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Sommario del 10/03/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: Dio mi perdona ma chiede che io perdoni gli altri

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Per chiedere perdono a Dio bisogna seguire l’insegnamento del “Padre Nostro”: pentirsi con sincerità dei propri peccati, sapendo che Dio perdona sempre, e perdonare gli altri con altrettanta larghezza di cuore. Papa Francesco lo ha ribadito durante l’omelia della Messa del mattino celebrata a Casa S. Marta. Il servizio di Alessandro De Carolis

Dio è onnipotente ma anche la sua onnipotenza in certo modo si ferma davanti alla porta chiusa di un cuore. Un cuore che non intende perdonare chi lo ha ferito. Papa Francesco prende spunto dal Vangelo del giorno nel quale Gesù spiega a Pietro che bisogna perdonare “settanta volte sette”, che equivale a “sempre”, per riaffermare che il perdono di Dio per noi e il nostro perdono agli altri sono strettamente connessi.

"Perdonami", non "scusami"
Tutto parte – spiega Francesco – da come noi per primi ci presentiamo a Dio per chiedere di essere perdonati. L’esempio il Papa lo trae dalla Lettura del giorno, che mostra il profeta Azaria invocare clemenza per il peccato del suo popolo, che sta soffrendo ma anche colpevole di aver “abbandonato la legge del Signore”. Azaria, indica Francesco, non protesta, “non si lamenta davanti a Dio” per le sofferenze, piuttosto riconosce gli errori del popolo e “si pente”:

“Chiedere perdono è un’altra cosa, è un’altra cosa che chiedere scusa. Io sbaglio? Ma, scusami, ho sbagliato… Ho peccato! Niente a che fare, una cosa con l’altra. Il peccato non è un semplice sbaglio. Il peccato è idolatria, è adorare l’idolo, l’idolo dell’orgoglio, della vanità, del denaro, del ‘me stesso’, del benessere… Tanti idoli che noi abbiamo. E per questo, Azaria non chiede scusa: chiede perdono”.

Perdona chi ti ha fatto del male
Il perdono va chiesto sinceramente, col cuore, e di cuore deve essere donato a chi ci ha fatto un torto. Come il padrone della parabola evangelica raccontata da Gesù, che condona un debito enorme a un suo servo perché si muove a compassione delle sue suppliche. E non come quello stesso servo fa con un suo pari, trattandolo senza pietà e facendolo gettare in carcere pur essendo creditore da lui di una somma irrisoria. La dinamica del perdono – ricorda in sostanza Francesco – è quella insegnata da Gesù stesso nel “Padre Nostro”:

“Gesù ci insegna a pregare così, il Padre: ‘Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’. Se io non sono capace di perdonare, non sono capace di chiedere perdono. ‘Ma, Padre, io mi confesso, vado a confessarmi…’. ‘E che fai prima di confessarti?’. ‘Ma, io penso alle cose che ho fatto male…’. ‘Va bene’. ‘Poi chiedo perdono al Signore e prometto di non farne più…’. ‘Bene. E poi vai dal sacerdote? Prima ti manca una cosa: hai perdonato a quelli che ti hanno fatto del male?’”.

Consapevoli del peccato
In una parola, riassume Francesco, “il perdono che Dio ti darà” richiede “il perdono che tu dai agli altri”:
“Questo è il discorso che Gesù ci insegna sul perdono. Primo: chiedere perdono non è un semplice chiedere scusa, è essere consapevoli del peccato, dell’idolatria che io ho fatto, delle tante idolatrie. Secondo: Dio sempre perdona, sempre. Ma chiede che io perdoni. Se io non perdono, in un certo senso chiudo la porta al perdono di Dio. ‘Rimetti i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’”.

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Mons. Marini confermato a capo del Comitato Congressi Eucaristici

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Papa Francesco ha confermato come presidente del Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali l’arcivescovo Piero Marini.

Il Pontefice ha poi nominato membri del medesimo Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali gli Em.mi Cardinali: Stanisław Ryłko, presidente del Pontificio Consiglio per i Laici, Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il Clero; padre Juan Javier Flores Arcas, O.S.B. (Spagna), rettore del Pontificio Ateneo Sant'Anselmo in Roma.

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Papa, tweet: nei momenti brutti Dio non abbandona i suoi figli

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo Account @Pontifex: “Nei momenti più brutti, ricordate: Dio è nostro Padre; Dio non abbandona i suoi figli”.

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Papa a giornale di una "villa miseria": la fede è un regalo

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La realtà, anche quella delle persone, si vede meglio dalla periferia che dal centro. Lo ribadisce Papa Francesco in un’intervista concessa al giornale di La Carcova, una “villa miseria” della periferia di Buenos Aires, in Argentina, e ripresa dalla stampa italiana. A registrarla, il gennaio scorso a Casa Santa Marta, il parroco Jose' Maria di Paola, meglio noto come “padre Pepe”. Il servizio di Giada Aquilino

Letta nell’ottica dell’approssimarsi del secondo anniversario dell’elezione di Papa Francesco, venerdì 13 marzo, l’intervista al giornale "La Carcova news" riprende i temi che Jorge Mario Bergoglio affronta spesso nelle omelie delle Messe a Casa Santa Marta, nelle visite alle parrocchie romane o nelle aggiunte "a braccio" alle udienze generali e agli Angelus domenicali. Ma scaturisce anche dalla quotidianità vissuta in una “villa miseria” di Buenos Aires, che il Pontefice ben conosce.

La realtà si vede meglio dalla periferia
Uno scorcio di quelle “periferie” tanto care al Papa perché - afferma nell’intervista, scaturita dalle domande di tutti gli abitanti del popoloso agglomerato - “la realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro”, riferendosi pure alla realtà “di una persona, la periferia esistenziale, o la realtà del suo pensiero”. Proprio tra i "villeros" oggi c’è paura per il diffondersi della droga. Il Papa ricorda che ci sono Paesi ormai “schiavi della droga”, “sottomessi”, e si dice preoccupato per il “trionfalismo dei trafficanti”, perché pensano di aver “vinto”.

Genitori trasmettano fede ai figli
Francesco invita a trasmettere ai figli valori saldi, come “l’appartenenza a un focolare”, attraverso l’amore, l’affetto, il tempo trascorso con loro e soprattutto con la fede: “mi addolora - confessa - incontrare un bambino che non sa fare il segno della Croce. Vuol dire - aggiunge - che non gli è stata data la cosa più importante che un padre e una madre possono dargli: la fede”.

Un peccatore come gli altri
Poi ammette: “Sono un peccatore come qualunque altro”, ma a muoverlo è la certezza che “la persona è immagine di Dio”, che “la vita è nelle mani di Dio” e che il Signore “non abbandona i suoi figli”. È vero, dice, “in alcuni momenti siamo coscienti della presenza di Dio, altre volte ce ne dimentichiamo”. Ma la fede non è un sentimento, "è un regalo”, è il “rapporto con Gesù Cristo” che salva. L’invito è a portare “sempre in tasca un piccolo Vangelo. È da lì - assicura il Papa - che la fede prende il suo nutrimento”.

Gesti d’amore
Ma l’esortazione di Francesco è anche a compiere “opere d’amore per la gente”, ad ascoltare le persone: “Anche se non sei d’accordo con loro, sempre - sempre! - ti danno qualcosa”. Nell’era dei rapporti virtuali, poi, siamo portati a raccogliere tante informazioni, ma corriamo il rischio di creare “giovani-museo”, molto ben informati: ma cosa se ne fanno - si chiede - di tutto quello che sanno? La fecondità nella vita “vuol dire amare”, che significa avere un “contatto fisico”, stringere una mano a una persona, abbracciarla. “L’amore virtuale - precisa - non esiste”.

