilità; ma così facendo aumentiamo negli anziani l’angoscia di essere mal sopportati e abbandonati”.

Il peccato dell'abbandono
Il deficit è tutto nel cuore delle singole famiglie e della società nel suo insieme nel modo che hanno di considerare la vecchiaia. Cioè, all’inverso, nella capacità – sostiene Francesco – di dimostrare “prossimità” verso gli anziani,  un “affetto senza contropartita”. Perché quando non c’è amore, esclama, “con quanta facilità si mette a dormire la coscienza”:

“Io ricordo, quando visitavo le case di riposo, parlavo con ognuno e tante volte ho sentito questo: ‘Come sta lei? E i suoi figli?’. ‘Bene, bene’. ‘Quanti ne ha?’. ‘Tanti’. ‘E vengono a visitarla?’. ‘Sì, sì, sempre, sì, vengono’. ‘Quando sono venuti l’ultima volta?’. Ricordo un’anziana che mi diceva: 'Mah, per Natale'. Eravamo in agosto! Otto mesi senza essere visitati dai figli, otto mesi abbandonata! Questo si chiama peccato mortale, capito?”.

"L'anziano siamo noi"
Francesco ricorda, tra gli applausi della folla, quando Papa Benedetto affermò che la “qualità” di una civiltà “si giudica anche da come gli anziani sono trattati”. E conclude chiamando in causa i cristiani, ricordando che “gli anziani sono uomini e donne, padri e madri che sono stati prima di noi sulla nostra stessa strada, nella nostra stessa casa, nella nostra quotidiana battaglia per una vita degna”:

“La Chiesa non può e non vuole conformarsi ad una mentalità di insofferenza, e tanto meno di indifferenza e di disprezzo, nei confronti della vecchiaia. Dobbiamo risvegliare il senso collettivo di gratitudine, di apprezzamento, di ospitalità, che facciano sentire l’anziano parte viva della sua comunità (...) L’anziano non è un alieno. L’anziano siamo noi: fra poco, fra molto, inevitabilmente comunque, anche se non ci pensiamo. E se noi non impariamo a trattare bene gli anziani, così tratteranno a noi”.

Cristo, sole in un tempo di ombre
Saluti del Papa sono andati, fra gli altri, ai docenti e agli studenti della Pontificia Università Salesiana che ricordano il bicentenario della nascita di San Giovanni Bosco. Francesco ha poi concluso con una sorta di preghiera spontanea rivolta a tutti:

“Cari amici, il nostro tempo, segnato da tante ombre, sia sempre illuminato dal sole della speranza, che è Cristo. Egli ha promesso di restare sempre con noi e in molti modi manifesta la sua presenza. A noi il compito di annunciare e testimoniare il suo amore che ci accompagna in ogni situazione. Non stancatevi, pertanto, di affidarvi a Cristo e di diffondere il suo Vangelo in ogni ambiente”.

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Francesco: vescovo non raduna popolo su proprie idee ma su Cristo

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Il vescovo non raduna il popolo intorno alla propria persona o alle proprie idee ma intorno a Cristo: è quanto ha detto Papa Francesco incontrando stamani, nell’Aula Paolo VI in Vaticano, i vescovi amici del Movimento dei Focolari, riuniti in questi giorni a Roma per un incontro sul tema “Eucaristia, mistero di comunione”. Era presente anche Maria Voce, presidente del Movimento. Il servizio di Sergio Centofanti

Il carisma dell’unità proprio del Movimento dei Focolari – ha detto il Papa – “è fortemente ancorato all’Eucaristia, che gli conferisce il suo carattere cristiano ed ecclesiale”:

“Senza l’Eucaristia l’unità perderebbe il suo polo di attrazione divina e si ridurrebbe a un sentimento e ad una dinamica solamente umana, psicologica, sociologica. Invece l’Eucaristia garantisce che al centro ci sia Cristo, e che sia il suo Spirito, lo Spirito Santo a muovere i nostri passi e le nostre iniziative di incontro e di comunione”.

Il servizio fondamentale dei vescovi – ha aggiunto Papa Francesco – è quello di radunare “le comunità intorno all’Eucaristia, alla duplice mensa della Parola e del Pane di vita”:

“Il Vescovo è principio di unità nella Chiesa, ma questo non avviene senza l’Eucaristia: il Vescovo non raduna il popolo intorno alla propria persona, o alle proprie idee, ma intorno a Cristo presente nella sua Parola e nel Sacramento del suo Corpo e Sangue”.

“Così il Vescovo, conformato a Cristo – ha affermato il Papa - diventa Vangelo vivo, diventa Pane spezzato per la vita di molti con la sua predicazione e la sua testimonianza. Chi si nutre con fede di Cristo Pane vivo viene spinto dal suo amore a dare la vita per i fratelli, ad uscire, ad andare incontro a chi è emarginato e disprezzato”.

Quindi, il Papa ringrazia in modo particolare i vescovi giunti “dalle terre insanguinate della Siria e dell’Iraq, come pure dell’Ucraina”:

“Nella sofferenza che state vivendo con la vostra gente, voi sperimentate la forza che viene da Gesù Eucaristia, forza di andare avanti uniti nella fede e nella speranza. Nella celebrazione quotidiana della Messa noi siamo uniti a voi, preghiamo per voi offrendo il Sacrificio di Cristo; e da lì prendono forza e significato anche le molteplici iniziative di solidarietà in favore delle vostre Chiese”.

Papa Francesco, infine, incoraggia i vescovi amici dei Focolari a portare avanti l’impegno “in favore del cammino ecumenico e del dialogo interreligioso” e li ringrazia per il contributo dato “ad una maggiore comunione tra i vari movimenti ecclesiali”.

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Mons. Vella: pronti a dare la vita per la nostra gente

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All’udienza di Papa Francesco con i vescovi amici del Movimento dei Focolari c’era anche l’italiano mons. Rosario Saro Vella, vescovo di Ambanja nel Madagascar che con altri 60 presuli di 35 Paesi partecipa all’incontro in corso a Castelgandolfo fino a venerdì prossimo. A lui Adriana Masotti ha chiesto un commento al momento vissuto con il Papa: 

R. – E’ stata una cosa bellissima perché all’inizio c’è stato il nostro saluto, fatto dal cardinale Francis Xavier Kriengsak Kovithavanij, arcivescovo di Bangkok, che ha presentato al Papa i vescovi amici del Movimento dei Focolari, mettendo in risalto l’unità che noi vogliamo fare insieme con il Papa, soprattutto i vescovi che vengono dai punti veramente difficili. E abbiamo detto che siamo pronti a vivere insieme con il Papa una collegialità effettiva ed affettiva. E il Papa ha capito subito questo nostro desiderio e questa nostra prontezza ed era tanto, tanto contento.

D. – Il Papa vi ha poi parlato dell’Eucaristia e del vescovo come “pane spezzato per la vita di molti”…

R. – Eucaristia e unità hanno un legame inscindibile anzi, ci diceva il Papa, senza l’Eucaristia l’unità resterebbe un sentimento umano da realizzare solo con le nostre forze e quindi non riusciremmo, mentre con l’Eucaristia c’è la garanzia che questa unità verrà realizzata. E ci ha incoraggiato a vivere nelle situazioni più difficili come quelle di guerra, sia l’Ucraina, sia la Siria, l’Iraq, la Libia, ma incitava un po’ tutti noi a essere pronti a dare la vita. Credo che ognuno di noi abbia fatto proprio questo passo.

D. – L’Eucaristia è anche il tema dell’incontro che state vivendo in questi giorni: qual è l’obiettivo di questo vostro incontrarvi?

R. – Noi come vescovi e come sacerdoti celebriamo giornalmente l’Eucaristia, ma noi vorremmo rivivere l’Eucaristia non solo sull’altare ma giornalmente, insieme con tutti i nostri fratelli e le nostre sorelle che vivono la stessa fede, che è proprio un ringraziamento, è una lode al Signore che viene da tutte le parti della terra.

