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Sommario del 27/03/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa invia il card. Filoni in Iraq: a Pasqua sarà tra i rifugiati

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Papa Francesco non dimentica le tante famiglie cristiane e di altri gruppi dell’Iraq vittime dell’espulsione dalle proprie case e dai propri villaggi, in particolare nella città di Mosul e nella piana di Ninive, molte delle quali si erano rifugiate nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. “Il Papa - riferisce un comunicato della Sala Stampa vaticana - prega per loro e auspica che possano ritornare e riprendere la propria vita nelle terre e nei luoghi dove, per centinaia di anni, hanno vissuto e intessuto relazioni di buona convivenza con tutti. Nella Settimana Santa ormai prossima, queste famiglie condividono con Cristo l’ingiusta violenza di cui sono fatte vittime, e partecipano al dolore di Cristo stesso”. Nella Settimana Santa il cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, si recherà a nome del Papa in Iraq – dove era stato già nell’agosto dell’anno scorso – per portare a queste famiglie la benedizione e un aiuto concreto di Francesco. Il Papa – afferma il comunicato - non volendo dimenticare anche la sofferenza delle famiglie del nord della Nigeria, ha inviato pure ad esse, tramite la locale Conferenza Episcopale, “un segno di uguale solidarietà”. Ma sul significato di questa nuova missione in terra irachena, ascoltiamo il cardinale Filoni al microfono di Sergio Centofanti

R. - Diciamo che è un prolungamento della precedente, cioè quando una persona è malata non la visitiamo solo una volta e poi ce ne dimentichiamo. In una situazione così delicata e difficile, manifestare ancora una volta apertamente la solidarietà, essere vicini in un momento come la Settimana Santa, la Pasqua, non può che essere di aiuto, di sollievo, di incoraggiamento  per le famiglie e per le popolazioni.

D. - Qual è oggi la situazione di questi rifugiati?

R. - L’arcivescovo mi ha detto che - in alcuni casi - sono stati meglio sistemati rispetto al passato; per alcuni è stato trovato un alloggio in affitto - magari in un appartamento dove convivono due o tre famiglie a secondo della grandezza del  locale - altri hanno trovato rifugio in una tendopoli,  altri ancora sono in una situazione più precaria soprattutto nel Nord del Kurdistan dove c’è stata meno disponibilità di alloggi. Lì, edifici, pubblici, scuole riescono a dare un minimo di riparo per questa gente, sapendo che l’inverno è stato rigido, oltretutto ha nevicato. Quindi, è chiaro che un rifugio era strettamente necessario e obbligatorio.

D. - Che cosa le è rimasto nel cuore della missione dell’agosto scorso?

R. - Tutto. Per questo la ripetiamo e sono contento che il Santo Padre mi mandi lì anche con la sua preghiera.

D. – C’è un’immagine particolare che si porterà con sé?

R. - Voglio dire che l’immagine particolare forse questa volta potrebbe essere proprio questa: oltre la solidarietà del Papa, e ovviamente anche la mia, questa volta per la Pasqua abbiamo voluto coinvolgere la diocesi di Roma, la diocesi del Papa. Per cui attraverso il cardinale vicario di Roma, abbiamo chiesto se le famiglie volessero in qualche modo manifestare la loro vicinanza alle famiglie irachene in difficoltà. Con molta generosità, tutti hanno voluto manifestare questa vicinanza. Allora abbiamo pensato a come fare ciò e così le famiglie irachene riceveranno una colomba pasquale che è un po’ il simbolo della pace, ma al tempo stesso un dolce con il quale ritrovarsi come famiglia. Mi pare bella questa condivisione di famiglia.

D. - Che cosa si può fare per queste famiglie che hanno perso tutto? Che cosa può fare la comunità internazionale?

R. - Credo che la comunità internazionale stia già facendo in modo che le persone possano ritornare in quei villaggi dove ancora non è possibile rientrare. Poi un giorno ci sarà il problema della ricostruzione. Intanto questa solidarietà mi pare bella e fattiva.

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La carezza del Papa ai 150 senzatetto incontrati in Sistina

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“Una piccola carezza”: così Papa Francesco ha definito la visita ai Musei Vaticani, offerta dall’Elemosineria Apostolica a 150 senzatetto che poi ha incontrato a sorpresa nella Cappella Sistina. Un momento di grande commozione per i poveri che al termine della giornata hanno cenato nel punto di ristoro dei musei. C’era per noi Benedetta Capelli

“Benvenuti”. Papa Francesco accoglie così, in Cappella Sistina, i 150 senzatetto che per la prima volta hanno visitato i Musei Vaticani. E’ un incontro inatteso, personale, senza immagini ufficiali, bagnato anche dalle lacrime di commozione dei poveri che davvero non pensavano di poter ricevere la “carezza” del Papa. E’ lo stesso Francesco a definire così l’abbraccio caloroso con i suoi ospiti sotto le volte della Sistina, “la casa di tutti, la vostra casa – continua – dove le porte sono sempre aperte per tutti”. E ringrazia per “la testimonianza di pazienza” che è la loro vita. Un pensiero lo rivolge pure all’Elemosiniere, mons. Konrad Krajewski: “vi ama tanto”, dice il Papa, e i poveri seduti sulle sedie rosse, usate per le cerimonie ufficiali, rispondono che lo sanno e lo sentono. “Ho bisogno di preghiere di persone come voi” è la sua richiesta alla quale segue la benedizione. “Il Signore vi custodisca, vi aiuti nel cammino della vita, vi faccia sentire il suo amore e la tenerezza di Padre”. L’incontro si chiude con il saluto personale del Papa ad ogni povero, la carezza si fa gesto concreto, vicinanza, senso di prossimità. Il Padre Nostro recitato tutti insieme è l’ultimo atto di ringraziamento per il dono ricevuto: un pomeriggio passato tra il Museo delle Carrozze, il Cortile della Pigna, la Galleria degli Arazzi e delle carte geografiche; una parentesi di bellezza tra le difficoltà di una vita che però fa scoprire il valore della solidarietà e dell’affetto per gli altri. E’ la storia di Massimo, di Sergio, di Motiur e di tanti senza nome:

Massimo
R. - È come andare in paradiso… siamo sempre lì no? C’è il paradiso, c’è la fede che poi non pesa, perché non è una valigia che devi portarti dietro! Trilussa diceva: “Nun è che te costringe nessuno; nun te devi domandà né li perché, né li chissà e né li come”. Ecco, detto alla romana…

D. – Lei che storia ha?

R. – Ho fatto più danni io a me stesso, che solo Lui lo sa! La separazione, i figli…  Lasciamo perdere, lasciamo perdere! A settant’anni sto qui a Sant’Egidio… Si vede che è un percorso che dovevo fare. Io poi non ho titoli, non ho studiato: io ho il dizionario della vita… quello ho e basta!

