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Sommario del 07/11/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa all’Inps: pensione è diritto, vergognoso il lavoro nero

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La pensione è un diritto che va sempre salvaguardato. E’ quanto affermato da Papa Francesco nel discorso, in Piazza San Pietro, ai dirigenti e dipendenti dell’Inps, l’Istituto italiano della Previdenza sociale. Il Pontefice ha quindi nuovamente criticato un modello economico che “macina risorse per ottenere profitti sempre maggiori”, a discapito della dignità delle persone. Il servizio di Alessandro Gisotti

Tutelare i lavoratori e il loro riposo, custodire la maternità e il lavoro femminile, non far mancare mai il diritto alla pensione. Papa Francesco ha sintetizzato così le priorità che devono guidare l’Inps e subito ha voluto sottolineare che il riposo non è una “semplice astensione dalla fatica e dall’impegno ordinario”, ma “un’occasione per vivere pienamente” la propria umanità, aperta all’incontro “vivo con Dio e con gli altri”.

Vergognoso lavoro nero, garantire esigenze assistenziali
E qui, a braccio, ha avvertito che è vergognoso “il lavoro nero” come anche la precarietà e “l’ingiustizia sociale” che negano a tutti il diritto al lavoro e al riposo. Francesco ha così rilevato che “l’eventualità del riposo è stata anticipata, a volte diluita nel tempo, a volte rinegoziata fino ad estremismi aberranti”, come quello che arriva “a snaturare l’ipotesi stessa di una cessazione lavorativa”:

“Dall’altro lato, non sono venute meno le esigenze assistenziali, tanto per chi ha perso o non ha mai avuto lavoro, quanto per chi è costretto a interromperlo per i motivi più diversi. Tu interrompi il lavoro e l’assistenza sanitaria cade”.

Non manchi mai il diritto alla pensione
Il Papa ha quindi chiesto all’Inps di non far mai mancare le sovvenzioni indispensabili per la “sussistenza dei lavoratori disoccupati e delle loro famiglie” e ha indicato una serie di priorità, tra cui il lavoro femminile e “l’assistenza alla maternità che deve sempre tutelare la vita che nasce e chi la serve quotidianamente”:

“Non manchi mai l’assicurazione per la vecchiaia, la malattia, gli infortuni legati al lavoro. Non manchi il diritto alla pensione, e sottolineo: il diritto – la pensione è un diritto! – perché di questo si tratta. Siate consapevoli dell’altissima dignità di ciascun lavoratore, al cui servizio voi prestate la vostra opera”.

No a economia che pensa solo a massimizzare i profitti
Ancora, il Papa ha ribadito che lavorare “vuol dire prolungare l’opera di Dio nella storia” e per questo l’Inps deve garantire “una sussistenza dignitosa a chi deve lasciare l’attività lavorativa”:

“Il lavoro, infatti, non può essere un mero ingranaggio nel meccanismo perverso che macina risorse per ottenere profitti sempre maggiori; non può dunque essere prolungato o ridotto in funzione del guadagno di pochi e di forme produttive che sacrificano valori, relazioni e princìpi. Questo vale per l’economia in generale, che non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi”.

Lavorare per chi lavora, non dimenticare l’uomo
Papa Francesco ha dunque affermato che “il vero riposo viene proprio dal lavoro”, ribadendo che uno può riposare quando è “sicuro di avere un lavoro sicuro” che dà dignità. “Tu - ha soggiunto - puoi riposare quando nella vecchiaia sei sicuro di avere la pensione che è un diritto”:

“Non dimenticare l’uomo: questo è l’imperativo. Amare e servire l’uomo con coscienza, responsabilità, disponibilità. Lavorare per chi lavora, e non ultimo per chi vorrebbe farlo ma non può. Farlo non come opera di solidarietà, ma come dovere di giustizia e di sussidiarietà. Sostenere i più deboli, perché a nessuno manchi la dignità e la libertà di vivere una vita autenticamente umana”.

Mons. Corbellini: con Inps, collaborazione per il bene dei lavoratori
Dal canto suo, nel saluto prima delle parole del Papa, mons. Giorgio Corbellini, presidente dell'Ulsa (Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica) ha messo l'accento sul proficuo rapporto tra l'Inps e le strutture del Vaticano dedicate ai lavoratori. Una relazione che si è andata approfondendo positivamente negli anni, in vista del bene di chi lavora e delle loro famiglie:

“Ci lega con l’Inps una lunga tradizione di collaborazione nel rispetto del bene comune, come proposto dalla Dottrina sociale della Chiesa e dei diritti sociali costituzionalmente garantiti in uno spirito di solidarietà”.

Tito Boeri: grati a Papa Francesco per suo impegno in favore dei poveri
Il presidente dell'Inps, Tito Boeri, ha invece ricordato che la crisi economica ha impoverito tantissimi italiani, 4 milioni, e ha ringraziato Papa Francesco per i suoi continui richiami in favore dei diritti dei lavoratori e in particolare dei più bisognosi:

“Non tutte le persone qui riunite oggi sono credenti, ma credo di poter dire che tutte, dalla prima all’ultima, guardano al suo messaggio evangelico con grande speranza. Con l’entusiasmo di chi non si sente più solo: le sue parole smuovono le coscienze. Quel suo ricordarci che la povertà è al centro del Vangelo, che la povertà è la prima categoria teologica, quel suo affermare che se noi togliessimo la povertà dal Vangelo non si capirebbe niente del messaggio di Gesù, offre a tutti noi il senso più profondo del nostro lavoro, dei nostri sforzi quotidiani. Ci spinge a fare ancora meglio nel rendere un servizio a quei milioni di persone che si rivolgono a noi ogni anno in cerca di aiuto, e a quanti – magari – non hanno oggi bisogno di aiuto ma vogliono essere rassicurati sul fatto che, nel caso di eventi avversi, ci sarà qualcuno che darà loro una mano”.

