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Sommario del 24/03/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: Dio ci aiuti a non essere cristiani “sì, ma…”

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La grazia che porta con sé la Settimana Santa aiuti i cristiani ad accettare l’aiuto che Dio dona loro e anche il modo in cui glielo offre, senza critiche e obiezioni. È l’insegnamento che Papa Francesco ha tratto dalle letture liturgiche del giorno, spiegate all’omelia della Messa celebrata in Casa S. Marta. Il servizio di Alessandro De Carolis: 

“Capricci spirituali” davanti a Dio che in mille modi offre la salvezza. Solo perché siamo gente che non sa accettare “lo stile divino” e ci intristiamo, scivoliamo nella “mormorazione”. È un errore che oggi commettono tanti cristiani, così come la Bibbia racconta vi cadesse un tempo il popolo ebreo salvato dalla schiavitù.

Veleno e salvezza
Papa Francesco parte dall’episodio proposto dal Libro dei Numeri, quello in cui gli ebrei si ribellano alle fatiche della fuga nel deserto, al cibo “leggero” della manna, e cominciano – dice il Papa – “a sparlare di Dio” e molti di loro finiscono morsi e uccisi da serpenti velenosi. Solo la preghiera di Mosè che intercede per loro e innalza un bastone con un serpente – simbolo della Croce su cui verrà appeso Cristo – diverrà per chi lo guarda salvezza dal veleno:

“Anche noi fra i cristiani, quanti, quanti troviamo anche noi, ci troviamo noi un po’ avvelenati per questo scontento della vita. Sì, davvero, Dio è buono, ma cristiani sì, ma… Cristiani sì, ma… Che non finiscono di aprire il cuore alla salvezza di Dio, sempre chiedono condizioni. ‘Sì, ma così!’. ‘Sì, sì, sì, io voglio essere salvato, ma per questa strada’...  Così il cuore diviene avvelenato”.

Quello stile che non ci piace
Anche noi, prosegue Francesco, “tante volte diciamo che siamo nauseati dello stile divino. Non accettare il dono di Dio col suo stile: quello è il peccato – sottolinea il Papa – quello è il veleno. Quello ci avvelena l’anima, ti toglie la gioia, non ti lascia andare”. E Gesù, afferma, risolve questo peccato salendo sul Calvario:

“Lui stesso prende su di sé il veleno, il peccato e viene innalzato. Questo tepore dell’anima, questo essere cristiani a metà, ‘cristiani sì, ma…’. Questo entusiasmo all’inizio nel cammino del Signore e poi diventare scontenti, soltanto si guarisce guardando la Croce, guardando Dio che assume i nostri peccati: il mio peccato è lì”.

Cristiani senza "ma"
Quanti cristiani – conclude Francesco – oggi “muoiono nel deserto della loro tristezza, della loro mormorazione, del loro non volere lo stile di Dio”:

“Guardiamo il serpente, il veleno, lì, nel corpo di Cristo, il veleno di tutti i peccati del mondo e chiediamo la grazia di accettare i momenti difficili. Di accettare lo stile divino di salvezza, di accettare anche questo cibo così leggero del quale si lamentavano gli ebrei, di accettare le cose… Di accettare le vie per le quali il Signore mi porta avanti. Che questa Settimana Santa, che incomincerà domenica, ci aiuti ad uscire da questa tentazione di diventare ‘cristiani sì, ma…’”.

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Perù, marcia per la vita. Papa: ogni persona è sacra a Dio

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“Viva la vita”: questo l’incoraggiamento che Papa Francesco ha rivolto ai partecipanti alla Marcia per la vita tenutasi sabato scorso a Lima, in Perù. In un messaggio indirizzato al cardinale arcivescovo della città e primate della Chiesa locale, Juan Luis Cipriani Thorne, il Pontefice ha espresso apprezzamento per l’iniziativa, alla quale — scrive — “mi unisco con la preghiera nell’impegno di difendere e promuovere il bene fondamentale della vita umana, dal suo concepimento al suo termine naturale”. In questo senso, Papa Francesco ha anche invitato a “dare testimonianza con coraggio e annunciare sempre il carattere sacro di ogni essere umano, creato da Dio a sua immagine e redento da Cristo sulla croce”.

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Nomina episcopale in Ecuador

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In Ecuador, Papa Francesco ha nominato vescovo di Santo Domingo en Ecuador mons. Bertram Víctor Wick Enzler, finora ausiliare di Guayaquil. Il presule è nato in Waldkirch, diocesi di Sankt Gallen (Svizzera), l’8 marzo 1955. Ha frequentato le scuole medie e superiori presso il Collegio dei Verbiti di Marienburg ed ha ottenuto il baccalaureato a Lucerna. Nel 1980 è entrato nel Seminario Maggiore di Innsbruck. Nel 1990 è stato inviato come missionario nell’arcidiocesi di Portoviejo, entrando nell’Istituto ecuadoriano “Santa Maria del fiat”. Ha ricevuto l’Ordinazione sacerdotale l’8 dicembre 1991, incardinandosi nell’arcidiocesi di Guayaquil. Per tre anni ha svolto l’incarico di Vicario parrocchiale e nel 1994 è stato nominato Parroco nella penisola di Santa Elena. Nel 2005 è stato trasferito a Guayaquil nella Parrocchia di “Gesù Buon Pastore”. Dal  2009 è stato Parroco nella parrocchia di “Santa Madre de la Iglesia” in Los Ceibos e successivamente di “Santa Elena. Il 26 ottobre 2013 è stato nominato Vescovo titolare di Carpi ed Ausiliare dell’arcidiocesi di Guayaquil, ricevendo la consacrazione episcopale il 30 novembre successivo.

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Papa, tweet: la sofferenza è un richiamo alla conversione

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex. Questo il testo: “La sofferenza è un richiamo alla conversione: ci ricorda che siamo fragili e vulnerabili”.

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Giornata in memoria dei Missionari Maritiri, nel 2014 uccisi 26 religiosi

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Ricordare i missionari uccisi nel mondo e gli operatori pastorali che hanno versato il sangue per testimoniare il Vangelo. E’ questa la finalità dell’odierna Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei Missionari Martiri. Un’iniziativa, giunta alla 23.ma edizione, che trae ispirazione dall’assassinio, il 24 marzo del 1980 in Salvador, di mons. Oscar Romero. Il servizio di Amedeo Lomonaco

Annunciare il Vangelo fino al martirio. Nel 2014 sono stati 26 gli operatori pastorali a dare questa suprema testimonianza, resa alla verità della fede. Ancora una volta è l’America il Continente dove si registra il maggior numero di martiri. Dal 1980 allo scorso anno – ricorda l’Agenzia Fides - sono stati uccisi 1062 missionari. Un drammaico bilancio da considerare in difetto poiché si riferisce solo ai casi accertati. Morire nel segno della croce – sottolinea don Michele Autuoro, direttore nazionale della Fondazione Missio - è una testimonianza che genera vita:

R. - Sono 26 gli operatori pastorali uccisi. Li ricordiamo anche perché tutti avevano fatto una scelta di vita: donare la propria vita per gli altri, soprattutto affianco ai poveri. Per noi ricordarli è ricordare dei testimoni: noi li ricordiamo perché possano segnare anche il nostro cammino, il cammino della Chiesa. Che questa sia una Chiesa, come dice Papa Francesco, “sempre in uscita”, una Chiesa che ha come compagni di viaggio proprio i poveri.

D. – Testimoni che hanno donato la loro vita. Ma morire nel segno della Croce è una testimonianza che genera vita…

R. – È una testimonianza che genera vita. Innanzitutto, noi siamo stati generati dalla Croce di Gesù: è quella Croce che ha generato per tutti una vita nuova. Da quella Croce c’è la Resurrezione. E, quindi, la testimonianza e il dono della vita sempre generano le nuove esistenze. Generano, soprattutto, una nuova fede: già nei primi scritti cristiani si diceva che il sangue dei martiri è fermento di nuovi cristiani.

D. – C’è un martirio di cristiani nel mondo che, come anche ha denunciato il Papa, viene tenuto nascosto…

R. – Non sempre si pone attenzione oggi a questo martirio di tanti cristiani nel mondo. È come se questa fosse una verità scomoda, una verità che dovrebbe invitare tutti, indipendentemente dalla fede anche, a prendere una posizione, e quindi a difendere: ognuno va difeso, anche ogni minoranza. Il Papa questo lo sottolinea.  Quindi noi dovremmo essere sempre la voce di chi è indifeso, la voce di chi è più piccolo, la voce di chi viene messo da parte, di chi viene emarginato. Noi davanti a tutto questo, se anche come umanità vogliamo crescere, non possiamo tacere, né possiamo far finta che questo non accada.