D. – La sua diocesi si trova nel nord del Madagascar: qual è la realtà della sua gente?

R. – Noi, grazie a Dio non abbiamo la guerra, quindi è un grande dono di cui sempre ringraziamo il Signore, però la nostra gente soffre tanto per la povertà. Ad esempio, noi abbiamo avuto già diversi cicloni e poi una pioggia molto, molto intensa che ha procurato in tante parti inondazioni. Allora, che cosa vuol dire l’inondazione per questa gente che non ha niente? Vuol dire che i raccolti e le coltivazioni sono compromesse. Infatti, proprio prima di partire, insieme con la gente, ci siamo radunati per decidere cosa fare e ci hanno chiesto: “Padre, dateci sementi perché noi dobbiamo ripiantare di nuovo”. Quindi, è veramente un ricominciare, ricominciare da capo.

D. – Insomma, una vita di condivisione, la sua, con tutte queste necessità?

R.  – Sempre noi vogliamo condividere la vita della gente, perché la gente per noi è la nostra famiglia: famiglia che ha legami, tante volte, molto più forti dei legami di sangue. Quindi, noi siamo immersi giornalmente nella vita di tutti.

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Nomine episcopali in Messico e Brasile

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In Messico, Papa Francesco ha accettato la rinuncia all’ufficio di ausiliare dell’arcidiocesi di Tlalnepantla, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Francisco Ramírez Navarro. Al suo posto, il Papa ha nominato il sacerdote Jorge Cuapio Bautista, del clero della diocesi di Texcoco, assegnandogli la sede titolare di Bisarcio. Il neo presule è nato in Santa Ana Chiauhteman, nello Stato di Tlaxcala, il 6 aprile 1967. Formato nel Seminario di Tulantongo, ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale il 15 agosto 1992, incardinandosi nella diocesi di Texcoco. Appartiene alla Comunità dei Missionari di Nostra Signora del Sacro Cuore. Ha ottenuto la Licenza in Filosofia presso l’Universidad Popular Autónoma del Estado de Puebla. È stato Vicario parrocchiale, Professore nel Seminario e Parroco delle Parrocchie San Salvador e San Bartolome Apóstol e Vicario Episcopale Zonale per la VI Vicaria e successivamente Vicario Episcopale della Pastorale e membro del Collegio di Consultori. Tra il 2012 e 2014 ha seguito i corsi e conseguito la Licenza in Scienze della Famiglia presso l’Istituto Giovani Paolo II, in Roma. Attualmente aiuta nella Parrocchia di Santa Isabel Ixtapan.

In Brasile, il Pontefice ha nominato vescovo della diocesi di Colatina mons. Joaquim Wladimir Lopes Dias, trasferendolo dall’ufficio ausiliare dell’arcidiocesi di Vitória. Mons. Lopes Dias  è nato il 23 ottobre 1957, a Cafelândia, nella diocesi di Lins, nello Stato di São Paulo. Dopo gli studi preparatori svolti nella città natale e a Bauru, ha ottenuto il baccalaureato in Amministrazione aziendale presso la Facoltà di Scienze Economiche e Amministrazione di Jundiaí. Entrato nel Seminario “Nossa Senhora do Desterro” della diocesi di Jundiaí, ha ivi seguito i corsi di Filosofia.  Ha compiuto gli studi di Teologia presso l’Istituto Teologico Salesiano “Pio XI” a São Paulo. Il 12 dicembre 1997 ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale ed è stato incardinato nel clero della diocesi di Jundiaí, nella quale ha svolto gli incarichi seguenti: Vicario Parrocchiale della Parrocchia “São Sebastião” a Itupeva (1997-1998); Coordinatore diocesano del Movimento “Cursilhos de Cristandade” (1997-1998); Parroco della Parrocchia “São Francisco de Assis” a Campo Limpo (1999-2000); Parroco della Parrocchia “Nossa Senhora da Piedade” a Várzea Paulista (2001-2002); Vice-Rettore (2003-2006) e Rettore del Seminario diocesano “Nossa Senhora do Desterro” (2006-2009); Vicario Generale (2006-2009 e 2010-2011),  Amministratore diocesano (2009). Il 21 dicembre 2011 è stato nominato Vescovo titolare di Sita ed Ausiliare dell’arcidiocesi di Vitória (Brasile), ricevendo l’ordinazione episcopale il 4 marzo 2012. Il 14 maggio 2014 è stato nominato Amministratore Apostolico della diocesi di Colatina.

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Carrasco De Paula: cure palliative, bisogna fare di più

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"L'assistenza agli anziani e le cure palliative" è il tema dell'assemblea plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, in programma dal 5 al 7 marzo nell'Aula Nuova del Sinodo e caratterizzata da un Workshop aperto al pubblico nella giornata di venerdì. Obbiettivo del dibattito sarà avvicinare scienza e fede al servizio di tutti coloro che aiutano gli anziani o i pazienti bisognosi di cure palliative. Sentiamo il presidente della Pontificia Accademia, il vescovo Ignacio Carrasco de Paula, al microfono di Fabio Colagrande: 

R. - Le malattie croniche in evoluzione creano sempre l'esigenza dell'assistenza. Sono infatti patologie che non procedono quasi mai verso la guarigione e che accompagnano molti anziani fino alla fine. Credo che questa sia la questione più importante. Qualcuno potrebbe pensare che sono perciò malattie che lasciano i pazienti senza speranza. Può accadere, ma è proprio ciò che dobbiamo evitare. La vita, anche in età avanzata, ha infatti sempre un futuro. E questo futuro bisogna capirlo, afferrarlo e volerlo.

D.  – C’è un codice etico da seguire nell’assistenza agli anziani che si trovano in questa fase, chiamiamola, del “fine vita”?

R. – Direi che alcune istituzioni sanitarie hanno creato e sviluppato protocolli… Però, quando si assistono persone anziane nella fase del fine vita bisogna tenere conto soprattutto che sono persone che hanno una lunga vita dietro le spalle. Bisogna considerarli come dei sapienti, dei saggi, persone che hanno vissuto tante esperienze e sono in grado, più di quanto uno possa sospettare, di interpretare in modo giusto anche questa nuova esperienza che si presenta in un momento particolarmente delicato.

D. – Si possono commettere abusi dal punto di vista etico nell’ambito, per esempio delle cure palliative, quelle per alleviare il dolore?

R. – Le cure palliative sono una realtà piuttosto recente. Sono nate in un'epoca in cui l'attenzione etica è stata, e continua a essere, molto forte. Quindi, in generale, non possiamo lamentarci di come sono gestite. Il vero problema è l'aumento continuo dei pazienti anziani bisognosi, non solo di un accompagnamento, ma proprio di cure specifiche per alleviare i sintomi che possono accompagnare l'invecchiamento.

D. - Quanto è importante l’aspetto delle relazioni interpersonali dell’anziano bisognoso di cure in famiglia, nella società, in ospedale?

R.  – Ritengo che questo sia l'aspetto centrale di questa problematica. Tenendo conto però che prima ancora di vedere nell'anziano una persona bisognosa di cure, bisogna vedere in lui una persona e basta. L'anziano non deve essere considerato un optional nella società, ma fino alla fine è un soggetto. E ciò non solo riguardo alla sua dignità, ma anche rispetto alle sue reali possibilità di continuare a essere protagonista non solo della sua vita, ma anche di quella che condivide con molte altre persone, nella famiglia, nella società, nel lavoro.

D. – Il ricorso alle cure palliative, la terapia del dolore, nel caso di pazienti anziani, è sufficientemente diffuso, secondo lei, o c’è ancora molto da fare?

R. - Non c'è dubbio che, specie negli ultimi dieci anni, si siano fatti passi in avanti enormi nel campo delle cure palliative. Soltanto dieci, quindici anni fa, questo tipo di cure erano molto più marginali di adesso. Certo, bisogna fare sempre di più. Perché oggi gli anziani sono i primi candidati  - come dice Papa Francesco - a essere vittime della cultura dello scarto.

D. – Da un punto di vista spirituale e pastorale ci sono aspetti da sottolineare riguardo a questa tematica?

R. - Dal punto di vista spirituale - aggiunge il vescovo - è importante stabilire una pastorale programmata rivolta agli anziani. Se infatti, quando una persona è giovane, la malattia è un evento inatteso, nel caso degli anziani è possibile prevedere una pastorale specifica per accompagnarli nella fase del fine vita, in presenza di malattie croniche.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina in apertura, "Gli anziani siamo noi"; all’udienza generale Papa Francesco parla dell’importanza dei nonni. E con i vescovi amici dei Focolari ricorda i drammi di Siria, Iraq e Ucraina

Di spalla, sempre in prima pagina, "Sulla  propria pelle", la persecuzione dei cristiani assiri e caldei, di padre Manuel Nin. Sotto, "Soluzione pacifica in Ucraina. Auspicata dagli Stati Uniti e da quattro Paesi europei"

A pagina 4, Confronto  con l’impensabile. L’originalità del cristianesimo secondo Guillaume Jedrzejczak di Lucetta Scaraffia e "Un’altra luce. I cinquant’anni di The Sound of Music di Emilio Ranzato. Sempre in cultura, a pagina 5, "Storia di un ragazzo. Il Papa e don Bosco" di Marcello Filotei.