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Papa ai Nobel tunisini: avete costruito la pace come artigiani

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Siete degli “artefici di pace”, il vostro è un lavoro “fatto con le mani e con il cuore”. Sono alcuni degli apprezzamenti che il Papa ha rivolto al Quartetto per il Dialogo in Tunisia, vincitore del Premio Nobel per la Pace 2015. Francesco si è congratulato con Mohamed Fadhel Mahfoudh, Abdessatar Ben Moussa, Wided Bouchamaoui e Houcine Abbassi e si intrattenuto con loro per circa 15 minuti. Da parte loro, i membri del Quartetto tunisino hanno ringraziato il Papa per averli ricevuti, ribadendo l’importanza del lavoro svolto dal Pontefice, “vero uomo di pace”, perché essa possa affermarsi ovunque. Al momento dello scambio di doni, Francesco ha donato al Quartetto la medaglia del Pontificato e una copia dell’Enciclica “Laudato si’” in lingua francese, ricevendo a sua volta un volume di storia forense e un quadro raffigurante il Mahatma Gandhi, anch’egli grande figura di pace nel mondo.

La delegazione ha poi partecipato a un incontro al Consiglio nazionale forense a Roma, organizzato con l'Alto Patronato del presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella. Il servizio di Michele Raviart

Tra poco più di un mese, i rappresentanti del Quartetto per il Dialogo in Tunisia riceveranno ad Oslo il Premio Nobel per la Pace. Sindacalisti, imprenditori, avvocati e attivisti per i diritti umani che con la loro opera di mediazione hanno permesso la transizione democratica in Tunisia, dopo la caduta del presidente Ben Ali. Ascoltiamo Abdellaziz Essid, membro del Consiglio dell’Ordine degli avvocati tunisino:

“Ci sentiamo molto onorati da questo Premio, ma consideriamo che non è il punto d’arrivo in sé: per noi, è solo un incoraggiamento per andare avanti con questo programma di dialogo nazionale. Ogni volta che c’è un problema, una crisi politica o altro, noi ci sediamo intorno a un tavolo e discutiamo con una sola regola: andare avanti con gli accordi, mai prendere la strada della violenza o mai dare la possibilità al terrorismo di colpirci”.

La disperazione di un giovane tunisino che si diede fuoco davanti al governatorato di Sidi Bouzid nel 2010 diede inizio all’esperienza delle “primavere arabe”. Manifestazioni contro i regimi per rivendicare un maggiore spazio politico, che in alcuni Paesi, come la Siria, hanno portato alla guerra civile. In Tunisia, rimane ancora lo spirito originario delle proteste, come spiega Mohamed Fadhel Mahfoud, presidente dell’Ordine degli avvocati tunisino.

“La Tunisie a réussie en ce qu’on appelle un processus de transition démocratique sur le plan…
La Tunisia è riuscita ad avviare un processo di transizione democratica sul piano politico, che è riuscito e ed è stato coronato da elezioni legislative e presidenziali che si sono svolte nella trasparenza e nella legalità. Sono state elezioni libere e anche indipendenti, che hanno espresso la volontà del popolo. La società civile ha una credibilità storica in Tunisia, ed è proprio questa credibilità che fa sì che noi pensiamo che questo Quartetto possa essere la coscienza del popolo e per questo la nostra voce è ascoltata da tutto il popolo tunisino e che tutto il popolo si unisce al nostro appello. E anche la classe politica si unisce a questo nostro appello”.

Il percorso che ha portato all’approvazione della Costituzione del 2014, la prima nella storia tunisina a non essere imposta dall’alto, non è stato privo di ostacoli, soprattutto per le tensioni tra i partiti islamisti vicini ai Fratelli musulmani e quelli laici. Abdessattar Ben Moussa, presidente della Lega tunisina per la difesa dei diritti dell’uomo:

“Oui, au debut on avait des difficultées, mai grace aux efforts du quartet des quatre…
Sì, all’inizio abbiamo avuto delle difficoltà, ma grazie all’impegno del Quartetto delle quattro organizzazioni nazionali, abbiamo potuto garantire le libertà e i diritti nella loro globalità e universalità. Quindi, la nostra Costituzione attuale risponde ai parametri internazionali”.

Un modello di conciliazione di successo, quindi, che ha attirato le mire del terrorismo islamico internazionale, come dimostrano i tragici attentati al museo del Bardo a Tunisi e alla spiaggia di Sousse. Episodi che hanno creato un clima di insicurezza e che hanno affossato il turismo, principale fonte di reddito nel Paese. Mohammed Ben Cheikh, primo consigliere dell’Unione tunisina dell’industra, del commercio e dell’artigianato.

“Attualmente, la situazione in Tunisia è abbastanza stabile e molto positiva. Abbiamo migliorato moltissimo la sicurezza e il governo e anche tutto il popolo tunisino si stanno rimettendo a lavorare. La situazione è in una fase rivolta alla stabilità definitiva, con una nuova democrazia, un nuovo parlamento e nuove regole che sono le regole della democrazia. I problemi maggiori oggi sono i problemi economici: speriamo che la prossima estate torni l’attività turistica in Tunisia”.

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Altre udienze e nomine episcopali

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Papa Francesco ha ricevuto nel corso della mattinata, in successive udienze, il cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi, il cardinale Agostino Vallini, vicario generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma, e l’ambasciatore della Repubblica di Cina, in visita di congedo, Larry Yu-yuan Wang.

In Camerun, il Papa ha nominato vescovo della diocesi di Kribi mons. Damase  Zinga Atangana, finora vicario generale della diocesi di Obala. Il neo presule è nato il 9 dicembre 1964 a Nkog Bong, nella Diocesi di Obala. Dopo gli studi primari nel suo villaggio nativo, e quelli secondari svolti dapprima presso il Collegio Jean XXIII di Efok e, poi, presso il Seminario Minore Sainte Thérèse e il Collegio Vogt in Yaoundé, ha seguito i corsi filosofici e quelli teologici nel Seminario Maggiore Interdiocesano Notre Dame de l’Immaculée Conception di Nkolbison, in Yaoundé. È stato ordinato sacerdote il 25 luglio 1992 e incardinato nella Diocesi di Obala. In seguito, ha studiato in Francia, dove ha conseguito un Dottorato in Teologia Morale, un Diploma in Storia e Scienze delle Religioni (presso l’Università Charles de Gaulle di Lille), e una specializzazione in Bioetica (presso l’Università Marc Bloch di Strasbourg). Dopo l’ordinazione ha ricoperto i seguenti incarichi: 1992-1997 Rettore del Seminario Minore Saint Joseph di Efok; 1997-2003 Studi di specializzazione in Francia; dal 2003 Vicario Generale di Obala; 2003-2010 Parroco di Sainte Anne e Cappellano diocesano delle Dames Apostoliques; dal 2009 Incaricato nazionale per la formazione permanente del clero; dal 2010 Rettore della Cattedrale (in costruzione) Notre-Dame du Mont Carmel. È Membro della Commissione Episcopale Nazionale per la Dottrina della Fede.

