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Sommario del 17/03/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Nigeria. Papa ai vescovi: andate avanti sulla via della pace

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“Vorrei assicurarvi che sono vicino a voi e a quanti soffrono”: lo scrive Papa Francesco rivolgendosi ai vescovi della Nigeria, un Paese in forte crescita, ma alle prese con violente forme di estremismo che colpiscono sia cristiani che musulmani. Ai presuli, il Papa poi raccomanda: “Andate avanti sulla via della pace, facendovi promotori di una società più giusta e solidale”. Il servizio di Adriana Masotti

Vicinanza e gratitudine, sono i due sentimenti prevalenti espressi da Papa Francesco in una lettera inviata ai vescovi della Nigeria e tramite loro ai sacerdoti, religiosi e religiose, missionari, catechisti, fedeli laici nigeriani. Il Papa descrive la situazione che vive attualmente il loro Paese:

Religione abusata
La Nigeria, conosciuta come il “gigante dell’Africa”, per numero di abitanti e per sviluppo economico “è destinata a giocare un ruolo di primo piano non solo in quel continente, ma nel mondo intero”. Non mancano però, osserva il Papa, le difficoltà con cui si deve confrontare, tra cui “nuove e violente forme di estremismo e di fondamentalismo, su base etnica, sociale e religiosa”. Molti nigeriani, scrive Francesco, sono stati uccisi, feriti e mutilati, sequestrati e privati di ogni cosa”, cristiani e musulmani, “sono stati accomunati da una tragica fine, per mano di persone che si proclamano religiose, ma che abusano della religione” per i propri “interessi di sopraffazione e di morte”. Il Papa assicura la sua vicinanza e la preghiera quotidiana per quanti soffrono e ricorda ai vescovi le parole di Gesù: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” . Pace che, sottolinea, “è un dono che viene dall’Alto, è Gesù Cristo stesso, Principe della Pace” e nello stesso tempo, è impegno quotidiano, coraggioso e autentico per favorire la riconciliazione, promuovere esperienze di condivisione, gettare ponti di dialogo, servire i più deboli e gli esclusi. In una parola, la pace consiste nel costruire una “cultura dell’incontro”.

Sempre vicini al gregge
Papa Francesco ringrazia i vescovi, perché in mezzo a tante prove e sofferenze, la Chiesa in Nigeria non cessa di testimoniare l’accoglienza, la misericordia e il perdono. E ricorda i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i missionari e i catechisti che, pur tra indicibili sacrifici, non hanno abbandonato il proprio gregge, ma sono rimasti al suo servizio, buoni e fedeli annunciatori del Vangelo. A tutti raccomanda: non stancatevi di fare il bene! Il Papa ringrazia il Signore anche per tutte le persone di ogni estrazione sociale, culturale e religiosa che, con grande determinazione, si impegnano concretamente contro ogni forma di violenza e in favore di un avvenire più sicuro e più giusto per tutti. Infine ancora un’esortazione ai presuli: "Con perseveranza e senza scoraggiamenti andate avanti sulla via della pace! Accompagnate le vittime! Soccorrete i poveri! Educate i giovani! Fatevi promotori di una società più giusta e solidale!".

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Papa: siate misericordiosi, non chiudete le porte della Chiesa

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La Chiesa “è la casa di Gesù”, una casa di misericordia che accoglie tutti, e dunque non un luogo del quale i cristiani possano chiudere le porte. È stato questo il cuore dell’omelia che Papa Francesco ha tenuto durante la Messa del mattino, celebrata a Casa S. Marta. Il servizio di Alessandro De Carolis: 

È un conflitto che Francesco ha tirato fuori dall’ombra ormai già da molto tempo: quello tra Gesù che apre le porte a chiunque lo cerchi, specie se lontano da Lui, e i cristiani che quelle porte spesse volte chiudono in faccia a chi bussa alla porta della Chiesa. Un conflitto tra la misericordia totale di Cristo e la poca che talvolta dimostra anche chi crede in Lui.

Non fermare chi cerca Cristo
La riflessione del Papa parte dall’acqua, protagonista delle letture liturgiche del giorno. “L’acqua che risana”, la chiama Francesco, che commenta la descrizione che il Profeta Ezechiele fa del rivolo emerso dalla soglia del tempio, che diventa all’esterno un torrente impetuoso e nelle cui acque ricche di pesci chiunque potrà risanarsi. E l’acqua della piscina di  Betzatà, descritta nel Vangelo, nei cui pressi giace da 38 anni un paralitico intristito – e per Francesco anche un po’ “pigro” – che non ha mai trovato il modo di farsi immergere quando le acque si muovono e quindi di cercare la guarigione. Gesù invece lo risana e lo incoraggia “ad andare avanti”, ma ciò scatena la critica dei dottori della legge perché la guarigione è avvenuta di sabato. Una “storia”, osserva il Papa, che avviene “tante volte” anche oggi:

“Un uomo - una donna - che si sente malato nell’anima, triste, che ha fatto tanti sbagli nella vita, a un certo momento sente che le acque si muovono, c’è lo Spirito Santo che muove qualcosa, o sente una parola o… ‘Ah, io vorrei andare!’… E prende coraggio e va. E quante volte oggi nelle comunità cristiane trova le porte chiuse: ‘Ma tu non puoi, no, tu non puoi. Tu hai sbagliato qui e non puoi. Se vuoi venire, vieni alla Messa domenica, ma rimani lì, ma non fare di più’. E quello che fa lo Spirito Santo nel cuore delle persone, i cristiani con psicologia di dottori della legge distruggono”.

La Chiesa è casa di Gesù
“A me fa dispiacere questo”, afferma subito dopo Francesco. Che ribadisce: la Chiesa ha sempre le porte aperte:

“E’ la casa di Gesù e Gesù accoglie. Ma non solo accoglie, va a trovare la gente come è andato a trovare questo. E se la gente è ferita, cosa fa Gesù? La rimprovera perché è ferita? No, viene e la porta sulle spalle. E questa si chiama misericordia. E quando Dio rimprovera il suo popolo – ‘Misericordia voglio, non sacrificio!’ - parla di questo”.

L’amore è la legge
“Tu chi sei – incalza il Papa – che chiudi la porta del tuo cuore a un uomo, a una donna che ha voglia di migliorare, di rientrare nel popolo di Dio, perché lo Spirito Santo ha agitato il suo cuore?”. La Quaresima, conclude Francesco, aiuti a non commettere l’errore di chi spregiò l’amore di Gesù verso il paralitico solo perché contrario alla legge:

“Chiediamo oggi al Signore nella Messa per noi, per ognuno di noi e per tutta la Chiesa, una conversione verso Gesù, una conversione a Gesù, una conversione alla misericordia di Gesù. E così la Legge sarà pienamente compiuta, perché la Legge è amare Dio e il prossimo, come noi stessi”.

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Francesco nomina mons. Lingua nunzio apostolico a Cuba

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Papa Francesco ha nominato nunzio apostolico a Cuba l’arcivescovo Giorgio Lingua, finora nunzio apostolico in Iraq e in Giordania. Il presule assume l’incarico lasciato lo scorso febbraio da mons. Bruno Musarò, 66 anni, destinato dal Papa come nunzio apostolico in Egitto.

Mons. Lingua, 55 anni, si trovava in Iraq dal 2010. Laureato in Diritto Canonico, fa parte del servizio diplomatico della Santa Sede dal 1992. Ha svolto incarichi nelle rappresentanze pontificie di Costa d'Avorio e Stati Uniti, nelle nunziature in Italia e in Serbia, oltre che nella Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato.

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Papa, tweet: lasciamo che Dio ci riempia della sua misericordia

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “Lasciamo che Dio ci riempia della sua bontà e misericordia”.

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Mons. Vuksic: Bosnia ed Erzegovina ancora ferite da guerra

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Ieri i vescovi della Bosnia ed Erzegovina hanno incontrato in Vaticano il Papa per la loro visita “ad Limina”. L’appuntamento si è svolto a meno di tre mesi dal viaggio di Francesco a Sarajevo, in programma per il 6 giugno. Sull’incontro, padre Hrvoje Juko ha intervistato mons. Tomo Vuksic, ordinario militare: 

R. – Siamo rimasti veramente molto contenti, perché l’incontro si è svolto in un clima disteso, di colloquio e di confronto… Più che le parole, mi ha colpito l’attenzione con cui ci ha ascoltato e ci ha parlato, la disponibilità a pensare, a ripensare, a chiedere, a informarsi, soprattutto in vista della sua prossima visita.