A pagina otto, la catechesi di mercoledì 4 marzo nel corso dell’udienza generale in piazza San Pietro dedicata agli anziani. «Una società senza prossimità» è «una società perversa» ha detto Papa Francesco.

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Oggi in Primo Piano



La Cina aumenta le spese militari, trend mondiale al rialzo

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Nel 2015 la Cina aumenterà del 10% le spese militari. E’ quanto emerge in prossimità dell'Assemblea nazionale del Popolo, che si aprirà il 6 marzo a Pechino. L'annunciato aumento di spese per l’industria e il settore bellico posiziona di nuovo la Cina al secondo posto nel mondo - dopo gli Stati Uniti - nella classifica di chi spende di più per le armi. Lo scorso anno, con un aumento del 12,2% del budget, il Paese asiatico ha speso circa 130 miliardi di dollari. Fausta Speranza ne ha parlato con Francesco Terreri, studioso delle dinamiche del commercio di armi:  

R. - Il trend c’è da molti anni. La Cina sta facendo una vera e propria rincorsa al riarmo o comunque al rafforzamento della sua struttura militare. Tra l’altro, è una rincorsa che va abbastanza di pari passo con la crescita economica complessiva, cioè il peso delle spese militari sull’economia cinese non sta crescendo molto perché contemporaneamente crescono sia le spese che il complesso dell’economia.

D. - Per anni avevamo parlato di disarmo o comunque di diminuzione delle spese militari nel mondo; invece il trend è al rialzo anche per gli altri Paesi, in particolare per l’Asia. È così?

R. - Dopo il 2001, nonostante l’11 settembre, la guerra in Iraq e altri fatti molto gravi, il trend delle spese militari mondiali era in lenta diminuzione. Stiamo parlando di cifre che oscillano intorno ai 1500 miliardi di dollari per dare un ordine di grandezza. Però comunque in leggera diminuzione. In questo calo c’era una doppia tendenza: diminuivano le spese soprattutto dei Paesi occidentali – Stati Uniti in testa, che rimangono il primo Paese ma hanno cominciato a calare le spese militari con la presidenza Obama  – e aumentavano in Asia in generale, e orientale in particolare, ma anche del Medio Oriente, non dimentichiamolo. Quello che è successo nel 2014, secondo vari studi, è che per la prima volta da molti anni c’è stata una inversione di tendenza: il complesso delle spese militari mondiali seppur solo di “qualche” decina di miliardi di dollari – in questi termini poco, ma in assoluto è una cifra enorme – hanno registrato un rialzo di quasi un punto percentuale. Questa è un’inversione di tendenza che preoccupa perché vuol dire che a questo punto i Paesi che riducono la spesa non compensano più quelli che la stanno aumentando.

D. - Aumentano le spese militari della Cina e il pensiero va subito alle tensioni in Asia orientale, in Giappone, Corea; ma anche Sud-Est asiatico, Filippine e Vietnam. Cosa dire a questo proposito?

R. - Non c’è dubbio che la politica estera e militare della Cina ovviamente abbia un occhio molto attento a quello che succede intorno a sé. Sappiamo che il Giappone, da un po’ di anni, ha cambiato la sua politica che era diciamo “pacifista”, nel senso che aveva rinunciato al riarmo per decenni dopo la Guerra Mondiale. Sappiamo delle tensioni che periodicamente si ripresentano attorno a Taiwan, delle tensioni che ci sono nella Penisola coreana, ma anche giustamente nel Sud-Est asiatico. Teniamo però presente che questi trend dipendono anche dal contesto internazionale più complesso. Ad esempio, la Cina ha i suoi problemi con minoranze islamiche che collega all’emergere su scala mondiale di un terrorismo islamista o comunque di forze armate islamiste, come quelle in Medio Oriente che è la questione del momento. Quindi, non guarda necessariamente solo alle tensioni che si svolgono ai suoi confini. Possono esserci valutazioni che vanno al di là, soprattutto se si parla della Cina che ambisce in qualche modo ad essere una potenza mondiale.

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Ebola, Piano Marshall: Medici con l'Africa-Cuamm, azione coordinata

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Se gli sforzi fatti fino a oggi nella lotta all’Ebola hanno contribuito a ridurre il numero di infezioni, adesso è di cruciale importanza eradicare il virus, mantenere il sostegno ai Paesi colpiti per evitare nuovi contagi e favorirne la ripresa economica. È quanto emerso, in sintesi, alla Conferenza di Bruxelles organizzata da Unione Europea, Ecowas (la Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale), Unione Africana e Onu, con Liberia, Sierra Leone e Guinea, per fare il punto sull’infezione che ha colpito principalmente i tre Paesi africani. Nell’occasione, il capo di Stato liberiano, Ellen Johnson Sirleaf, ha evocato la possibilità di un "Piano Marshall2 per quanti colpiti dall’epidemia dell’Ebola, che fin qui ha già provocato 9.700 morti accertati. Ce ne parla don Dante Carraro, direttore di "Medici con l’Africa - Cuamm", organizzazione da anni impegnata a Pujehun in Sierra Leone, che ha partecipato ai lavori di Bruxelles. L’intervista è di Giada Aquilino: 

R. – Si tratta di Paesi che erano già molto fragili prima dell’Ebola. Ad esempio, la Sierra Leone, dove noi siamo impegnati: nel distretto sanitario dove noi abbiamo iniziato tre anni fa a lavorare, un distretto di 350 mila persone, c’era un solo medico. Quindi, la situazione era così prima dell’Ebola. Poi, è arrivato questo "uragano2 che ha spazzato via persone, servizi, che ha reso più fragile tutto il sistema sanitario, per non parlare del sistema scolastico, per non parlare della protezione sociale e dei tanti orfani e delle vedove che adesso ci sono. Allora, si capisce e si può intuire come: o si interviene in maniera drastica, coordinata e massiccia, con un "Piano Marshall" appunto, o altrimenti è difficile aiutare questi Paesi ad uscire dal dramma, dal cuneo buio dove sono entrati. Da tener presente un altro dato: nel 2013, quindi l’anno prima dell’epidemia di Ebola, la Sierra Leone rispetto all’anno precedente aveva avuto una crescita del Pil dal 10 al 14%. Dopo Ebola, un studio della Banca Mondiale ha dimostrato che c’è un calo del 6% del Pil. E’ facile capire che o tutti i Paesi, la comunità internazionale, gli organismi internazionali, le ong fanno la loro parte in maniera consistente e coordinata, o non se ne viene fuori.

D. – Se gli interventi compiuti hanno contribuito, in parte, a ridurre il numero delle infezioni, adesso va quindi mantenuto il sostegno ai Paesi colpiti. Cosa serve, secondo la vostra esperienza in Sierra Leone?

R. – Non è ancora sparita l’epidemia. Infatti, a Bruxelles il primo punto era proprio intitolato “Getting to Zero”, cioè raggiungere lo zero. Perché, per esempio, la Sierra Leone ha avuto un calo drastico dei casi di Ebola confermati a gennaio, ma le prime settimane di febbraio hanno mostrato una risalita. Quindi, prima cosa è non abbassare la guardia perché l’Ebola c’è, non è ancora stata sconfitta e bisogna sconfiggerla totalmente. Diceva il presidente della Sierra Leone, Ernest Bai Koroma: “Non può essere una semplice vittoria, ma deve essere vittoria totale sull’Ebola”. La seconda è rafforzare il sistema sanitario e questo vuol dire soprattutto formazione del personale locale e quindi di infermieri, di medici che possano poi sostituire anche coloro che purtroppo sono mancati: la Sierra Leone ha avuto 221 morti fra gli operatori sanitari. Quindi, spingere tutte le attività non su sistemi iper-sofisticati, di eccellenza, ma – si diceva a Bruxelles e si è ribadito fortemente – su servizi essenziali alla popolazione, che sono in particolare l’assistenza al parto e l’assistenza ai bambini, che sono le fasce più vulnerabili della popolazione. Questo vuol dire riaprire gli ospedali che sono stati chiusi, per esempio. Poi, la cosa ancora più difficile è creare fiducia: quello che è andato minato – si sottolineava alla conferenza – è la fiducia, che invece la gente deve avere nei confronti di una struttura sanitaria.