La Diocesi di Kribi (2008), è suffraganea dell’Arcidiocesi di Yaoundé. Ha una superficie di 11.000 kmq e una popolazione di 150.000  di abitanti, di cui 85.000 sono cattolici. Ci sono 35 parrocchie. Vi lavorano 44 sacerdoti diocesani, 6 fidei donum, 3 Religiosi, 14 Suore e 46 Seminaristi. La Diocesi di Kribi, è vacante dal giugno 2014, a seguito del decesso improvviso del suo primo Ordinario, S.E. Mons. Joseph Befe Ateba.

Il Pontefice ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’Arcidiocesi di Izmir, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Ruggero Franceschini, dei Francescani Cappuccini. Al suo posto, il Papa ha nominato padre Lorenzo Piretto, domenicano, finora superiore del Convento di Izmir. Mons. Piretto è nato a Tonengo di Mazzé (Diocesi di Ivrea) il 15 dicembre 1942. Dopo il normale curriculum di studi, è entrato nel Noviziato Domenicano di Fiesole nel 1958, ha emesso la professione religiosa solenne il 16 dicembre 1963 ed è stato ordinato presbitero il 4 agosto 1966. Ha conseguito la Licenza in Teologia a Bologna (1967) e il Dottorato in Filosofia all’Università di Torino (1972). Ha svolto diversi incarichi d’insegnamento, prima come Membro dello Studio Domenicano di Chieri (TO) dal 1967 al 1974, dove ha insegnato filosofia, ed anche alla F.I.S.T. di Torino fino al 1982. Nel contempo (1976-1983) è stato Maestro dei Novizi a Chieri (TO). Dopo il suo trasferimento in Turchia nel 1983, ha insegnato l’italiano dal 1986 al 1996, e il latino (1992-2005) all’Università di Marmara d’Istanbul. In seno al suo Ordine è stato Superiore del Convento di Istanbul (1987-2007) e dal 1993 al 2010 Vicario Provinciale per la Turchia; dal 2014 ad oggi è Superiore del Convento di Izmir. Ha svolto diversi incarichi pastorali: Parroco della Parrocchia dei S.S. Pietro e Paolo in Istanbul (1988-2014), Vicario Generale del Vicariato Apostolico di Istanbul (1992-2014). Per trent’anni è stato Direttore, a Istanbul, del mensile cattolico “Présence”. Oltre all’italiano, parla turco, francese, inglese e tedesco.

In Argentina, Francesco ha nominato ausiliare di Córdoba il sacerdote Ricardo Orlando Seirutti, del clero della medesima arcidiocesi, assegnandogli la sede titolare di Bela. Il neo presule è nato in Buenos Aires, il 31 luglio 1956. Ha compiuto gli studi secondari nel Scuola Nazionale di Alta Gracia. Successivamente ha studiato teatrologia e inglese nella Scuola Superiore di Lingue dell’Università Nazionale di Cordoba. Sta concludendo il suo lavoro di Licenza in Teologia presso l’Università Cattolica di Córdoba. Formato nel Seminario di Nuestra Señora de Loreto, ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale il 6 ottobre 1988, incardinandosi nell’arcidiocesi di Córdoba. Ha svolto i seguenti incarichi: Formatore del Seminario Minore, Assessore della Pastorale Giovanile, Membro della Pastorale Vocazionale, Cappellano delle Hermanas Concepcionistas e Formatore dei candidati al Diaconato permanente dell’arcidiocesi di Córdoba. Attualmente è Vicario Foraneo e Parroco di San Juan Evangelista nella città di Córdoba.

In Colombia, il Papa ha nominato ausiliari dell'arcidiocesi di Bogotá il sacerdote Pedro Manuel Salamanca Mantilla, del clero della medesima arcidiocesi, finora Parroco della Parrocchia “San Norberto” e delegato arcidiocesano per il coordinamento della formazione permanente del clero, e il sacerdote Luis Manuel Alí Herrera, del clero della medesima arcidiocesi, finora parroco della Parrocchia “San José de Calasanz” e parroco della Parrocchia personale “Nuestra Señora del Líbano” della comunità di rito orientale Maronita in Bogotá.

In Polonia, il Pontefice ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’Arcieparchia di Przemyśl-Warszawa dei Bizantini presentata da mons. Jan Martyniak in conformità al can. 210 – par. 1 del Cceo. Al suo posto, ha nominato mons. Eugeniusz Mirosław Popowicz, finora Ausiliare della medesima diocesi, trasferendolo dalla sede titolare di Orreacelia. Mons. Popowicz, è nato il 12 ottobre 1961 a Człuchów, in Polonia. Superati gli esami di maturità, nel 1981 fu ammesso al Seminario maggiore di Lublin. Venne ordinato sacerdote il 17 ottobre 1986 a Stargard Szczeciński. Dopo l’ordinazione sacerdotale ha ricoperto i seguenti uffici e incarichi: vicario parrocchiale a Elblag e Pasłęk; studente presso il Pontificio Istituto Orientale a Roma, dove ha conseguito il dottorato in Diritto Canonico Orientale; vicario giudiziale e docente nel Seminario maggiore a Leopoli; vicario episcopale e parroco a Górowo Iławeckie e Lelkowo; docente nel Seminario maggiore dei Padri Basiliani a Przemyśl; membro del Consiglio presbiterale, del Collegio dei consultori e del Consiglio economico. Dal 1996 al 2013 è stato Parroco della Cattedrale bizantina di Przemyśl e Protosincello dell’Arcieparchia. Nominato Vescovo Ausiliare dell’Arcieparchia di Przemyśl-Warszawa dei Bizantini il 4 novembre 2013, fu consacrato il 21 dicembre successivo. Lingue conosciute: polacco, ucraino, italiano, russo e inglese.