L’odierna Giornata trae ispirazione dall’assassinio, 35 anni fa, dell’arcivescovo di San Salvador, mons. Oscar Romero. Il presule, che fu ucciso mentre stava celebrando la Santa Messa, sarà beatificato il prossimo 23 maggio. L’arcivescovo era stato soprannominato colui “che dava voce ai senza voce”, come ricorda, al microfono di Fabio Colagrande, il coordinatore della rete internazionale dei “Comitati Oscar Romero”, don Alberto Vitali

R. – Di fatto, era rimasta l’unica voce nel Paese c dalla parte degli oppressi. Ricordiamo che le sue omelie seguivano uno schema fisso: nella prima parte commentavano la parola di Dio della domenica; nella seconda parte, proprio alla luce della parola della domenica, denunciava i fatti della settimana. Per cui l’unico modo, dentro e fuori il Paese, per sapere quello che realmente stava succedendo era ascoltare l’omelia dell’arcivescovo, omelia che veniva trasmessa via radio. Si è scoperto poi, dopo la fine della guerra, che veramente tutto il Paese si fermava ad ascoltare, dalle caserme ai guerriglieri in montagna. Qualcuno dice che, addirittura, si poteva camminare per le strade di San Salvador senza avere la radio e non perdere alcun passaggio dell’omelia, perché da tutte le case e in tutti i bar si poteva ascoltare.

D.  – E in queste omelie si diceva che ci fossero le liste delle sparizioni, degli assassinii delle torture degli oppositori politici. E’ così?

R. –  E’ così e con denunce non generiche, ma molto circostanziate.

D. – Lei si trova in questo momento in Salvador: come è stata accolta la notizia che mons. Romero sarà proclamato Beato il prossimo 23 maggio?

R. – Con grande entusiasmo dalla stragrande maggioranza della popolazione. Non dimentichiamo perché, però, che c’è una parte - per quanto minoritaria del Paese - che continua ad essere contraria a mons. Romero. Una delle cose che mi diceva un amico era questa. Appena mi ha visto mi ha detto: di questa beatificazione non ha bisogno mons. Romero, ma abbiamo bisogno noi. Speriamo che sia la volta, questa, in cui riusciamo a riconciliare la memoria storica del Paese.

D. – Quali sono i mali che oggi affliggono la società salvadoregna?

R. – Prima di tutto la violenza, la violenza che continua a persistere. La violenza è rimasta forte ed è dovuta, da una parte, dalle condizioni di miseria di gran parte della popolazione e, dall’altra, anche dal fatto che il partito che è rimasto al governo, fino a sei anni fa, era proprio lo squadrone della morte trasformato in partito politico che aveva ucciso mons. Romero. Il fondatore di questo partito era esattamente il mandante riconosciuto dell’assassinio di mons. Romero. Per cui la violenza nel Paese non è venuta meno e in questo momento, soprattutto, si parla delle “maras” che sono queste bande di strada delinquenziali fomentate anche dal rimpatrio forzato di molti giovani di seconda e terza generazione che dagli Stati Uniti sono stati riportati forzatamente nel Salvador.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Cristiani? Sì, ma ...: messa del Papa a Santa Marta.

Come un seme nel nostro giardino: in prima pagina, Manuel Nin sull’Annunciazione secondo Efrem il Siro.

In difesa dei diritti delle donne: intervento della Santa Sede a New York.

Variazioni sul mito: Marco Beck sui viaggi di Ulisse nella letteratura.

Gabriele Nicolò su virgole e flusso di coscienza: il 26 marzo 1915 veniva pubblicato il primo romanzo di Virginia Woolf.

Un articolo di Silvia Gusmano dal titolo “Contro la pastorale della muffa”: per una più efficace integrazione delle persone disabili.

Nei meandri di sure e glosse: Sara Muzzi sulle traduzioni latine del Corano.

Missione e conformismo mondano: Robert P. Imbelli sulla sfida della “Evangelii gaudium”.

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Oggi in Primo Piano



P. Samir: Paesi musulmani siano i primi a fermare l'Is

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Lo Yemen verso una guerra civile. I ribelli sciiti Houti, che già controllano la capitale Sana'a e il nord del Paese, hanno lanciato un’offensiva verso sud e l'est. Il deposto capo di stato, Hadi, dalla città di Aden ha denunciato l’ingerenza dell’Iran, chiedendo aiuto all’Onu e al Consiglio di cooperazione del Golfo. Ci si chiede quanto il caos istituzionale e le lotte di potere nello Yemen possano avvantaggiare al Qaeda e favorire l’avanzata del sedicente Stato islamico nell’area mediorientale e del Nord Africa. Roberta Gisotti ha intervistato padre Samir Khalil Samir, docente di Storia della cultura araba e islamologia all’Università Saint Joseph di Beirut: 

R. – Lo Stato islamico sta cercando ovunque ci siano dei problemi di creane di nuovi e di dominare man mano le varie regioni del Medio Oriente. Oltre alla Siria e l’Iraq, che erano lo scopo primario, sono poi passati alla Libia. E adesso, vedendo che c’era una lotta nello Yemen tra il governo e gli sciiti, ne approfittano anche lì, così come in Tunisia, dove ci sono tanti turisti e prima c’era un governo filo-islamista e adesso siamo tornati alla situazione precedente. Cercano di sollevare problemi ovunque possono. Vuol dire che hanno anche squadre locali pronte a saltare in aria per dire: "Siamo dappertutto, siamo i più forti, siamo i più barbari, non temiamo niente".

D. – Lei pensa che la realtà del sedicente Stato islamico sia stata e tuttora venga sottovalutata dalla comunità internazionale?

R. – La comunità internazionale non può fare molto, in realtà, perché si tratterebbe prima di attuare un controllo assoluto di tutti questi Paesi arabi. E questo la comunità non lo può fare. Se domani attaccano in Marocco e il Marocco non è preparato, il mondo non può sostituirsi all’insieme della regione. L’altra cosa è che con il sistema adoperato, essendo quello dei kamikaze, non si può prevedere nulla: un kamikaze si presenta come una persona ordinaria solo che porta in sé la bomba che fa saltare lui con altre persone. Può andare dove c’è folla, nelle moschee, nelle chiese, in un supermarket, laddove c’è molta gente è più contento. Siamo in una situazione di pazzia!

D. – Ma è da escludere in ogni caso l’uso della forza nei territori che sono già stati occupati e sotto il controllo delle forze dell’Is?

R. – Il problema è quale tipo di forza, perché usare aerei che bombardano non si può. Loro si sono infatti mescolati in mezzo ai quartieri, in qualunque posto, e lo fanno apposta perché sanno che così le forze aeree non oseranno attaccare. Ed è giusto perché se per uccidere un kamikaze dobbiamo uccidere una decina di persone è impensabile, è disumano. L’unico modo è la lotta a terra, uno contro uno. E’ quello che stanno facendo e provano a fare i curdi, qualche gruppuscolo di assiri, per difendersi contro questi selvaggi disumani e lo fanno rischiando la propria vita. E’ difficile per la comunità internazionale intervenire militarmente. Ciò che può fare è sostenere le comunità locali con mezzi, apparecchi, ecc...

D. – Quindi, c’è veramente da stare preoccupati?

R. – Sì, ma d’altra parte non c’è da esagerare il loro potere, perché la loro forza è il fatto che non hanno nessuno scrupolo e che possono attaccare ovunque, quando vogliono, chiunque.

D.  – Ma non si può pensare che stiamo a guardare quello che succede...

R. – Prima di tutto, un aiuto sarebbe, per quanto possibile, non dare possibilità di armarsi a questa gente e questo tocca prima di tutto ai Paesi del Medio Oriente. Le armi vengono dall’Occidente, l’Oriente non ne produce, ma gli Stati arabi sono pronti a comprare, almeno i Paesi ricchi. E probabilmente alcuni dei Paesi danno anche armi all’Is.

D. – Quindi, una risposta dobbiamo aspettarcela all’interno del mondo musulmano…

R. – Deve venire dal mondo musulmano, certamente. Quello che cominciano a dire, anche gli imam importanti: "Dobbiamo fare una rivoluzione nell’interpretare il Corano, dobbiamo ripensare tutto l’islam per il mondo di oggi", cominciando con le classi elementari, fino all’università e fino alle facoltà di teologia... Ci vorrà tempo, però è da cominciare oggi.