D. – Siamo in Quaresima e in questi giorni missionari dalla Sierra Leone e dai Paesi colpiti ci hanno detto che c’è stato chi si è posto il problema della distribuzione delle Ceneri, proprio perché la gente cerca di evitare contatti. Ma c’è un caso particolare che oggi spinge "Medici con l'Africa - Cuamm" a dire: “Ce la possiamo fare”?

R. – Quello che a noi dà fiducia è sentire e percepire costantemente, quotidianamente mi viene proprio da dire, la voglia potente di questa popolazione a venirne fuori. Non più di un mese fa, quando ero in Sierra Leone, il direttore dell’ospedale rurale di Pujehun, dove stiamo lavorando, mi ha detto: “Il fatto che voi siate rimasti, dà forza a noi non solo a rimanere, ma anche a spingere in avanti, perché vogliamo uscire da questa tragedia”.

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Netanyahu: intesa Usa-Iran spinge Teheran verso bomba atomica

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Parole di fuoco ieri al Congresso degli Stati Uniti del premier israeliano Netanyahu. Al centro del suo discorso il recente accordo tra Washington e altre potenze occidentali con l'Iran sul nucleare. L’intesa – ha detto Netanyahu – non impedirà a Teheran di ottenere armi non convenzionali, anzi gli permetterà di arrivare alla bomba atomica. Il portavoce della Casa Bianca ha bollato il discorso definendolo retorico e senza nessuna applicazione concreta. Dagli Stati Uniti, Elena Molinari: 

Netanyahu nega che la sua controversa visita a Washington abbia un valore politico, ma non perde l’occasione di criticare un possibile accordo fra potenze occidentali e Iran. Benjamin Netanyahu ha parlato in questi termini al Congresso americano, invitato dai leader repubblicani all’insaputa del democratico Obama, con una mossa che la Casa Bianca ha giudicato una violazione del protocollo. “I sei Paesi coinvolti nei negoziati stanno facendo troppe concessioni - ha tuonato il premier israeliano e lasciano all’Iran vaste infrastrutture nucleari”. Il timore che il vicino Iran possa creare un arsenale atomico ha spinto il primo ministro dello Stato ebraico ad intraprendere una campagna internazionale contro i delicati colloqui in fase conclusiva a Ginevra: è a favore, invece, di maggiori sanzioni. Netanyahu ha cercato di abbassare il tono della polemica con l’amministrazione Usa, ringraziando il presidente Obama per tutto quello che fa per Israele: “Condividiamo lo stesso destino di terra promessa”. Ed ha concluso: l’Iran sarà sempre un emico comune”.

Al centro delle parole di Netanyahu, dunque, l’opposizione all’accordo che Washington sta tentando di chiudere con l’Iran sul tema del nucleare. Per una riflessione, Fausta Speranza ha intervistato Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento: 

R. – Non dimentichiamo che già anche pochi giorni fa, Khamenei in alcuni tweet – ricordiamo che l’Iran non ha Internet libero, però qualcuno evidentemente ha un certo accesso e la guida spirituale Khamenei sicuramente ce l’ha -  chiedeva ancora la totale distruzione dell’entità sionista dello Stato ebraico. Quindi fare un patto con l’Iran da parte degli Stati Uniti è sicuramente visto come un cattivissimo accordo da parte dello Stato di Israele, che a questo punto auspica che non si faccia alcun patto, alcuno accordo con l’Iran.

D. – Ma qual è la strategia di Obama, invece, in questo momento? Perché difende questo accordo?

R. – Probabilmente il presidente Obama sta cercando di ricostruire una propria politica estera in Medio Oriente, visto che negli anni della sua presidenza non è riuscito a costruirne una chiara. Se non ci fosse stata l’imminente minaccia dell’Is, probabilmente ancora avrebbe avuto una politica estremamente altalenante. Basti pensare all’azione che avrebbe voluto intraprendere in Siria nei confronti del presidente Assad, per poi ad un certo punto ritirarsi perché la questione del presunto Califfato era assolutamente più urgente. Quindi è possibile che l’accordo con l’Iran serva anche – come dire – a creare una struttura di sicurezza all’interno del Medio Oriente, perché probabilmente Obama ritiene che, essendo l’Iran in netto contrasto e nemico mortale dell’Is, possa essere utile alla causa.

D. – Tra l’altro Netanyahu ha detto: “Lo Stato Islamico e l’Iran sono in competizione tra loro. Ma la battaglia fra Iran e Is non trasforma l’Iran in un amico degli Stati Uniti”…

R. – Questo è assolutamente vero. Su questo Netanyahu ha assolutamente ragione: Is e Iran sono nemici, ma questo non fa sì che alla fine l’Iran divenga un amico degli Stati Uniti perché nemico del Califfato. Dobbiamo ricordarci però che l’Is è una minaccia all’islam intero, prima che all’Occidente ed è qui all’interno che si sono creati i forti contrasti. Il presunto Califfato sunnita si contrappone non solo all’Iran sciita o ai gruppi radicali sciiti, ma si contrappone anche ad altri gruppi all’interno del radicalismo islamico-sunnita. Si potrebbe definire una specie di guerra civile all’interno del mondo musulmano.

D. – Il premier israeliano ha detto: “Sono qui per parlare di nucleare in Iran. Questa non è una visita politica”. Ma è possibile un’affermazione del genere da parte di un premier che parla al Congresso?

R. – No! E’ solo assolutamente una frase detta per furbizia politica. Il fatto che un primo ministro di un qualsiasi Stato tenga un discorso all’interno del Congresso degli Stati Uniti in seduta comune, che tra l’altro è una cosa che viene concessa a ben poche persone, rappresenta assolutamente una visita politica, con fini politici. Probabilmente era voluta da una parte del Congresso, ma toccava argomenti che riguardano tutti e due i partiti all’interno del Congresso. Tanto è vero che chi ha visto le immagini del discorso si è reso conto che ci sono stati su alcuni punti applausi e standing ovation nei confronti del primo ministro Netanyahu da parte di tutti i componenti del Congresso, a prescindere da quale parte politica provenissero.

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Brasile, scandalo Petrobas: indagini su oltre 50 politici

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Aspre polemiche in Brasile, investito da una grave vicenda di corruzione. La Corte Suprema sta indagando su 54 politici sospettati di aver ricevuto tangenti dal colosso petrolifero pubblico Petrobras. Nel sistema messo in atto, i politici avrebbero beneficiato di fondi neri pari a quasi quattro miliardi di dollari. Massimiliano Menichetti ha parlato della situazione del Paese con il prof. Diego Corrado docente di diritto internazionale all'Università Bocconi e autore del libro "Brasile senza maschere": 

R. – Questa è un’inchiesta che va avanti ormai da molti mesi: giorno per giorno coinvolge l’uno o l’altro politico. Ricorda un po’ l’epoca di Tangentopoli dell’inizio degli anni Novanta in Italia… Il Brasile ha un problema di governance e non ha un sistema istituzionale efficiente, come tutti i Paesi che sono usciti recentemente da una dittatura: che qui è finita nel 1984-85. La Costituzione del 1988 prevede in Brasile un sistema di pesi e contrappesi che causa un sistema di tipo quasi consociativo, dove è necessario che molti partiti si coalizzino per consentire al presidente di governare. Questo crea molta opacità e a volte necessità di comprare tra virgolette, ma a volte anche in modo esplicito, il voto di questo o di quel partito di opposizione.

D. – Ci troviamo, dunque, di fronte ad un Paese che ancora è mal organizzato a livello istituzionale, secondo lei?

R. – Ha una organizzazione che certamente era efficace ed efficiente al momento dell’uscita dalla dittatura. Il Brasile ha un sistema presidenziale in cui il presidente, il capo dell’esecutivo, è eletto a suffragio diretto da tutti gli elettori, 140 milioni di elettori e quindi ha un mandato fortissimo; dopodiché il parlamento è eletto con un sistema proporzionale, quindi un parlamento molto frastagliato. Per dare un’idea: le coalizioni di governo di Dilma Rousseff  hanno 10-12 partiti al loro interno. Per cui comporre le differenze politiche, con un arco così ampio, è estremamente difficile e spesso questi compromessi non sono solo di natura politica, ma - come ci dice la cronaca recente, ma ricorrente di questi ultimi anni - sono anche di natura corruttiva. Non ci dimentichiamo che nel 2005, quando ancora era presidente Lula, è esploso il cosiddetto “Scandalo del mensalão”: parlamentari di opposizione ricevano pagamenti mensili affinché votassero le misure del governo.