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Don Xhuli: da migrante a sacerdote, attendo Francesco a Firenze

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Da migrante albanese a sacerdote a Firenze. E’ la storia originale di don Bledar Xhuli, parroco a Campo Bisenzio – nella diocesi fiorentina – che il prossimo 10 novembre offrirà una sua testimonianza a Papa Francesco, nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore, dove il Pontefice si rivolgerà ai partecipanti al Convegno ecclesiale nazionale. Don Bledar racconta, al microfono di Alessandro Gisotti, l’emozione di poter incontrare il Papa: 

R. – Sono arrivato dall’Albania a 16 anni. Negli anni Novanta tanti di noi albanesi venivamo via perché non c’era più un futuro… Non c’era più la possibilità, dopo il crollo del regime comunista, di costruirsi una vita in Albania. Quindi, lo scopo era questo: lavorare un paio d’anni circa e poi tornare a casa. Questo era il mio progetto, ma Qualcun Altro forse ne aveva degli altri…

D. – Papa Francesco ha visitato la sua terra natale – l’Albania – e adesso a Firenze lei avrà la possibilità proprio di parlare, di dare una testimonianza, a Francesco...

R. – L’emozione è grande, come ha detto lei, a partire dalla visita che il Papa ha fatto in Albania – io ho il cuore pieno di gratitudine da settembre dell’anno scorso – perché Papa Francesco è andato in Albania trovando ciò che lì c’è di buono – per esempio il dialogo interreligioso – e mostrandolo al mondo. Quindi, questo è il sentimento che porto da albanese, di riconoscenza, che spero di poter dire a Papa Francesco. L’altro è come cittadino italiano e come sacerdote a Firenze – in questa diocesi, in questa Chiesa – delle sfide quotidiane che viviamo e della testimonianza che Papa Francesco ci dà con l’accoglienza del prossimo, del povero e del profugo che lui mette in prima linea.

D. – Quali sono in particolare le aspettative dei suoi parrocchiani? Una visita di un giorno, ma estremamente intensa…

R. – Papa Francesco ci ha sempre stupito con la sua semplicità e con il suo messaggio, che arriva al cuore dei fedeli, anche indirettamente, anche senza l’intermediazione spesso di noi sacerdoti. Quindi, anche da parte dei fedeli c’è un’attesa fortissima, perché Papa Francesco riesce davvero a dare loro stimoli per la fede, ma anche per la vita quotidiana. Anche persone che non sono proprio praticanti o credenti: devo dire che il messaggio di Papa Francesco arriva anche a loro.

D. – Guardando anche all’evento – il Convegno ecclesiale nazionale – Francesco interverrà, in qualche modo darà gli orientamenti alla Chiesa italiana per i prossimi anni. Come guarda a questo Convegno?

R. – Con l’aspettativa di ciò che già Papa Francesco ci ha detto ultimamente, anche dopo il Sinodo. Questo continuo cambiamento, anche della Chiesa, che continua nel mondo di oggi non soltanto ad annunciare il Vangelo agli altri, ma a prenderne lei stessa coscienza, ad annunciarlo prima di tutto a sé stessa e poi agli altri.

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Sindaco di Prato: Papa vedrà un "laboratorio" di integrazione

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Lavoro e integrazione. Sono i due fattori che caratterizzano da sempre la comunità toscana di Prato, da decenni luogo di incontro, prima di emigranti italiani dalle zone più povere della campagna toscana, poi dal Sud Italia ed infine dalla Cina. L’azienda tessile locale, rappresenta infatti un fattore determinante per il dialogo tra diversi, che il Comune di Prato accompagna con un forte richiamo alla legalità e al rispetto delle leggi per la convivenza civile. Martedì prossimo, al mattino, Papa Francesco incontrerà sul sagrato della Cattedrale di Prato i rappresentanti della comunità ecclesiale, civile, imprenditoriale e operaia della città. Luca Collodi ne ha parlato con il sindaco di Prato, Matteo Biffoni

R. – C’è una grande fibrillazione: si sente tanta emozione nell’aria, c’è tanta voglia di riavvicinarsi a un Santo Padre che, oggettivamente, significa qualcosa di particolare. C’è un affetto e una voglia di partecipare che io non avevo mai sentito nell’aria… Veramente è qualcosa di significativo.

D. – Prato rappresenta un laboratorio di accoglienza: penso alla comunità cinese…

R. – Noi siamo una città molto contemporanea: a Prato ci sono 124 etnie, tra queste una comunità cinese che, in proporzione, può essere paragonata a quella di metropoli come Parigi o Milano. Quindi, abbiamo dovuto necessariamente nel corso degli anni far sì che le nostre scuole, dove si ritrovano insieme bambini provenienti da tutti i continenti, funzionassero, così come i nostri posti di lavoro. E mons. Galantino – quando è venuto qui a Prato in vista della visita del Santo Padre – ce l’ha raccontato in maniera molto esplicita: il Santo Padre vede in Prato una chiave di lettura della società moderna, un laboratorio di accoglienza: una società che è complicata, difficile, faticosa – anzi, io non voglio nascondermi dietro un dito – la contemporaneità di questa città presenta delle grandi difficoltà, grandissime complessità, ma anche delle opportunità importanti.

D. – Sindaco Biffoni, l’opportunità del lavoro rafforza la possibilità di integrarsi…

R. – Non c’è dubbio: questo è il grande tema e su questo Papa Francesco è stato esplicito. Molte volte la dignità del lavoro, la dignità della persona, passa anche dalla possibilità di esprimersi attraverso l’attività lavorativa. Certo, lo sforzo che abbiamo fatto, e che facciamo tuttora, trova il suo massimo compimento – la sua radice più profonda – nel fatto di poter dare la possibilità a tutti di avere un posto di lavoro. È fondamentale per far sì che ci sia anche una fluidità maggiore nelle relazioni sociali: su questo non c’è dubbio.

D. – Come procede l’integrazione tra i cittadini di Prato e la comunità cinese?

R. – Nel corso degli anni, abbiamo provato a chiarire un punto. In particolare, ho cercato di essere molto esplicito sul fatto che chi non rispetta le regole deve essere sanzionato, colpito, perché non può funzionare in questo modo e non ci deve essere nessun tipo di sconto. Allo stesso tempo, chi decide di scommettere per il proprio futuro qui – perché decide che Prato è il suo futuro, il suo percorso e quello della sua famiglia – deve essere accompagnato in questo percorso. E allora, nel corso del tempo abbiamo provato in maniera piuttosto esplicita ad avere relazioni, a cercare punti di incontro, di relazione e di contatto tra le famiglie cinesi, i cui figli sono arrivati qualche anno fa e ora frequentano le nostre scuole, e i cittadini che lavorano negli stessi ambienti. La scommessa più forte che stiamo facendo riguarda il sistema scolastico: Prato è stata presa anche a livello nazionale perché ha costruito una rete di relazioni e di rapporti che in questo momento ci permettono di tenere insieme, salda, la capacità di far interagire i bambini di origine cinese – e quindi le loro famiglie – con il resto della comunità.