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Vertice tra Usa e Afghanistan su sicurezza e terrorismo

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Faccia a faccia a Washington tra il capo della Casa Bianca, Barack Obama, e il presidente afghano, Ashraf Ghani. Al centro del vertice, il ritiro dei soldati americani e l’espansione del sedicente Stato islamico nella regione, anche alla luce dell’ondata di attentati che nelle ultime ore ha colpito l’Afghanistan provocando almeno 18 morti. Sull’incontro, Eugenio Bonanata ha intervistato Alberto Negri, giornalista de Il Sole 24 Ore ed esperto dell’area: 

R. – La visita di Ghani è importante perché proprio quando si parla di lotta al terrorismo in qualche modo si torna sul "luogo del delitto", l’Afghanistan: il Paese che era diventato il santuario di al Qaeda e di Osama Bin Laden, da dove poi è partito l’11 settembre e una sequela di eventi che negli ultimi 15 anni hanno travolto il Medio Oriente, ma colpendo anche lo stesso Occidente. Quindi, adesso, parlare del ritiro americano in qualche modo ha un sapore un po’ diverso da come se ne parlava forse un anno fa, soprattutto dopo l’ascesa del Califfato. E probabilmente questo ritiro completo, in realtà, non ci sarà: forse sarà schedulato e programmato sulla base della necessità di mantenere un minimo di sicurezza in un Paese che è ancora tormentato dagli attentati, dall’instabilità.

D. – Quanto conta l’Afghanistan nella strategia del cosiddetto Califfato?

R. – Conta perché conta tutto nella strategia del Califfato. Il Califfato non solo si sta espandendo ben oltre la Siria e l’Iraq, nel Maghreb e così via, ma sta facendo una grande campagna acquisti. Lo vedete benissimo con quello che è avvenuto nei gruppi radicali in Libia, ma anche con quelli del Maghreb. E molto spesso vediamo che alcuni dei militanti che hanno fatto atto di fedeltà al Califfo, in realtà erano prima membri di al Qaeda. Come pure lo vediamo in Afghanistan, perché il fatto che lo Stato islamico stia facendo campagna anche lì non è una novità.

D. – Cosa si può dire in particolare della relazione tra i talebani e l’Is?

R. – Ci sono state delle contrapposizioni anche forti, perché è evidente che qui c’è un aspetto concorrenziale. Però, l’aspetto competitivo e concorrenziale potrebbe diventare qualcosa di diverso nel momento in cui lo Stato islamico e il Califfato cominciassero appunto a fare accordi con settori dei talebani che non vogliono in qualche modo arrendersi all’idea di poter rientrare sulla scena politica in un quadro afghano di tipo pluralista.

D. – Kabul che garanzia è in grado di offrire a fronte dell’avanzata dei jihadisti, anche in termini di sicurezza?

R. – Non molte. Come vedete anche dalle notizie degli ultimi attentati, Kabul ha delle gravi difficoltà. Qui parliamo comunque ancora di un Paese dove il programma di stabilizzazione e di sicurezza è ben lontano non solo dall’essere completato, ma dall’arrivare a un livello di sicurezza accettabile, sia per quanto riguarda l’esercito sia per quanto riguarda le forze di polizia. Soprattutto, poi, quando si va nelle regioni più sensibili, cioè quelle dove i talebani sono da sempre più attivi, quelle lontano dalle grandi città, dai grandi centri dove è molto più difficile per lo Stato afghano estendere la propria influenza. Lo era in tempi non sospetti, negli anni Settanta, figuriamoci adesso.

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Congresso Usa vota per armi a Kiev. Nuova sfida a Mosca

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Ucraina sempre più al centro di un difficile equilibrio internazionale all’indomani della risoluzione, votata a larghissima maggioranza dalla Camera dei rappresentanti Usa, che autorizza Washington a inviare “sistemi di difesa letali” a Kiev per tutelare la sovranità territoriale dall’aggressione russa. L’ultima parola spetta ora al presidente, Barack Obama. Ma quali le conseguenze rispetto alla soluzione diplomatica chiesta dall’Unione europea e alla stabilizzazione effettiva dell’Ucraina? Gabriella Ceraso lo ha chiesto a Arduino Paniccia, docente di Studi strategici all’Università di Trieste: 

R. – Più che un’estensione del conflitto, che comunque è naturalmente sempre possibile nel momento in cui si cominciano a mandare armamenti e paracadutisti sul campo, si tratta di un radicamento della dottrina americana per la quale l’Ucraina deve comunque avere la possibilità di difendersi sostanzialmente ad armi pari. Ritengo che, ancora una volta, si stia giocando, certamente in una maniera molto pericolosa, ma più sul fronte della pressione che sulla decisione di andare veramente a un combattimento sul campo.

D. – Però, è anche vero che, se l’America cambia tattica, anche la Russia cambierà tattica, probabilmente con un approccio peggiore…

R. – Tuttavia, non mi sembra che vi sia, da entrambe le parti, una decisa volontà di andare al conflitto nucleare o a bombardamenti massicci… Diciamo che è una risposta all’armamento mandato dalla Federazione russa e il battaglione di paracadutisti è una risposta ai consiglieri russi inviati nell'est dell'Ucraina.

D. – Un botta e risposta che comunque alla lunga non può funzionare: ci allontana progressivamente dalla possibilità di dare all’Ucraina una identità, di riformarsi, di continuare anche sulla via europea…

R. – Questa sua osservazione è una osservazione molto vera: non credo che troveremo una soluzione a breve termine sulla vicenda dell’Ucraina, nonostante gli sforzi che continuerà a fare la Germania di creare dei tavolini insieme alla Francia, Paese che ha un problema di vendita di navi, di portaerei, alla Russia e quindi è coinvolta, ma in questo caso farebbe da terzo un po’ più neutro nei confronti degli Stati Uniti e della Federazione Russa. Nonostante gli eventuali sforzi dell’Unione Europea, io ritengo si sia aperta una fenditura a est dell’Unione difficilmente risanabile. Ritengo quindi che – non per i prossimi mesi ma forse per i prossimi anni – noi non riusciremo a ricucire. Quello che può più preoccupare, sul quale invece l’Unione Europea deve vegliare, è non solo che la deflagrazione in Ucraina non peggiori – e quindi allora sì, si arrivi all’uso delle armi letali – ma che in tutta l’area dell’est non parta la corsa al riarmo, che in qualche modo sottilmente gli Stati Uniti stanno sostenendo.

D. – Tramonterebbe dunque l’idea di una soluzione diplomatica, che resta comunque quella più auspicabile, tanto sostenuta dalla Germania?

R. – Il tavolino negoziale che vorremmo mettere in piedi è minato alla base dalla situazione della Germania. Il Paese è leader oggi in Europa, ma non se ne vuole assumere le responsabilità, non vuole perdere i mercati ad est, ma non vuole neanche inimicarsi gli americani. Non è sufficientemente neutro perché ha troppi interessi da una parte e dall’altra e quindi alla fine non riesce a portare a compimento l’operazione.E' la situazione in cui si trova oggi la Germania e sulla quale la Germania trascina l’Europa.

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Tanzania: il "land grabbing" toglie terra e cibo ai contadini

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Il “land grabbing”, testualmente "accaparramento della terra" da parte di multinazionali nei Paesi in via di sviluppo, è una piaga che non sembra fermarsi. Per aiutare i contadini della Tanzania, tra le vittime di questo fenomeno, ActionAid ha lanciato un appello. Anna Zizzi ha sentito Roberto Sensi, responsabile del programma "Diritto al cibo" dell’associazione: 

R. - Parliamo di un’azienda svedese, che si chiama EcoEnergy, e che ha l’obiettivo di sfruttare 20.000 ettari di terra in Tanzania, nella zona di Bagamoyo, per produrre canna da zucchero per il mercato interno e il mercato internazionale. Il problema fondamentale è che l’obiettivo di quel progetto è mettere a coltivazione 20.000 ettari che in precedenza appartenevano ad un’azienda agricola pubblica, che poi è stata smantellata, dove le comunità locali esercitavano un diritto di uso. Adesso il governo tanzanese ha deciso di affittare per 99 anni questa terra a questa azienda, e quindi oltre 1.300 persone, che vivono in quell’area, sono costrette ad abbandonare la loro terra.