D. – Oggi è contento?

R. – Felice no, sereno. La serenità, non la felicità: la serenità! La serenità ti porta equilibrio, ti fa affrontare un sacco di cose tranquillamente, anche i problemi più difficili… Li chiamano difficili… Ma se tu li affronti con serenità, invece di andarti ad ubriacare o a drogare o a fare altri danni, perché il discorso è che non li riesci ad affrontare… E basta! Sereno, sereno!  Papa Francesco dà la serenità, fa passare pure la depressione questo Papa: chi ha la depressione gliela fa passare! Lo capiscono tutti, dalla A alla Z, tutti! Il Papa è formidabile!

Nelly
D. – Quanti anni hai?

R. – 18. Sono tanto felice di vedere cose che non ho mai visto. Noi siamo nel Convento di Ripa, dei frati francescani. Siamo venuti tutti qua con la comunità. Mi trovo bene là, è un posto familiare… Stiamo bene, c’è amore come tra fratelli e sorelle. Non avevo un posto dove stare e l’assistente sociale mi ha portato là. Due o tre giorni fa sono venuta a dare i libricini del Vangelo e a vedere Papa Francesco. Penso che sia un uomo buono.

Motiur
R. - Mi chiamo Motiur, ho 21 anni. Sono arrivato in Italia da quasi due anni.

D. - Da quale Paese sei arrivato?

R. - Dal Bangladesh. Sono venuto qui per studiare. Ora vivo con i frati francescani.

D. - Non hai nessuno qui? Sei venuto da solo?

R. - Non ho nessuno qui. Volevo cambiare, volevo studiare e trovare lavoro.

D. - Che cosa ti aspetti dall’Italia?

R. - Quando sono arrivato in Italia ho cominciato a studiare. Dopo lo terza media volevo lavorare ma ancora non ho trovato lavoro. Prima di arrivare qui sono andato in un centro di accoglienza dove sono rimasto per quasi un anno.

D. - Qual è il tuo sogno? Dove vuoi arrivare?

R. - Voglio trovare un lavoro.

D. - Papa Francesco ti ha portato nei Musei Vaticani. Cosa ne pensi?

R. - Ci ha invitato a visitare i musei. Questa è una cosa bella. Mi piace tanto. Non conoscevo la storia di Roma prima di arrivare qui. Ora la conosco un po’.

Sergio
R. - Sono a Roma dal 1999. Faccio la vita del pensionato; sono un anziano e ogni tanto mi fa piacere dare una mano, aiutare gli altri attraverso la Comunità di Sant’Egidio. Quando posso lo faccio volentieri. Avevo un caratteraccio e mi sono detto: “Così non può andare avanti. Come si fa?”. Allora per cercare di migliorarlo, mi sono messo a fare questo servizio a contatto con la gente, con centomila problematiche. Piano piano sono migliorato.

D. – Secondo lei che significato ha per le persone di Sant’Egidio, per i ragazzi che voi accogliete, fare un giro all’interno dei Musei Vaticani?

R. – Innanzitutto è un giorno che ci riconcilia con noi stessi, perché quando si viene qui e si respira quest'aria succede qualcosa di indescrivibile, non ci sono parole. Si respira un’aria di pace, di tranquillità. Quindi sono particolarmente felice. Se fosse possibile vorrei che questa iniziativa fosse riproposta in altre occasioni perché la gente pensa che siamo tutti sbandati … Invece c’è gente che apprezza molto queste cose e le viene a vedere con molto interesse e si vede dalle domande che fanno.

Rodolfo
R. – Non sono mai riuscito a vedere il Papa da vicino, neanche quando facevamo servizio qui a San Pietro. Questa volta, invece, sono veramente riuscito a vederlo “a tu per tu”. Sono emozionatissimo, anche perché è un Papa davvero… Pregherò per lui e per tutte le persone che sono qua, perché ne hanno proprio bisogno.

D. – Qual è la tua esperienza di volontario?

R. – Io ho cominciato stando negli scout e poi da lì sono passato alla Protezione Civile, avendo visto che avevano bisogno di persone. Mi sono buttato, pensando sempre di fare qualcosa di buono. E così sono riuscito. Mi piace, infatti, aiutare la gente, soprattutto da quando ho perso mia moglie. Anche lei era nella Protezione Civile. Ora sono tre anni che l’ho perduta, banalmente, e mi sento davvero perso. Se non fossi entrato da loro, penso che avrei fatto una brutta fine. Invece, visto che a lei piaceva aiutare gli altri, ora sto facendo quello che lei voleva.

La gioia e la felicità la si vede anche negli occhi di mons. Konrad Krajewski e del capo ufficio dell’Elemosineria, mons. Diego Ravelli:

R. – Vedere la gioia di queste persone. Adesso che siamo qui a conclusione della giornata, è veramente bello vedere il sorriso e quell’amore che hanno ricevuto durante l’incontro con il Papa. Escono davvero con il cuore pieno di gioia. Questa per noi è la cosa più bella; gli occhi aperti verso qualcosa di meraviglioso che forse non avrebbero mai potuto vedere se non proprio in questa occasione, con questa possibilità che gli è stata data. Per loro era davvero bello. Come dicevo, la gioia negli occhi e la bellezza di tante cose che sono anche loro: sono di tutti.