D. – Sindaco Biffoni, la crisi che ha colpito il lavoro, ha creato problemi al percorso di integrazione?

R. – Certamente, su questo non c’è dubbio. Diciamo che i cinesi, quando sono arrivati a Prato – nel prodotto tipico pratese – non hanno interferito in maniera immediata, perché loro tendevano più a fare pronto moda, mentre Prato faceva semi-lavorati, tessuti, filati. Però, resta il fatto che nel momento in cui il sistema Prato – la città a un certo punto era tra le più ricche di Italia – si è inceppato come può capitare, si è data la responsabilità all’immigrazione. Nel contempo, bisogna anche essere franchi tra di noi: c’è stato un periodo, e anche adesso il problema non è risolto, di elusione, di evasione delle norme relative alla fiscalità generale e anche al rispetto dei diritti del lavoro che hanno caratterizzato – purtroppo, lo dico in maniera dolorosa – l’imprenditoria  cinese. Non tutti – non è giusto generalizzare – però era un tratto piuttosto marcato da questo punto di vista. Questa situazione, che si era presentata nel corso degli anni, aveva creato indubbiamente una tensione forte a livello sociale.

D. – Da Prato, il Papa, cosa porterà a Roma?

R. – Credo l’esperienza di una comunità – una città di 200 mila abitanti – che nel corso del tempo ha fatto dell’accoglienza, con tutte le difficoltà, un suo tratto distintivo. Eravamo pochissimi, poche decine di migliaia dopo la Seconda Guerra mondiale. A Prato, sono arrivate le persone che vivevano nella Toscana più povera. Poi, è arrivato un importante numero di persone dal Sud Italia per cercare lavoro. E poi è arrivato il mondo: 124 etnie. La gente veniva qui per avere un futuro migliore. Tutto questo certo con limiti, contraddizioni, errori, ritardi, però questa città – questa comunità – ha saputo affrontare la sfida attraverso uno strumento fondamentale che è, come dicevamo prima, il lavoro. Questi due temi – il lavoro e l’integrazione, l’immigrazione – sono temi che Papa Francesco ha sviluppato in maniera radicata e pregnante. Io credo che tutto questo  possa qui trovare un punto di esplicitazione e di incontro vero.

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Nota p. Lombardi su presunto incontro Papa-Renzi a Firenze

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In vista della visita che Papa Francesco farà alla città di Firenze martedì prossimo, il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi ha precisato in una nota che, in riferimento a “notizie circolate nei giorni scorsi”, secondo cui il Papa avrebbe manifestato in quell’occasione “il desiderio di non incontrare il Premier Renzi o altre autorità politiche italiane”, devo precisare – afferma il portavoce vaticano – “che si tratta di informazioni del tutto infondate".

"In realtà – precisa padre Lombardi – il Presidente del Consiglio aveva informato di non potersi trovare a Firenze martedì prossimo e quindi la mancanza di un incontro non va in alcun modo attribuita a un atteggiamento negativo da parte del Papa. La famiglia del Presidente del Consiglio – conclude la nota – parteciperà alla Santa Messa”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Diritto al lavoro, diritto al riposo: a dirigenti e dipendenti dell’Inps il Papa denuncia la vergogna del lavoro nero e del precariato.

Prove generali di democrazia: Giuseppe M. Petrone sulle legislative in Myanmar.

Le radici di un’accusa antica: Lucetta Scaraffia su Chiesa e omosessualità nella storia.

Dario Fertilio sul nuovo conformismo nel film “Io e lei” di Maria Sole Tognazzi.

Santuari dell'arte: Micol Forti, Arturo Colorado Castellary e Colin Thom su musei e monumenti durante la seconda guerra mondiale.

Un articolo di Marcella Serafini dal titolo “Il canto del doctor subtilis”: l’8 novembre si celebra la memoria liturgica di Giovanni Duns Scoto.

Sulla visita (martedì prossimo) del Papa a Prato e a Firenze, interviste di Nicola Gori al vescovo Franco Agostinelli e al cardinale arcivescovo Giuseppe Betori.

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Oggi in Primo Piano



Cina-Taiwan: "Insieme per non ripete tragedie del passato"

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E’ durato circa un’ora, aperto da una stretta di mano e chiuso da una conferenza stampa in un clima “amichevole”, lo storico incontro dei leader di governo di Cina e Taiwan, oggi a Singapore. E’ il primo dal 1949 quando gli esponenti del Partito nazionalista si rifugiarono sull'isola dopo la sconfitta subita nella guerra civile. Siglati nuovi accordi economici che preludono a un maggior riconoscimento di Taiwan a livello internazionale e stabilito un clima di rispetto reciproco. “Siamo qui – ha detto il presidente cinese – per evitare che si ripetano le tragedie del passato”. A partire da queste parole Gabriella Ceraso ha raccolto il commento di Ferdinando Mezzetti, esperto di politica del continente asiatico: 

R. – Sono parole di buon auspicio e c’è una implicita ammissione che le guerra civile fu una immensa tragedia per tutti, mentre la linea propagandistica del regime è sempre stata che la guerra civile è stata una vittoria della rivoluzione contro i servi dell’imperialismo.

D. – Dal canto suo, Taiwan mette tanto in evidenza rispetto, mezzi pacifici, dignità della gente dell’isola. E’ accettabile questo per la Cina?

R. – Per alcuni aspetti sì, perché la Cina si è sviluppata economicamente e si avvicina al tenore di vita taiwanese. Però, quando si parla di stili di vita si intende tutta una società nella quale si può manifestare. Ma mentre i due presidenti si incontravano a Singapore, a Taiwan l’opposizione era in piazza a manifestare contro questo incontro… La Cina non può accettare pienamente il sistema democratico che vige a Taiwan dalla fine degli anni Ottanta.