In Argentina “in linea di massima” nel 2016
Quindi, un pensiero all’Argentina. “In linea di massima”, pensa di visitarla nel 2016 ma “bisogna trovare l’incastro” con altri viaggi.

Nelle elezioni non entrino interessi finanziari
In vista delle elezioni presidenziali del prossimo ottobre, il Papa auspica che i candidati siano “indipendenti”, con campagna elettorale gratuita, “non finanziata”: perché altrimenti “entrano in gioco molti interessi che poi ti chiedono il conto”.

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Il card. Sandri: siamo stretti ai cristiani di Terra Santa

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Anche quest’anno, il prossimo Venerdì Santo in tutte le chiese vi sarà la Colletta per la Terra Santa. In occasione della memoria della dolorosa Passione di Cristo – scrive in una lettera ai Pastori della Chiesa Universale, il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali – si vuole esprimere con la preghiera e con l’aiuto concreto il sostegno alle comunità dei fedeli e ai luoghi della Terra Santa, specialmente nell’attuale drammatico momento, in cui versa l'intera regione del Medio Oriente. Nell’intervista di Giancarlo La Vella, il carinale Leonardo Sandri evidenzia l’importanza, particolarmente in questa Pasqua, di esprimere vicinanza alla Terra Santa: 

R. – Io penso che se tutti gli anni è un nostro dovere essere vicini a tutti i nostri fratelli cristiani che soffrono nella Terra Santa, in Medio Oriente, quest’anno questo nostro dovere dovrebbe essere ancora più sollecitato da tante sofferenze di questa regione. Tutte le comunità cristiane che sono vittime di persecuzione, che sono vittime di soprusi, di esodo, veramente, in questo momento più che mai noi dobbiamo ricordarci della solidarietà pasquale, evangelica, di tutti quelli credono in Cristo e che in questo momento hanno bisogno del nostro aiuto, della nostra vicinanza, del nostro amore.

D. – Forte l’esortazione ai cristiani a non lasciare la Terra Santa. Ma come è possibile non fuggire di fronte alla violenza ormai arrivata a livelli impensabili?

R. – Questo è un tema di grande difficoltà e noi, viste l’insicurezza, la violenza, vogliamo pensare che c’è il futuro del rientro nella terra dei suoi padri, del ritorno come c’è stato il ritorno di quelli che erano nell’esilio babilonese alla Terra Promessa. Quindi, credo che questa sofferenza immane che noi vediamo tutti i giorni – non sappiamo nemmeno come esprimere il nostro rigetto di tutta questa brutalità, come ha detto Papa Francesco – si veda comunque illuminata dalla speranza di un futuro di pace, di ricostruzione e di vera vita cristiana per tutte le nostre Chiese orientali e i nostri fratelli cristiani di qualunque Chiesa essi siano, cattolica o ortodossa. Quindi, credo che per quest’anno il nostro aiuto alla Terra Santa, al Medio Oriente, sarà ancora più vivo, più sollecito, più pieno di cristiana solidarietà.

D. – Eminenza, le parole di pace e di concordia pronunciate da Papa Francesco nella sua visita del maggio scorso in Terra Santa rappresentano ancora un forte speranza per tutte le comunità locali?

R. – Esattamente. E poi per il Natale lui ha voluto fare una lettera per i cristiani del Medio Oriente dove, parlando di tutti questi conflitti che tormentano la regione, dice che questa sofferenza grida a Dio e fa appello all’impegno di tutti noi: nella preghiera, che è l’arma propria della nostra fede cristiana, ma anche con ogni tipo di iniziativa. E questo gesto del Venerdì Santo è certamente una manifestazione di questa solidarietà fattiva non solo a parole con i nostri fratelli cristiani.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Il bene che tutti possono fare: un editoriale di Maurizio Gronchi sui due anni di pontificato di Papa Francesco

Ogni quattro secondi: in prima pagina la tragedia delle oltre cinquanta milioni di persone costrette ad abbandonare tutto a causa di guerra e miseria

Quindici anni per un mondo a misura di donna: per l’Onu obiettivo parità di genere entro il 2030

Il punto di vista di Magellano: una parrocchia di periferia intervista il Papa

Dove non tace il grido delle armi: lettera della Congregazione per le Chiese orientali in occasione dell’annuale colletta per la Terra santa

Lo Zorro dei perdenti: Michel Cool su gesti e parole di Papa Francesco

Ci vorrebbe un Burri per i Musei vaticani: Paolo Bolpagni su Paolo VI e gli artisti del suo tempo.

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Oggi in Primo Piano



Mons Zenari: cristiani rapiti in Siria non siano scudi umani

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Si combatte ancora in Siria e in Iraq contro il cosiddetto Stato islamico: l’esercito iracheno lotta per riconquistare Tikrit e i ribelli siriani respingono l’offensiva jihadista al confine con la Turchia. Intanto, si consuma il dramma dei civili: cresce l’apprensione per le centinaia di persone rapite dagli estremisti islamici il mese scorso, nel nord della Siria, tra cui almeno 50 famiglie cristiane, in parte ancora tenute in ostaggio. Del sequestro e delle intenzioni dei miliziani, Gabriella Ceraso ha parlato con mons. Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria: 

R. – Si erano concluse giorni fa le trattative per la liberazione delle 52 famiglie, il rilascio per gruppi doveva avvenire nel giro di 5 giorni. Ma gli ultimi tre autobus prima di arrivare a destinazione e sempre scortati dall’Isis sono stati presi di mira in una imboscata e da quanto è a mia conoscenza hanno anche preso in ostaggio altre persone di altri tre villaggi per coprirsi la ritirata.

D.  – Soldi, minacce: cosa vogliono i rapitori in cambio di queste famiglie?

R. – Non sono al corrente di come stiano andando le trattative. Ma voglio sperare che prevalga la ragione. Non è la prima volta che i civili vengono presi come scudi umani.

D. – In Siria, lei lo ha sempre sottolineato, si combatte contemporaneamente anche la lotta tra regime e ribelli. Nel sud, il regime avrebbe scaricato barili-bomba pieni di gas tossici. Su quanto sta accadendo sul terreno, che testimonianza ci può dare?

R. – Il conflitto in queste ultime settimane si è intensificato, anche qui a Damasco, con lanci di mortai. Fra cinque giorni, purtroppo, la Siria entrerà nel suo quinto anno di guerra civile e c’è da temere che in questo triste e doloroso anniversario sul terreno, purtroppo, si assista a muro contro muro e che il richiamo da varie parti alla cessazione della violenza sia caduto ancora una volta su orecchi sordi.

D. – Cosa pensa, mons. Zenari, dell’iniziativa dei Paesi europei, da ultimo la Gran Bretagna, di varare una legislazione per fermare quei cittadini che partono per arruolarsi nell’Is e poi tornano e rappresentano un pericolo? E’ solo una goccia nell’oceano?