Toccante la testimonianza di Carla. Il dolore della vita che si scioglie nell’essere la madre di tanti giovani provati dalle esperienze più dure:

R. – Sono in convento, perché ho avuto un problema: tre anni fa, mi è scoppiata una bombola e tutta mia la famiglia è morta. Dopo questo incidente ho comprato una casa, che adesso è pericolante… Sto per strada. Sono stata accolta al convento dei francescani a Valmontone.

D. – In che modo è cambiata la sua vita oggi, anche circondata da tutti questi ragazzi?

R. – Loro mi chiamano tutti “mamma”, perché io sono la più anziana. C’è chi viene dal Libano, chi dalla Tunisia… Questo mi fa piacere. Mi chiamano tutti “mamma Carla”. Tanti dolori, tante sofferenze…

D. – Però il fatto di avere così tanti ragazzi intorno a lei l’ha aiutata?

R. – Mi hanno aiutato tanto, non sono caduta in depressione, sempre grazie al fatto che mi chiamano tutti “mamma Carla” e poi al convento sto bene. Ringraziamo Dio, sono contenta per tutti.

D. – Come ha accolto questa idea di Papa Francesco di farvi visitare i Musei Vaticani?

R. – Bellissima! È stata una cosa bella, perché non avevo mai visto una cosa del genere. Adesso ho avuto l’occasione di vederli. Mi sono piaciuti molto e sono molto contenta!

D. – Che pensa di questo Papa?

R. – Che è bravo, è umile, ci sa fare con i poveri: c’è tanta gente che li scansa…tanta!

D. – Come si vede tra qualche anno: in una sua casa o continuerà a vivere lì?

R. – Non lo so, però so che un domani, se dovessi riavere casa, quando muoio, la donerò al convento.

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18 aprile Papa con Mattarella, 23 settembre con Obama in Usa

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Per la prima volta, il 18 aprile prossimo, il Papa riceverà il presidente della repubblica italiana, Sergio Mattarella, che si recherà in Vaticano in visita ufficiale, alle ore10. A darne notizia è stato il Quirinale, con la successiva conferma della Sala Stampa della Santa Sede. Sarà il loro primo incontro, seguito da quello tra Mattarella e il segretario di Stato, cardinale Parolin.

Con Obama alla Casa Bianca
Francesco sarà invece ricevuto alla Casa Bianca dal presidente Usa, Barack Obama, il 23 settembre prossimo, in occasione del suo viaggio negli Stati Uniti. Lo ha reso noto Washington, spiegando che sarà l’occasione per riprendere la discussione tra Obama e il Papa di temi già affrontati nel colloquio avuto in Vaticano nel marzo del 2014.

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Tweet: la vita è un tesoro prezioso, doniamola agli altri

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Il Papa ha lanciato oggi un nuovo tweet dall’account @Pontifex: “La vita è un tesoro prezioso, ma lo scopriamo solo se la doniamo agli altri”.

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Cantalamessa: chance di grazia per cristiani di Occidente e Oriente

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Padre Raniero Cantalamessa ha concluso in Vaticano il ciclo delle prediche quaresimali al Papa e alla Curia Romana. Parlando della differente visione del mistero della salvezza tra Oriente e Occidente, il predicatore pontificio ha affermato che grazie al maggiore dialogo con gli ortodossi oggi i cattolici hanno una “chance”: di riequilibrare la loro percezione del cristianesimo, principalmente come strada di redenzione dal peccato, nel senso di una esperienza “bella ed esaltante” dono dello Spirito. Il servizio di Alessandro De Carolis

Che cos’è il cristianesimo, soprattutto una strada di pienezza di grazia o principalmente di espiazione dei peccati? Cosa ha portato la redenzione di Cristo all’uomo: il dono dello Spirito o il riscatto dalla morte? Ovviamente le une e gli altri, ma a rileggere duemila anni di storia cristiana le cose non sono così semplici.

Le due letture della Salvezza
Poste di fronte alla comprensione del Mistero della salvezza, Chiesa occidentale e Chiesa orientale hanno dato da sempre risalto a due aspetti in certo modo opposti, anche se entrambi veri, e su questa diversa accentuazione padre Cantalamessa ha imperniato la sua ultima predica di Quaresima. Punto di partenza, la citazione di un teologo francese, Bardy, che sintetizza le due posizioni:

“Lo scopo della vita per i cristiani greci è la divinizzazione, quello dei cristiani d’Occidente è l’acquisizione della santità (…). Il Verbo si è fatto carne, secondo i greci, per restituire all’uomo la somiglianza con Dio perduta in Adamo e per divinizzarlo. Secondo i latini, egli si è fatto uomo per redimere l’umanità (…) e per pagare il debito dovuto alla giustizia di Dio”.

L’Incarnazione tra “possibilità e “necessità”
Nei Vangeli e in San Paolo, osserva padre Cantalamessa, il Verbo che porta la luce di Dio e l’Agnello che toglie i peccati del mondo sono aspetti entrambi presenti, peraltro con varie sottolineature. Il discorso cambia con le interpretazioni successive, offerte dai Padri della Chiesa e qui in sostanza padre Cantalamessa rileva che dove le “teorie della salvezza” appaiono nettamente ripartite tra Oriente e Occidente sono in particolare sul Battesimo, che per gli orientali più che togliere il peccato originale ha lo scopo di ripristinare nell’uomo “l’immagine di Dio perduta”, mentre per la Chiesa cattolica – complice la lotta di Sant’Agostino con i pelagiani – ha finito per prevalere “l’aspetto di preservazione e di guarigione dal peccato”. In ogni caso, ha argomentato padre Cantalamessa”, molto superficiale sarebbe attribuire all’Oriente “una visione più ottimistica e positiva dell’uomo e della salvezza” e una “più pessimistica” all’Occidente:

“Vorrei mostrare come, anche in questo caso, la regola d’oro, nel dialogo tra Oriente e Occidente, non è quella dell’aut–aut, ma quella dell’et–et. Se la dottrina orientale, con la sua altissima idea della grandezza e dignità dell’uomo come immagine di  Dio, ha messo in luce la possibilità dell’Incarnazione, la dottrina occidentale, con l’insistenza sul peccato e sulla miseria dell’uomo, ne ha messo in luce la necessità (...) Per Agostino, Sant’Anselmo, Lutero, l’insistenza sulla gravità del peccato era un modo diverso per far risaltare la grandezza del rimedio procurato da Cristo. Accentuavano ‘l’abbondanza del peccato’, per esaltare ‘la sovrabbondanza della grazia’”.