D. - Si rischierebbe dunque di privare i contadini di uno dei mezzi di sostentamento principale…

R. – Il problema qui è che, sostanzialmente, attraverso questo affitto di terra, di fatto nell’area si impone un modello di crescita e sviluppo agricolo che non serve e non aiuta i piccoli agricoltori locali, che avrebbero bisogno di investimenti e di capitali per promuovere un modello, il loro: un modello su piccola scala, che garantisce prima di tutto la sopravvivenza delle comunità e permette in qualche modo di fare un’agricoltura in modo sostenibile. Qui, invece, si impone un modello che è esterno a quell’area, anche dal punto di vista colturale; quindi si impone un modello monocolturale, da canna da zucchero, che di fatto il primo problema che porrà sarà: “Ma il resto dell’alimentazione, come viene prodotto?”. E qui la risposta che dà l’azienda è: “Ma noi generiamo del reddito, e attraverso quel reddito avviene poi l’acquisto del cibo”. Ma, il problema fondamentale è che c’è un aspetto specifico di questo investimento che riguarda 3.000 ettari di terra, dove l’azienda non ha acquisito il controllo diretto, ma dove si fa agricoltura contrattuale: questo progetto prevede un fortissimo indebitamento dei piccoli agricoltori per fare avviare l’azienda agricola, e non si tiene conto poi effettivamente delle conseguenze per la sicurezza alimentare delle popolazioni. Mettendo a rischio la sopravvivenza e l’alimentazione di queste popolazioni, si viola un diritto fondamentale che è quello del diritto al cibo, che è riconosciuto a livello internazionale e che prevede, nella sua definizione, che l’accesso ai mezzi di sostentamento sia un diritto tanto quanto avere cibo.

D. – L’azienda svedese ha previsto un metodo di reinserimento per i contadini?

R. – L’azienda svedese, dai dati che ha fornito, prevede ad esempio che l’impiego diretto genererà 2.000 posti di lavoro, più un indotto di 10.000 posti di lavoro; dallo studio che noi abbiamo fatto ci appare anche estremamente sovrastimato. Per quanto riguarda le comunità che vivono nell’area di Bagamoyo, a loro non è stata data la possibilità di scegliere “sì” o “no”, ma soltanto di scegliere che tipo di compensazione volessero, se in denaro o se con altra terra al di fuori dell’area dell’investimento. Questo non va bene! Sia perché la consultazione non è avvenuta in modo previo, libero e informato, sia per i diritti umani, che sono a rischio di violazione a causa di questo investimento. Il problema è che lì dentro ci sono anche attori pubblici. Questo dimostra come, sostanzialmente, in questo momento, dietro la bandiera dello sviluppo e della cooperazione, si faccia accaparramento di terre e questo non veda soltanto responsabili le aziende private, ma anche istituzioni pubbliche di sviluppo.

D. - Quali sono le richieste che ActionAid fa al governo della Tanzania?

R. – Noi abbiamo lanciato una petizione internazionale rivolta al governo tanzanese, in cui chiediamo fondamentalmente due cose: la prima è fermare le operazioni di implementazione del progetto e la seconda è riavviare un processo di consultazione effettivo ed efficace con le comunità locali. Ovviamente, la decisione è delle persone che vivono là, ma noi vorremmo che questa decisione venisse presa con tutte le informazioni disponibili, che al momento non ci sono.

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Tubercolosi, in milioni vittime della "malattia silenziosa"

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Sono milioni le persone ancora oggi vittime della tubercolosi. Una stagnazione della ricerca ha aggravato il fenomeno, per più di 50 anni sono stati somministrati gli stessi farmaci. L'odierna Giornata mondiale della tubercolosi vuole riportare l'attenzione su questa malattia silenziosa. Claudia Minici ne ha parlato con Silvia Mancini, epidemiologa di Medici senza frontiere: 

R. – Nel 2012, quasi 9 milioni di persone hanno contratto al tubercolosi e di queste più di un milione sono state le morti. Gran parte potrebbero essere state prevenibili. Oggi, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) stima che ogni cinque pazienti trattati per tubercolosi, più di un paziente sviluppi una forma di malattia multiresistente ed è questa la piaga più importante con cui ci troviamo a combattere. In particolare, i Paesi dell’Europa dell’est contano una delle più alte prevalenze di resistenza alla tubercolosi. Vuol dire che i pazienti non riescono più a rispondere a una terapia di prima linea, pertanto si deve passare a un trattamento di seconda linea. Spesso non sono disponibili, da un paio di anni sono stati messi sul mercato due nuovi farmaci che sono la "Bedaquilina" e il "Delamanid" che servono appunto a combattere la Tb multiresistente. Pochissimi pazienti possono avervi accesso e nella maggior parte dei casi vengono somministrati per uso compassionevole, ovvero sulla base di una trattazione caso per caso con l’industria produttrice. Ci sono anche casi di Tb nota come estesamente resistente e si parla intorno al 20%, un tasso di successo relativamente basso.

D.  – Quali sono i Paesi maggiormente esposti?

R. – I Paesi dell’est Europa contano una tra le più alte prevalenze, perché hanno un’incidenza globale del 35%, e ci sono anche Paesi dell’Africa subsahariana. La resistenza è più bassa in questi casi perché stata introdotti meno farmaci.

D.  – Quali condizioni determinano lo stanziamento di questa malattia?

R. – Spesso gli antibiotici vengono abbandonati e non tutti i pazienti rispettano il trattamento, le condizioni igienico-sanitarie e il vivere soprattutto in ambienti promiscui, umidi e poveri fa sì che la tubercolosi si sviluppi. Il trattamento è lungo, costoso e i casi di guarigione sono ancora troppo pochi. La diagnosi non è sempre fatta e a questo corrisponde anche una somministrazione di un trattamento che non è corretto.

D. – I due nuovi farmaci hanno buone prospettive di riuscita nella battaglia contro questa malattia, ma il loro regime è ancora da testare?

R.  – Vanno testati meglio nella misura in cui devono essere offerti in combinazione con altri farmaci, bisogna vedere la risposta.

D. – Questa malattia riceve poca risonanza in rapporto all’ampiezza del fenomeno?

R. – Sì, assolutamente sì, perché si tratta di una malattia estremamente silenziosa, che si sviluppa in alcuni strati della popolazione particolarmente poveri. Sta avendo una recrudescenza anche in contesti più sviluppati. Non gli si dà la giusta attenzione. Basta pensare che per più di 50 anni si somministravano ai pazienti farmaci che erano sempre gli stessi, che erano stati scoperti più di 50 anni fa. Per lungo tempo, c’è stata una stagnazione anche nella ricerca e lo sviluppo, quindi questo è indicativo del fatto che non sia una malattia a cui viene data la giusta attenzione. Detto questo, quindi, la Giornata mondiale della tubercolosi si propone proprio di riportare l’attenzione su questo fenomeno, sulla malattia di per sé e sulla gravità de fatto che la tubercolosi multirestistente è una piaga sociale enorme.

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Bagnasco: corruzione in Italia ammorba l’aria. No al gender

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La condanna per le persecuzioni contro i cristiani, "barbare e studiate”, e l'appello all'Italia perchè reagisca a malaffare e corruzione diventati “regime”, sono stati i temi al centro della prolusione con cui il cardinale Angelo Bagnasco ha aperto ieri il Consiglio episcopale permanente della Cei. Il porporato ha invocato un’Europa più responsabile e attenta al bene comune di fronte al fenomeno delle migrazioni e ha rivendicato la libertà educativa contro ogni colonizzazione ideologica, come la teoria del "gender". Il servizio di Gabriella Ceraso: 

"Sarà un anno di grazia quello che ci aspetta, sulla scia della lieta sorpresa del Giubileo straordinario della Misericordia indetto dal Papa”. Un anno di conversione, di annuncio, di condivisione delle miserie umane.

Persecuzione è come bestemmia
E’ in questa prospettiva che il cardinale Angelo Bagnasco colloca la sua riflessione, interrogandosi innanzitutto sul perché delle persecuzioni contro le minoranze in particolare i cristiani che crescono e si incrudeliscono. E’ odio per l’occidente? “Turpe regolamento di conti interno” o “provocazione”, si chiede il porporato?:

“La ragione non può non condannare tanta barbare e studiata crudeltà. Invocare il nome di Dio per tagliare le gole è una bestemmia che grida al cospetto del cielo e della terra”.

Eppure, prosegue il cardinale Bagnasco, i martiri cristiani ci ricordano il “vero volto del cristianesimo”:

“Non sarà di certo una macabra bandiera nera issata al posto di un Crocifisso divelto che potrà uccidere l’amore di Cristo. Esso è ben piantato nel cuore dei suoi discepoli”.