D. – Qual è la situazione dei cristiani in Bosnia ed Erzegovina?

R. – Prima di tutto, è molto seria, soprattutto in ragione delle conseguenze – ancora vive – della guerra, e questo ci preoccupa molto. Dall’altra parte, questa è la nostra situazione, la nostra realtà in cui siamo chiamati a testimoniare, a essere fedeli, a predicare, a stare dalla parte della Chiesa, dalla parte del Vangelo. Quindi da una parte, sì, siamo colpiti. Ora siamo in Quaresima e forse in un certo senso – almeno spiritualmente – è anche un privilegio essere una Chiesa di Quaresima: è una posizione che ci chiama tutti alla conversione, a chiederci cosa possiamo fare ancora per la sequela di Gesù.

D. – Alla fine, quante sono ancora le ferite della guerra che bisogna curare?

R. – Sono molte e naturalmente le conseguenze sono ancora molto vive. Prima di tutto, perché c’è molta gente che ha perso i figli, i mariti, i familiari, che ha vissuto l’esperienza della distruzione dei beni costruiti in una vita… Cioè, ci sono le conseguenze e perciò molte sono le ferite da curare. Ma grazie a Dio molti si impegnano a farlo e noi della Chiesa ci sentiamo tanto più obbligati a soccorrere la gente, a essere vicini, soprattutto nel processo di riconciliazione, del perdono, nel senso spirituale della costruzione dell’armonia sociale, perché questi sono i presupposti di uno sviluppo di qualsiasi tipo, per un futuro più felice.

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Napoli: in 800 mila per il Papa. Intervista a De Magistris

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Preparativi  in corso a Napoli per la visita del Papa di sabato. Almeno 800 mila persone saranno presenti ai vari momenti di questa giornata di Francesco nel capoluogo partenopeo, che inizierà con l’incontro della popolazione di Scampia e si chiuderà con la festa delle famiglie sul lungomare Caracciolo. Ma che Napoli troverà il Papa? Alessandro Guarasci lo ha chiesto al sindaco Luigi De Magistris

R. – Una città ricca di umanità, con tante sofferenze, per certi versi tante contraddizioni, una città che rispecchia sia il fatto di essere, da un lato, in Europa, ma proiettata con il cuore e con lo sguardo molto a sud: la capitale del Mediterraneo. Mi auguro quindi che venga fuori la fotografia della nostra città.

D. – L’arrivo del Papa, secondo lei, è anche un richiamo alla legalità?

R. – Se penso al Papa, se penso al messaggio profondo, penso soprattutto alla giustizia. Poi, l’auspicio di tutti è che sempre di più giustizia e legalità coincidano, quindi che non ci sia solo una legalità formale apparente, ma che ci sia una legalità vera, che ci sia un messaggio molto forte contro le mafie, contro la corruzione... Ma anche sottolineando che ogni giorno c’è tanta gente nel Sud che si impegna dando alternative ai nostri giovani e si impegna concretamente contro degrado, corruzione e mafie. Un messaggio di speranza concreto.

D. – Il Papa ha parlato del valore del lavoro e della dignità del lavoro: secondo lei nel Sud, e in particolare a Napoli, si fa fatica ancora a puntare sui giovani, sull’innovazione?

R. – Diciamo anche che la grande potenzialità di Napoli – e pochi sanno – è che è la citta d’Europa con il più alto numero di giovani. Il Papa comincia la sua visita a Scampia, che è il quartiere di Napoli che ha il maggior numero di giovani. Si deve puntare molto sull’innovazione, sulla creatività, su nuovi mestieri, e anche sulle tradizioni. Per esempio, noi pensiamo che cultura, turismo, identità di un popolo, terra possano essere le matrici di uno sviluppo sostenibile contro il consumismo universale, che poi ha ridotto anche un po’ a merce gli stessi valori.

D. – Nel 2013, e in parte anche nel 2014, si è registrato un picco di aumento di povertà, relativa e assoluta, in Campania e anche a Napoli. Quanto vi è d’aiuto l’azione della Chiesa locale?

R. – Io credo molto nel capitale umano, nella rete, nell’organizzazione delle persone. In un momento di crisi, in particolare, il capitale umano ha più valore del capitale economico. Le due pagine peggiori della storia di Napoli sono state quando c’è stata la maggiore massa di risorse pubbliche: il terremoto del 1980 e i Mondiali di calcio del 1990. Fiumi di denaro pubblico in gran parte sprecati e tante opere inutili. Questo non significa ovviamente che non abbiamo bisogno di risorse, però si fanno certe volte cose egregie con persone oneste che si mettono in rete. Il messaggio forte è quando il mondo laico, il mondo religioso – il mondo cattolico – si mettono insieme... Lavorando per strada, lavorando ogni giorno vicino alla gente, secondo me si possono raggiungere risultati insperati.

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Mons. Tomasi: Onu protegga cristiani da genocidio in atto

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Migliaia di cristiani ogni anno continuano a morire, perseguitati in decine di Paesi soprattutto del Medio Oriente, discriminati per la loro fede, soggetti a violenze e abusi: oltre quattromila le vittime nel 2014. Un dramma che aspetta dalla comunità internazionale risposte concrete per proteggere tante vittime innocenti, attraverso la via del dialogo o, solo in "extrema ratio"l’uso della forza, come spiega al microfono di Roberta Gisotti mons. Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede preso le Nazioni Unite a Ginevra, in questi giorni impegnato nel Consiglio dei diritti umani dell’Onu, riunito nella città elvetica: 

D. – Perché la comunità internazionale continua a sottovalutare e a ritardare la ricerca di soluzioni a questo dramma?

R. – La comunità internazionale si è data delle strutture per le emergenze che accadono nel cammino della storia e queste strutture sono le Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza e gli organismi collegati ad essi. Certo, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando è stata formata l’organizzazione delle Nazioni Unite, si pensava che mai più gli orrori, le tragedie, le atrocità commesse durante quel conflitto si sarebbero ripetute. Ma purtroppo vediamo che nel cosiddetto Stato islamico e in altre parti del Medio Oriente e del mondo continua una violenza spietata contro persone innocenti. Allora, la questione da porsi è: cosa può fare nelle circostanze attuali la comunità internazionale? Oltre a cercare di dare un aiuto umanitario per alleviare le sofferenze, ci sono altri tentativi possibili. Uno certamente è quello di continuare lo sforzo del dialogo tra autorità e potenze politiche, per vedere di arrivare a un cessate-il-fuoco e a far smettere questa violenza sistematica, che sta distruggendo migliaia di persone, intere culture e comunità. Però, non sempre c’è la volontà politica di rispondere in maniera costruttiva o di impegnarsi per dei compromessi che possono portare la pace. Siamo di fronte, mi pare, in qualche modo a un genocidio, perché quello che si sta verificando in Medio Oriente è la distruzione sistematica di un gruppo di persone identificate per la loro credenza religiosa o perché sono in disaccordo con le autorità che comandano il territorio.

D. – Come proteggere queste persone?

R. – Davanti a questa sorta di genocidio scatta l’obbligo morale, il dovere – che è previsto nei regolamenti e nella giurisprudenza internazionale – di proteggere questa gente. Decidere le modalità per la protezione di queste persone, i cui diritti fondamentali sono violati, tocca alla comunità internazionale.