Corrente di grazia
E una “corrente di grazia” di tipo “epocale" è quella che padre Cantalamessa individua nel “movimento pentecostale” e nei “diversi rinnovamenti carismatici da esso derivati”, che sta coinvolgendo da “oltre un secolo” centinaia di milioni di persone all’interno di “tutte le Chiese d’Occidente”:

“Non è, in realtà, un movimento nel senso corrente di questo termine. Non ha un fondatore, una regola, una spiritualità propria; neppure possiede delle strutture di governo, ma solo di coordinamento e di servizio. È, appunto, una corrente di grazia che dovrebbe diffondersi in tutta la Chiesa e disperdersi in essa come una scarica elettrica nella massa, per poi, al limite, scomparire come fenomeno a se stante”.

Cristianesimo gioioso e contagioso
Si tratta di un fenomeno, sostiene il predicatore pontificio, che “non è possibile ignorare più a lungo, o considerare marginale”, che anche Papi recenti – come Paolo VI – hanno considerato “una chance per la Chiesa e per il mondo” e sulla cui bontà lo stesso padre Cantalamessa confida di essersi ricreduto 38 anni fa, dopo un iniziale rifiuto:

“È un cristianesimo gioioso, contagioso, vissuto nella potenza e nell’unzione dello Spirito Santo, che non ha nulla del tetro pessimismo che Nietzsche rimproverava ad esso (...) Non si tratta di aderire a questo ‘movimento’ – o ad alcun movimento – ma di aprirsi all’azione dello Spirito, in qualsiasi stato di vita uno si trovi. Lo Spirito Santo non è monopolio di nessuno, tanto meno del movimento pentecostale e carismatico. L’importante è non rimanere fuori dalla corrente di grazia che attraversa, sotto diverse forme, la cristianità intera; vedere in essa una iniziativa di Dio e una chance per la Chiesa, e non una minaccia o una infiltrazione estranea al cattolicesimo”.

Grazie agli ortodossi
In definitiva, conclude padre Cantalamessa, la chance che tutto ciò rappresenta per la Chiesa Cattolica sta nel poter “rimontare la china e restituire alla salvezza cristiana il ricco ed esaltante contenuto positivo, riassunto nel dono dello Spirito Santo”:

“Lasciamo ai fratelli ortodossi di discernere se questa corrente di grazia è destinata soltanto a noi, Chiese dell’occidente e nate da esse, oppure se una nuova Pentecoste è ciò di cui anche l’oriente cristiano, per altro verso, ha bisogno. Nel frattempo, non possiamo fare a meno di ringraziarli per aver coltivato e tenacemente difeso lungo i secoli un ideale di vita cristiana bello ed esaltante, di cui tutta la cristianità ha beneficiato, anche attraverso lo strumento silenzioso dell’icona”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Anche noi custodi: le meditazioni per la Via Crucis che sarà presieduta da Papa Francesco nella sera di Venerdì santo.

Solidarietà del Papa e della diocesi di Roma per le famiglie irachene e nigeriane.

Come una piccola carezza: il Pontefice incontra centocinquanta clochard nella cappella Sistina.

Per il rispetto dei bambini vittime della guerra: intervento della Santa Sede sulla situazione in Siria.

Pierluigi Natalia sulla Nigeria al voto, con la minaccia di Boko Haram.

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Oggi in Primo Piano



Crisi in Yemen. Il presidente Hadi arrivato in Egitto

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Circa 40 civili sono rimasti uccisi nelle ultime 36 ore in Yemen per i raid aerei della coalizione sunnita guidata dalla Arabia Saudita. Si combatte contro i ribelli sciiti Houthi che hanno costretto alla fuga, dalla città di Aden, il presidente Mansur Hadi. Il capo di Stato dopo l’Oman è arrivato a Sharm el Sheik, in Egitto, dove domani prenderà parte al summit dei Paesi arabi. Massimiliano Menichetti ha intervistato Giuseppe Dentice, dell’Istituto affari internazionali: 

R. – Lo Yemen è in una situazione di instabilità dettata da diversi piani paralleli. A scontrarsi sono situazioni diverse: non vi è solo la classica e ormai nota dimensione tra sunnismo e sciismo che si confrontano, ma vi sono anche situazioni diverse legate a fattori clanico-tribali, a situazioni d’instabilità legate a fattori anche terroristici – alla luce anche degli attentati di venerdì scorso di questa cellula affiliata allo Stato islamico – nonché rivendicazioni legate a movimenti indipendentisti come quelli di Aden, che richiamano un po’ le situazioni degli anni Sessanta tra Yemen del nord e Yemen del sud. E infine, e questo non è un fattore minore, vi sono confronti duri tra uomini legati al governo legittimo del presidente Hadi e forze legate invece all’ex presidente Saleh, che viene ritenuto in un certo senso una sorta di deus ex machina della situazione di instabilità, che ha aiutato – in questo senso – a finanziare, ad armare o comunque ad agevolare strategicamente l’avanzata degli houthi, prima nella capitale Sana’a e poi ad Aden.