R. – Direi che non è mai troppo tard,i anche se verrebbe da dire: si chiude la stalla quando i buoi sono scappati... Ma quello che ha portato molto male alla Siria è stato l’afflusso di jihadisti venuti da fuori, dai Paesi del Caucaso, da altri Paesi arabi nei dintorni, i quali non conoscendo la realtà del Paese, nè l’apporto dato dai cristiani, hanno cominciato a porre minacce particolari e gravi problemi. Direi che fermare l’afflusso di questi jihadisti sia un passo urgente e necessario.

D.  – In questi giorni, lo Stato islamico colpisce oltre che le vite umane anche cultura e civiltà, distruggendo interi siti archeologici. Non c’è paura di anestetizzarsi davanti a tanta bruttura e di non riuscire più a reagire?

R. – Le immagini che abbiamo visto in questi giorni sono terribili. Naturalmente, finora, per quanto concerne la Siria siamo stati presi sempre da immagini di spargimento di sangue ed è passata in secondo piano la devastazione archeologica. Purtroppo, come ho visto dopo cinque anni di guerra civile, anche la comunità internazionale rischia di dimenticare. Non vorrei che succedesse altrettanto anche per quanto riguarda il patrimonio artistico-culturale. Sarebbe veramente una grossa perdita, è un patrimonio che fa la fierezza di questi Paesi.

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Onu: continua in Messico l'uso di tortura e maltrattamenti

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Una denuncia delle continue violazioni dei diritti umani in Messico, a opera anche delle forze di polizia e sicurezza, è arrivata ieri dalle Nazioni Unite in un Rapporto che evidenzia l’utilizzo contro i detenuti di tortura e maltrattamenti crudeli, allo scopo di estorcere false confessioni. Il servizio di Francesca Sabatinelli

Pubblici ufficiali che omettono di indagare sulle denunce delle vittime di tortura, medici legali impiegati dalle istituzioni, che ignorano totalmente, e frequentemente, i segni di maltramenti sui corpi delle vittime. Il rapporto di Juan Mendez, il relatore dell’Onu, è drammatico e non fa che confermare una realtà che gruppi della società civile da anni denunciano: l’uso della tortura, dei maltrattamenti, è ampiamente diffuso tra la polizia e le forze di sicurezza messicane. Valentina Valfrè di "Soleterre onlus", organizzazione per la difesa dei diritti umani, presente in Messico:

“Il problema del Messico, uno dei problemi del Messico, è che si tende sempre a giustificare qualunque cosa succeda, a partire dalla violazioni dei diritti umani, con questa supposta guerra contro la droga. In realtà, molte delle persone che subiscono questo tipo di violazioni con il traffico di droga non hanno assolutamente nulla a che fare. Un esempio è quello dei migranti che, puntualmente, appena attraversato il confine tra il Centroamerica e il Messico vengono presi e chiusi nelle stazioni migratorie dai funzionari dell’immigrazione, dove subiscono qualsiasi tipo di abuso. Le donne vengono sistematicamente violentate, abusate sessualmente, i migranti vengono aggrediti. Questo non solamente lungo il percorso, quando vengono fermati dalla polizia, ma proprio all’interno delle stazioni migratorie. Quindi, la tortura è veramente una pratica ormai usata a 360 gradi”.

Chi si ribella rischia
E’ del settembre scorso la scomparsa di 43 studenti a Iguala - mai ritrovati e presumibilmente uccisi, secondo le prove, da polizia e narcos legati al sindaco della città, poi arrestato assieme alla moglie perché mandanti della strage - che ha creato un terremoto politico nel Paese, con manifestazioni continue da parte di tutti i messicani, giovani e anziani, famiglie intere. La loro incessante richiesta di giustizia ha spinto il president,e Enrique Peña Nieto, a sostituire almeno duemila agenti municipali. Ancora oggi, però, il perché questi ragazzi siano stati trucidati non è venuto alla luce:

“Erano semplicemente studenti che protestavano per i loro diritti perché i propri diritti venissero rispettati e sono, sostanzialmente, stati fatti sparire e, non solo, si presume che, oltre a essere stati uccisi, siano anche stati torturati in precedenza. Stessa cosa succede a chi cerca di alzare la voce, quindi anche ai difensori dei diritti, recentemente è stato trovato morto un difensore che appoggiava la lotta dei famigliari dei 43 studenti, per la ricerca della verità. Le persone che vogliono cercare di ribellarsi a questo sistema chiaramente rischiano di essere sottoposte a questo tipo di abusi”.

Terrore e massima impunità
Il Messico vive in un totale clima di terrore e di impunità, denuncia da sempre chi è impegnato nella tutela dei diritti umani in questo Paese, facilitato anche dall’occultamento di prove medico-scientifiche che potrebbero contribuire a mettere fine alla colpevole omertà:

“Questo dal punto di vista della ricerca della giustizia è incredibile, nel senso che si raggiungono livelli di impunità che in queste aree sono del 98-99%. Cioè, la maggior parte, se non la quasi totalità, dei delitti e degli abusi non riceve alcun tipo di punizione e di condanna, tantomeno i colpevoli vengono identificati proprio perché c’è questa omertà di fondo che, da un lato, è legata a una connivenza con chi commette questi atti ma, dall’altro lato, a mio parere, è anche dovuto al clima di terrore, che rende molto difficile per le persone che lavorano anche a stretto contatto con gli ufficiali pubblici poter dire la verità per paura di subire poi la stessa sorte”.

Le pressioni degli attivisti
La società civile, testimoniano le associazioni, sta facendo veramente di tutto per poter cambiare le cose con un attivismo che non si vedeva da anni in Messico. Ancora la Valfrè:

“E’ stata chiesta, ai partiti che si presentano alle prossime elezioni, una serie di criteri per potersi presentare e poter essere sottoposti a una sorta di commissione esterna. Tutto questo viene sistematicamente ignorato da tutti i partiti, non solo dal partito al governo ma anche da tutti i partiti all’opposizione. La società civile continua a dire che a livello governativo i politici continuano a portare avanti la stessa linea politica basata sulla paura, sul terrore e sulla violazione dei diritti. E questo non solo il partito di Peña Nieto: sembra che anche dall’altra parte non ci sia alcuna volontà di combattere la corruzione, la violazione dei diritti umani. Perlomeno, non stanno dando segno fino ad oggi di volerlo fare”.

La speranza è che le pressioni non solo della società civile messicana, ma anche dell’opinione pubblica internazionale possano spingere il governo del presidente Enrique Peña Nieto a mettere in atto tutta una serie di azioni che possano dare risposte alla denuncia e alle raccomandazioni espresse dalle Nazioni Unite.

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Kosovo. L'Europa farà luce sul traffico di organi umani

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“Il Consiglio d'Europa non intende rinunciare alla ricerca della verità”. Così ieri la presidente Anne Brasseur sulle denunce di traffico di organi umani in Kosovo negli anni Novanta. Secondo le ricostruzioni del cosiddetto "Rapporto Marty", pubblicato nel 2010, i guerriglieri kosovari dell’Uck si macchiarono di un tale orrore, ma fino ad ora non sono mai stati trovati né i responsabili né i mandanti. Massimiliano Menichetti ha intervistato Andrea Lorenzo Capussela, già direttore dell’"International Civilian Office" in Kosovo: 

R. – E’ stato il Consiglio d’Europa, tramite un Rapporto della sua Assemblea parlamentare scritto da Dick Marty, ad avere per primo posto seriamente l’attenzione su questo tema. Ciò che il Rapporto evidenzia sono emerse indicazioni forti, credibili e convergenti che suggeriscono che subito dopo la fine del conflitto nel Kosovo, nel 1999, una serie di prigionieri dei guerriglieri kosovari dell’Uck – l'"Ushtria Çlirimtare e Kosovës" (UÇK o UCK), nome albanese dell'Esercito di liberazione del Kosovo (ELK), noto anche con l'acronimo inglese KLA ("Kosovo Liberation Army") – sono stati poi uccisi al fine di ricavare organi dai loro corpi . Questo documento che uscì verso la fine del 2010 suscitò molto scalpore in Kosovo e sulla base di quel Rapporto recentemente l’Unione Europea ha condotto un’investigazione ad hoc che ha sostanzialmente confermato le conclusioni del 2010. Non solo: definisce quegli episodi come un brutale attacco contro la minoranza serba, qualificabile come “crimine contro l’umanità”.