D. – Quando si dice che questo incontro di oggi ha confermato che non vogliono mutare lo status quo, che cosa significa?

R. – La Cina è una e Taiwan fa parte della Cina. La riunificazione sarà perseguita con mezzi pacifici. Lo status quo è andare avanti così. Taiwan spera che il sistema politico cinese diventi meno autoritario e allora si porrà, forse, cominciare a parlare di riunificazione. La Cina pensa, invece, che Taiwan da sola sulla scena mondiale non possa più resistere e cercherà quindi una forma di riunificazione, come Hong Kong. Però, i taiwanesi vedono la "lezione" di Hong Kong: le manifestazioni studentesche, dal forte sapore politico, dell’anno scorso sono state represse a. Hong Kong. A Taiwan le manifestazioni politiche non sono represse…

D. – Si è parlato di Taiwan nella Banca regionale dello sviluppo asiatico. Potrebbe essere questo l’inizio di un riconoscimento più ampio, anche a livello internazionale di Taiwan?

R. – Questo della Banca regionale dello sviluppo asiatico, fondata da Pechino, è importante. Ora bisognerà vedere i dettagli: se lo accetta come gruppo fondatore o se lo accetta come una forma di associazione. Però, da parte di Pechino è una mano tesa, perché ormai da molti anni Taiwan è isolata sul piano diplomatico e politico internazionale. Sono rimasti soltanto 22 Paesi che riconoscono la Repubblica di Cina, cioè Taiwan, e sono Paesi emergenti e foraggiati da Taiwan.

D. – E questo potrà mutare nel tempo? Potranno accrescersi? Potrà esserci, per esempio, un riconoscimento maggiore, anche quello dell’Onu?

R. – In alcune organizzazioni internazionali, Pechino ha permesso l’ingresso di Taiwan sotto la forma "Cina-Taiwan" o "Cina-Taipei"… Che possa entrare all’Onu? Ne dubito fortemente, perché Pechino impone la legge che chi riconosce Pechino non può riconoscere Taiwan e chi riconosce Taiwan non può riconoscere e non è riconosciuta da Pechino.

D. – Luci e ombre vengono fuori da come lei ha descritto questo appuntamento. Un suo giudizio complessivo: è veramente stata una tappa storica o no?

R. – L’incontro è storico, non c’è dubbio. Anche perché è avvenuto in vista delle prossime elezioni – a gennaio – che potrebbero essere vinte dagli indipendentisti. Quindi, Pechino pone già un punto: vedete, dice, con i nazionalisti, con i quali abbiamo avuto la guerra civile, riusciamo ad andare d’accordo. Se voi volete gli indipendentisti, la situazione si fa critica e si torna alle tensioni che hanno dominato lo Stretto di Taiwan dal 2000 al 2008, quando gli indipendentisti erano al potere.

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Siria. Mons. Hindo: Onu e ong ci hanno dimenticato

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In Siria, il cosiddetto Stato islamico ha rilasciato 37 cristiani assiri catturati a febbraio nel nordest del Paese. Fondamentale, per questo risultato, la mediazione della Chiesa siriaca. Trapelano, intanto, i contenuti di un piano di risoluzione del conflitto proposto dalla Russia e articolato in 9 punti che potrebbe essere discusso nel prossimo round di negoziati e che prevede l’incandidabilità di Assad alle prossime elezioni. Intanto, preoccupazione per una possibile “spartizione della Siria” è espressa dai vescovi maroniti che propongono, invece, una soluzione che ricalchi il modello libanese. Sul tema, Helene Destombes, ha raccolto la testimonianza di mons. Jacques Behnan Hindo, arcivescovo siro-cattolico a capo dell'arcieparchia di Hassakè-Nisibi: 

R. – Dopo la sconfitta del sedicente Stato islamico (Daesh) due mesi fa, viviamo un po’ meglio, ma l’Is è sempre a 3 km al sud, e a 10 km a est soltanto. Cercano costantemente di installarsi da qualche parte, ma non riescono. Inoltre, anche la vita nella città, nella regione, è un po’, anzi, è molto difficile. Credo che tutte le organizzazioni internazionali – l’Onu e le ong – abbiano dimenticato la mia regione…

D. – Ha la sensazione che la guerra in Siria, in qualche modo, sia una “guerra per procura” tra Stati Uniti e Russia?

R. – È sicuro: tra gli Stati Uniti – con tutti gli Stati satelliti in Medio Oriente – e la Russia. È sicuro, perché con la Siria la Russia ha preso nuovamente un suo posto nello scacchiere internazionale, come l’America, e non vuole lasciarlo.

D. – Malgrado questa situazione molto preoccupante, crede in un processo politico che possa essere messo in piedi con la Russia e gli Stati Uniti, obbligati in qualche modo a intendersi per uscire da questa crisi?

R. – Non soltanto credo di sì, ma spero che ciò avvenga il prima possibile. Sogno che il mese della Vergine, in maggio, tutto sia finito!

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Afghanistan: donne in piazza dopo lapidazione ragazza

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In Afghanistan, le donne sono scese in piazza, in diverse città, per protestare dopo la lapidazione di Rokhshana, 19.enne uccisa dopo essere fuggita alle nozze imposte dalla sua famiglia. Il presidente Ghani ha ordinato un’inchiesta per far luce sulla brutale morte della giovane: è il segno che qualcosa sta cambiando? Benedetta Capelli ha girato la domanda a Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea Onlus, dal 2003 presente in Afghanistan: 

R. – Il problema è che il Paese dovrebbe cambiare nell’approccio culturale “in toto”. Si può parlare sicuramente di un segnale: un segnale da parte di un presidente che conosce la cultura del diritto, un presidente che ha usato termini fortissimi di condanna per questo atto. Ha parlato di “soluzione extra-giudiziale” perché non conforme alla legge: ricordiamo che la lapidazione in Afghanistan è vietata e condannata. Quindi, anche se si volesse far ricorso ad un’interpretazione della Shari’a più ristretta, la lapidazione non rientra comunque nella legge dello Stato islamico dell’Afghanistan. Il presidente ha parlato quindi di “atto non islamico e criminale” e questo è sicuramente un punto a favore della costruzione di un diritto diverso. Dopodiché, il problema vero è la pratica. In Afghanistan ci sono migliaia di donne che vivono situazioni di violenza domestica quotidiana: si parla del 90% delle donne. Non ci sono veramente soluzioni pratiche per coloro che vogliono uscire da questa condizione di violenza. Quest’anno, purtroppo, è stato un anno terribile per la questione delle donne. C’è stato l’omicidio di Farkhunda a marzo: un omicidio terribile che ha riportato alla coscienza i peggiori momenti di quello che è successo sotto i talebani.