D. – In questo quadro, è forte la presenza internazionale: gli Usa forniscono supporto logistico, ma è l’Arabia Saudita a guidare la coalizione contro i ribelli…

R. – L’Arabia Saudita da sempre considera lo Yemen il proprio “cortile di casa”. Quindi, un intervento saudita – in un certo senso mascherato dietro questa coalizione di 10 Stati, alla quale partecipa anche l’Egitto, altro attore non secondario in questa situazione – ricopre un ruolo naturale. L’Arabia Saudita, che è il finanziatore e anche lo "sponsor" politico dell’Egitto, e lo stesso Egitto si confrontano in Yemen contro il "soft power" iraniano. Quindi, il ruolo dell’Arabia Saudita non è un ruolo di novità in questo senso, ma è un ruolo tradizionale nel quale punta a dimostrare l’egemonia all’interno dell’area di propria afferenza che in questo caso è il Golfo. E lo Yemen è nel cuore del Golfo.

D. – L’Arabia Saudita gioca un ruolo fondamentale anche per quanto riguarda altri conflitti che sono aperti come in Iraq e Siria…

R. – Non solo Iraq e Siria, ma anche, appunto, in Libano dove comunque si confrontano milizie sunnite e sciite: milizie sciite come quelle di hezbollah, appoggiate dall’Iran, e milizie sunnite appoggiate dal governo che è finanziato a sua volta dall’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita – tanto per fare un esempio – ha finanziato un progetto da tre miliardi di dollari per armare e ammodernare gli armamenti dell’esercito libanese. Lo Yemen è solo una pedina di questo grande scacchiere di “guerre per procura” che si combattano ormai in Medio Oriente.

D. – E’ necessario creare un tavolo di confronto per ricomporre le diversità? Ci sono stati appelli in questo senso, anche se poi sono seguite le bombe…

R. – Dire che la risposta militare è la risposta più ovvia è evidente, però non è la soluzione. In questo caso, l’Arabia Saudita cosa può fare? E la sua colazione? Contenere la minaccia? Benissimo! Però, fra 1-2 anni il rischio è quello che ci ritroviamo esattamente la stessa situazione. L’unica soluzione è quella di tornare all’antica strada della diplomazia: il dialogo fra tutte le parti. Bisogna creare le condizioni per un dialogo inclusivo. Questo è il caso dello Yemen, ma possiamo tranquillamente trasferirlo alla Libia, all’Iraq e così via…

D. – Da non sottovalutare anche il ruolo dell’Egitto…

R. – L’Egitto si sta muovendo in Yemen in una situazione alquanto paradossale, perché per quanto possa essere importante per la sua strategia anche di politica estera – ossia il controllo dell’area di  Bab el-Mandeb, che è lo stretto da Gibuti e Yemen, che praticamente introduce verso il Mar Rosso e quindi verso il Canale di Suez – l’interesse egiziano, da un lato, si inserisce in una situazione di sicurezza dei propri approvvigionamenti e non solo petroliferi, ma anche economici – data appunto la presenza del Canale di Suez – ma dall’altro anche in una situazione di accerchiamento di tutte quelle milizie sunnite che dallo Yemen, attraverso l’Arabia Saudita, sono arrivate fin nel Sinai. Il protagonismo dell’Egitto non è un fattore secondario in questo scenario yemenita. E’ chiaro che allargando l’orizzonte, bisogna anche ricordarsi cosa accadde nel ’62-’67, quando in piena rivoluzione yemenita, l’Egitto subì una sconfitta umiliante da parte delle milizie yemenite. Quindi, tenderei a non sottovalutare il ruolo e le conseguenze che potrebbe avere l’Egitto in tutta questa situazione. 

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Airbus: schianto opera del copilota, cambiano regole in volo

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Disastro aereo della Germanwings. E’ ormai certo che si sia trattato del gesto volontario del copilota, il ventottenne tedesco Andrea Lubitz che, barricatosi volontariamente in cabina, ha portato il velivolo e 149 persone a bordo a schiantarsi sulle Alpi francesi. Ora le indagini sono concentrate sul suo stato di salute. I media tedeschi parlano di una non idoneità al volo emersa nell’addestramento in America e di indizi di una depressione in trattamento. Il giorno del disastro sarebbe dovuto essere in realtà “in malattia”. Intanto, nuove regole entrano in vigore da oggi per le compagnie aeree: due membri d'equipaggio dovranno essere sempre presenti in cabina. Plaudono i piloti, che chiedono però anche più controlli medici. Alessandro Guarasci ne ha parlato con Riccardo Canestrari, del coordinamento Anpac: 

R. – Nel momento in cui qualcuno, all'interno della cabina di pilotaggio, decidesse di operare nello stesso modo in cui sembrerebbe aver operato il pilota in questione, certamente un'altra persona potrebbe consentire comunque l'apertura della porta in vari modi: aprendola fisicamente o impedendo alla persona che sta operando sull'impianto inibendone l'apertura.

D. – Il pilota aveva sofferto di depressione e poi aveva superato di nuovo tutti i test. Ma serve allora, a questo punto, qualche passaggio medico in più, secondo lei?

R. – In molti Paesi esistono dei gruppi, organizzati dalle compagnie aeree, che istituiscono delle Commissioni, che si chiamano “Pilot Advisor Group”, che sono degli ambienti “protetti”, nei quali esiste un responsabile che può gestire in modo anonimo alcune procedure, come quelle per cui se c’è un pilota che non si sente bene, che ha un problema, che ha avuto un evento traumatico familiare, che non si sente in condizioni di assolvere ai suoi compiti, può andare in modo anonimo e comunicarlo senza avere la paura di avere problematiche in merito al suo posto di lavoro. Questa persona viene posta fuori dal servizio, senza dare spiegazioni ufficiali all’azienda, ma semplicemente perché ha bisogno di un supporto di qualsiasi genere, che sia esso medico o psicologico.