E all’Europa che lascia andare i propri cittadini a arruolarsi nelle file del cosiddetto Stato islamico il presidente della Cei chiede un esame di coscienza perché, dice, “è svuotare la cultura dei propri valori spirituali, morali e antropologici” a esporre i cittadini a “suggestioni turpi”.

Corruzione avvelena la speranza
Poi, lo sguardo del porporato va all’Italia del neopresidente Mattarella. Come il Papa sabato scorso nella sua visita a Napoli, il cardinale punta il dito su malcostume e malaffare diventati “regime ramificato e intoccabile”:

“Come corpi in stato di corruzione ammorbano l’aria che si respira, avvelenano la speranza e indeboliscono le forze morali”.

Occorre reagire tutti, è l’invocazione del cardinale Bagnasco, come è altrettanto doveroso - e qui il porporato si rivolge al mondo della cultura e della scuola - risvegliare le coscienze e rivendicare la libertà di educazione di fronte alla “dilagante colonizzazione della teoria del gender” che punta a...

“...costruire delle persone fluide che pretendano che ogni loro desiderio si trasformi in bisogno e quindi diventi diritto. Individui fluidi per una società fluida e debole, una manipolazione da laboratorio dove inventori e manipolatori fanno parte di quella 'governance' mondiale che va oltre i governi eletti e che spesso rimanda a organizzazioni non governative, che come tali non esprimono nessuna volontà popolare”.

Nelle parole del porporato anche la piaga della disoccupazione e delle migrazioni nel Mediterraneo. ”Non basta ripianare i buchi”, ma occorre “investire”, ripete il cardinale, parlando delle eccellenze italiane. E di fronte alla tragedia di uomini, donne e bambini che continuano con speranza ad attraversare il mare, scappando da violenze, guerre e miserie, ricorda che occorre più integrazione e una presenza europea attenta al bene comune e non ai soli interessi nazionali.

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Comitato Art.26: reagire all'indottrinamento gender

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Una corruzione che inquina la società, una manipolazione da laboratorio di fronte alla quale reagire è doveroso rivendicando  il diritto di educare i propri figli. Così il card. Bagnasco ha denunciato ieri la diffusione della ideologia del gender nelle scuole, orchestrata da una “governance mondiale”  che va oltre i governi eletti e quindi non è rappresentativa dei popoli. Di qui l’appello ad un risveglio delle coscienze di fronte a quella che il Papa ha definito una “colonizzazione ideologica” e uno “sbaglio della mente umana”.  Il servizio è di Paolo Ondarza

La famiglia è sotto attacco, ha detto il Papa a Napoli. Ad insaputa dei genitori la teoria del gender viene introdotta nelle scuole da parte di associazioni gay lgbt, senza contraddittorio,  mascherata “dietro valori veri come parità, equità, lotta al bullismo e alla violenza e non discriminazione”, ha detto ieri il card. Bagnasco chiedendo ai genitori e alla società un risveglio delle coscienze. Franco Garritano è tra i fondatori del Comitato Art. 26 che, nato contro l’indottrinamento gender nelle scuole, riunisce insieme genitori e insegnanti:

R. – Siamo stati molto contenti di questa dichiarazione molto chiara ed esplicita, in quanto noi stessi – come Comitato Art. 26 – siamo nati proprio sull’onda di questa situazione: in una scuola dove mia figlia andava, erano entrati questi progetti e noi genitori ci siamo ribellati e ci siamo uniti con altre figure professionali, proprio per dare informazioni a tutte le famiglie di ciò che sta accadendo. Il progetto in atto è un progetto veramente malvagio che inquina – indipendentemente dalla religiosità delle persone – l’umanità stessa.

D. – La vostra è un’associazione, un Comitato aconfessionale…

R. – Sì. Noi siamo un Comitato aconfessionale e la battaglia che viene fatta è per la tutela da parte dei genitori dell’educazione dei figli, tanto è vero che il nome – “Comitato Art. 26” – nasce dalla Carta Universale dei diritti dell’uomo che all’articolo 26 sancisce l’obbligatorietà e l’esclusività dell’educazione da parte dei genitori e non da parte dello Stato, così come era accaduto – purtroppo – nei regimi precedenti nazisti, fascisti e comunisti.

D. – Un diritto questo che è doveroso rivendicare”, ha detto il cardinale Bagnasco. Lei faceva riferimento alla sua esperienza di padre, ma anche come fondatore del Comitato Art. 26 lei può testimoniare come riceviate ogni giorno testimonianze di genitori che denunciano, la promozione di questa “queer theory” nelle scuole, che propone un’identità fluida che abbatte il dato di natura “maschile” – “femminile” e promuove l’ideologia del gender …

R. – Quello che noi stiamo vedendo è che moltissimi genitori sono ignari di tutto questo e nel momento in cui invece si va a spiegare la teoria del gender e ciò che si  vuole insegnare ai ragazzi e ai bambini da 0 a 18 anni – perché è importante: noi siamo genitori e abbiamo la patria potestà di questi figli, siamo responsabili in tutto e per tutto di questi figli da 0 a 18 anni – tutti i genitori rimangono allarmati, tutti diventano partecipi e vogliono intervenire, chiedono come poter diffondere sempre più queste nozioni e questa conoscenza, proprio per contrastare questa ideologia.

D. – Cosa viene insegnato?

R. – Si educa – sotto la forma della tolleranza – ma si educa ad un’affettività distorta; sotto l’etichetta di “conoscere il proprio corpo”, si invitano i bambini da 0 a 4 anni a provare piacere utilizzando il proprio corpo, a scambiarsi eventualmente l’identità maschio-femmina attraverso travestimenti e trucchi … Ricerche scientifiche appropriate hanno dimostrato che gli effetti possono essere devastanti, per questi piccoli. Quando questo è capitato nella scuola di mia figlia e io, come genitore, sono rimasto allibito.

D. – Non è un errore parlare di sperimentazione ideologica …

R. -  Questo significa generare generazioni totalmente devastate!

D. – Come ha detto il cardinale Bagnasco, “la società è addormentata”: riscontra questo addormentamento delle coscienze?

R. – Assolutamente sì, un addormentamento delle coscienze che però, onestamente, non è voluto: i mass media di questo non parlano. Noi siamo molto attivi e sappiamo che altri genitori si stanno organizzando per essere sempre più attivi e chiediamo come mondo laico che la Chiesa sempre più possa denunciare queste situazioni.

D. – Il cardinale Bagnasco ha detto: “Sappiate, genitori, che noi pastori vi siamo e vi saremo sempre vicini”.

R. – Questo per noi è fondamentale e importante, perché una Chiesa forte è fatta da fedeli forti, se vogliamo metterla dal punto di vista religioso; ma è fatta anche da laici impegnati per la tutela dei minori.

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Sant'Egidio: cattolici e sciiti in dialogo per nuovi equilibri

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Rafforzare il rapporto di conoscenza reciproca e di amicizia con l’islam sciita, maggioritario in alcuni Paesi, come Iran e Iraq, ma soprattutto richiamare la responsabilità dei credenti tutti in un mondo globale e plurale. E’ il senso del Convegno organizzato a Roma dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla "Imam al-Khoei Foundation". Il servizio di Francesca Sabatinelli

Occorre accettare l’altro come fratello anche se non è compagno di religione. Le parole sono di Jawad Al-Khoei, il segretario generale dell’al-Kohei Institute, la Fondazione irachena legata alla massima autorità religiosa dell’Islam sciita, l’Ayatollah Ali Sistani. Ma il pensiero è condiviso: sono necessari il dialogo e la convivenza pacifica, e c’è bisogno di passi concreti. Il mondo sciita incontra il mondo cattolico, a Roma, e insieme richiamano i credenti alla loro “responsabilità in un mondo globale e plurale”, alla loro responsabilità per la “costruzione della pace in un momento storico attraversato da numerose crisi e conflitti sulle scenario internazionale”.