D. – In ambito internazionale, come si è agito finora?

R. – La comunità internazionale, le diplomazie occidentali avendo sostenuto di fatto i guerriglieri dell’Uck – soprattutto nel ’99 – e avendo poi appoggiato l’indipendenza del Kosovo, che nei fatti è figlia di quel conflitto, forse non aveva molto interesse ad andare a scavare in questa questione che avrebbe gettato una luce un poco più fosca sugli eventi del ’98-’99…

D. – Parlando, prima, mi diceva: “Un orrore a un orrore”, cioè come se fosse quasi inevitabile, questo traffico di organi: in che senso?

R. – Sì, in una logica perversa. L’Uck aveva diversi prigionieri, serbi ma anche albanesi traditori. Alla fine del conflitto, consapevoli che queste persone, questi loro prigionieri erano stati maltrattati, torturati e spesso detenuti in Albania, erano di fronte all’alternativa di cosa fare: liberarli – con il rischio che li accusassero di maltrattamenti o rivelassero che erano detenuti in Albania, coinvolgendo quindi l’Albania stessa nel conflitto con la Serbia – oppure ucciderli. Siccome esiste un mercato internazionale, illegale, degli organi, l’esistenza di questo mercato ha creato – come dire – anche un’ulteriore ragione per sopprimere queste persone. E questo fatto ha aperto un canale che è stato usato anche dopo: infatti, il traffico di organi – c’è un processo che lo ha accertato – è continuato, in Kosovo, nel senso che c’era nella capitale del Kosovo una clinica dove persone venivano da Paesi molto poveri – dalla Moldavia, dalla Turchia – vendevano un proprio rene, se lo facevano togliere, ricevevano un po’ di soldi e poi questo rene veniva mandato a quelle persone che volevano “saltare la coda” per il trapianto. Quindi, anche questo seguito rafforza la plausibilità delle accuse di ciò che è avvenuto nel ’98-’99.

D. – Secondo lei, si arriverà mai a una verità certa?

R. – Secondo me, la verità – dal punto di vista storico – ce l’abbiamo, cioè quei fatti sono avvenuti. E’ difficile legare quei fatti a persone responsabili, quindi non è ovvio che ci saranno dei processi. Al Kosovo adesso è richiesto da un accordo fatto con l’Unione Europea di stabilire un tribunale ad hoc per conoscere questi possibili reati. La discussione sulla creazione di questo tribunale è in corso al parlamento kosovaro. Questo tribunale sarebbe, di fatto, un tribunale internazionale con giudici stranieri che siederebbe all’Aja. Però, nella nostra Costituzione c’è il principio che la giustizia dev’essere amministrata da un giudice precostituito per legge, per cui il giudice dev’esserci prima: non dev’essere possibile scegliere un giudice per giudicare una certa persona in un certo fatto. E’ ciò che invece sta avvenendo in questo caso. Questa è una giustizia meno credibile. Io non so se assolveranno o condanneranno, però in entrambi i casi secondo me rimarrà un’ombra sulla credibilità di questo tribunale, proprio perché è un tribunale speciale. Ripeto, un tribunale fatto "ex post" e "ad hoc" è un tribunale poco credibile.

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Sì della Camera al ddl Boschi: il commento del prof. Balboni

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Via libera della Camera al disegno di legge di riforma costituzionale Boschi con  357 sì, 125 no e 7 astenuti. Il provvedimento passa ora al Senato, per poi tornare alla Camera e ancora al Senato. Al termine del lungo percorso parlamentare la parola sarà data ai cittadini tramite referendum. Contrari alla riforma, Forza Italia, ma non in maniera compatta, Lega, An e Sel, mentre i deputati del M5S sono usciti dall’Aula. Critici anche alcuni esponenti del PD. "Voto riforme ok alla Camera. Un paese più semplice e più giusto” il tweet del premier Renzi subito dopo il voto. Adriana Masotti ha chiesto al prof. Enzo Balboni, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università Cattolica di Milano di commentare, innanzi tutto, il quadro politico che oggi è emerso: 

R. – Io mi limito a dire che c’è un profondo rammarico – e per un costituzionalista è un dispiacere – per il fatto che mentre il testo della costituzione nel ’47 venne approvato dal 90% dei membri del parlamento, adesso constatiamo che è diventato un pezzo di lotta politica. Non è un bello spettacolo. Probabilmente i tempi che viviamo e la necessità - che Renzi ha dichiarato in modo molto netto - di arrivare a un cambiamento visibile, hanno portato questo risultato che oggettivamente non è bello, anche se può darsi che sia necessario.

D. – Allora, entriamo adesso nel contenuto del ddl. Qual è il suo parere complessivo?

R. – Ma, sono molti gli articoli che vengono modificati. Finisce, finalmente, questo bicameralismo perfetto e paritario per cui la seconda Camera riproduceva esattamente il percorso della prima facendo anche perdere tempo. Si è fatto accentrando tutti i poteri politici alla Camera, solo lei potrà dare la fiducia al governo. Il Senato diventa un Senato espressivo prevalentemente delle regioni: 95 persone, 21 di loro saranno anche sindaci, più 5 che saranno nominati dal presidente della Repubblica per sette anni e non più a vita. Questa non è proprio una bellissima composizione; anche sui poteri e sulle competenze si poteva fare di meglio. Una cosa importante è che il governo, che viene sempre attaccato perché fa troppi decreti legge, ha chiesto e ottenuto che, su alcune materie, la Camera si pronunci entro 60 giorni. Altra cosa positiva che c’è è che aumenta dal quarto scrutinio in poi il numero dei voti richiesti per essere eletti presidente della Repubblica. Insomma, ci sono luci ed ombre, direi, complessivamente, dal punto di vista contenutistico e del metodo, però arrivo a dire che questo non è uno scivolamento verso la dittatura o la deriva autoritaria... Chi solleva queste critiche fa qualcosa di eccessivo.

D. – Dopo il voto di oggi ci sarà un altro voto al Senato…

R. – L’iter è ancora lungo, il che vuol dire che questo testo, che ormai diventa quello pressoché definitivo, deve ritornare al Senato per una nuova conferma. Dopodiché, a distanza di almeno tre mesi, ci sarà di nuovo un passaggio alla Camera e di nuovo un passaggio al Senato.

D. – Però, alla fine di tutto questo percorso parlamentare ci sarà anche il referendum

R. – Referendum che a questo punto ha cambiato faccia, perché avrebbe dovuto essere il referendum contestativo, di quelli che non sono d’accordo sul contenuto della riforma, ma diventerà un referendum approvativo: chiederà al popolo italiano di dire sì o no alla riforma della costituzione: chiaramente sarebbe un sì o un no al governo Renzi. Un referendum non è di per sé una grande garanzia, rispetto al contenuto; il contenuto sarebbe stato meglio se fosse stato dibattuto con più ampiezza e più serenità, più tempo, ma questo non è accaduto, ormai facciamocene una ragione.