D. – Il Brasile è un colosso energetico, ma non mancano i problemi: qual è la situazione?

R. – Il Brasile viene da anni di stagnazione e quello che si prospetta nel 2016 è l’inizio di una recessione. E questo perché si è un po’ esaurito un ciclo virtuoso basato sul fatto che avesse trovato una grande stabilità politica ed economica negli ultimi 15-20 anni ed avesse grandemente beneficiato della notevole espansione – come Cina, India, ma anche Stati Uniti – nei primi anni 2000. Ora si verificano una serie di problematiche: un rallentamento generale, un problema di competitività dovuto ad una scarsa produttività, perché ha investito poco negli ultimi anni. Altro problema è l’inflazione crescente, la necessità di fare investimenti, ma ci sono tassi di interesse molto alti: la Banca Centrale è stretta in una morsa, perché da un lato dovrebbe abbassare i tassi, che sono del 12-13 per cento, dall’altro non li può abbassare perché la memoria dell’inflazione è molto alta e troppo recente, da diversi anni infatti l’inflazione sta sforando l’obiettivo del governo che è del 6,5 per cento. Quindi una situazione piuttosto difficile, impastoiata da mille lacci e lacciuoli che non passo presagire tempi rosei per il futuro.

D. – C’è consapevolezza, secondo lei, da parte della presidenza di questa situazione così negativa?

R. – Dilma Rousseff - che tra l’altro ha vinto le elezioni con il più basso margine delle ultime quattro elezioni e quindi quelli che erano dei plebisciti per Lula prima e anche per lei nel primo mandato, si sono ridotti ad una vittoria risicata - è da un lato consapevole, ma dall’altro non ha ancora dimostrato di aver scelto quale via perseguire. Non dimentichiamo neanche che politicamente è costantemente sotto attacco di questo scandalo di corruzione della Petrobras che, giorno dopo giorno, coinvolge l’uno o l’altro politico.

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Vittime Canale di Sicilia. Don Zambito: l'Ue salvi i migranti

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Ancora morti nel Canale di Sicilia: dieci i cadaveri ripescati dalla Guardia costiera dopo il rovesciamento di un gommone. Sono centinaia i migranti tratti in salvo nelle ultime ore. Il servizio di Francesca Sabatinelli

Ad Augusta è scattata subito l’allerta per chi deve accogliere i migranti e purtroppo per chi deve anche sbarcare i corpi degli annegati. Cinquecento in tutto i profughi tratti in salvo in diverse operazioni di soccorso, provenienti, hanno dichiarato loro stessi, da Siria, Palestina, Tunisia, Libia e Paesi dell’Africa subsahariana. La Procura di Siracusa ha aperto un’inchiesta per naufragio e omicidio plurimo, mentre a Bruxelles, proprio a seguito di ciò che continua ad accadere nel Mediterraneo, si è deciso di anticipare l’Agenda europea sulle migrazioni da metà luglio a metà maggio. E’ stato il vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans, a dichiararlo promettendo un atteggiamento più aggressivo nei confronti dei trafficanti, ma soprattutto un maggiore coinvolgimento europeo: l’immigrazione, ha detto, riguarda tutti gli Stati membri. Non è più "Mare Nostrum", ma Europa nostra. Ed è proprio questo che si chiede da Lampedusa, don Mimmo Zambito, il parroco di San Gerlando:

R. – Lampedusa non è sola. Sentiamo tanta vicinanza verso questi volti, queste storie di persone che muoiono. Ma da Lampedusa ci sentiamo anche di dire che stanno bussando al "salotto buono" della nostra Europa, che si chiami Lampedusa, Bruxelles, Roma. C’è un’identità europea, un’identità dell’Italia, che impone certamente di non scegliere di far guerra e di armare, quanto piuttosto di assolvere a questa funzione di salvataggio delle genti che accorrono a noi.

D. – Il Centro di accoglienza che si trova lì a Lampedusa da quando è finita l’operazione "Mare Nostrum" ha iniziato di nuovo ad accogliere moltissimi migranti, spesso più del numero di persone che può realmente ospitare. Com’è la situazione?

R. – La situazione a Lampedusa è che ormai si sta costituendo un forum di "Lampedusa solidale", perché questa perpetua mancata dignitosa accoglienza è peccato che grida vendetta al cospetto di Dio. Cioè, costringere mille e più migranti, che hanno già vissuto tragedie, a stare in uno stato di promiscuità, di abbandono, di indegnità in un Centro che ne potrebbe accogliere 250, non è più tollerabile. È una vergogna immane per chi governa a livello europeo, a livello nazionale, e che crea vergogna anche per noi lampedusani pur senza averne diretta responsabilità. Noi stiamo iniziando a muoverci, perché non è più possibile accettare che un centro di primo soccorso e accoglienza disposto per 250 persone ne ospiti cinque o sei volte tante nelle condizioni che conosciamo. Quindi, il Centro è un modo di sgravare la coscienza così, come l’uso di Lampedusa, per dire che si fa un’accoglienza degna di questo nome ma in realtà sappiamo tutti che non è così. Attualmente, non ci sono più migranti, sono stati trasferiti prima con dei voli aerei, poi con il traghetto da Porto Empedocle che fa da spola verso Lampedusa. Ci rendiamo conto che sarebbe molto meglio avvertire la percezione di una comunità intera che guarda occhi negli occhi queste persone, e non soltanto noi che ci troviamo sul molo nel momento in cui arrivano queste genti cariche di amarezza, di tragedie, di lacrime, con il cuore teso a mani accoglienti.

D. – Quando lei va sul molo per accogliere queste persone, chi si trova davanti? Chi sono?

R. – Gli ultimi che sono arrivati sono per la maggior parte eritrei, etiopi, la maggior parte addirittura di religione ortodossa, e  poi qualche rappresentanza di popolazioni centroafricane. Sfido chiunque nei salotti televisivi, sulle pagine dei giornali o sul web riflette su questo fenomeno, a fare un salto a Lampedusa per vedere direttamente l’arrivo di queste persone, per dire una volta per tutte basta al chiacchiericcio da bar, da salotto, per dire basta alle facili, presuntuose, pretestuose argomentazioni che parlano di terrorismo, di paure, per vedere realmente chi arriva. Arrivano mamme, arrivano bambini! Negli ultimi approdi abbiamo avuto bambini di otto anni, quasi 150 minori non accompagnati. Io sono e resto un parroco della periferia, in una piccola comunità di appena seimila abitanti, su uno scoglio di 20 km quadrati. Ma realmente c’è da rimettere in movimento un’identità europea, che non può essere data dai semplici regolamenti di natura amministrativa, tecnica, o commerciale. Bisogna avviare dei processi di unità europea che prevedano l’integrazione di queste persone che stanno bussando. Noi siamo semplicemente una porta – ovviamente aperta perché siamo un isolotto, uno scoglio in mezzo al mare – però ci sono volti, storie, e persone che non possono essere abbandonate a se stesse, né al mare, ovviamente a rischio della vita, né a terra, per le persecuzioni che stanno subendo.

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Riforma scuola: martedì il testo. I timori dell'UCIIM

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Slitta ancora l’approvazione da parte del governo della riforma della scuola. Il Consiglio dei ministri ieri si è preso sette giorni per valutare gli aspetti più complessi del testo che sarà licenziato martedì prossimo, e poi affidato al parlamento il cui primo sì si prevede a maggio, salvo ostruzionismi. Il rinvio, garantisce il premier Renzi, non metterà a rischio i punti chiave, a partire dalle assunzioni dei precari entro settembre. Numerosi sono però i timori, che spiega al microfono di Gabriella Ceraso, la presidente dell'Unione cattolica insegnanti medi (Uciim), Rosalba Candela

R. – Il primo timore è che non si possa arrivare a settembre assumendo tutte queste persone. C’è bisogno di elaborare nuove graduatorie con tutto quello che ne deriva. Quindi, i tempi ci sembrano molto molto stretti. L’altro timore è che non sia possibile eliminare del tutto il supplente nella scuola.