D. – A questo proposito quale ruolo possono giocare gli stessi Paesi mediorientali?

R. – Anzitutto, i Paesi della regione, dove queste atrocità vengono commesse, devono impegnarsi in maniera diretta a proteggere i loro cittadini. La solidarietà della comunità internazionale è necessaria, però non senza la presenza, la partecipazione attiva di questi Paesi che sono direttamente coinvolti. E per arrivare a questo accordo è necessario che ci sia una coalizione di vasto respiro e che abbia un obiettivo chiaro, che è quello semplicemente di portare la pace e di rimettere nelle loro case e nelle loro proprietà le persone che sono state costrette a fuggire e che si trovano ora nei campi profughi dei vari Paesi della regione del Medio Oriente. Il cammino ideale è certamente quello di negoziare e di arrivare senza violenza ad una soluzione. La violenza porta sempre a dei risultati che non sono costruttivi e poi, a lungo andare, richiama altra violenza. Quello che si dovrebbe fare è che i grandi Paesi, che hanno un interesse nella regione, che sono direttamente coinvolti, assieme possano trovare una soluzione. L’uso della forza, anche se purtroppo alle volte è necessario, è una "extrema ratio", è una soluzione veramente limite, quando tutte le altre vie sono state tentate per salvaguardare i diritti fondamentali delle persone, che vengono in questo momento uccise, torturate e veramente distrutte in maniera orribile.

D. – Questa persecuzione dei cristiani, una sorta di genocidio, che non si può veramente più sottacere, potrà essere – volendo avere uno sguardo di speranza – la molla morale, perché i soggetti politici finalmente reagiscano e costruiscano un futuro di stabilità per tutta la regione mediorientale?

R. – Speriamo sia davvero così, che il prezzo alto pagato dalle comunità cristiane che hanno avuto tanti martiri, tante persone scarificate, possa essere l’elemento che porti a una riconciliazione. E’ un cammino molto difficile, perché se guardiamo alla storia degli ultimi 100-150 anni vediamo che c’è stato un dissanguamento sistematico, progressivo e continuo della presenza cristiana in questi Paesi, dovuto al fatto che c’è una posizione strutturale di queste comunità religiose che porta alla discriminazione. La strada per una soluzione duratura ed efficace è che i cittadini di questi Paesi siano riconosciuti tutti come cittadini, con diritti e doveri uguali davanti allo Stato, e quindi anche che vengano protetti e abbiano accesso a tutti i servizi, al lavoro, all’impiego, al servizio pubblico come ogni altro cittadino. Questo è il punto fondamentale che può preparare un cambio efficace e duraturo nella regione.

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Mons. Auza: promuovere parità, dignità e diritti della donna

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Promuovere la parità della donna, la sua dignità e i suoi diritti: è quanto ha chiesto mons. Bernardito Auza, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Onu. Nei giorni scorsi, il presule è intervenuto a New York a una conferenza sul tema “La famiglia come agente di parità e di diritti umani della donna”, svoltasi a 20 anni dalla Conferenza mondiale di Pechino sulle donne. Il servizio di Isabella Piro:

Crescita della donna è crescita della società
“Bisogna parlare della dignità della donna nel contesto del matrimonio, della maternità e della famiglia”, perché il vero rispetto per lei inizia con “l’accettare tutti gli aspetti della sua umanità”, così da permetterle di “vivere liberamente e pienamente”. È partito da qui il discorso di mons. Auza che poi, citando Giovanni Paolo II, ha ricordato l’espressione “genio femminile”, ovvero quella “saggezza tipica della donna di prendersi cura della dignità intrinseca di ciascuno, di promuovere la vita e l’amore”.  “Quando alle donne viene data la possibilità di crescere nel pieno apprezzamento del loro talento e delle loro potenzialità – ha detto – l’intera società ne beneficia”.

Riconoscere pienamente il valore e la dignità della maternità
Di qui, il richiamo dell’osservatore della Santa Sede a “promuovere un contesto in cui si possa apprezzare meglio la piena grandezza della donna che include non solo gli aspetti che ha in comune con l’uomo, ma anche i doni speciali che le competono in quanto donna, come la maternità intesa non come un mero atto riproduttivo, ma come uno stile di vita spirituale, educativo, affettivo e culturale”. Il rilancio di tale contesto, ha proseguito il presule, è quanto mai urgente perché attualmente “in alcune società, il valore unico e la dignità della maternità non vengono sufficientemente difesi ed apprezzati”, costringendo le donne a scegliere tra “il loro sviluppo intellettuale e professionale e la loro crescita personale come mogli e madri”.

Reciprocità, non identità, tra uomo e donna
Allo stesso modo, “non viene riconosciuto adeguatamente il contributo essenziale della donna allo sviluppo della società attraverso la sua dedizione alla famiglia e alla crescita delle prossime generazioni”, tanto che “questo servizio invisibile e spesso eroico viene denigrato e bollato come antiquato”. Per questo, mons. Auza ha richiamato la necessità di promuovere un’idea di modello femminile che sia complementare e reciproco all’uomo e non identico, perché ciò “impoverirebbe l’umanità”.

Difendere la famiglia, unità fondamentale della società
Definendo, poi, la famiglia come “unità fondamentale e naturale della società”, il presule ha ribadito che quando essa viene “ignorata o attaccata, va difesa chiaramente e coraggiosamente, chiedendo politiche migliori a sostegno delle donne lavoratrici che desiderano avere figli e dedicarsi alla famiglia”. “Il nostro futuro – ha spiegato ancora il presule – si rispecchia nel modo in cui, come individui e come società, supportiamo le madri nel crescere famiglie forti e sane”.

No a pregiudizi e discriminazioni delle donne
Non solo: mons. Auza ha ricordato anche l’importante ruolo della donna nell’insegnamento della fede e nello sviluppo sociale, educativo e culturale dei figli, evidenziando come “dietro ai casi di delinquenza giovanile spesso ci sia una famiglia debole o disgregata”. Di qui, l’appello conclusivo del presule a non sottoporre le donne a “pregiudizi e discriminazioni”, ma al contrario a lavorare per “un sempre più pieno riconoscimento e apprezzamento del loro enorme ed insostituibile contributo al passato, al presente ed al futuro” della società.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Il coraggio della riconciliazione: Papa Francesco vicino alle popolazioni della Nigeria vittime della violenza.

Come i peggiori bulli: in prima pagina, Lucetta Scaraffia su violenza e identità femminile.

Per rifare l'uomo da dentro: il discorso del 9 maggio 1973 con cui Paolo VI annunciò il giubileo.

Gabriele Nicolò su Giovanni Battista Montini e la passione per Dante.

La mano di Michelangelo nel volto di Giulio: Antonio Paolucci su un libro dedicato al monumento funebre di Papa della Rovere.

Nativa sorgente: la scrittura profetica secondo Anna Maria Canopi.

Da Montserrat a Pechino: il prefetto Sergi d'Assis Gelpi sulla tournee del Coro di voci bianche del santuario catalano.

A piccoli passi: intervista di Nicola Gori a Maria Voce presidente del movimento dei Focolari.

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Oggi in Primo Piano



Israele, voto: Netanyahu vs. Herzog, favorito centrosinistra

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Urne aperte in Israele dove quasi sei milioni di elettori sono chiamati a scegliere i 120 membri del Parlamento. Le operazioni di voto saranno completate alle 22 ora locale, le 21 in Italia, quando saranno diffusi gli exit poll. Oggi si celebra la democrazia, esorto tutti i cittadini israeliani non solo a partecipare a questa celebrazione, ma a prendere il loro destino in mano per decidere il futuro del loro Stato nella direzione che ritengono giusta e in accordo con la loro visione del mondo", ha ribadito il presidente, Reuven Rivlin. Il servizio di Massimiliano Menichetti

Israele è al voto, buona affluenza alle urne. Alle 12 locali ha votato il 26,5% degli aventi diritto, in linea con il dato del 2013. Lo scontro principale, tra le 26 liste in campo, è tra quella nazionalista del Likud guidata dal primo ministro uscente, Benjamin Netanyahu, e quella di centrosinistra dell’Unione Sionista, del laburista Isaac Herzog. Diametralmente opposte le posizioni dei due: Netanyahu ha escluso un governo di unità nazionale e puntando su una campagna elettorale basata sulla sicurezza dice “no” anche alla creazione di uno Stato palestinese. Sfida dell’oppositore invece è la ripresa del processo di pace con i palestinesi e un’apertura sul nucleare iraniano. Herzog pur conoscendo rischi e minacce di aggressione da parte di Teheran, vede possibile un accordo tra più partner internazionali che monitorino lo sviluppo atomico a fini civili. La partita elettorale è comunque tutta da giocare, Isaac Herzog invoca “una nuova leadership”, Netanyahu chiede un voto di massa. I sondaggi danno favorito il blocco dell'opposizione con 26 seggi, davanti al partito conservatore, fermo a 22.