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Nigeria al voto: pesa l’incognita Boko Haram

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Archiviata la campagna elettorale, chiuse le frontiere terrestri e marittime, la Nigeria si prepara in un clima massima sorveglianza alle elezioni presidenziali e legislative di domani. Sul voto, pesa la minaccia terroristica degli estremisti islamici di Boko Haram, la cui violenza ha già provocato un migliaio di morti dall’inizio dell’anno e circa un milione tra sfollati interni e profughi rifugiatisi nei Paesi limitrofi. Mentre oltre 68 milioni di persone si preparano a votare, prosegue l’offensiva dell’esercito contro i miliziani: appoggiato da truppe di Ciad e Niger, ha riconquistato la città di Gwoza, nel nord est. I due principali candidati per la sfida presidenziale sono il capo di Stato uscente Goodluck Jonathan e l’ex generale Muhammadu Buhari, a capo di una giunta militare negli anni ’80. Entrambi, nel corso di un incontro interreligioso a Sokoto, alla presenza del cardinale John Olorunfemi Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, e dei principali leader musulmani nazionali, si sono impegnati al rispetto della calma durante le consultazioni e dell’esito del voto. Per un panorama elettorale in vista dell’appuntamento di domani, Giada Aquilino ha sentito Vincenzo Giardina, africanista dell’agenzia missionaria Misna: 

R. - Sicuramente il voto è stato condizionato dalla crisi legata a Boko Haram. Se non fosse perché le elezioni si dovevano originariamente tenere il 14 febbraio e sono state posticipate di sei settimane, per garantire quelle condizioni di sicurezza minime che l’espansione del cosiddetto Califfato di Boko Haram aveva minato nei mesi precedenti.

D. – E’ stata riconquistata Gwoza. L’offensiva dell’esercito va avanti?

R. – Gwoza è l’autoproclamata capitale del cosiddetto Califfato di Boko Haram, quindi è considerata la roccaforte principale. Lì peraltro, secondo notizie delle ultime settimane, parte dei combattenti di Boko Haram si era diretta, a seguito della perdita dei centri in precedenza occupati, annunciata dalle forze armate nigeriane e dai contingenti ciadiani e nigerini che stanno partecipando alle operazioni militari nel nord est della Nigeria. Un elemento caratteristico delle ultime settimane è proprio questa avanzata, sulla quale peraltro è molto difficile avere riscontri indipendenti e ciò a conferma di una situazione difficilmente verificabile rispetto all’andamento delle operazioni militari. L’altro elemento significativo, che fonti della Misna hanno messo in evidenza negli ultimi tempi, è che il prolungamento della campagna elettorale sembra avere in qualche misura messo particolarmente a dura prova, da un punto di vista finanziario, la campagna dell’Apc, cioè l’alleanza di opposizione che candida l’ex presidente e generale in pensione Muhammadu Buhari, il principale sfidante di Goodluck Jonathan.

D. – Sia Goodluck Jonathan, sia Muhammadu Buhari non sono personaggi nuovi alla politica: uno è il presidente uscente, l’altro è stato a capo della giunta militare negli anni ’80. Si sono già affrontati peraltro nel 2011. Cosa possono offrire al Paese?

R. – Comincio citando un titolo del settimanale britannico ‘The Economist’: “È meglio un dittatore, che un presidente fallito”. Questa era la presa di posizione del giornale un mese fa e l’ex dittatore è Buhari, al potere tra il 1983 e il 1985. È salito al potere con un colpo di Stato, ricordato per la sua ‘guerra all’indisciplina’: un pacchetto di misure controverse che alla lotta inflessibile contro la corruzione – male antico della Nigeria – affiancava però altre misure, dalla deportazione di lavoratori migranti, a divieti di importazione di beni di prima necessità, che da un punto di vista economico ebbero un esito quanto meno controverso. Il presidente fallito, stando all’‘Economist’, è Jonathan perché lo Stato - nonostante 4 dei 5 anni di governo del presidente siano stati caratterizzati da prezzi del petrolio molto alti e il petrolio valga più del 70% delle entrate dello Stato nigeriano –non ha messo da parte quasi nulla. E poi l’altro dato è quello di Boko Haram: Boko Haram dal 2009 ha cominciato ad intensificare la sua campagna di violenza; di fatto, poche settimane fa, prima del rinvio delle elezioni del 14 febbraio, il cosiddetto Califfato di Boko Haram era esteso su una superficie paragonabile a quella del Belgio, quindi si è mangiato un pezzo di Nigeria. Senza contare poi gli attentati contro chiese, contro luoghi di culto, anche dell’Islam: penso al terribile attentato di dicembre, quando ci furono più di 100 morti nella moschea di Kano, la principale città del nord della Nigeria.

D. – A partire dalla sicurezza, quali sono le emergenze da affrontare subito?

R. – C’è il tema dello sviluppo economico, nel senso che la Nigeria ha, secondo dati diffusi a livello internazionale, il 70% della popolazione che vive in condizioni di povertà. Eppure è l’ottavo produttore mondiale di petrolio. Il nemico che viene da tutti indicato come responsabile di questa situazione è una classe politica incapace di guardare all’interesse generale. Noi, come Misna, abbiamo parlato con mons. Matthew Hassan Kukah, vescovo di Sokoto, che ha partecipato alla cerimonia per la firma di un accordo di pace tra Buhari e Jonathan per elezioni libere, pacifiche e trasparenti. E il vescovo Kukah esprimeva speranza che anche grazie all’espressione di vicinanza e di solidarietà da parte della comunità internazionale – penso allo stesso Pontefice, al messaggio che ha inviato ai vescovi nigeriani – questa volta in Nigeria le cose vadano bene, diversamente, rispetto a quattro anni fa, quando nel 2011 ci furono più di 800 morti pochi giorni dopo le ultime elezioni.

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Maratona di Betlemme per ricordare il dramma della Palestina

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Una corsa per ricordare le difficoltà presenti nel territorio palestinese. E’ questo l’obiettivo della maratona, giunta alla terza edizione, promossa oggi a Betlemme dal Comitato Olimpico Palestinese e dall’associazione “Right to movement” ("Diritto di movimento"). Sull’evento Anna Zizzi ha sentito un volontario del Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo) in Palestina, che ha partecipato alla corsa, Stefano Sozza: 

R. – La maratona di Betlemme sicuramente è un’esperienza molto particolare, in quanto rappresenta la voglia di resistenza di questo popolo, per quanto riguarda l’occupazione militare israeliana.