Martiri dell'ingiustizia
Sullo sfondo ci sono i drammi vissuti in Siria, in Iraq, nello Yemen, in molti altri Paesi, dove i martiri sono i cristiani ma anche i musulmani sciiti. Tra i motivi di conflitto “c’è l’ingiustizia – spiega il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso – il desiderio di eccesso di potere, l'ambizione per le risorse naturali, il commercio delle armi. Tuttavia, ci sono anche discriminazioni e persecuzioni di  tipo culturale". Ecco quindi che il ruolo dei responsabili religiosi deve essere quello di costruzione e protezione della pace. “Il discorso religioso – spiega il porporato – ha l'obbligo di favorire il rispetto reciproco e la pace sociale e questo ruolo diventa più importante in tempi di crisi". Occorre definire le cause dell’estremismo religioso e le modalità per curarlo, spiega ancora Al-Khoei:

“La situazione è difficile, ma dobbiamo cercare di essere realistici: la cosa ha bisogno di tempo. Non dobbiamo trattare la questione pensando a un miracolo, oppure a una soluzione magica. Ci sono sfide culturali, economiche, ci sono conflitti internazionali e politici: tutti fattori dietro l’estremismo e il terrorismo. In Medio Oriente, per esempio, bisogna iniziare con l’educazione, l’istruzione e la comunicazione. Per quanto riguarda noi, come religiosi, dobbiamo parlare anche nelle chiese, nelle moschee e nei luoghi di culto. Non dobbiamo dimenticare il conflitto tra le superpotenze e le potenze regionali che cercano di esercitare la loro influenza. Questo non è il ruolo dei religiosi, questo è il ruolo dei politici, dei leader del mondo. Ma questi sono veramente convinti di volere la pace, oppure vogliono diffondere il caos, i conflitti per i loro propri interessi?”

Islam in travaglio
Sono momenti di prova per le religioni. Per i cristiani in Pakistan, in Iraq, in Nigeria, ma anche per gli sciiti, dice Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio:

“E’ un cammino molto difficile, ma è un cammino importante: è un cammino tra due religioni molto diverse, che però vivono un momento molto difficile, vivono la sfida del martirio, della persecuzione, della mancanza di libertà religiosa in alcune parti della terra. Mondi che si debbono incontrare e, come dico, differenti, ma dove c’è anche un grande rispetto, non solo per la fede, ma per la ragione. L’islam è un mondo molto complesso. In questo momento, il mondo islamico è molto sfidato dalla guerra al proprio interno. Dobbiamo capire questa crisi che travaglia l’islam”.

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Calciopoli. Garancini: con reati prescritti non si fa giustizia

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Il malfunzionamento della giustizia continua a essere una delle maggiori problematiche in Italia. Dopo una lunga discussione è arrivata la sentenza sul processo Calciopoli: i reati ci sono ma scatta la prescrizione. La vicenda riaccende le polemiche sul malfunzionamento della giustizia in Italia, come confermato dal professore di Storia del Diritto Italiano all’Università di Milano, Gianfranco Garancini, al microfono di Anna Zizzi

R. – La prescrizione è una modalità per dare tempo prima agli inquirenti e poi ai giudici di fare bene il loro mestiere. Un processo che dura troppo e che quindi cade sotto la scure della prescrizione è un processo in cui i giudici hanno eccessivamente tirato in lungo le cose.

D. – E’ innegabile che a oggi la sfiducia sul funzionamento della giustizia nel nostro Paese sia molto forte. Questo ulteriore avvenimento che messaggio lancia?

R. – Il messaggio è che bisogna sempre stare molto attenti al bilanciamento degli interessi e dei valori e dei diritti che sono in campo. Da una parte, c’è certamente il diritto della società a difendersi dai criminali e pertanto di avere il tempo necessario per perseguirli, per fare le indagini e poi per fare i processi. Da quell’altra, c’è il diritto della società stessa di avere giudizi in tempo utile o di non avere un giudizio perché, come è successo con Calciopoli, il collegio giudicante dice: il reato c’è, ma non possiamo più perseguirlo perché è passato troppo tempo.

D. – Uno dei maggiori problemi è infatti il decorso dei processi esagerato. Quali sono le riforme che potrebbero essere fatte per uscire da questa condizione?

R. – Bisogna far funzionare la giustizia. Far funzionare la giustizia non vuol dire far funzionare i giudici: bisogna dare alla giustizia gli strumenti necessari, le risorse umane necessarie. Il nostro sistema di giustizia soffre di cronica mancanza di organici. Noi abbiamo, in Italia, percentuali di “scopertura di organici”, come si dice, altissime. Se non si fa in modo di fare funzionare la giustizia, ahinoi, la giustizia non funziona.

D. – Alla Camera si discute sulle modifiche al Codice penale in materia di prescrizione. Pensa che questo in qualche modo possa aiutare?

R. – Sarebbe come dire dare più tempo a un ammalato senza curarlo. Il problema è quello di dare le possibilità nei tempi riconosciuti dalla legge senza fare – come abbiamo fatto negli ultimi 20-30 anni – la "fisarmonica", di allungamento e di restringimento della prescrizione a seconda dei casi più o meno gravi o più o meno clamorosi, alla pubblica opinione. Il problema è far funzionare il meccanismo.

D. – Al tema molto dibattuto della giustizia si accosta nuovamente quello altrettanto discusso del calcio. Dopo il polverone iniziale, come sempre, tutto pare tornare alla normalità lasciando spazio a un clima di rassegnazione …

R. – In Italia, il calcio è uno degli elementi sociali più importanti. Gira una quantità enorme di quattrini. Anche il caso recente della squadra di Parma fa vedere come, in realtà, quei quattrini lì siano poco controllati o poco controllabili. Questo è il problema. C’è un’anomalia proprio nell’ambito dell’ordinamento, secondo me, cioè l’autonomia del diritto sportivo, l’autonomia della gestione delle problematiche interne dello sport da parte dello sport stesso.

D. – Anche il cardinale Bagnasco ha dichiarato che il malcostume e il malaffare sembrano diventati un regime talmente ramificato da essere intoccabile. Si può però reagire prendendo ognuno le proprie responsabilità …

R. – Il problema è che il malcostume e il malaffare sono in grado, oggi, di pagarsi l’impunità. E’ più facile eludere le leggi che applicarle.

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Cinema. "L'ultimo lupo" di Annaud: la natura è la star

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E' stato presentato al Festival del Film di Bari - e sarà da domani nelle sale italiane - "L'ultimo lupo" del regista francese Jean-Jacques Annaud, girato nella Mongolia interna cinese. Una splendida avventura in cui sono protagonisti un branco di lupi e la natura, messa in pericolo dall'ingordigia dell'uomo. Il servizio di Luca Pellegrini

Dopo "L'orso" e "Due fratelli", in cui erano protagonisti un cucciolo d'orso rimasto senza mamma e due tigrotti malesi legatissimi, Annaud torna a mettere al centro del suo cinema la natura, il più delle volte assediata dall'avidità e dalla crudeltà dell'uomo, che innesca ogni tentativo pur di soggiogarla e sfruttarla per i propri guadagni e i propri piaceri.

Equilibri millenari
Le avventure de "L'ultimo lupo" - tratto dal romanzo Il totem del lupo, un vero fenomeno letterario in Cina - accadono nel pieno della Rivoluzione culturale cinese - è il 1967 - quando due studenti di Pechino sono inviati tra una comunità di pastori mongoli per insegnare loro a leggere e scrivere. Chen Zhen scoprirà, accudendo un piccolo lupo, quanto sia lui a dover imparare e come la rottura di millenari equilibri possa avere esiti tragici. I cinesi, che pure avevano bandito uno dei più famosi film di Annaud, Sette anni in Tibet, ancora oggi vietato, lo hanno accolto con rispetto e amicizia, valutando sia uno dei pochi registi capaci di osservare la natura e girare in situazioni davvero delicate o impervie.

La natura, passione da sempre
Fin da piccolo, ha confessato, la sua passione era osservarla, studiarla. E rispettarla. Nel film celebra anche il delicato equilibrio tra tradizioni, natura e civiltà. Romperlo significa tradire le proprie radici culturali, offendere la creazione, stabilire leggi che guardano al profitto e non al bene dell'umanità. Per Annaud è stata una nuova esperienza che considera un premio alla carriera. "Mi sono sentito libero come il vento, i polmoni pieni di ossigeno - ha dichiarato. La mia squadra, tutto il cast - compresi i venticinque lupi - hanno condiviso con me il privilegio di essere coinvolti in un progetto raro e magnifico". Oggi i lupi, le vere star del film, vivono in un ranch vicino a Calgary, in Canada. E si emozionano ancora moltissimo quando vedono un camion salire dalla vallata, credendo che qualcuno li vada di nuovo a prendere per un altro giorno di riprese.

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Nella Chiesa e nel mondo



Cade Airbus tedesco su Alpi francesi, 150 i morti

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Tragedia nei cieli francesi. Un Airbus A320 della compagnia tedesca “Germanwings”, filiale di Lufthansa, si è schiantato sulle Alpi, nella regione di Haute Provence. Il relitto è stato localizzato su una zona impervia, a circa 2.700 metri nel massiccio dei Trois eveche's. Non vi sarebbero sopravvissuti tra le 150 persone a bordo. L’aereo effettuava un volo da Barcellona a Dusseldorf. Squadre di soccorso sono partite verso il luogo del disastro. Le cause dello schianto sono ancora ignote. Si pensa a una possibile avaria, fonti di sicurezza escludono al momento la possibilità di un atto terroristico. 