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Vescovo Vanuatu: devastazione senza precedenti. Servono cibo e case

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Senza casa, senza luce e senza mezzi di sussistenza: sono critiche le condizioni di vita della popolazione dell’arcipelago di Vanuatu nel Pacifico, devastato nei giorni scorsi dal ciclone Pam. Da domenica è stato di emergenza e si moltiplicano le iniziative umanitarie e gli appelli per portare aiuti ed evitare il diffondersi di malattie. Dalla Conferenza espiscopale italiana è stato messo a disposizione un milione di euro dai fondi dell' 8xmille. Ad oggi si contano 24 morti, oltre 3mila sfollati e sarebbero 54mila i bambini colpiti dalla tragedia. “Ricostruire le case, trovare cibo e sgombrare le strade, queste le cose più urgenti", dice il vescovo di Port Vila, a Vanuatu, mons Juan Bosco Barèmes. L'intervista è di Gabriella Ceraso: 

R. - Pour le moment  …
Per il momento non ho avuto il tempo di recarmi sulle altre isole perché non ci sono i mezzi di trasporto, ma in città e sulla nostra Isola di Éfaté ci sono danni significativi e molto gravi. Per quanto riguarda gli abitanti, i tetti delle case sono stati spazzati via, molte scuole sono distrutte e non sappiamo come fare perché gli studenti possano riprendere le lezioni: tutte le aule sono state danneggiate …

D. - Ci sono zone in cui i soccorsi ancora non sono riusciti ad entrare?

R. – En ce moment-là, pendant que nous parlons il y a de secours qui arrivent …
Proprio mentre parliamo stanno arrivando soccorsi dall’Australia, dalla Nuova Zelanda, perfino dalla Caledonia e questo potrà aiutare sicuramente molte persone qui, ma degli abitanti delle altre isole non abbiamo notizie :abbiamo anche provato a metterci in contatto con i sacerdoti che si trovano nell’arcipelago, ma la comunicazione non è stata ancora ristabilita.

D. - A cosa attribuite questa catastrofe? Molti dicono che potrebbe essere una delle conseguenze  del riscaldamento dell’atmosfera. Anche i cittadini di Vanuatu credono questo?

R. - Je ne peux pas le dire, parce que …
Non lo so; so  però che questo problema c’è …Noi abbiamo notato che il vento di questo ciclone soffiava con una potenza ben oltre le nostre conoscenze, è stato qualcosa che ha sconvolto la gente, anche perché è durato per quattro, cinque ore. Il governo avrebbe dovuto avvertirci: ci sono stati diversi morti nelle città, anche qui a Port Vila. Non so se si possa dire che la vera causa sia il riscaldamento globale, ma di certo la gente attribuisce il vento forte a questo, anche  perché è troppo tempo che non si rispettano più le regole delle stagioni. Resta comunque impressionante quanti danni abbia provocato questo ciclone, serve ricostruire le case, sgombrare le strade e serve cibo!

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Mali. Salta accordo tra Tuareg e Bamako. Serra: nodo Azawad

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Dopo giorni di consultazioni, i ribelli Tuareg del Mali hanno rifiutato l’accordo che era stato raggiunto ad Algeri i primi di marzo con il governo di Bamako grazie alla mediazione internazionale: una sonora sconfitta dopo otto mesi di colloqui. Al microfono di Roberta Barbi, il prof. Luigi Serra, docente all’Università Orientale di Napoli, ci spiega perché è accaduto: 

R. – Rimane l’assunto della "bella" sconfitta, nel senso di “pesante”. Non era immaginata, forse addirittura neanche immaginabile. Perché? Perché probabilmente hanno avuto peso sulle scelte dei Tuareg i vecchi "desiderata" che s’innestano nel Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad: questo sogno ormai infinito, lunghissimo, dei Tuareg di riappropriarsi di una loro propria identità culturale, linguistica, socioeconomica. Cosa può avere risvegliato questi "desiderata" è rilevabile nello stato complessivo delle cose politiche, socioeconomiche e soprattutto belliche. In questo quadro tragico, confusionario, d’inaffidabilità politica e d’incapacità istituzionale, chicchessia si proclami reggente delle istituzioni in un’area qualsiasi di questo grande scenario, probabilmente ha incoraggiato i Tuareg a non legarsi le mani in un accordo definito.

D. – Uno dei punti cruciali di disaccordo sembra essere l’indipendenza del Nord, nella regione dell’Azawad, che dichiarò unilateralmente l’indipendenza nel 2012, ma vi rinunciò nel 2013…

R. – Al momento, noi possiamo esprimere solo voti, auspici, che questa regione diventi autonoma, se questo risultato può dare un incoraggiamento alla pace e alla stabilità complessiva dell’area. O che maturino avvenimenti, scelte, orientamenti di natura geopolitica innovatori, sotto l’egida delle Nazioni Unite, e capaci di assimilare all’interno di questa prospettiva unitaria, tacitando sia le attese del Nord della regione sia le proposte e la conduzione da parte del Sud del Paese.

D. – Sappiamo che i Tuareg sono islamici, ma non fondamentalisti. Invece, recentemente il Paese è stato teatro di attacchi terroristici jihadisti. Possiamo dire che l’Is abbia degli obiettivi anche da queste parti?

R. – È fuor di dubbio. E' esattamente questo lo spiraglio negativo cui bisogna guardare, perché attraverso di esso si può veicolare un’influenza fortissima, pesante, condizionatrice poi dei destini futuri da parte dell’Is. I Tuareg sono musulmani direi “tiepidi”. Questa loro “tiepidezza” a fronte dell’Islam, e quindi la loro non disponibilità al fondamentalismo e conseguentemente agli esiti terroristici, li rende probabilmente fini osservatori del fenomeno terroristico che s’insinua nelle loro aree e li spinge a gestirlo con strategie comuni politiche. Salvo vedere se poi queste strategie politiche si possano risolvere in accordi, sostegni, collateralità o altro, e se finiranno per fare il loro bene dal punto di vista della realizzazione delle aspirazioni indipendentiste.

D. – Visto l’accordo saltato, l’Unione Europea invierà domani a Kidal una delegazione di diplomatici per vedere se si può ricucire. Secondo lei, ci riuscirà?

R. – Non ho nessuna fiducia nella riuscita di queste ulteriori rappresentanze diplomatiche che non sanno risolvere, teoricamente prima ancora che materialmente, con schemi di accordo definiti e unanimi, i problemi delle aree africane e mediorientali. C’è grande confusione in genere sul piano delle iniziative, delle proposte e delle intenzioni occidentali ed europee, che dipende dal fatto che non si ha ancora una coscienza politica rispettosa delle situazioni culturali e socioeconomiche di quei Paesi.

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Lobby gay e boicottaggio degli omosessuali non allineati

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La maggior parte delle persone con orientamento omosessuale non si identificano nella lobby gay, anzi la subiscono. A dichiararlo è Jean Pierre Delaume Myard, già portavoce del collettivo Homovox, creato in Francia per dare la parola agli omosessuali contrari a nozze e adozioni gay, e autore del libro "Homosexuel contre le mariage pour tous" di prossima pubblicazione in Italia con Rubbettino. Delaume Myard critica  il boicottaggio e la campagna d’odio condotti  nelle ultime ore contro gli stilisti Dolce&Gabbana, “colpevoli” di aver difeso la famiglia naturale e criticato la pratica dell’utero in affitto. Paolo Ondarza lo ha intervistato: 

R. – Dolce&Gabbana sont victimes, pour moi, du lobby gay comme je le suis en France. …
Doce&Gabbana, secondo me, sono vittime della lobby gay, come lo sono io in Francia. E’ necessario sapere che se non sei sulla linea di pensiero della Lgbt, sei emarginato e boicottato. Per esempio, io ho scritto un libro, in Francia, e i media e le librerie si sono rifiutati di parlarne. Sono un po’ preoccupato perché dovrebbe uscire, prossimamente, anche da voi, in Italia, con Rubettino.