D. – E spesso, quando ci troviamo di fronte a queste situazioni, si parla di un fatto culturale, come se fosse una tendenza inarrestabile. Ci possono comunque essere delle strade da perseguire? E quali sono ad esempio quelle che Pangea sta cercando di mettere in campo?

R. – Io sono molto speranzosa nelle nuove generazioni, perché vengono a contatto, attraverso i mass media e la tecnologia, con condizioni culturali anche di altri Paesi, di altri mondi, e anche loro hanno voglia di pace. E per costruire la pace, bisogna essere lì, in quel Paese: in Afghanistan. E noi come Fondazione Pangea ci siamo ormai dal 2003 in maniera fissa, perché pensiamo che solo stando accanto alle persone e investendo nello sviluppo economico e sociale di questo Paese si possano veramente costruire delle basi per sviluppare un futuro differente. Voler migliorare la propria condizione di vita in realtà non può essere fatto se, oggi come oggi, la comunità internazionale non è più presente. Purtroppo la situazione economica sta peggiorando tantissimo, perché la comunità internazionale è andata via dal punto di vista militare, ma non ha sostituito con una presenza di altro tipo – attraverso investimenti economici ad esempio – quello che era invece il peso economico e militare. E questo chiaramente sta prostrando l’Afghanistan, che si trova in una situazione economica terribile. E ciò vorrà dire che le donne soffriranno ancora molto di più se non si interviene in qualche modo.

D. – Donne che sono scese in piazza per fermare queste uccisioni e anche per rivendicare i propri diritti: quali sono però, effettivamente, i diritti che rivendicano?

R. – Il diritto di poter vivere e di poter scegliere la loro vita. Sono scese in piazza tantissime donne, ma anche uomini: la comunità afghana si è attivata a livello internazionale, ma anche la comunità di coloro che sono attivi per i diritti umani. E quello che si chiede è che non ci sia una giustizia sommaria!

D. – Anni fa, ad Herat, è stato costruito un carcere femminile nel quale sono recluse donne accusate di adulterio, anche solo immaginato, però donne effettivamente salvate anche dalla vendetta dei propri uomini e delle proprie famiglie. È un’esperienza che ha funzionato?

R. – Il vero problema è capire cosa succede dopo. Posso raccontare un’esperienza di una donna che voleva semplicemente salvare la figlia di 12 anni da un matrimonio forzato e invece il padre voleva costringerla a sposarsi. Noi, come Pangea, abbiamo aiutato questa donna e siamo stati vicini alla sua famiglia. Questa donna è finita in carcere e anche il marito. Quando la donna è uscita dal carcere, sono stati i suoi familiari ad ucciderla perché ormai aveva “disonorato” la famiglia. Bisogna veramente strutturare soluzioni solide per il dopo, perché solo questo permette alle donne di liberarsi da condizioni così strette che non danno veramente soluzioni.

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Violenze in Burundi, si rischia la guerra civile

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Il Burundi rischia di sprofondare nella guerra civile: è l’allarme della comunità internazionale per il Paese dei Grandi Laghi in cui si registra un’escalation di violenza dall’aprile scorso, con l’inizio del terzo mandato consecutivo da parte del presidente Nkurunziza. Intanto, anche la Repubblica Democratica del Congo ha varato la nuova Costituzione, che consentirà al presidente Nguesso di correre per un altro mandato nel 2016. Il servizio di Roberta Barbi: 

Ci sono attesa e paura in Burundi, dove oggi scade il termine di cinque giorni lanciato dal governo agli oppositori del presidente Nkurunziza affinché depongano le armi, prima di intervenire con la forza. E proprio questa “retorica pericolosa” di Bujumbura viene condannata dalla comunità internazionale, seriamente preoccupata per un Paese sempre più nel caos. Molte le persone che stanno abbandonando le loro case per paura di ritorsioni: ieri, uno dei figli di Pierre Claver Mbonimba, figura chiave della difesa dei diritti umani nel Paese, è stato trovato morto poche ore dopo essere stato arrestato dalla polizia. “In Burundi cessino la violenza e le uccisioni ricorrenti”, ha tuonato il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, mentre un invito a recuperare il dialogo tra le parti viene dall’inviato degli Stati Uniti per l’Africa dei Grandi Laghi, Thomas Perriello, che sarà a Bujumbura domani. Lunedì, invece, si riunirà un Consiglio straordinario di sicurezza delle Nazioni Unite richiesto dalla Francia. E se finora la crisi in Burundi ha causato 200 vittime, gli occhi sono puntati anche sulla Repubblica del Congo, dove ieri il presidente Nguesso – al potere da 31 anni – ha promulgato la nuova Costituzione, approvata con un referendum popolare con oltre il 94% dei consensi. L’opposizione denuncia brogli e grida al “colpo di Stato”.

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Birmania, vigilia delle prime elezioni libere dopo 25 anni

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Il presidente birmano, Thein Sein, ha assicurato che il governo e l'esercito intendono rispettare i risultati delle elezioni di domani, che vedono come favorito il partito di opposizione guidato da Aung San Suu Kyi. Nel Paese si vive la vigilia di una tornata storica, con le prime elezioni generali che da 25 anni non saranno boicottate dal principale partito di opposizione, la Lega nazionale per la Democrazia, della leader Premio Nobel per la Pace nel 1991. In lizza, 91 partiti e oltre sei mila candidati per la conquista di più di 1.150 seggi tra Camera alta, Camera bassa e Parlamenti regionali. Un quarto dei seggi è riservato ai militari al potere da diversi decenni. Sull’importanza di questo appuntamento, Eugenio Bonanata ha chiesto l'opinione di Cecilia Brighi, segretario generale dell'Associazione “Italia-Birmania insieme”, che si trova nel Paese per seguire la tornata elettorale: 

R. – E’ il momento in cui si verificherà la volontà del vecchio governo di accettare i risultati elettorali e di impedire brogli o tensioni soprattutto nelle aree delle zone etniche. Quindi, è un po’ una cartina di tornasole di quello che è cambiato o che deve ancora cambiare nel Paese.

D. – Aung San Suu Kyi è favorita, ma ci sono alcune questioni che forse mettono un po’ in discussione la sua posizione?

R. – Nella zona centrale, dove c’è la maggioranza birmana, come etnia lei sicuramente è favorita rispetto al partito di governo. Negli Stati etnici, dove molti partiti etnici si stanno presentando, e dove si presenta anche la Lega nazionale per la Democrazia, c’è un rischio forte di dispersione di voti perché non sempre si riuscirà a formare un’alleanza. Poi, c’è anche la grande incognita di come il partito di governo e le forze che sono dietro al partito di governo si comporteranno il giorno delle elezioni. Molti pensano che il partito di governo riuscirà a dominare in queste aree: molta gente ha ancora paura che ci possano essere delle ritorsioni.