D. – Per chiudere una curiosità: ma anche negli altri Paesi europei è così faticoso cambiare gli assetti dello Stato?

R. – Negli altri Paesi europei non c’è la doppia lettura e quindi c’è un iter più semplificato. Un iter altrettanto lungo e aggravato c’è negli Stati Uniti. Noi abbiamo un procedimento molto lento e aggravato a meno che non ci sia il consenso; tante cose le abbiamo approvate nei decenni precedenti con la maggioranza dei due terzi, quindi senza referendum. Adesso, da quando purtroppo anche il testo  costituzionale è diventato materia di lotta politica quotidiana, questo non accade più.

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Tar Lazio: matrimoni omosessuali non sono trascrivibili

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“Non sono trascrivibili matrimoni omosessuali celebrati all’estero”, ma “l’annullamento delle trascrizioni nel registro dello stato civile” da parte di sindaci “può essere disposto solo dall’Autorità giudiziaria ordinaria”, non dai prefetti. Il pronunciamento del Tar di Lazio riaccende il dibattito sul controverso tema delle nozze gay. Paolo Ondarza ha raccolto il commento del giurista, Alberto Gambino

R. – È una sentenza che fa leva su un aspetto formale. In linea di massima, l’ordinamento civile e la tenuta anche dei registri relativi alle trascrizioni spetta al Ministero degli interni e ai prefetti, che tuttavia in base a una legge l’hanno delegata agli enti locali e dunque ai sindaci. Questo è il motivo per cui è stato il sindaco che ha consentito le trascrizioni di queste nozze gay celebrate all’estero. Una volta trascritte - dice il Tar - a questo punto possono essere annullate solo dai giudici ordinari: cioè quelli che tutelano i diritti soggettivi. Quindi, a questo punto, dovrà essere un pubblico ministero - ed è strano che non l’abbia ancora fatto - a impugnare il provvedimento e chiedere l’annullamento, perché il Tar comunque dice anche che non sono trascrivibili e non sono legittimi matrimoni tra coniugi dello stesso sesso, o conviventi dello stesso sesso.

D. – E le nozze gay trascritte sono valide, o no?

R. – Questo è un bel pasticcio, perché il Tar dice che effettivamente sono illegittime. Tuttavia, finché il Pm non le impugna queste hanno una loro rilevanza. Facciamo attenzione, che ci sono anche dei profili di risarcimento del danno che potrebbero emergere. Quindi, in realtà, l’atto del ministro degli Interni e dei prefetti è stato una sorta di autotutela, come a dire: cari enti locali, cari sindaci, state attenti che state compiendo degli atti che poi potrebbero riverberarsi a vostro sfavore, in quanto illegittimi e forse addirittura produttivi di danni, danni ovviamente a carico dell’erario, a carico di tutti i cittadini.

D. – E chi potrebbe rivalersi, chi ha ottenuto prima un riconoscimento e poi se lo vede negato?

R. – Ad esempio, pensi al tema - che so - della comunione legale. A una coppia viene trascritto il matrimonio celebrato all'estero: i due individui si sentono a tutti gli effetti riconosciuti come uniti in matrimonio e decidono di far valere alcuni diritti propri dell’ordinamento civile. A un certo punto, questi diritti vengono annullati: i due, che magari hanno comprato una casa in comunione legale, potrebbero chiedere una tutela risarcitoria…

D. – Dunque, le nozze gay celebrate all’estero non sono valide. Ma perché allora necessitano di formale annullamento da parte del giudice?

R. – Perché formalmente stanno là, stanno in questi registri. Siccome sono quei registri che fanno fede nei confronti della collettività e dello Stato, finché sono apposte sui quei registri producono i loro effetti giuridici. Ripeto: è davvero sorprendente che a oggi nessuna Procura sia intervenuta e che, viceversa, debba essere stato soltanto il ministro degli Interni a rilevare questo difetto macroscopico. Perché anche il Tar, ripeto, dice che in base alla nostra giurisprudenza, ma anche in base alla legge, non sono legittime le nozze tra conviventi dello stesso sesso.

D. – Trascrivendole nel registro dello stato civile, i sindaci non hanno violato alcuna legge?

R. – Essendo contratti all’estero, i sindaci dicono: in base all’ordine pubblico internazionale, poiché sono validi all’estero, a questo punto dovrebbero essere validi anche in un Paese occidentale come l’Italia, che appartiene alla comunità internazionale. Ma, in materia di famiglia vige invece il principio della prevalenza dell’ordinamento dello Stato interno. E quindi, siccome invece in Italia c’è una Carta costituzionale chiarissima, e un Codice civile chiarissimo, che escludono le nozze tra persone dello stesso sesso, i sindaci non avrebbero dovuto trascrivere. Ma giammai possono adesso i sindaci continuare a trascriverli, perché a questo punto è chiarissimo quello che ha detto il Tar.

D. – Il pronunciamento del Tar si inserisce in un momento di accesa "querelle" sul tema delle unioni civili e c’è chi sostiene che questa sentenza evidenzia il vuoto normativo in Italia…

R. – I giudici, ormai da un po’ di tempo, oltre a fare i giudici, fanno un po’ i suggeritori del legislatore – cosa peraltro non corretta. £ anche in questo caso fanno intendere che ci potrebbe essere una lacuna e, a dir la verità, l’intento dei sindaci, che da questo punto di vista invece sono stati intellettualmente onesti, è stato sempre quello di dire: noi registriamo questi atti, soprattutto per suscitare un dibattito in sede nazionale e in sede parlamentare. Probabilmente, si sono dimenticati anche che sono pubblici ufficiali e quegli atti possono avere delle conseguenze anche molto gravi.

D. – E’ notizia degli ultimi giorni: l’Italia avrebbe detto "sì" alla sollecitazione delle Nazioni Unite a riconoscere le unioni e il matrimonio tra persone dello stesso sesso…

R. – Il matrimonio oggi non sarebbe possibile perchè andrebbe certamente modificata la Carta costituzionale. Tutto è possibile, però bisogna passare per la porta, e non per la finestra. E la porta è la modifica della Carta costituzionale ed è da vedere se ci sono i numeri per modificare la Carta costituzionale. Altro invece è il tema delle unioni civili: valutando in termini di diritti e doveri di singoli, c'è tutta una serie di situazioni che oggi già la giurisprudenza ha riconosciuto anche per le coppie dello stesso sesso. E quindi  un provvedimento normativo, che fosse in qualche modo ricognitivo dell’esistente, non riterrei possa essere considerato illegittimo o contrastante con la Carta costituzionale.