D. – Dolce&Gabbana hanno criticato in particolare la pratica dell’utero in affitto, la cosiddetta maternità surrogata, legata a grandi interessi economici. Anche lei, come omosessuale, ha più volte posto l’accento su questa questione e sul bisogno che ha un bambino di avere un papà e una mamma…

R. – Dolce&Gabbana sont des personnes responsables; elles ont raison de refuser les mères porteuses …
Dolce&Gabbana sono persone responsabili; hanno ragione se rifiutano il concetto delle madri surrogate, intanto perché significa sfruttare i più deboli, i più poveri. Elton John ha acquistato i suoi figli. La donna – è importante ribadirlo – non è una merce, e oltre a questo ogni bambino ha il diritto di conoscere suo padre e sua madre. Invece, questi benpensanti come Elton John o la sinistra europea hanno reintrodotto la schiavitù …

D. – Ecco, questa dittatura del pensiero unico, legata alle lobby Lgbt, apparentemente tollerante ed egualitaria, non lascia spazio al dissenso – questo caso di Dolce&Gabbana lo dimostra – anche quando questo dissenso è espresso da persone omosessuali. Lei ne è stato e ne è tuttora vittima?

R. – J’en ai assez de la dictature gay : je fais la distinction entre “gay” e “homosexuel”, e si l’on ne pense …
Ne ho abbastanza della dittatura gay: io faccio una distinzione tra “gay” e “omosessuale”. Se non la pensi come la lobby Lgbt in quanto omosessuale, sei forzatamente manipolato e la lobby gay ha una reazione omofoba, come se gli omosessuali non potessero pensare con la loro propria testa. La lobby gay è sempre più presente in tutte le istituzioni: bisogna combatterle perché non rappresentano gli omosessuali. La lobby Lgbt vuole distruggere l’istituzione del matrimonio e la famiglia... Non bisogna confondere “omosessuale” e “gay”: i gay sono militanti attivisti …

D. – Questa distinzione tra “gay” e “omosessuali” e quanto lei ha appena detto, crede siano considerazioni condivise dalle persone omosessuali? Perché l’ideologia Lgbt farebbe pensare il contrario …

R. – En fait, on nous fait croire que les homosexuelles demandent le droit à l’enfant. D’abord, …
In realtà, ci vogliono  far credere che gli omosessuali chiedono il diritto ad avere un figlio. Allora, intanto un figlio non è un diritto. In Francia ci hanno mentito facendoci credere che per esempio la legge Taubira  sul matrimonio per tutti era stata chiesta dagli omosessuali: non è così. A chiederla è stata la lobby gay, quella lobby gay che è molto potente in Europa è rappresentata da Igla. In Italia, per esempio, arriveranno le unioni civili: io personalmente sono contrario alle unioni civili come sono contrario al matrimonio gay, perché le unioni civili porteranno con sé la questione dei figli. La nostra sessualità riguarda soltanto noi stessi e non deve scientemente privare un bambino di un padre o di una madre. Gli omosessuali non chiedono niente: questo pensiero non è né richiesto né condiviso dagli omosessuali; è rivendicato da una lobby molto piccola, la lobby gay, che però è molto potente perché ha mezzi economici e controlla i media.

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Renzi all'Anm: non accarezziamo i corrotti. Bufera su Lupi

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Lo Stato dovrebbe prendere a schiaffi i corrotti e accarezzare i magistrati, e non il contrario: l'Associazione nazionale magistrati attacca così il governo Renzi, all’indomani dello scandalo che ha investito il Ministero dei Lavori pubblici, con l’arresto di Ettore Incalza e il coinvolgimento del ministro Lupi nell’inchiesta fiorentina sulle mazzette legate alle grandi opere. “E’ falso” risponde Renzi all’Anm, e spiega: il governo combatte “non per uno stato di polizia ma per uno stato di pulizia”. Il premier ha detto "no" alla prescrizione per il reato di corruzione. Intanto, il bersaglio ora è Lupi del quale le opposizioni chiedono le dimissioni, lui respinge le accuse ma dovrà riferire in aula al Senato su tutta la vicenda dei grandi appalti. Francesca Sabatinelli ha intervistato Alberto Vannucci, ordinario di Scienze politiche all’Università di Pisa e direttore del Master universitario di indirizzo al contrasto delle mafie e della corruzione, in collaborazione con Libera e Avviso Pubblico: 

R. – Io credo che quello che emerge da questa vicenda sia, nello specifico, “l’attrazione fatale”, quindi il legame necessario tra grandi opere e grande rischio di corruzione. Si è parlato di una torta di circa 25 miliardi di euro che sarebbe gestita dai protagonisti di questa vicenda, ed è evidente che chi ha le conoscenze, le competenze tecniche per far sì che i ruoli di controllore e controllati, come emerge proprio in questa vicenda, si sovrappongano, è in grado di decidere in modo anche occulto la destinazione di questa enorme quantità di risorse pubbliche, anche attraverso forme di corruzione. E’ una sorta di tassa invisibile e occulta che distorce gli investimenti pubblici e arricchisce le solite cricche: questa è la corruzione, in Italia.

D. – Questa è la corruzione in Italia, e tipicamente italica…

R. – Quello che c’è di patologico in Italia sono le dimensioni della corruzione, il suo radicamento in certi processi di spesa pubblica, in particolare, purtroppo, ricorrente in tutte le grandi opere. Ma lo dicono tranquillamente alcuni dei protagonisti, degli imprenditori coinvolti anche nelle ultime inchieste: per certi tipi di lavori, per certi tipi di appalti, tipicamente quelli al di sopra di un certo livello, non ci si pone neanche il problema “se” dover pagare, ma ci si pone soltanto il problema di “chi” si deve pagare. Cioè, la tangente è la regola.

D. – Ma non ci si pone neanche il dubbio del rischio di essere perseguiti?

R. – Questa è un’altra delle anomalie italiane. A differenza di quello che accade in altri Paesi, quello che emerge proprio dalle statistiche giudiziarie è che il rischio per i protagonisti, anche per quelli che vengono coinvolti nelle inchieste e per i pochissimi che vengono condannati, di andare incontro ai rigori della legge, quindi la possibilità di scontare un solo giorno di carcere per coinvolgimento in questo tipo di reati, in Italia è una probabilità praticamente nulla. C’è stata una sorta di depenalizzazione di fatto di questo tipo di reati, per cui i protagonisti sanno che la probabilità di incorrere in una condanna e, ancora più bassa, la probabilità di andare in carcere, è praticamente nulla. Quindi, è evidente che questo incoraggia la partecipazione. Si può guadagnare molto da un lato e non si rischia quasi nulla dall’altro. E’ evidente che questo contribuisce a rendere sistemica la corruzione.

D. – Perché da Tangentopoli, con la società civile forse anche più attenta, perché le cose sembrano essere nettamente peggiorate?

R. – Non esiste nella storia delle democrazie occidentali una vicenda, uno scandalo di corruzione delle dimensioni e della portata, cioè con gli effetti prodotti da “Mani pulite” in Italia. Non se n’è usciti perché nel ventennio successivo la risposta della classe politica su questi temi è stata nei primi tempi balbettante, molto incerta, dopodiché, in modo vorrei dire scientifico, con precisione chirurgica, sono stati introdotti nel sistema una serie di accorgimenti di natura normativa, una serie di leggi, di processi di depenalizzazione o di depotenziamento di reati come l’abuso di ufficio, il falso in bilancio, l’accorciamento dei tempi di prescrizione – per citare solo gli esempi più eclatanti – che di fatto hanno contribuito a reintrodurre nel sistema condizioni che rendono alte le aspettative di impunità e aumentano le opportunità di profitto. E tutto questo ha prodotto anche un effetto devastante a livello di opinione pubblica, perché è chiaro che l’effetto qual è? La delusione, la disillusione, la sfiducia, la delegittimazione delle istituzioni che, paradossalmente, è una condizione che favorisce gli stessi corrotti.