L’Airbus era decollato dall'aeroporto El Prat di Barcellona alle 8,57 del mattino, secondo un portavoce di Aena, l'ente di gestione aeroportuale spagnola. Aena ha confermato che la comunicazione col velivolo si è interrotta verso le 11,20. Nell'aeroporto barcellonese è stata convocata un'unità di crisi dalle autorità del governo e della prefettura, per dare informazioni e assistenza ai familiari del volo precipitato, riuniti al Terminal 2, dove ha uffici la compagnia Germanwings.

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Mons. Twal: due religiose canonizzate, segni per la Terra Santa

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“Le nostre due nuove sante sono lampade per i nostri passi. Attraverso il loro amore e la loro fede illuminano le loro famiglie religiose e i fedeli della Terra Santa, del Medio Oriente e del mondo intero”. E’ quanto scrive ai fedeli in un messaggio dal titolo “Nel percorso della santità” il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal in vista dell’imminente canonizzazione, il 17 maggio a Roma, di madre Maria Alfonsina e di suor Maria di Gesù Crocifisso, religiose della Terra Santa, fondatrice della congregazione delle Suore del Rosario la prima, e monaca carmelitana la seconda, fondatrice del Carmelo di Betlemme.

Canonizzazione segno di fede e speranza in Cristo
Per il patriarca la canonizzazione delle due religiose è un segno che ridona fede e speranza in Cristo. “Il Signore vuole riconfortare i nostri Paesi lacerati dai conflitti e dalle guerre e le nostre popolazioni che soffrono continue ingiustizie – scrive il patriarca Twal – le nostre due sante, attraverso la loro vita esemplare, il loro silenzio eloquente e il loro raccoglimento, la loro fedeltà malgrado la sofferenza e la loro abnegazione eroica nei sacrifici, ci donano una lezione magnifica”.

Le due future sante modelli da imitare ciascuno nel proprio stato di vita
Nel messaggio si ricorda poi che i santi sono modelli di cui imitare le virtù, le opere, ma anche la saggezza, che la santità consiste nel cercare la volontà di Dio, che essa è frutto non solo di sforzi umani ma anche della grazia divina e che la via per giungervi consiste nel rispondere alla propria vocazione, ciascuno nel proprio stato di vita. “Essere sano è semplicemente essere fedele alla propria vocazione cristiana” aggiunge il patriarca latino di Gerusalemme che sottolinea inoltre il fondamento sulla carità della santità. Infine il patriarca Twal esorta ad invocare l’intercessione di madre Maria Alfonsina e di suor Maria di Gesù Crocifisso, ad imitare la loro vita perché Dio conceda alla Terra Santa laici impegnati, ispirati da una fede viva, cosciente ed efficace, fede che possa rischiarare tutti i settori della vita, pubblici e privati, al fine di essere testimoni di Cristo nell’ambito familiare, professionale, politico, economico, culturale e sociale. (T.C.)

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Pakistan. Chiesa Lahore: rilasciare i cristiani innocenti arrestati

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“La situazione è tranquilla, ma a Youhanabad c’è ancora molta paura. I fedeli temono interventi e arresti della polizia ma anche eventuali vendette di gruppi musulmani. In ogni caso il ruolo delle forze di sicurezza a protezione del quartiere è molto positivo”: lo dice, in un colloquio con l’agenzia Fides, padre Francis Gulzar, parroco cattolico della chiesa di San Giovanni, colpita dall’attentato del 15 marzo insieme a una chiesa protestante. Padre Gulzar, che è anche vicario generale dell’arcidiocesi di Lahore, spiega all'agenzia Fides: “La polizia sta visionando i filmati e continuando ad arrestare alcuni cristiani di Youhanabad, per cercare i colpevoli del linciaggio di due musulmani seguito all’attentato”. 

La Chiesa chiede di rilasciare gli innocenti
Secondo fonti ufficiali della polizia di Lahore, i cristiani arrestati nei giorni subito dopo la strage, a causa di disordini e proteste, sono 35. Domenica scorsa, in un raid a Youhanabad, gli agenti hanno arrestato altre 40 persone. “E’ giusto che i responsabili siano individuati e condotti davanti alla giustizia. Ma, con i leader religiosi e politici, chiediamo di rilasciare gli innocenti, perchè è possibile che ve ne siano”.

La Chiesa condanna il linciaggio disumano
Il vicario di Lahore nota che “è molto triste quanto accaduto dopo la strage. I cristiani si sono macchiati di un crimine, la reazione violenta non è cristiana e non è evangelica. Non ci si può fare giustizia da soli. Gli uccisi , secondo i primi rapporti, potrebbero essere persone innocenti. E’ la prima volta nella storia del Pakistan che i cristiani, da vittime, si fanno carnefici. E’ stato un atto disumano che tutti condanniamo. Speriamo che sia sempre la giustizia a trionfare”.

Troppi delitti contri i cristiani ancora senza colpevoli
Tuttavia la giustizia deve essere uguale per tutti: “Molti si chiedono: dove sono gli assassini del ministro Shahbaz Bhatti? Dove sono i colpevoli della strage di Gojra, dove nel 2009 una folla di musulmani devastò un quartiere cristiano bruciando vivi otto fedeli tra bambini, donne e anziani? Dove sono i colpevoli del linciaggio dei coniugi cristiani arsi vivi a Kot Radha Kishan a novembre, 2014?” conclude il parroco. (P.A.)

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Vescovi francesi: l'avvenire si costruisce insieme

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“Non si può costruire il futuro del nostro Paese ripiegandosi su se stessi o mettendo in atto politiche di esclusione e di rigetto”. Lo ha detto questa mattina a Lourdes monsignor Georges Pontier, arcivescovo di Marsiglia e presidente della Conferenza episcopale francese, aprendo l’Assemblea plenaria dei vescovi. Nel suo discorso - riferisce l'agenzia Sir - mons. Pontier ha fatto subito riferimento agli attacchi terroristici di gennaio che hanno sconvolto Parigi con “le forze oscure della morte”. Un tale avvenimento - ha detto - chiede oggi a tutti una presa di “responsabilità” perché sia rispettata la legittimità delle “diversità che compongono la nostra società”. 

Manifestare gesti di perdono e riconciliazione
“Come non dire ai nostri concittadini ebrei - ha aggiunto - quanto la loro presenza ci è preziosa e cara? Come non dire ai nostri concittadini di confessione musulmana quanto sia importante continuare ad apprendere il vivere insieme in una società francese che ha dimostrato nella sua storia di essere capace di accogliere popoli venuti da lontano? Come non dire ai nostri concittadini cristiani di tenersi lontani da ogni paura, da ogni tentazione di ripiegamento su se stessi e manifestare per primi gesti di perdono e di riconciliazione?”. “La laicità dello Stato - ha quindi aggiunto il presidente dei vescovi francesi - è guardiano della libertà di coscienza, della libertà religiosa e di culto”. Essa veglia sulla “pace civile, permettendo il vivere insieme di cittadini dalle convinzioni diverse. Ma non può assicurare questa pace sorvegliando gli uni, domandando loro di rinunciare alla espressione delle loro convinzioni religiose permettendo poi ad altri di stigmatizzarle”. 

Scelte politiche ispirare al bene dei più poveri
Quanto avviene in Francia, è molto simile alle sfide che si vivono in Europa alle prese un po’ dappertutto con una nuova “ri-nazionalizzazione del pensiero caratterizzato da una sfiducia verso l’altro” e l’idea che per uscire dalla crisi è meglio stare “da soli”. “Ma l’avvenire - puntualizza l’arcivescovo di Marsiglia - si costruisce insieme e la salute di ogni membro è importante per tutti. È questa visione del bene comune, del bene di tutti coloro che vivono in Europa e in particolare dei più poveri che deve guidare le nostre scelte politiche”. 

Il riferimento all'astensionismo elettorale
È a questo punto che mons. Pontier fa riferimento alle elezioni dipartimentali e regionali di fine anno, puntando il dito contro l’astensionismo della prima tornata elettorale di domenica scorsa. “Votare - ha detto - è l’atto di partecipazione cittadina più elementare e necessaria. Astenersi non è un atto privo di conseguenze sul risultato di un‘elezione. In ogni caso, nulla ci assolve dalla nostra responsabilità individuale di cittadini”. (R.P.)