D. – Quando lei dice supplente intende dire, eliminare il precariato?

R. – Sì certo il precariato. Si assumeranno, come dice Renzi, circa 180 mila persone. Eliminate le graduatorie, il precariato storico, ci sarà l’organico funzionale – circa 20 mila – che saranno comunque dei precari e non potranno sopperire a tutte le supplenze che sono necessarie in una scuola. Quindi, ci vogliono delle graduatorie di Istituto da dove attingere per queste supplenze brevi.

D. – Altro nodo della riforma, da discutere ovviamente, sono le detrazioni fiscali per le scuole paritarie. Un aiuto per le famiglie, ma anche un ulteriore stimolo per il pluralismo e la libertà di scelta educativa. Voi che ne pensate? Avete dei timori?

R. – Che ben vengano gli sgravi fiscali. Credo però che non bastino per sollevare le scuole paritarie che oggi sono in gravi difficoltà. Certo, è un minimo che si dà. Vedremo in cosa consistono veramente.

D. – Con questa riforma cambia anche il sistema di valutazione per i docenti: carriera e scatti legati al giudizio dei dirigenti e delle famiglie e non più all’anzianità. So che voi non siete molto d’accordo…

R. – Sì, la proposta è quella di un sistema misto: una progressione economica per anzianità di carriera e poi crediti didattici formativi e professionali, a patto che sia chiarito quali siano, come si acquisiscono, chi li rilascia.

D. – Lei dice però, di fare una valutazione attraverso una commissione apposita con criteri uguali per tutti, piuttosto che valutazione da parte dei dirigenti e degli studenti. Giusto?

R. – Esatto. Non dare mai il potere a una sola persona o due, ma creare delle commissioni miste dove ci sia anche la rappresentanza dei genitori e degli alunni nelle scuole secondarie superiori, però che siano del commisioni. Sono certa – e noi dell’Uciid siamo certi – che con un sistema misto non si sbaglia. Rimarrebbero tutti contenti e soddisfatti. Ma se lasciamo solo al merito e eliminiamo l’anzianità di servizio, rischiamo veramente di creare delle grandi ingiustizie.

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La donna al centro del Rapporto dell'Osservatorio Van Thuan

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Il ruolo della donna nelle politiche di oggi è stato al centro della presentazione del sesto Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa, presentato ieri presso la nostra emittente. Il volume, intitolato "La rivoluzione della donna, la donna nella rivoluzione", è stato realizzato dall’Osservatorio internazionale cardinale Van Thuan, con la collaborazione del Movimento cristiano lavoratori. Il servizio di Michele Raviart

“L’uomo che abbiamo sempre considerato come un progetto, adesso è finito per diventare un prodotto da laboratorio e per il mercato”. Questo lo scenario descritto da mons. Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste e presidente dell’Osservatorio Van Thuan, nel presentare il Rapporto 2013 sullo stato della Dottrina sociale della Chiesa nel mondo. Un anno particolare, che ha visto il passaggio dal magistero di Benedetto XVI a quello di Papa Francesco. Numerosi i punti di continuità in ambito sociale, economico ed etico, a partire dall’attenzione sulle disugaglianze e sugli ultimi. Mons. Fabiano Longoni, direttore dell’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro della Cei:

"La logica è quella della missione. La logica è quella dell’uscita. La logica è quella della proposta. Questo Papa ci sta solo suggerendo che dobbiamo essere capaci di uscire e di portare attraverso la testimonianza quei valori assoluti nei quali assolutamente dobbiamo credere".

Migrazioni e libertà religiosa, l’accesso alle cure e il dramma della fame nel mondo, le implicazioni culturali del web e la minaccia del terrorismo nucleare. Queste le maggiori sfide della diplomazia della Santa sede nel 2013. In generale, tuttavia, l’applicazione della Dottrina sociale della Chiesa non è la stessa in tutto il mondo spiega mons. Crepaldi:

"Se guardiamo il Sud del mondo, è cresciuta questa coscienza all’interno del mondo ecclesiale. Devo dire con un pizzico di dispiacere che sul fronte europeo in genere questa attenzione è meno forte, meno vivace. Si registra qui una situazione di stanchezza".

Il focus di quest’anno è sulla donna, “attaccata come moglie e come madre”, si legge nel rapporto. La diffusione delle pratiche di fecondazione eterologa e utero in affitto rischia infatti di costruire un “mercato della maternità”. Sentiamo l’onorevole Eugenia Roccella, tra gli autori del volume:

"Noi donne siamo state per tanto tempo custodi della vita. Oggi dobbiamo essere custodi dell’umano. Il percorso che stiamo seguendo è quello di una disumanizzazione. Strappare la generazione dalle sue radici millenarie, cioè quelle della relazione in primo luogo e  del corpo, e portarla in due luoghi essenzialmente: un luogo astratto e un luogo molto concreto. Il luogo molto concreto è il laboratorio, il luogo astrato è il mercato".

Sotto accusa anche le teorie di genere. Ancora l’onorevole Roccella:

"Oggi quello che vince è un malinteso senso di parità, quindi un’equiparazione, un appiattimento fra uomo e donna; vince soprattutto l’ideologia del gender e quindi l’idea che l’identità sessuale sia qualcosa di mutevole, qualcosa che si può scegliere, che si può cambiare nel tempo, che non è legata al corpo e alla differenza biologica. Credo che questo sia proprio la fine del concetto stesso di donna e di maternità".

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Nella Chiesa e nel mondo



Siria. Mons. Khazen: conflitto pianificato da potenze straniere

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Il rifiuto opposto dalle forze anti-Assad alla tregua umanitaria ad Aleppo proposta dall'inviato Onu Staffan de Mistura rappresenta “un fatto grave” e dimostra per l'ennesima volta che il conflitto siriano “non avrà fine fino a quando vorranno farlo durare tutte le forze che lo stanno alimentando dall'esterno”. Così il vescovo Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo per i cattolici di rito latino, considera il rifiuto con cui i gruppi – compresi quelli sostenuti dall'Occidente – hanno respinto l'ipotesi di un cessate il fuoco che consentisse di portare aiuti alla popolazione della metropoli martoriata da anni di conflitto.

I ribelli hanno rifiutato la tregua
Lo stesso inviato Onu de Mistura ha riferito che il governo di Damasco si era detto disponibile a una tregua di sei settimane. Sull'altro fronte, la galassia delle opposizioni militari – che comprende sigle jihadiste come al-Nusra e minoritari e ininfluenti gruppi di “ribelli” riconosciuti e sostenuti da Paesi occidentali – ha risposto di non essere disposta a prendere in considerazione il piano, se esso non comporta anche l'uscita di scena finale di Assad e degli uomini del suo apparato, da sottoporre a giudizio per crimini di guerra.

La guerra continuerà finchè le potenze straniere vorranno alimentarla
I Gruppi di opposizione collegati nella Commissione rivoluzionaria di Aleppo hanno finora rifiutato di incontrare De Mistura, sostenendo che una tregua prolungata avrebbe solo l'effetto di rafforzare le posizioni dell'esercito governativo. “La nettezza del rifiuto - sottolinea dialogando con l'agenzia Fides il vescovo Abou Khazen – conferma, a suo modo, il dato che tutti noi abbiamo ben chiaro da tempo: la guerra continuerà finché le potenze straniere vorranno alimentarla. Statunitensi e turchi hanno appena dichiarato di avere un piano di sostegno e addestramento dei gruppi ribelli per i prossimi tre anni. Quindi hanno già messo in programma che la guerra durerà altri tre anni, e la gente qui continuerà a soffrire e a morire per altri tre anni... Prima delle rivolte, i novecento chilometri con la frontiera turca erano presidiati, e se per caso un pastore varcava il confine per recuperare una pecora fuggita, gli sparavano e lo ammazzavano. Adesso migliaia di miliziani da lì entrano in Siria con armi pesanti, mentre vengono respinti i profughi che dalla Siria provano a andare dall'altra parte per fuggire alle violenze dei jihadisti”.