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Violenza donne, appello congiunto di Chiese cristiane

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Ieri, al Senato italiano, è stato firmato un appello ecumenico delle Chiese cristiane di diverse confessioni presenti in Italia contro la violenza sulle donne, all’indomani della Giornata internazionale dedicata a questo tema. Un’iniziativa inedita nata dalla Federazione Chiese evangeliche italiane in collaborazione con la Cei, cui hanno aderito dieci denominazioni cristiane, inclusi ortodossi e anglicani. A spiegare come è nata l’idea è la pastora valdese, Maria Bonafede, al microfono di Fabio Colagrande

R. – Nasce dall’attenzione su questo tema non tanto perché più di cento donne muoiono ogni anno di violenza spesso in famiglia – è un’emergenza grave – ma anche come messaggio da portare come Chiese cristiane alla società e ai membri delle nostre chiese. È un messaggio che deve essere rivisitato alla luce del Vangelo come un messaggio che costruisce amore fraterno, rispetto reciproco fra le persone, rinomina la persona umana come immagine di Dio… Quindi, c’è la necessità di una forte spinta autocritica nei confronti delle Chiese cristiane, perché questi omicidi questa violenza non avvengono in un altro mondo: avvengono nel nostro, nel nostro Paese, in famiglie che sono considerate cristiane, bene o male.

D. – Un appello che non vuole essere solo una dichiarazione di principio, ma vuole essere un documento molto concreto …

R. – Assolutamente sì. Rivolgiamo sicuramente un appello anche alla società civile, ai mass media, a tutti quelli che hanno compiti di governo, di relazione, di costruzione del senso, quindi i giornali… questo sì. Ma soprattutto un appello alle Chiese – quindi a noi stessi – per il compito alto e la possibilità che queste hanno di parlare a tantissime persone: dalla catechesi, alla formazione dei più giovani, degli sposi, alla predicazione nelle chiese… Bisogna fare mente locale anche sull’esegesi biblica, per un messaggio che sia di pieno rispetto e di piena dignità della donna.

D. – Dunque, un documento che prende atto che esiste una discriminazione ancora oggi. Possiamo dire che i cristiani devono ancora fare dei passi avanti in questo senso?

R. – Certamente. I cristiani devono mettere a fuoco la loro predicazione, la loro teologia, i messaggi che mandano e provare a costruire una nuova pastorale, rinnovata  perlomeno nelle chiese. Poi il fatto che questo venga fatto insieme come  cristiani evangelici e cattolici è molto prezioso. Secondo me, è un frutto dell’ecumenismo molto prezioso.

L’iniziativa lanciata dalle Chiese evangeliche italiane è stata dunque subito raccolta anche dalla Chiesa cattolica. Fabio Colagrande ne ha parlato con don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale italiana (Cei): 

R. – Penso che il passo avanti più significativo che le Chiese cristiane possano fare sia legato all’educazione, alla sensibilizzazione. Nel senso che è fuor di dubbio che le Chiese cristiane, intese veramente nel senso più ampio, in Italia ma probabilmente anche altrove hanno ancora veramente la possibilità di raggiungere molte persone: persone in formazione in senso classico, per cui ragazzi, giovani, ma anche persone già adulte. Quindi, penso che la grandezza del compito che viene affidato a noi cristiani in generale sia proprio questa: di non abbassare mai la guardia nella formazione delle coscienze, soprattutto di noi stessi. Tanto pastori, quanto fedeli, tanto membri della “gerarchia”, quanto anche i fedeli laici battezzati in ogni ordine e grado, appunto all’interno di ciascuna delle Chiese cristiane presenti in Italia. Perché è molto vero che la gran parte, purtroppo, delle violenze sulle donne viene consumata all’interno delle mura domestiche, ma è anche altrettanto vero che sulla sensibilizzazione, tante volte carente in questo campo, c’è una sorta di peccato di omissione. C’è cioè il rischio di un dispiacere che sento io, che sentiamo noi a livello personale, quando purtroppo i media riportano fatti di violenza sulle donne, senza però poi la possibilità di andare al passo successivo, che dovrebbe essere quello principale, cioè quello di dire: io però, cosa posso fare nel mio contesto, nella mia comunità cristiana, nella mia Chiesa di appartenenza per evitare fatti del genere? Ecco, credo che la prima risposta a questa domanda sia proprio questa: ciò che io posso fare è sensibilizzare me stesso e gli altri, perché il più possibile si allarghi una cultura di rispetto, di delicatezza, di accoglienza e di uguaglianza reale.

D. – Sicuramente, questo appello congiunto inedito è un passo in avanti da un punto di vista culturale, anche di consapevolezza del mondo cristiano. Potremmo dire anche un passo in avanti importante dal punto di vista ecumenico?

R. – Sì, certo. Io ho veramente la grande speranza che la firma a dieci mani di questo appello costituisca la base per un nuovo slancio a livello ecumenico, soprattutto nazionale, per la creazione di un tavolo di confronto continuo, che non sia soltanto occasionale: questa in fondo è la prima occasione concreta che ci viene proposta e che tutte queste dieci Chiese hanno saputo raccogliere. Veramente io nutro la speranza – e so di non essere soltanto io a nutrire questa speranza – che questa bellissima occasione, peraltro dettata anche da una drammatica attualità come quella della violenza nei confronti delle donne, possa divenire la prima di una lunga serie di occasioni, al punto tale da poter creare un tavolo comune, allargato alle altre espressioni cristiane presenti oggi sul territorio nazionale. Perché concretamente tutti ci si possa guardare negli occhi per dire: un momento, per quale motivo siamo qui, tutti attorno allo stesso tavolo? Il motivo è il Vangelo di Gesù Cristo.

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Nella Chiesa e nel mondo



Patriarca Sako: offensiva contro Is causa nuove emergenze umanitarie

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I jihadisti del sedicente Stato Islamico stanno facendo strage di “esseri umani, monumenti, civiltà”. Ma l'offensiva dell'esercito iracheno e delle tribù locali islamiste contro il Califfato sta provocando, come effetto collaterale, “lo sradicamento di migliaia di famiglie che fuggono verso l'ignoto, senza che sia stato attivato sul posto un piano organizzato di assistenza”. A puntare i riflettori sulla nuova, ignorata emergenza umanitaria che si sta aprendo nella martoriata nazione irachena è il patriarca di Babilonia dei caldei, Louis Raphael Sako, con un appello pervenuto all'agenzia Fides.

Il patriarca chiede al governo di affrontare la nuova emergenza umanitaria
Il primate della Chiesa caldea chiede al governo del Paese e alla comunità internazionale di “agire al più presto per la protezione dei civili innocenti e di offrire loro l'assistenza necessaria in alloggi, cibo e farmaci”, richiamando in particolare l'attenzione sul totale black out delll'istruzione scolastica e universitaria che sta danneggiando le giovani generazioni in buona parte del Paese. L'appello si conclude con l'invito rivolto dal patriarca alle istituzioni politiche nazionali – governo e parlamento – affinché affrontino con urgenza e attraverso la convocazione di sedute straordinarie, la nuova emergenza umanitaria.

Le forze di terra sono entrate nella periferia di Tikrit
Le forze armate irachene stanno continuando la massiccia offensiva contro i jihadisti dello Stato Islamico (Is) per liberare la città di Tikrit, capoluogo della provincia di Salahudin. Nell'operazione sono coinvolti 30mila soldati dell'esercito insieme a migliaia di miliziani sciiti e sunniti. Secondo le agenzie internazionali, le forze di terra sono entrate nella periferia della città, che dista circa 170 chilometri a nord di Baghdad, mentre l'aviazione sta bombardando le posizioni dell'Is con ripetute incursioni aeree. Gran parte della provincia di Salahudin si trova sotto il controllo dell'Is dallo scorso giugno. (G.V.)