D. – A Betlemme non è possibile percorrere 42 km senza sconfinare in territorio israeliano. Come si è potuto superare questo limite?

R. – Questo limite è stato superato prevedendo un giro di 21 km che verrà ripetuto due volte. In seguito alla guerra del ’67 i confini sono stati ridisegnati e soprattutto è molto presente il problema del muro, che appunto affligge la popolazione di Betlemme nella vita quotidiana.

D. – Quali sono gli obiettivi che contate di raggiungere con la maratona?

R. – L’obiettivo principale è quello di dare un segno di partecipazione, in quanto la questione palestinese non è purtroppo ben conosciuta all’estero. Quindi, l’obiettivo è quello di attirare l’attenzione su quello che accade qui. Correranno persone di diverso credo, di diversa etnia, di diverse credenze, ma l’obiettivo principale è quello di dare una partecipazione per un Palestina libera.

D. – Varie realtà sono toccate dal percorso, dal muro che divide il territorio palestinese da quello israeliano ai vari campi profughi…

R. – Rappresentano in primis l’effettiva occupazione che Israele con la propria pressione infligge alla popolazione. Tramite foto e video si potrà vedere quello che realmente è il muro. Effettivamente, per una persona che proviene dall’Occidente non è nemmeno concepibile una tale mostruosità, o come si può chiamare, dal punto di vista dell’impatto che ti dà emotivamente, ma soprattutto per il modo in cui poi toglie la libertà di movimento di queste persone. Il campo profughi di Haida è campo profughi dal ’48 e ha numerosi problemi: la disoccupazione, il sovrappopolamento... L’occasione che offre, quindi, questa maratona è anche quella di vedere con i propri occhi quella che effettivamente è la realtà di tutti i giorni.

 D. – La maglietta con la scritta “Non esiste distanza così grande da cancellare il ricordo di un sorriso”, che lei indossa durante la corsa, cosa rappresenta?

 R. – L’obiettivo è quello di rappresentare tutti i bambini palestinesi che sono morti per una guerra che, comunque, a loro non appartiene o gli appartiene solo per quanto riguarda il loro futuro. La vita di bambini innocenti non dovrebbe mai essere sprecata per questioni politiche o militari.  

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Mons. Galantino: con Ddl Cirinnà unioni civili come matrimoni

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Serve un’azione culturale contro l’ideologia del gender. Il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, oggi in conferenza stampa ha delineato questa strategia alla fine del Consiglio Episcopale Permanente. Dura la critica al testo del Ddl Cirinnà sulle unioni civili, definito “una forzatura ideologica”. Alessandro Guarasci: 

Contro la teoria del gender, che rischia di creare un “transumano”, bisogna agire sulle coscienze, intervenire sulle scuole, informare. Mons. Nunzio Galantino:

“Più disponibilità ad affrontare i problemi complessi, come quello del gender, come quello delle unioni civili, non con la semplificazione. La semplificazione è veramente una brutta bestia. Alla fine, finisce col far affrontare temi seri, gravidi di conseguenze, in maniera poveramente e disperatamente ideologica”.

Ma all’attenzione dei vescovi è anche il testo della senatrice Cirinnà, adottato come testo base per un Ddl sulle unioni civili. Per mons. Galantino, tali unioni si prefigurano come matrimoni:

“E’ il tentativo, ancora una volta, di equiparare realtà che di fatto sono diverse tra loro”.

Dunque il provvedimento ha bisogno di modifiche.

Sugli abusi sessuali commessi da religiosi, c’è una commissione a livello episcopale. La Chiesa sta cercando di fare chiarezza, altri soggetti fanno lo stesso, si domanda mons. Galantino?

“Mi piacerebbe sapere, per esempio, i grandi tour operator cosa fanno per dissuadere il cosiddetto turismo sessuale che, in altri termini, vuol dire: partire da qui, andare lì e trovare a buon mercato, per strada, bambini, ragazze e ragazzi”.

Confermato poi che il Papa chiuderà l’assemblea della Cei il 21 maggio e che sarà a Prato e a Firenze il 10 novembre, anche per il Convegno ecclesiale nazionale.

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Nella Chiesa e nel mondo



Chiesa Assira d’Oriente in lutto, morto Mar Dinkha IV

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Profondo dolore e tristezza per la morte del Patriarca della Chiesa Assira d’Oriente, Sua Santità Mar Dinkha IV, avvenuta ieri mattina a Rochester, in Minnesota, negli Stati Uniti dove era ricoverato per una polmonite a causa di complicazioni dovute ad un’infezione virale. “Sua Santità – si legge nel comunicato della Chiesa assira – aveva dedicato tutta la sua vita al servizio del Signore e della nostra santa Chiesa. Per tutta la vita si è speso per essere una valida guida spirituale per noi tutti”.

Leader di tre Chiese d'Oriente
I funerali si svolgeranno l’8 aprile presso la St. George Church di Chicago. Mar Dinkha era il 111.mo Patriarca della Chiesa d’Oriente. Insediatosi nel 1976 aveva spostato la Sede della Chiesa d’Oriente a Morton Grove, periferia di Chicago, poco dopo la sua consacrazione e a causa della difficile situazione politica irachena. Il Patriarca era nato in Iraq il 15 settembre del 1935 ed era stato ordinato sacerdote il 15 luglio 1957. Era  un punto di riferimento per tutti i membri della Chiesa d’Oriente e delle tre denominazioni assire: la Chiesa d’Oriente, la Chiesa Caldea Babilonese e la Chiesa Siro-ortodossa. (B.C.)