Il destino della Siria è nelle mani di Dio
Davanti a questo tragico scenario – spiega il vescovo  – rimane solo la speranza che nasce dalla fede: “Come San Paolo, speriamo contro ogni speranza. Perché sappiamo per esperienza che il nostro Signore è grande e buono. Il nostro destino è nelle sue mani, e non nelle manovre interessate di una o dell'altra tra le potenze del mondo, per quanto grande essa sia”. (G.V.)

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Re Abdallah: musulmani e cristiani insieme contro la barbarie jihadista

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Il Regno Hascemita di Giordania rimane forte e unito “in una regione scossa da conflitti etnici e settari e soprattutto dal terrorismo”, perchè “vivendo fianco a fianco, in fraternità e in solidarietà come una sola famiglia, musulmani e cristiani, cittadini di origini diverse, tutti siamo pronti a compiere il nostro dovere”. Così Re Abdallah II di Giordania, in un discorso alla Nazione trasmesso ieri dalle reti televisive del Paese, ha ribadito come dato indiscusso la propria considerazione verso i cristiani come componente costitutiva della fisionomia nazionale, impegnata a condividere con i musulmani la comune risposta davanti alla patologia jihadista.

Chi viola tutto ciò che è sacro è nemico dell'islam
L'islam - ha detto tra l'altro Re Abdallah - non è una fede di fazioni e partiti, né deve essere ridotto a una semplice dicotomia di estremismo contro moderazione. L'Islam è una fede di unità, giustizia e pace, e coloro che deviano, uccidono, torturano e violano tutto ciò che è sacro, sono loro i nemici dell'Islam”.

La Giordania gode di sicurezza e stabilità
Col suo discorso alla Nazione, il monarca hascemita ha voluto rassicurare i suoi connazionali riguardo al fatto che la Giordania gode di sicurezza e stabilità. “Di volta in volta - ha detto Re Abdallah - la Giordania ha dimostrato che è più forte e più grande di quegli spiriti senza fede, che nutrono cattivi propositi verso il Paese e attendono il momento opportuno per attaccarlo e indebolirlo in ogni modo possibile. Ma ogni volta che siamo stati messi alla prova, ne siamo usciti più forti”. (G.V.)

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Nigeria-Camerun: vescovi uniti nell'aiuto agli sfollati da Boko Haram

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Le Conferenze episcopali di Nigeria e Camerun collaborano per offrire assistenza alle migliaia di nigeriani rifugiatisi in Camerun in fuga dalle violenze di Boko Haram. Lo ha rivelato mons. Ignatius Ayau Kaigama, arcivescovo di Jos e presidente della Conferenza episcopale della Nigeria, nella conferenza stampa tenutasi al termine dell’Assemblea plenaria dei vescovi nigeriani.

Donazioni dello Stato e dei vescovi per i rifugiati
Mons. Kaigama - riferisce l'agenzia Fides - ha aggiunto che il governo federale della Nigeria si è unito agli sforzi della Chiesa cattolica nell’assistere i rifugiati nigeriani in Camerun. In particolare le autorità di Abuja hanno donato 50 milioni di naira alla Conferenza episcopale nigeriana, che verranno usati insieme alla controparte camerunese per assistere i nigeriani accolti in alcuni campi per rifugiati sparsi nel Paese. Dal canto suo l’organismo dei vescovi nigeriani ha raccolto altri 10 milioni di naira, portando il totale degli aiuti destinati ai rifugiati a 60 milioni (267.926 euro).

Vescovi nigeriani in Camerun per accertare le necessità dei rifugiati
Mons. Kaigama ha aggiunto che il 3 maggio una delegazione di vescovi nigeriani si recherà in Camerun per accertare le necessità dei rifugiati. Faranno parte della delegazione, tra gli altri, il vescovo di Maiduguri (nel cui territorio rientrano la maggior parte delle aree colpite dalle violenze di Boko Haram), mons. Oliver Dashe Doeme, e il presidente della Caritas nigeriana, mons. Lucius Ugorji, vescovo di Umuahia. Mons. Kaigama ha espresso la speranza che si uniranno alla delegazione anche rappresentanti governativi ed ha infine invitato i fedeli a non dimenticare le sofferenze degli sfollati e dei rifugiati in fuga dalle violenze della setta islamista. (L.M.)

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Myanmar. Card. Bo: sette spade che trafiggono cuore di Maria

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Ci sono “sette spade che trafiggono il cuore della Madonna in Myanmar”, ha detto il cardinale Charles Maung Bo presiedendo la celebrazione eucaristica al Santuario nazionale mariano di Nyaung Lay Bin, intiolato alla Madonna di Lourdes.

I sette mali che affliggono il Myanmar
Parlando a una folla di circa 100.000 pellegrini - riferisce l'agenzia Fides - il card. Bo ha detto: “Le sette spade della Madonna Addolorata in Myanmar sono: il capitalismo clientelare, per cui poche famiglie possiedono tutto; il rifiuto di risolvere i conflitti attraverso il dialogo efficace, ma con l'uso della violenza; le leggi ingiuste che continuano a privare i poveri delle loro terre; l'economia criminale della droga e della tratta di esseri umani; la discriminazione delle minoranze etniche; la distruzione e il saccheggio delle risorse naturali; la mancanza di opportunità di istruzione e di lavoro per i poveri.

Maria guarda i suoi figli con compassione
Di fronte a tali difficoltà - riferisce l'agenzia Fides - “il popolo chiede l’aiuto materno e misericordioso della nostra cara Madre di tutto il Myanmar. Noi, come esseri umani, viviamo con limitazioni e incapacità. Maria è colei di cui possiamo fidarci perché lei è la nostra madre amorevole”, che guarda i suoi figli con compassione. Proprio la compassione che “il Santo Padre Francesco nel suo messaggio per la Quaresima ci invita a praticare, sostituendo l’indifferenza”.

Tra i rifugiati nei Paesi vicini, molti giovani birmani
Il cardinale ha ricordato che “non può esistere il cristianesimo egoista”, citando “milioni di nostri giovani che vivono da rifugiati nei Paesi vicini; gli agricoltori che stanno perdendo le loro terre: le migliaia di persone che vivono nelle comunità sfollate”. “In questo tempo di Quaresima siamo chiamati a prenderci cura l’uno dell’altro. Proprio come la nostra Madre Maria si prende cura dell’umanità”. (P.A.)

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Vescovi Calabria: amarezza per parole Procuratore antimafia

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“Stupore” e “amarezza”: questi i sentimenti con i quali i vescovi calabresi hanno appreso dai mezzi di comunicazione sociale le parole del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti: “La Chiesa potrebbe moltissimo contro le mafie” e “ha una grande responsabilità per i silenzi”. Queste parole “fanno male”, scrivono i vescovi al termine di un incontro tenuto ieri a Catanzaro, perché “denotano una lettura superficiale e una conoscenza approssimativa del pur faticoso forse a tratti lento ma in ogni caso ininterrotto cammino che proprio la Chiesa ha compiuto dal secondo dopoguerra a oggi, nella comprensione e nella trattazione del fenomeno mafioso e di cui proprio don Puglisi e, con lui tante altre figure di sacerdoti, sono testimonianza viva”.

No ad accuse di immobilismo, silenzi, omissioni o larvata connivenza
Per i presuli un conto è parlare di ritardi, che pure “ci sono stati”, un altro è “farli passare per immobilismo, silenzi, omissioni e talvolta larvata connivenza. La Calabria e in genere il meridione - si legge nella nota diffusa ieri sera e ripresa dall'agenzia Sir - è terra segnata dalla crisi economica, dalle deficienze della classe dirigente, dalle dimenticanze dei governi di ogni livello, a volte dall’incapacità della politica. Non per questo riteniamo che l’errore di qualcuno possa tradursi affrettatamente e strumentalmente, in errore di tutti”. 

Accanto alla gramigna cresce il campo del bene
I vescovi calabresi ricordano la Lettera pastorale del 1948 dei vescovi meridionali, cui seguì il 30 novembre 1975 una lettera dei vescovi calabresi dal titolo “L’episcopato Calabro contro la mafia, disonorante piaga della società” e la recente Nota pastorale della Chiesa calabrese sulla “ndrangheta” intitolata “Testimoniare la verità del vangelo” nella quale si legge che “non sono mancate irresponsabili connivenze di pochi, nonché silenzi omertosi: e di questo i credenti sanno e vogliono chiedere perdono. Ma accanto alla gramigna, silenziosamente cresce il campo del bene che si distingue, senza mezzi termini, per la sua luminosità e la sua coerenza”.