D. – Ci si chiede a questo punto se la prossima approvazione del disegno di legge Grasso per fermare la corruzione possa essere una soluzione…

R. – Non è “la” soluzione. Può essere, a seconda dei suoi contenuti, che però sono ancora molto nebulosi, un primo passo nella direzione giusta. L’elemento di questo disegno di legge che viene più volte richiamato come di grande valore è l’inasprimento delle pene. Tutti gli studi ci dicono che rendere più severe le sanzioni non serve a nulla, perché il vero deterrente è la probabilità di incorrere in quelle sanzioni. Se quella probabilità, come ci dicono le statistiche giudiziarie, è quasi nulla è evidente che si possono inasprire quanto vogliamo le pene, ma l’effetto sarà minimo, quasi nullo. Io credo che bisognerebbe prendere sul serio le proposte che sono state formulate dal presidente dell’Autorità anticorruzione, Cantone, di utilizzare nei confronti di questa corruzione che sta assumendo sempre più spesso vesti simili a quelle della criminalità organizzata, alcuni strumenti che si sono rivelati particolarmente utili a contrastare, a smantellare alcune di queste organizzazioni criminali. Quindi: agenti sotto copertura, l’estensione dell’utilizzo delle intercettazioni, sistemi premiali per chi collabora con i magistrati, strumenti di confisca e di riutilizzo a beni sociali, come si fa con i beni delle mafie. Purtroppo, queste misure però sono assenti dal disegno di legge in discussione. Forse l’impegno c’è, ma andrebbe sicuramente rafforzato e reso più coerente e costante nel tempo.

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Prostituzione, Caritas Milano: donne dal marciapiede alle gabbie

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Ogni anno 800 nuove donne si prostituiscono sulle strade di Milano. Lo afferma la Caritas Ambrosiana, che nel 2014 ha cercato di aiutare più di 1.600 ragazze sfruttate dalla criminalità organizzata. A rendere più difficile il lavoro degli operatori e dei volontari è il continuo "turn over" delle giovani, pari al 53%. Maria Gabriella Lanza ha intervistato suor Claudia Biondi, responsabile area tratta e prostituzione di Caritas Ambrosiana: 

R. – Noi abbiamo incontrato 1.683 donne. Di queste, i nuovi contatti sono stati 576. Questo significa che un terzo delle donne sono donne nuove sul territorio. C’è un grosso turn over: sono state spostate da un’altra città, possono passare dalla Spagna, dalla Francia, dall’Austria, dalla Germania… Il traffico è purtroppo un circuito europeo.

D. – Come cercate di aiutarle?

R. – Tutta la loro vita è tra il luogo in cui vivono, cioè l’appartamento, ma non solo. Perché, ad esempio, alcune delle ragazze rumene vengono tenute segregate in campi. Accanto all’offerta di lasciare la strada, che facciamo sempre, c’è anche quella di prendersi cura della loro salute. Noi offriamo  possibilità di accedere a servizi sanitari, di incontrarsi magari a bere un caffè da qualche parte. Dopo di che, per le donne che decidono di lasciare la strada è chiaro che il percorso è molto più ampio e va da un periodo di accoglienza che può essere dai sei mesi ad un anno, periodo durante il quale una donna si riprende in carico, aiutata dalle operatrici.

D. – Qual è la maggiore difficoltà per voi operatori?

R. – Il fatto che magari vediamo queste donne settimana dopo settimana nella stessa situazione, a volte in situazioni che peggiorano e poi scompaiono. Non è facile.

D. – C’è qualche storia che l’ha colpita?

R. – Sono rimasta molto amareggiata del fatto che abbiamo trovato questo gruppo di trenta ragazze rumene che erano tenute in gabbie in un campo gestito da rom. Spesso con ragazze così deprivate e tenute in situazioni di schiavitù è veramente molto difficile dare loro la fiducia necessaria per fuggire.

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"Cenerentola" di Branagh, favola di fascino e splendore

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Ispirato alla fiaba classica che ha fatto sognare intere generazioni, è uscito sugli schermi "Cenerentola", che porta in vita le immagini senza tempo del capolavoro d’animazione della Disney del 1950. Uno spettacolo diretto dal regista Kenneth Branagh, visivamente splendido e al quale il pubblico di tutto il mondo ha decretato un enorme successo. Il servizio di Luca Pellegrini

"Fata: Inventiamo qualcosa di nuovo per cambiare: me la cavo bene con le scarpe!
Cenerentola: Ma, sono scarpe di cristallo!
Fata: Sì! Ora va! Tu cara andrai al ballo"...

Indossate quelle splendenti scarpette, salta sulla sua carrozza, la più famosa. Per forza, prima era una zucca! Ma una fata buona l'ha trasformata per non far perdere alla radiosa Cenerentola il suo ballo sfarzoso dal principe e l'incontro con il suo destino di felicità.

Cenerentola, storia universale
Quella di Perrault è una delle fiabe più popolari e amate da tutti, bambini e adulti, in cui tutti scorgono un pezzettino della loro vita e un anticipo dei propri sogni. Chi non conosce la sensazione di essere stati trascurati e non apprezzati per il proprio valore? E chi non desidera un pizzico di gioia, di amore e di giustizia a riscatto delle sofferenze subite? Il carattere universale di Cenerentola - attorniata dal papà e dalla mamma che la lasciano sola dopo una morte improvvisa, dalla matrigna con le sorellastre, rose dall'invidia e dall'acrimonia, dalla fata e dal principe, dai topini gentili e dal gattone Lucifero - esplode in un tripudio di festa, colori e sorprese nella splendente versione live che Kenneth Branagh ha portato sul grande schermo e che sta mietendo successi e applausi ovunque.

Sontuoso e affascinante
Gli attori sono squisitamente meravigliosi: Lily James, Richard Madden, Helena Bonham Carter e la matrigna Cate Blanchett, perfida ed elegantissima. La rocambolesca fuga dal castello allo scoccare della mezzanotte lascia senza fiato i bambini, che poi aspettano subito l'episodio della scarpetta di cristallo e il riscatto della loro eroina. Le scenografie sontuose e barocche di Dante Ferretti sono avvolgenti e cariche di bellezza, così come i costumi di Sandy Powell. La regia non lesina anche alcune riflessioni che ricordano gli addentellati shakespeariani e teatrali di Branagh e la considerazione finale che porta al trionfo della virtù. Cenerentola ricorda l'insegnamento lasciatole della mamma prima di spegnersi: "Sii gentile e abbi coraggio". Nel metterlo in pratica con pazienza e bontà, diventerà principessa. E vivrà felice e contenta.

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Nella Chiesa e nel mondo



Pakistan. Funerali delle vittime: appello di pace di mons. Shaw

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“Non abbiamo bisogno e non vogliamo una guerra civile. Noi cristiani siamo uomini di pace. Non lasciamo che il dolore annebbi il nostro sguardo: che sia sempre lo sguardo di Cristo e del suo Vangelo. Quale futuro vogliamo costruire per il Pakistan? Un futuro di armonia e riconciliazione”: con queste parole l’arcivescovo di Lahore, mons. Sebastian Shaw, si è rivolto alla folla di oltre 10mila fedeli che hanno preso parte questa mattina ai funerali delle vittime dell’attentato alla chiesa cattolica di San John e alla Christ Church protestante di Youhanabad, sobborgo cristiano alla periferia di Lahore, facendo 17 morti e oltre 80 feriti.

Alla celebrazione ecumenica presenti anche leader musulmani
La celebrazione delle esequie, tenutasi nella chiesa cattolica di St. John, è stata ecumenica: vi hanno partecipato l’arcivescovo cattolico e quello protestante di Lahore. Le vittime e le famiglie presenti appartenevano a entrambe le comunità cristiane: si celebrava, in segno di profonda comunione, il funerale delle vittime di entrambi gli attentati. Tutto il quartiere di Youhanabad è stato bloccato da imponenti misure di sicurezza. Youhanabad era chiusa da posti di blocco ed è stato permesso solo ai residenti di partecipare alla celebrazione di stamane. Al funerale erano presenti anche rappresentanti delle autorità civili e alcuni leader musulmani giunti per mostrare solidarietà ai cristiani.

Il Vangelo ci chiama ad essere sempre uomini di pace
In un colloquio con l’agenzia Fides, l’arcivescovo Shaw racconta: “Abbiamo ribadito che la violenza non è la strada giusta. Il Vangelo ci chiama a essere sempre, in ogni circostanza, uomini di pace. Oggi, in questo dolore, possiamo pregare e chiedere consolazione a Dio. Cristo è la nostra consolazione”.
L’arcivescovo ha ribadito che “i cristiani oggi desiderano pace e sicurezza. Come cittadini pienamente pakistani, chiediamo al governo protezione e tutela, per poter vivere in armonia e poter contribuire a costruire una nazione giusta, pacifica e fraterna”.