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Francia: appello leader religiosi contro l'eutanasia

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Leader religiosi di Francia uniti nel chiedere che qualsiasi riforma della legge sull’eutanasia rispetti sempre la vita e preservi il divieto di uccidere. È stato pubblicato sul quotidiano Le Monde un inedito appello congiunto firmato dai rappresentanti delle religioni monoteiste di Francia dal titolo: “L’interdit de tuer doit être préservé” (“Il divieto di uccidere deve essere preservato”). Il testo - riferisce l'agenzia Sir - è stato pubblicato oggi nel giorno in cui in Assemblea Nazionale comincia il dibattito sulla legge sul fine vita che prevede nel suo punto più delicato la possibilità di “sedazione profonda e continua” dei malati terminali.

Appello delle tre religioni monoteiste
A firmare l’appello sono il cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, François Clavairoly, presidente della Federazione protestante di Francia, il metropolita di Francia Emmanuel, presidente dell’Assemblea dei vescovi ortodossi, Haïm Korsia, Gran Rabbino di Francia, Mohammed Moussaoui, presidente dell’Unione delle Moschee di Francia. “Mentre si riapre il dibattito, lanciamo un appello congiunto, preoccupato e urgente, per chiedere che nessuna nuova legge rinunci in alcun modo a questo principio fondatore: ogni vita umana deve essere rispettata soprattutto quando è più fragile”.

Una legge per aiutare a vivere ed a morire senza mai accorciare la vita
“Chiediamo - si legge nell’appello - che questa legge civile sia civilizzatrice, vale a dire, aiuti a vivere e a morire senza mai accorciare la vita, senza mai decidere di dare la morte. Vogliamo che sia approvata con un largo consenso su principi chiari, certi che il minimo equivoco in questo ambito possa generare, nel corso del tempo, la morte di innumerevoli persone inermi”. Nel testo, i leader religiosi parlano anche di “una nuova tentazione” inserita nel testo di modifica della legge, “quella di dare la morte, evocarla, abusando della ‘sedazione’”. E congiuntamente affermano: “l’uso di questa tecnica è snaturato se si tratta non di dare sollievo al paziente, ma di provocarne la morte. Sarebbe un atto di eutanasia”.

Accompagnare le persone in fin di vita
I rappresentanti delle religioni chiedono piuttosto che “sia incoraggiato l’accompagnamento delle persone in fine vita, garantendo che siano chiaramente protette dal divieto di uccidere. È dallo sguardo sui suoi membri più vulnerabili che si misura il grado di umanizzazione della società”. L’appello pone a questo punto una serie di interrogativi: “in nome di cosa vogliamo legalizzare un gesto di morte? Perchè - si dice - la persona interessata avrebbe perso la sua dignità umana? O perché avrebbe fatto il suo tempo? Gli si lascerebbe credere che sia divenuto inutile, indesiderato, costoso. Ma chi è l’uomo che si crede in grado di dare - per sé o per gli altri - brevetti di umanità?”. (R.P.)

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Filippine: no dei vescovi a legge anti-discriminazione

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Desta crescenti preoccupazioni nell’episcopato filippino una proposta di legge presentata al Congresso di Manila contro le discriminazioni. Il timore è che la misura possa limitare la libertà della Chiesa sancita dalla Costituzione su questioni come i matrimoni omosessuali e in materie di sua esclusiva competenza, come la selezione dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa. In questo senso si è espresso il presidente della Conferenza episcopale (Cbcp), mons. Socrates Villegas.

La Chiesa ha diritto di stabilire propri criteri morali
“La Chiesa difende il suo diritto esclusivo di stabilire i propri criteri di selezione e compreso quindi quello di escludere candidati al sacerdozio e alla vita consacrata anche sulla base dei loro orientamenti sessuali e l’identità di genere se ritiene che questi possano essere un ostacolo alla fedeltà loro richiesta dalla Chiesa”, ha dichiarato l’arcivescovo di Lingayen-Dagupan citato dall’agenzia Cbcpnews.

Il rischio di una colonizzazione ideologica
Alla luce delle parole di Papa Francesco durante il suo recente viaggio apostolico nelle Filippine sulla “colonizzazione ideologica” messa in atto con il tentativo di imporre la cultura del gender - ha detto mons. Villegas - la Cbcp si sta chiedendo se il provvedimento proposto non sia il frutto dell’importazione nel Paese di valori e modelli comportamentali in voga in Occidente. E’ il caso dei matrimoni omosessuali che si vogliono equiparare a quelli tra un uomo e una donna, cosa improponibile per la Chiesa: “Finché si tratta di vietare che le persone con orientamenti omosessuali e problemi di identità sessuale vengano relegate a cittadini di serie B, la Conferenza episcopale non può che dare sostegno a un simile provvedimento”, ha puntualizzato il presule.

L’orientamento sessuale non è una scelta
Diverso invece è il discorso se si tratta di riconoscere che gli orientamenti sessuali sono la “libera scelta” di una persona, ha aggiunto il presule, ricordando la distinzione fondamentale affermata dalla dottrina cattolica tra persone con orientamenti omosessuali, che vanno rispettate - come ribadito da Papa Francesco -, e comportamenti omosessuali, da essa considerate un peccato. (A cuira di Lisa Zengarini)

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Nigeria: solidarietà dei vescovi per i rifugiati in Camerun

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“Offrire cure pastorali a 36.000 rifugiati non è un compito facile. È una grande sfida per la nostra diocesi. Per questo abbiamo portato la questione all’attenzione della Conferenza episcopale del Camerun, che a sua volta ha informato la Conferenza episcopale della Nigeria sulle condizioni critiche dei rifugiati nigeriani accolti nella nostra diocesi” ha detto, mons. Bruno Ateba, vescovo di Maroua, in Camerun, il 5 marzo, durante la visita di una delegazione di vescovi nigeriani ai loro connazionali in fuga dalle violenze di Boko Haram. La visita della delegazione era stata decisa durante l’ultima Assemblea plenaria dei vescovi nigeriani.

La delegazione della Chiesa nigeriana
Secondo un comunicato ripreso dall’agenzia Fides, la delegazione nigeriana comprendeva mons. Lucius Iwejuru Ugorji, vescovo di Umuahia e presidente della Catholic Caritas Foundation of Nigeria (Ccfn); mons. Oliver Dashe Doeme, vescovo di Maiduguri; mons. Stephen Dami Mamza vescovo di Yola; padre Evaristus Bassey, segretario del Ccfn, e padre Chris Nanyanwu, direttore delle Comunicazioni Sociali del Catholic Secretariat of Nigeria (Csn).

I profughi nigeriani in Camerun non sono stati abbandonati dalla Chiesa
Lo scopo della missione è stato quello di accertare le condizioni dei rifugiati nigeriani accolti nel campo di Minawao, gestito dall’Unhcr. “Sono felice di far parte della delegazione. È una meravigliosa dimostrazione di solidarietà. La nostra presenza è un incoraggiamento morale per queste persone, facendo sentire loro che non sono state abbandonate” ha detto mons. Doeme, dalla cui diocesi, Maiduguri, provengono la maggior parte dei rifugiati in Camerun. Le diocesi di Maroua, nel nord del Camerun, e di Maiduguri, nel nord-est della Nigeria, hanno da tempo legami di vicinanza e collaborazione, facilitati dalla prossimità geografica e dal simile linguaggio e cultura condivisi dalle rispettive popolazioni. Un legame che è stato temporaneamente reciso dalla chiusura della frontiera a causa delle violenze di Boko Haram. (L.M.)