Tanti sacerdoti seguono l'esempio del Beato don Puglisi
“Noi - spiegano i vescovi calabresi - crediamo che per sconfiggere il male ciascuno deve fare il proprio dovere, fino in fondo. Siamo convinti che alla Chiesa si debba chiedere di essere Chiesa, nello spirito e nell’insegnamento del Vangelo e non altro. Ce lo insegna il Beato Puglisi, figura straordinariamente semplice che combatteva le cosche da prete: innanzitutto con la coerenza della vita e poi amministrando i sacramenti, strappando i giovani alla strada, spingendo e stimolando le istituzioni ad essere presenti, sempre e comunque. Cosa che fanno silenziosamente, ogni giorno, tanti sacerdoti e laici nelle parrocchie che in alcuni casi sono l’unico presidio sociale nel territorio”.

La denuncia ferma dei Papi
Per questo i vescovi sono “certi” che lo Stato e le sue articolazioni “debbano fare quello che il martire chiedeva. E siamo anche convinti che si possa riuscire, ciascuno nel proprio ambito, ma in unità di intenti, a debellare la piaga mafiosa senza più incertezze né tentennamenti”: su questo aspetto Papa Francesco, sulla scia di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi ad Agrigento (1993) e di Benedetto XVI a Lamezia (2011), il 21 giugno 2014 a Sibari e il 21 febbraio 2015 a Roma è stato “chiaro, fermo, forte”.

Il cammino contro le mafie è lungo ma irreversibile
Ed è su questa strada “che camminano le Chiese del Sud sia pure con i loro guai terreni, forse non sempre con la speditezza necessaria, magari in qualche caso zoppicando, ma convinte, senza riserve né sconti per nessuno. Certo, molto resta da fare. Il cammino verso il futuro, sia chiaro, è irreversibile! Anche sul piano pratico con le azioni per liberare la religiosità popolare dalle mire e dalle infiltrazioni delle mafie e con la costituzione di un corso di formazione per i seminaristi, preti del domani”. “Non aver considerato tutto ciò e tanto altro - è la conclusione della Cec -, lascia l’amaro nei cuori e non fa di certo progredire l’unità di intenti tra tutte le istituzioni e la Chiesa”. (R.P.)

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Oms riconosce ruolo degli enti religiosi nella lotta a Ebola

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La Piattaforma delle associazioni cristiane per la sanità dell’Africa (Achap) ha lanciato un appello ai governi africani perché le associazioni cristiane vengano riconosciute come partner essenziali nella elaborazione di un sistema universale della sanità. L’Achap, cui aderisce anche il Consiglio ecumenico delle Chiese, si è riunita, per la sua 7.ma conferenza biennale, a Nairobi, in Kenia, dal 22 al 26 febbraio. Nel corso dei lavori è stata evidenziata la necessità di un dialogo costante dei governi con le organizzazioni di ispirazione religiosa, perché possa essere migliorata la collaborazione e perché possa essere reso un servizio più efficace.

L’importante contributo delle Chiese cristiane nelle emergenze sanitarie
Circa 80 i partecipanti - provenienti da una ventina di paesi africani - alla conferenza dell’Achap, preceduta da un atelier nel corso del quale si è parlato del contributo delle associazioni sanitarie delle Chiese e delle reti ecumeniche nel campo della preparazione e delle risposte alle epidemie, del rafforzamento dei mezzi e dell’approntamento di servizi. Il bollettino del Consiglio Ecumenico delle Chiese “Risposte ecumeniche all’ebola”, riferisce che Custodia Mandlhate, rappresentante dell’Oms per il Kenya, ha riconosciuto il ruolo svolto dalle Chiese cristiane nel fornire importanti servizi nella sanità, in particolare alle popolazioni più povere e bisognose.

L’emergenza ebola si è attenuata ma c’è ancora tanto da fare
Tra i temi discussi alla conferenza anche l’epidemia di ebola, che ad oggi ha ucciso 9.500 persone in Sierra Leone, Liberia e Guinea. “In queste ultime settimane l’emergenza si è attenuata ma c’è ancora tanto da fare. Abbiamo progressivamente meno casi – ha detto Joyce Onsongo, responsabile dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in Kenya per la malattia e la prevenzione – ma non siamo ancora alla fine. C’è un miglioramento della qualità e delle risorse umane, ma non abbiamo terminato”.

La gente resiste alle Campagne di informazione
Uno dei problemi chiave, per Joyce Onsongo, è la resistenza della gente di fronte alle Campagne di informazione, tanto che nel 2014 in Guinea sono stati uccisi alcuni operatori sanitari inviati per educare la popolazione di alcuni villaggi. In alcune zone rurali si pensa che il virus ebola sia un’invenzione dei bianchi per uccidere i neri, dunque l’Oms insiste sulla necessità di far conoscere alla gente l’epidemia e le precauzioni per evitare il contagio. (T.C.)

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Messa per la fratellanza tra Cile e Argentina

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Oltre 2mila cileni e argentini si sono incontrati nuovamente ai piedi del "Cristo del Tromén", nella provincia di Neuquén (frontiera Argentina-Cile), per partecipare alla Messa che ogni anno, da 65 anni, unisce le due nazioni vicine. La Messa è stata celebrata domenica scorsa al valico di frontiera Mamuil Malal de Curarrehue, presieduta dal vescovo della diocesi cilena di Villarrica, mons. Francisco Javier Stegmeier Schmidlin, e concelebrata dal vescovo argentino di Neuquén, mons. Virginio Bressanelli.

La Messa nata dall'iniziativa di un Cappuccino
La Messa e l'incontro presso il valico di frontiera - riferisce l'agenzia Fides - sono nate per iniziativa del cappuccino padre Francisco Subercaseaux, che fu parroco di Pucón e missionario nella zona cilena della Araucanía, dove gli era stata affidata una parrocchia, secondo i dati dell'agenzia Aica. Il “Cristo del Tromen” fu benedetto il 26 febbraio 1950.

Dio non ha creato le frontiere
Alla celebrazione mons. Stegmeier ha comunicato che dal prossimo anno questa ricorrenza si celebrerà la prima domenica di marzo. Nella sua omelia mons. Bressanelli ha sottolineato: "E' bello sapere che in diverse parti di questa Cordigliera delle Ande si continua a celebrare la nostra fraternità. Ciò significa che Dio non ha creato le frontiere, ma sono stati gli uomini. Siamo una famiglia, la famiglia di Dio. Dobbiamo celebrare sempre come fratelli, così non ci saranno altre cordigliere che ci dividono". Da 65 anni solo una volta, nel 2010, a causa del terremoto del Cile, non si è tenuta questa celebrazione annuale. (C.E.)

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Laos: la preghiera per i malati è reato

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Le autorità provinciali di Savannakhet hanno stabilito che “il rito religioso di pregare per la guarigione dei malati, in accordo con il proprio culto religioso, costituisce una violazione dell'articolo 41 e 42 della legge sanitaria”, dunque sarebbe un reato in quanto “abuso della professione medica”. Lo afferma un Rapporto del Dipartimento della Salute, della provincia di Savannakhet. Il Rapporto - riferisce l'agenzia Fides - è stato pubblicato dopo il caso dei cinque cristiani arrestati e condannati per aver pregato per una donna morente.

Sconcerto nella comunità cristiana 
Secondo l’Ong “Human Rights Watch for Lao Religious Freedom” (Hrwlrf), tale ordinanza “è diretta violazione della Costituzione e delle leggi del Laos”. Infatti la Costituzione recita, all’art.9: “Lo Stato rispetta e protegge tutte le attività lecite dei buddisti e di altre confessioni religiose”. Mentre l’articolo 30 della Costituzione afferma: “I cittadini del Laos hanno il diritto e la libertà di credere o non credere nelle religioni”. Il Rapporto delle autorità provinciali di Savannakhet stabilisce invece, essenzialmente, che “pregare per i malati è una attività illegale”: in tal modo “si toglie il diritto e la libertà di credo garantiti dalla Costituzione”, nota Hrwlrf.

A livello locale si violano le leggi dello Stato
Inoltre, la decisione va contro la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, ratificata dal governo del Laos. I cristiani si appellano al governo del Laos perché non permetta che a livello locale o provinciale si adottino disposizioni che violano le leggi generali dello stato, e perché sia revocata la disposizione di Savannakhet. (P.A.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 63

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