Nel lutto ma sorretti dalla fede
I corpi delle vittime sono stati portati al cimitero di Lahore, dove hanno ricevuto degna sepoltura. “L’atmosfera è molto triste oggi. Siamo in lutto. Ma la nostra fede ci sorregge. Il Signore non ci abbandona in questo calvario. La nostra speranza è Lui” nota a Fides don Asharf Gill, sacerdote della diocesi di Lahore. (P.A.)

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Patriarca Sako: legge contro i predicatori che istigano violenza

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Nell'Iraq insanguinato dai conflitti settari e in buona parte finito delle mani dei jihadisti, occorre varare una legge per perseguire penalmente i predicatori religiosi che istigano alla violenza e così mettono a rischio la pacifica convivenza tra i cittadini appartenenti a religioni e confessioni diverse. E' questa la richiesta rivolta al Parlamento iracheno dal Patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphael I Sako.

Patriarca invoca la cultura del pluralismo e dei diritti di cittadinanza
Il Primate della Chiesa caldea ha inserito la sua petizione nel discorso da lui tenuto domenica scorsa al Parlamento iracheno, nell'ambito di una conferenza organizzata dal Comitato parlamentare per gli affari religiosi, alla presenza del Presidente del Parlamento iracheno – il sunnita Salim al- Jabouri – e di numerosi deputati. Nel suo intervento, il cui testo è pervenuto all'agenzia Fides, il patriarca Louis Raphael ha delineato la pacifica convivenza tra comunità religiose diverse come un patrimonio condiviso della società irachena, che tutti - a partire dai leader religiosi - devono impegnarsi a custodire e difendere, favorendo anche con la predicazione e con il contributo dato ai programmi educativi e scolastici la diffusione della cultura del pluralismo e dei diritti di cittadinanza.

Principio di distinzione tra religioni e istituzioni politiche
​Il Capo della Chiesa caldea ha anche richiamato la potenziale utilità di avviare una riflessione su un disegno di Stato civile che – valorizzando in maniera adeguata il contributo delle comunità e dei soggetti religiosi alla convivenza sociale – riconosca come vantaggioso per tutti il principio della distinzione tra religioni e istituzioni politiche. (G.V.)

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India: dolore dei vescovi per stupro a un'anziana suora

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“Un’azione brutale e disumana di cui i cittadini dovrebbero vergognarsi”. Così, in una nota, la Conferenza episcopale indiana (Cbci) esprime la sua profonda indignazione e dolore per lo stupro di gruppo subito il 13 marzo dall’anziana superiora del convento delle Suore di Gesù e Maria a Ranagath, nel Bengala Occidentale. Oltre allo stupro, per il quale domenica la polizia ha arrestato quattro uomini, gli aggressori hanno attaccato le altre religiose del convento e profanato le ostie consacrate in cappella.

Un atto “spregevole” e “vergognoso”
Nella nota i vescovi esprimono solidarietà alle vittime e chiedono al Primo Ministro dello Stato misure per proteggere le istituzioni religiose “il cui generoso servizio – affermano - ha contribuito tanto allo sviluppo e al progresso della nostra cara Nazione”. Di atto “più che spregevole” e “depravato” parla in un’intervista all’agenzia Asianews il presidente dei vescovi indiani di rito latino (Ccbi), il card. Oswald Gracias, e mentre il presidente del Consiglio dei cristiani dell’India (Global Council of Indian Christians), Sajan George, punta il dito contro "l'apatia delle autorità nell'assicurare alla giustizia questi elementi radicali che permette alla violenza religiosa di crescere”. L’aggressione si inserisce infatti in un clima già teso nella comunità cristiana nel mirino degli integralisti induisti e il Premier Narendra Modi è stato al centro di molte critiche in questi mesi per non avere preso prima una posizione netta contro la violenza religiosa e contro le cosiddette “riconversioni forzate” all’induismo.

Domenica preghiere in tutto il Bengala occidentale per la religiosa
Domenica in tutte chiese del Bengala occidentale si è pregato per rapida ripresa dal trauma fisico e psicologico dell’anziana religiosa, ricoverata in condizioni stabili all’ospedale di Calcutta. (L.Z.)

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Giustizia e pace Africa su mediazione conflitti e ambiente

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Una struttura continentale di risoluzione dei conflitti capace di dispiegarsi in ogni area dell’Africa dove è necessaria una mediazione. È questa una delle decisioni prese al termine del Congresso delle Commissioni episcopali “Giustizia e Pace” africane, che si è tenuto nella capitale della Namibia, Windhoek, dal 12 al 15 marzo, organizzato dal Secam (Simposio delle Conferenze Episcopali di Africa e Madagascar). Sul modello della Rete Ecclesiale Pan-Amazzonica, le Commissioni Giustizia e Pace africane costituiranno una rete ecclesiale dei Paesi della foresta equatoriale per “una gestione trasparente e responsabile di questo patrimonio comune a tutta l’umanità”, afferma il Messaggio pubblicato al termine dal Congresso e ripreso dall’agenzia Fides.

Dialogo interreligioso e buon governo per sviluppo integrale dei Paesi africani
“In un continente che sempre più è posto di fronte alla sfida della violenza e dell’estremismo religioso, siamo convinti che il dialogo interreligioso, insieme a pratiche di buon governo da parte dei nostri leader, costituisce un buon motore per lo sviluppo integrale dei nostri Paesi” si legge in un altro punto del Messaggio.

Invito ai leader africani a non voler prolungare il loro mandato presidenziale
Nel documento si ricorda il ruolo degli Uffici di collegamento dei parlamentari cattolici, attraverso i quali “la Commissione Giustizia e Pace del Secam intende contribuire al dibattito politico, facilitare e promuovere le transizioni pacifiche, la democrazia e il buon governo”. Si invitano inoltre “i leader africani a evitare ogni forma di manipolazione della legge fondamentale per perpetuare il loro mandato”; un chiaro riferimento alle tensioni presenti in alcuni Stati africani i cui Capi di Stato premono per ottenere un terzo mandato attraverso la modifica della norma costituzionale che di solito ne prevede solo due.

Frenare l'emigrazione con una gestione equa delle risorse africane
​I membri di Giustizia e Pace affrontano inoltre il dramma dei migranti, originato dalle cattive condizioni di vita di intere zone dell’Africa, che spingono i giovani e intere famiglie a spostarsi alla ricerca di una vita migliore. Per questo ci si appella ai leader politici perché migliorino le condizioni di vita delle popolazioni attraverso una gestione equa delle risorse africane. Ricordando il dramma di ebola, Giustizia e Pace sottolinea il diritto di tutti, specie dei più poveri, all’accesso a cure mediche efficaci. Si pone infine il problema dei cambiamenti climatici che stanno aumentando le aree di insicurezza alimentare e di carestia. (L.M.)

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Kenya: Chiesa su decentramento e unità nazionale

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“Un percorso verso la pace sostenibile”: si intitola così il rapporto redatto dalla Commissione Giustizia e pace (Cjcp) della Conferenza episcopale del Kenya (Kec), pensato – spiega una nota dei vescovi – per “identificare le cause delle violenze nel Paese, così da pensare a possibili soluzioni da mettere in atto”. Il tutto nel quadro di transizione verso un definitivo sistema governativo decentrato, indicato nella nuova Costituzione approvata nel 2010.

Pro e contro del decentramento
In effetti, l’idea del decentramento, definita anche “devolution”, vede contrapposti due schieramenti: quello che teme l’accentuarsi delle rivalità etniche, e quello che guarda all’opportunità di gestire in modo più equo le risorse su tutto il territorio, favorendo la lotta alla povertà e l’offerta di servizi pubblici anche nelle aree più svantaggiate.

Politica locale conta quanto politica nazionale
Il rapporto della Cjcp fa, dunque, il punto della situazione, interrogando 582 persone provenienti da sette contee del Kenya. Sei, in particolare, i temi-chiave emersi dal rapporto: innanzitutto, esso dimostra che “la politica locale è importante quanto la politica nazionale”. Le risposte degli intervistati, infatti, indicano sostanzialmente una parità (71,5 a 72%) tra la politica locale e la politica nazionale come causa di conflitto nel Paese.