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Usa: aiuti dei Cavalieri di Colombo alla Chiesa ucraina

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I Cavalieri di Colombo hanno stanziato 400mila dollari a favore delle vittime della guerra in Ucraina. Lo rende noto un comunicato della fondazione cattolica statunitense che vuole rispondere così agli appelli alla solidarietà dei vescovi ucraini. Essa ha consegnato 200 mila dollari di aiuti ciascuno a mons. Sviatoslav Shevchuk e a mons. Mieczyslaw Mokrzycki, rispettivamente a capo della Chiesa greco-cattolica e a quella di rito latino.

I fondi destinati soprattutto ai bambini e ai più vulnerabili
I fondi saranno destinati ai più bisognosi e in particolare a fornire cibo e aiuti a bambini senza casa e a quelli rimasti senza genitori , oltre che ai sempre più numerosi sfollati fuggiti a Kiev. “Troppo spesso il conflitto in Ucraina è descritto in termini meramente militari e geo-politici mentre i più vulnerabili ed emarginati – giovani e vecchi, poveri e malati e famiglie rifugiate - sono quasi invisibili al mondo esterno”, spiega il Cavaliere Supremo dell’Ordine Carl Anderson. “Il nostro sostegno vuole aiutare gli sforzi dei vescovi ucraini a favore della gente e rispondere all’appello del Santo Padre ad aiutare chi ha più bisogno”.

La vicinanza del Papa
Durante la recente visita ad limina dei vescovi ucraini, a febbraio, Papa Francesco aveva assicurato loro la vicinanza della Santa Sede, esortandoli ad una particolare attenzione ai più poveri e vulnerabili nel conflitto. Dal mese di marzo 2014, oltre 1 milione di persone sono sfollate all'interno dell'Ucraina. Di questi, più di 140.000 sono bambini. Come ricordato da S.B Shevchuk durante il suo soggiorno a Roma, molti civili colpiti dalla guerra sono affetti da sindrome post-traumatica. (L.Z.)

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Myanmar: polizia carica gli studenti in marcia verso Yangon

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Centinaia di agenti in tenuta anti-sommossa hanno caricato gli studenti birmani che, da giorni, erano circondati da forze di polizia nella cittadina centrale di Letpadan, circa 140 km a nord di Yangon. I giovani stavano marciando in direzione della capitale commerciale del Myanmar per unirsi ai movimenti in piazza che protestano contro la riforma dell'istruzione, quando sono stati fermati dalle autorità che hanno bloccato il loro percorso. Fonti dell'agenzia AsiaNews nella zona riferiscono che "in un primo momento le autorità avevano concesso agli studenti il via libera per riprendere la marcia verso Yangon", poi quando i giovani "hanno cercato di rimuovere barriere e protezioni" la polizia "è intervenuta e ha caricato". Le forze dell'ordine avrebbero compiuto "decine di arresti" e "diverse persone, almeno 30, sono rimaste ferite" nell'assalto portato dagli agenti, che hanno usato bastoni e altri oggetti contundenti contro civili inermi. 

Nell'assalto coinvolti anche monaci buddisti
Testimoni locali affermano che fra le persone fermate vi sarebbe anche il leader studentesco Min Thwe Thit, malmenato e portato via a forza. Altri aggiungono che compiuto l'assalto, la polizia ha "celebrato l'azione" con "canti di gioia e slogan", fra cui "Vittoria, Vittoria!". Molti i giovani prelevati e caricati a forza a bordo di camion. Nell'assalto sono rimasti coinvolti anche monaci buddisti in marcia con gli studenti. Un video diffuso dal sito dissidente Democratic Voice of Burma (Dvb) conferma l'uso della forza da parte delle autorità. 

Governo accusato di violare l'accordo sulla riforma dell'istruzione
La scorsa settimana i rappresentanti degli studenti hanno accusato il governo di violare l'accordo - raggiunto di recente - sulla bozza di riforma. Il compromesso nei colloqui a quattro - governo, parlamentari, leader studenteschi e National Network for Educational Reform (Nner) - è stato raggiunto il 14 febbraio dopo giorni di tensioni e rotture. Esso accoglie molte delle richieste dei giovani, fra cui la gestione indipendente di istituti e accademie in merito alle politiche educative e la formazione di sindacati liberi di studenti e insegnanti. Tuttavia, l'esecutivo avrebbe sconfessato la nuova bozza, definendola solo una "proposta", e continuando a lavorare sulla vecchia Legge di riforma, invisa agli studenti.

Studenti minacciano di estendere la protesta a tutta la nazione
​Un tempo il sistema educativo del Myanmar era considerato fra i migliori di tutta l'Asia; tuttavia, decenni di dittatura militare e lo stretto controllo su licei e università hanno determinato una involuzione che pesa ancora oggi sulla qualità e sulla libertà dell'insegnamento. E la minaccia, lanciata dagli studenti, di estendere a tutta la nazione le proteste non può che allarmare le autorità birmane: sono stati proprio gli studenti, nel 1988, a promuovere le prime proteste pro democrazia, represse poi nel sangue dall'esercito. (F.K.T.)

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Migrazioni: Chiesa è coscienza critica di fronte alle autorità

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"In un momento di grandi migrazioni che suscitano rifiuto e sospetto, la Chiesa vuole rispondere con la forza della carità, per creare la cultura dell'incontro": così mons. Rafael Zornoza Boy, vescovo di Cadice e Ceuta, si è espresso all'apertura dell'incontro di Pastorale delle migrazioni nelle città europee, che ha per tema: “Frontiere e Migranti. Accompagnare le persone, da un lato e dall’altro delle frontiere”.

Superare le barriere fisiche ed i focolai di rifiuto e razzismo
L’incontro è promosso dalla Commissione per le migrazioni della diocesi di Cadice con il supporto della Commissione per le migrazioni della Conferenza episcopale spagnola. Si è aperto ieri e si concluderà domani, 11 marzo, con un centinaio di partecipanti. L'iniziativa, cominciata due anni fa, si propone di affrontare non solo il superamento delle barriere fisiche, ma anche le "altre frontiere" che i migranti si trovano dinanzi quando sono fuori dal loro Paese d'origine: gli stereotipi riguardo alcune culture, i focolai di rifiuto e di razzismo che stiamo vedendo in diverse parti d'Europa, o le discriminazioni sul lavoro che distinguono i lavoratori stranieri dagli autoctoni

Mondo politico deve agire nel rispetto dei diritti umani
Secondo quanto riferisce l’agenzia Fides, mons. Zornoza Boy ha voluto sottolineare il ruolo della Chiesa come "coscienza critica e voce, in modo che i responsabili del mondo politico possano agire con giustizia ed equità, nel rispetto dei diritti delle persone e dei trattati internazionali". Il vescovo ha quindi fatto specifico riferimento alla situazione allo Stretto di Gibilterra, dove, ha affermato, "stiamo assistendo al dramma più tragico di coloro che vogliono attraversare lo Stretto in barconi, gommoni o in modi pericolosi e illegali, con le conseguenze delle morti violente, dei naufragi e dei disastri che si verificano".

Situazione tesa nel sud della Spagna
La situazione sta diventando molto tesa per i continui tentativi di ingresso da parte di gruppi di africani. Nel 2014 sono entrate 11.146 persone (dalla "frontiera sud"). Oltre 20.000 persone, sempre nel 2014, hanno tentato di superare la rete di Ceuta e Melilla, ma solo 2.300 ci sono riuscite. (C.E.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 69

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.