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Potrebbe riaprirsi il caso di omicidio di don Andrea Santoro

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C’è la concreta possibilità che si riaprano le indagini sull’omicidio di don Andrea Santoro, il sacerdote "fidei donum" ucciso a Trabzon, in Turchia, il 5 febbraio 2006 mentre stava pregando nella sua chiesa. A riferirlo è l’agenzia Fides. Per l’assassinio è stato condannato a una pena di 18 anni di carcere il giovane turco Oguzhan Akdin, che all'epoca dell'omicidio aveva 16 anni.

Nel 2006 indagini negligenti
Adesso, gli organi della giustizia turca, nel riconsiderare il caso, tornano a prendere in esame l’ipotesi che l'omicidio non sia stato commesso dall’adolescente con problemi di miopia che, in quell'occasione, avrebbe esploso tre colpi senza mancare mai il bersaglio. Secondo quanto riportato dalla stampa turca, emergerebbero elementi che confermano la negligenza con cui allora furono condotte le indagini. Il caso doveva essere assegnato alla competenza dei dipartimenti giudiziari incaricati delle indagini sul terrorismo e la criminalità organizzata mentre venne  seguito da quello che si occupa di pubblica sicurezza. Risulterebbe poi che la ricerca di indizi nell'abitazione del condannato venne condotta in modo superficiale e anche le dichiarazioni processuali dell'indagato risultarono allora vaghe e confuse. Al tempo del processo, la Procura dichiarò di non aver trovato riscontri alle notizie circolate sulla stampa, secondo cui l'omicida apparteneva a un gruppo di estremisti nazionalisti e fondamentalisti, optando per un gesto isolato di un fanatico squilibrato. (B.C.)

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Kenya. Vescovi: no abolizione ora di religione nelle scuole

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Ha destato vive reazioni in Kenya la proposta lanciata sul canale televisivo nazionale da un noto militante ateo di abolire l’ora di religione nelle scuole del Paese. Un’ipotesi “assurda, mal concepita e di cattivo gusto”. Così il presidente della Commissione per l’educazione della Conferenza episcopale keniana, mons. Muhatia Makumba, ha commentato la provocazione di Harrison Mumia, presidente degli Atei del Kenya.

Una società che allontana Dio è condannata all’insuccesso
“Abolire l’insegnamento delle religione significa negare l’importanza che ha Dio nella vita dei giovani e nella società”, afferma il presule in una lettera, sottolineando che “una società che allontana Dio è condannata all’insuccesso”. La missiva ricorda che la Costituzione keniana fa esplico riferimento a Dio e “riconosce la libertà di coscienza e di credo, come il diritto di praticare la loro religione e di insegnarla”.

L’educazione religiosa prepara gli studenti alla vita adulta
E la scuola è il luogo privilegiato per trasmettere valori e le credenze religiose di una società alle nuove generazioni: “L’educazione religiosa – afferma Makumba – ha un ruolo fondamentale nella preparazione degli studenti alla vita adulta, in quanto consente ai ragazzi di maturare come individui nelle loro comunità e come cittadini in una società pluralistica e nella comunità globale”. Ecco perché la Chiesa – conclude – insiste perché l’insegnamento della religione rimanga in tutti gli istituti educativi del Kenya”. (A cura di Lisa Zengarini)

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Costa d'Avorio. Mons. Ahouanan capo Commissione vittime guerra

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Mons. Paul-Siméon Ahouanan Djro, arcivescovo di Bouaké, è stato nominato presidente della nuova Commissione nazionale per la riconciliazione e l’indennizzazione delle vittime della guerra civile in Costa d’Avorio (Conariv). Lo ha reso noto l’ufficio della Presidenza della Repubblica ivoriana.

La nuova Commissione proseguirà la missione della  CDVR
L’’organismo proseguirà la missione della  Commissione dialogo verità e riconciliazione (Cdvr), istituita dal presidente Alassane Ouattara dopo la nuova grave crisi post-elettorale del 2010-2011, che aveva fatto precipitare il Paese in un nuovo sanguinoso conflitto, causando in cinque mesi tremila morti. Essa avrà il compito di assegnare i risarcimenti alle vittime delle guerre civili che si sono succedute nel Paese tra il 1999 e il 2011. L’ultima è stata appunto quella seguita alle elezioni del 2010 tra i sostenitori del vincitore Ouattara e quelli del presidente uscente Laurent Gbagbo. Per i risarcimenti, il governo ha stanziato circa 15 milioni di euro.

Chiesa protagonista della riconciliazione nazionale
L’arcivescovo Ahouanan ha svolto un importante ruolo di mediatore per la pacificazione del Paese e la Chiesa locale ha già partecipato ai lavori della Commissione dialogo verità e riconciliazione. Sul processo di stabilizzazione del Paese continuano a pendere persistenti divisioni etniche e politiche. Il prossimo giro di boa e momento di verità saranno le elezioni politiche previste quest’anno. (A cura di Lisa Zengarini)

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Il card. Massaja convertì la famiglia del card. Souraphiel

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Tra i quindici cardinali nominati da Papa Francesco nel febbraio scorso c’era anche mons. Berhaneyesus Demerew Souraphiel, presidente della Conferenza episcopale etiopica ed eritrea, nonché delle Conferenze episcopali dell’Est Africa (Amecea). Il suo nome, Berhaneyesus, come tutti i nomi degli etiopi, fa riferimento a realtà spirituali e infatti vuol dire “luce di Gesù”.

L'azione di Guglielmo Massaja
Nella sua vita c’è un particolare interessante: la sua famiglia venne convertita al cristianesimo verso la metà dell’800 dal famoso cardinale Guglielmo Massaja, oggi Servo di Dio. Più tardi il trasferimento nella zona di Harar, dove il neo cardinale nacque nel 1948. Successivamente l'entrata nel seminario di Guder, diretto dai Padri Lazzaristi, e la scelta del sacerdozio, il 4 luglio 1976, proprio come religioso della stessa Congregazione. La conversone fa capire come l’evangelizzazione del grande missionario, che rimase in Etiopia 35 anni, sia penetrata profondamente nell’animo degli etiopi, per i quali si adoperò con rara capacità, zelo apostolico e francescana dedizione.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 86

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.