Disoccupazione giovanile causa conflitti
Allo stesso tempo, anche “il controllo delle risorse”, soprattutto se gestito in modo iniquo, viene indicato come causa di scontri dal 74% degli intervistati. Quindi, il rapporto evidenzia che “la sensibilizzazione e l’emancipazione dei giovani li porta ad essere un elemento-chiave per la pace nel Paese, soprattutto in fase elettorale”, tanto che “la generazione dei giovani può influenzare la politica più dei politici stessi”. Dall’altra parte, tuttavia, il rapporto evidenzia come “la disoccupazione giovanile venga indicata dal 72% degli intervistati tra le cause principali di violenze, in quanto i ragazzi senza una fonte di reddito possono essere facilmente manipolati dalla politica”.

No a tensioni terriere ed ai monopoli
Altro punto focale evidenziato dalla Cjcp è quello relativo alla questione terriera: “Le dispute legate alla terra spesso causano tensione – spiega il rapporto – e i conflitti frontalieri acuiscono gli scontri nelle zone di confine”. Ad “accendere la miccia”, inoltre, è anche “la percezione di un predominio da parte di un unico gruppo”, sia esso sociale, economico o politico. Infine, alla domanda sui timori che il decentramento possa intensificare la disgregazione nazionale, il 23% risponde di sì.

Necessario equilibrio tra controllo del potere e controllo delle risorse
Sulla base dei risultati ottenuti, dunque, il rapporto di Giustizia e pace suggerisce alcune soluzioni: innanzitutto, viene sottolineata la necessità di un equilibrio tra “controllo del potere e controllo delle risorse”, perché ciò “giocherà un ruolo importante nell’assicurare” la pace. Ogni programma sulla risoluzione dei conflitti, dunque, “dovrà monitorare le dinamiche del potere ed il conseguente stanziamento delle risorse per garantirne l’equità nella distribuzione”.

Implementare educazione civica della popolazione
Sottolineando, poi, il rapporto critico che si viene a creare tra le questioni terriere e le elezioni politiche, soprattutto per la conquista dei voti dell’elettorato, il documento della Cjcp chiede che “ogni progetto di soluzione di conflitti affronti il tema della terra”. Inoltre, “a causa della generale resistenza al cambiamento”, l’educazione civica viene indicata come parte essenziale di ogni programma formativo, “poiché le modifiche apportate dalla nuova Costituzione non sono state ben comprese da tutti e le incomprensioni su questo argomento possono provocare conflitti”.

Coinvolgere di più i giovani, agenti del cambiamento
Ulteriori suggerimenti offerti dalla Cjcp riguardano il coinvolgimento dei giovani, affinché diventino “agenti di cambiamento”, “costruendo, facendo e mantenendo la pace”; in quest’ottica, viene ribadita anche l’importanza di una loro “emancipazione economica”, così che possano “partecipare attivamente alla preparazione ed all’attuazione di progetti economici governativi”. Infine, si richiede di “sostenere le iniziative locali”, perché le singole comunità possano essere rafforzate e diventare “operatrici di pace” in tutto il Kenya. (I.P.)

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Vescovi America Latina: diritti umani e industria estrattiva

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Giovedì prossimo, 19 marzo, alle ore 14.00, si terrà un’udienza pubblica della Commissione interamericana dei diritti umani, con sede a Washington, dedicata al tema “I diritti umani e l’industria estrattiva in America Latina”. Nel corso dell’incontro, informa una nota, il Dipartimento Giustizia e solidarietà del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), la Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), il Segretariato latinoamericano della Caritas (Selacc), la Confederazione latinoamericana dei religiosi e delle religiose (Clar) e la Commissione amazzonica della Conferenza episcopale dei vescovi brasiliani (Cnbb) presenteranno “la posizione della Chiesa cattolica di fronte alla violazione dei diritti dei diritti umani delle popolazioni indigene e contadine, colpite dalle industrie estrattive in America Latina”.

Ruolo rilevante della Chiesa contro violazioni dei diritti di indigeni e contadini
Quindi, verranno presentati alcuni “casi emblematici in Brasile, Ecuador, Honduras, Messico e Perù, e verranno formulate alcune raccomandazioni agli Stati ed alla società civile del continente”. Nel corso dell’udienza, inoltre, i rappresentanti episcopali consegneranno “un rapporto sui casi in cui la Chiesa ha avuto un ruolo rilevante contro le violazioni dei diritti umani perpetrate dalle imprese estrattive”. Allo stesso tempo, la relazione indicherà che “molti Stati della regione restano indifferenti di fronte a simili episodi, ritenendo pratiche usuali la criminalizzazione dei difensori dei diritti umani ed i gravi attentati contro la salute e la vita, in particolare delle comunità indigene e contadine”.

Necessario sviluppo sostenibile ed equilibrio tra economia ed ambiente
Infine, il rapporto illustrerà la necessità di “adottare un modello di sviluppo sostenibile in America, nel quale si riscontri un equilibrio tra il progresso economico, i diritti umani e l’ambiente”. Tra i presenti all’incontro: mons. Pedro Barreto, presidente del Dipartimento Giustizia e solidarietà del Celam; don Roque Paloschi, membro della Commissione amazzonica della Cnbb; mons. Álvaro Ramazzini, presidente della Commissione Giustizia e solidarietà della Chiesa in Guatemala; Mauricio López Oropeza, direttore nazionale di Caritas Ecuador e segretario esecutivo della Repam. (I.P.)

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Perù: Marcia per la vita in difesa di famiglia e matrimonio

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“Recuperare il valore dell’amore, della vita e della famiglia”: è l’esortazione lanciata il 14 marzo dal card. Juan Luis Cipriani Thorne, arcivescovo di Lima, in Perù, ai giovani volontari che sabato prossimo, 21 marzo, organizzeranno la Marcia per la Vita nel Paese. L’evento, a cadenza annuale, si tiene in vista della "Giornata del nascituro", in programma il 25 marzo e che ricorda l’articolo 1 della Costituzione Politica nazionale, in cui si afferma: "La difesa della persona umana e il rispetto per la sua dignità sono il fine supremo della società e dello Stato".

Difendere la vita, impegno di tutti
Nell’incontro con i volontari, il card. Cipriani ha pregato per tutti i bambini abortiti e per i nascituri, affidandoli alla cura del Signore; quindi, ha invitato i giovani ad essere “coraggiosi ed a difendere con decisione la vita dal concepimento e fino alla morte naturale, così come la famiglia ed il matrimonio, fondato sull’amore tra uomo e donna”. “Dio chiede a tutti di difendere la vita”, ha aggiunto il porporato, sottolineando poi che la Marcia per la vita “non è contro qualcosa, ma è a favore della vita”.

Tutelare la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna
Di qui, il richiamo anche a “tutelare la vita che si genera nel matrimonio tra uomo e donna, ovvero nella famiglia”. All’incontro hanno partecipato più di 3.500 giovani; notevole il riscontro sui social network, tanto che l’hashtag creato per l’occasione, #UnidosPorLaVida, è stato uno dei più seguiti durante la giornata.

Cosa dice la normativa del Paese
In Perù, dal 1924 è legale l’aborto terapeutico, in base all’articolo 119 del Codice penale. Lo scorso anno, a giugno, è stato approvato un protocollo medico per la sua applicazione negli ospedali: nel documento, si specifica che l’aborto terapeutico è ammesso in caso di pericolo di vita per la madre a causa di patologie o malattie gravi (gravidanza ectopica, cancro maligno o cardiopatie). In tal caso, l’interruzione terapeutica della gravidanza è permessa fino a 22 settimane di gestazione, ma solo con l’autorizzazione della gestante o del suo rappresentante legale. Ma al centro del dibattito politico peruviano c’è una proposta di legge a favore della depenalizzazione dell’aborto in casi di violenza sessuale. Entrambe le normative, naturalmente, sono state respinte dalla Conferenza episcopale che, in più occasioni, non ha mancato di manifestare il suo dissenso. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 76

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.