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Singapore: Chiesa piange la scomparsa di Lee Kuan Yew

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Il prossimo 27 marzo l’arcivescovo di Singapore, mons. William Goh Seng Chye, celebrerà una Messa in memoria di Lee Kuan Yew, fondatore della città-Stato, morto ieri in seguito a una grave forma di polmonite. In un messaggio di condoglianze rivolto al figlio Lee Hsien Loong (e Primo ministro della nazione) e alla sua famiglia - riferisce l'agenzia AsiaNews - il presule scrive: “La Chiesa cattolica di Singapore ed io siamo con voi in questo momento di dolore, mentre piangete la scomparsa del vostro amato padre”.

La gratitudine della Chiesa
“Singapore – prosegue mons. Goh Seng Chye – deve il suo status di nazione autonoma a lui. Come Stato, dobbiamo ringraziarlo per tutto quello che con orgoglio chiamiamo ‘Singapore’. Inoltre, ci sentiamo davvero benedetti per avere avuto un simile gigante come leader, in un momento in cui il Paese non contava nulla agli occhi del mondo”.

Messe di suffragio in tutte le chiese di Singapore
​I funerali di Stato si terranno il prossimo 29 marzo, al termine di una settimana di lutto nazionale. I leader mondiali hanno reso omaggio alla figura di Lee Kuan Yew, promotore da un lato dei “valori asiatici” che hanno permesso l’indipendenza e lo sviluppo di Singapore, a fronte di un potere retto con autoritarismo, repressione e pene corporali, poi sconfinato in una dittatura di fatto. Oltre alla Messa che il presule celebrerà nella chiesa di St. Joseph, “tutte le chiese e le comunità cattoliche offriranno preghiere per il riposo della sua anima e per la vostra famiglia, in questo momento di lutto”. (R.P.)

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Cina: le comunità cattoliche verso la Pasqua

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Come tutti gli anni, i cattolici cinesi stanno vivendo il loro cammino spirituale verso la Pasqua con diverse iniziative, anche di carattere ecumenico. Le comunità organizzano il ritiro spirituale di questo periodo secondo l’età dei fedeli o le esigenze dell’orario di lavoro.

Incontri e ritiri a Pechino e Xuan Hua
Secondo le informazioni raccolte dall’agenzia Fides, a Pechino anche alcuni missionari stranieri hanno guidato la direzione spirituale quaresimale. La parrocchia della diocesi di Xuan Hua ha organizzato il ritiro spirituale per i fedeli anziani dal 16 al 20 marzo. Circa 130 fedeli hanno ascoltato i sacerdoti e le suore che hanno spiegato il significato dell’Anno della vita consacrata, hanno illustrato il tema della Famiglia, che sarà discusso dal Sinodo dei vescovi di ottobre, si sono soffermati sull’evangelizzazione e sulla trasmissione della fede ai giovani di oggi.

Mongolia: visita alle comunità sperdute senza sacerdote
Nella Mongolia interna, come tutti gli anni in vista del Pasqua, sacerdoti, suore e seminaristi si sono messi in cammino per raggiungere le comunità più sperdute, che non hanno la possibilà di avere un sacerdote residente e nemmeno periodicamente durante l’anno, per aiutarle a prepararsi alla Pasqua. Anche due suore della congregazione delle Figlie del Sacro Cuore di Nostra Signora di Bao Tou, che hanno costruito in Mongolia una Casa per gli anziani e tante altre opere pastorali con le loro mani, senza chiedere aiuti economici, si sono recate nelle Comunità ecclesiali di base per portare l’Amore di Dio a tutti in vista della Pasqua.

A Hong Kong Via Crucis ecumenica
Nella diocesi di Hong Kong diverse confessioni cristiane hanno partecipato insieme ad una “Via Crucis ecumenica” il 14 marzo. Centinaia di fedeli hanno pregato per gli abitanti di Hong Kong, per i poveri, per i cristiani perseguitati, per l’unità dei cristiani. Ogni stazione è stata commentata da un prete cattolico o da un pastore protestante. Il corteo ha fatto tappa in diverse chiese cattoliche, protestanti e anglicane. (N.Z.)

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Sud Sudan. Cause della guerra civile: corruzione e inesperienza

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“Parlare di conflitti etnici è troppo semplicistico e offensivo per gente che come me proviene da quell’area. Spesso i conflitti africani sono ridotti a scontri tra clan e tribù. Non è così semplice” afferma mons. Rudolf Deng Majak, vescovo di Wau, nel Sud Sudan in un’intervista all’agenzia Canaa ripresa dalla Fides, sul conflitto in corso nel suo Paese tra le due fazioni del partito di governo, l’Splm (Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese), rispettivamente guidate dal Presidente Salva Kiir e dall’ex vice-Presidente Riek Machar.

L'inesperienza della leadership
Mons. Majak afferma che il conflitto deriva piuttosto dall’inesperienza della leadership, perché questa “è qualcosa che si impara” con l’esperienza e dai propri errori. Il vescovo di Wau sottolinea inoltre che “le comunità sud-sudanesi non hanno mai avuto l’opportunità di vivere insieme come nazione. È vero abbiamo sofferto insieme, ma non abbiamo approfondito la nostra formazione come nazione. Ci vuole tempo, sia a livello di leadership che di popolo”.
In effetti, nota il vescovo, “per la prima volta nella sua storia, il popolo del Sud Sudan ha un proprio Parlamento, un governo sovrano e un proprio esercito. E occorre tempo perché queste grandi responsabilità maturino, permettendo lo sviluppo di una comunità pacifica, stabile e prospera”.

Il dramma della corruzione
Mons. Majak ricorda infine che il conflitto civile, esploso nel dicembre 2013 (il Sud Sudan si è proclamato indipendente nel luglio 2011), deriva anche dalla corruzione, in parte alimentata dalla povertà, perché “la gente stava sollevandosi dalle ceneri e dalla polvere della distruzione della guerra civile (quella per l’indipendenza da Khartoum, ndr.)”. Per questo motivo il vescovo di Wau ritiene che le sanzioni economiche che l’Onu vuole imporre ai responsabili della guerra civile siano inutili, perché le persone prese di mira “continueranno ad accumulare ricchezze a modo loro”, mentre ad essere colpite saranno le popolazioni innocenti. (L.M.)

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Brasile: no dei vescovi a riduzione maggiore età a fini penali

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La Chiesa brasiliana è fermamente contraria alla riduzione della maggiore età ai fini penali da 18 a 16 anni. Un emendamento costituzionale in tal senso, la Pec 171, è attualmente all’esame della Camera dei Deputati del Congresso. Secondo i promotori del progetto di riforma del Codice Penale, essa si rende necessaria, perché la maturità e quindi la piena capacità di intendere e di volere degli adolescenti oggi si raggiunge prima, grazie anche al maggiore accesso all’informazione.

Giovani brasiliani più vittime che responsabili di violenze
Di diverso avviso le organizzazioni per i diritti umani e i movimenti della società civile, tra i quali in prima fila la Conferenza episcopale (Cnbb), per i quali il vero problema oggi non è la violenza dei minori in Brasile, quanto piuttosto quella contro i minori. Basti pensare che gli omicidi che hanno come protagonisti minorenni in Brasile rappresentano appena lo 0,1% del totale, mentre gli adolescenti uccisi sono il 36%.

La riduzione della maggiore età a fini penali non è la soluzione
Per la Chiesa brasiliana la riduzione dell'età minima per essere perseguibile penalmente e l’allungamento della detenzione dei minori che hanno commesso reati non sono la soluzione al problema della violenza nella società brasiliana. E’ quanto afferma una dichiarazione pubblicata dalla Caritas locale, insieme al Dipartimento dei vescovi per la pastorale dei minori e al Fronte per la difesa dei diritti dei bambini. “La cultura della pace non si ottiene per magia con questi mezzi”, afferma il testo, sottolineando che di fatto quello che manca è l’effettiva applicazione dello Statuto per il bambino e l’adolescente (Eca) in Brasile.

Occorre combattere le cause sociali della violenza giovanile
Si tratta quindi di promuovere una società più giusta e di combattere alla radice le cause della violenza giovanile: la disoccupazione, l’ignoranza, la povertà , l’emarginazione che colpiscono tanti giovani brasiliani. Tutto questo – afferma la Caritas brasiliana - chiama in causa le responsabilità dello Stato, che deve sostenere i giovani e le famiglie più svantaggiate. “Quando i diritti dei minori sono rispettati – si sottolinea - è più difficile che essi violino i diritti umani degli altri”. (L.Z.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 83

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