D. – Quanto peserà la questione dei Rohingya, la minoranza musulmana perseguitata?

R. – A mio avviso, non peserà moltissimo. I Royingya, intanto, non votano perché è stata tolta loro anche la carta di cittadinanza temporanea. E nessun partito porta al suo interno rappresentanti di religione musulmana, proprio per evitare possibili tensioni con questo gruppo nazionalista di monaci buddisti legati a Wirathu, che è un monaco. Ecco, il non creare l’opportunità di un attacco di questa organizzazione molto radicale e anche molto violenta è una scelta quasi obbligata. Quindi, credo che la questione in queste elezioni – mi dispiace dirlo – non sia molto presente. Noi riteniamo giusto che ai Rohingya fosse data la cittadinanza e il diritto di voto, ma ci sono tante cose in questo Paese che non funzionano e che hanno bisogno di tempo e di grande tenacia perché possano essere modificate.

D. – Quali sono comunque le priorità del Paese?

R. – Le priorità del Paese sono la riforma della Costituzione, e quindi riduzione del ruolo dei militari e del potere dei militari, e l’eliminazione della corruzione che è diffusa in tutte le strutture pubbliche. L’altra emergenza è la pacificazione del Paese e questo significa anche il federalismo, perché gli Stati etnici non vogliono essere gestiti dalla capitale. Ancora oggi, il primo ministro di uno Stato etnico viene nominato dalla capitale. E poi c’è il grande tema della pace: il 16 ottobre è stato firmato un accordo di pace con alcune forze armate etniche, ma non tutte hanno aderito. Si tratterà di continuare per arrivare a un accordo di pace completo e questo significa che sia i militari sia il governo devono fare dei passi indietro, ma anche le Forze armate delle nazionalità etniche, perché lì ci sono anche forti interessi economici che spingono al mantenimento della situazione attuale, cioè di una situazione in alcune aree del Paese che è di conflitto e che permette quindi una serie di traffici tra cui – non ultimo – quello della droga.

D. – Come sta reagendo il Paese in questa campagna elettorale? Che tipo di attesa c’è?

R. – C’è molta attesa. Io ho incontrato parecchia gente che non pensavo mai potesse votare per Aung San Suu Kyi: c’è molta volta di cambiamento, c’è molta voglia di crescita. E il Paese non crescerà, non ci saranno investimenti, se non ci sarà stabilità che viene data dalla pacificazione e dallo Stato di diritto: che ci sia veramente una libertà di stampa, che ci siano veramente regole rispettate, che non ci sia più la corruzione. Quindi, le aspettative sono altissime, perché la gente sente ancora il peso del passato nella quotidianità, anche se c’è molta differenza tra come si viveva fino al 2010 e come si vive oggi dal punto di vista della libertà di movimento. Cioè, il Paese è sicuramente più libero però non è sicuramente un Paese più giusto, c’è molta strada da fare. E io credo che i Paesi, compresa l’Italia, si debbano impegnare proprio per aiutarli a cambiare.

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Messina, emergenza acqua: al lavoro "angeli" del volontariato

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E’ stato riparato il bypass di Forza D’Agrò, a Messina, che riesce a far arrivare, sia pure in modo ridotto, l’acqua alla città. Molte zone restano però ancora senza approvvigionamento idrico, mentre nella maggior parte del messinese l’erogazione dura solo poche ore al giorno. Il servizio di Francesca Sabatinelli

A due settimane dall’inizio dell’emergenza acqua a Messina, le polemiche divampano. Comune e Amam, l’Azienda meridionale acque Messina, sono di fatto stati commissariati in merito alla gestione dell’emergenza idrica. Il commissario, è stato deciso ieri, sarà Calogero Forti, direttore regionale della Protezione civile, mentre il Codacons chiede le dimissioni sia del presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta, che dei vertici dell’azienda. Tre i milioni di euro stanziati in totale per la messa in sicurezza della collina da dove è partita la frana che ha interrotto la condotta, e poi per i lavori di intervento. Ieri, è stata creata una "task force" della Protezione civile nazionale che conta 40 tecnici, mentre da più parti si chiede di spiegare perché le tubazioni si rompano così spesso e di indagare sugli eventuali fattori: dal possibile utilizzo di materiale scadente, agli errori umani nella collocazione o nella manutenzione. I cittadini a migliaia sono costretti a lunghe attese nei punti di distribuzione sparsi nella città dove attualmente arrivano circa 300 litri di acqua al secondo, ai quali se ne aggiungono altri 200 provenienti da un altro acquedotto. Forti i disagi nella parte alta della città e forti i disagi per le fasce più deboli della popolazione, come i disabili, gli anziani, i malati, che non possono garantirsi l’acqua, in loro aiuto accorrono "angeli" del volontariato. Massimo Minutoli è presidente della Consulta comunale di Protezione civile, mentre Giuseppe Venuto è il presidente del Nucleo diocesano di Protezione Civile, nato in seno alla Caritas. Ascoltiamolo:

R. – Ci stiamo occupando esclusivamente dei disabili, cioè di rifornire di acqua potabile e non le persone che non sono autosufficienti, persone anziane che si occupano di altrettanti disabili, cioè che nel nucleo familiare oltre a essere loro stessi anziani, hanno anche disabili a cui accudire. Con i mezzi che il Dipartimento di Protezione civile ci mette a disposizione, portiamo acqua non potabile, mentre tramite la Fontalba che, contattata dalla Misericordia di Messina ha fornito quattro bancali di acqua, portiamo anche confezioni di acqua potabile.

D. – Massimo Minutoli, qual è la situazione oggi, a Messina?

R. – L’acqua ancora risulta essere razionata a causa della portata che non è sufficiente a servire la città a pieno ritmo. Quindi, si sta gradatamente cercando di riempire i serbatoi, assicurare la distribuzione dell’acqua in orari stabiliti, secondo un piano che l’Amam, insieme alla Prefettura e a tutti gli Enti, sta mettendo in atto. Noi del volontariato ci stiamo occupando prettamente ed esclusivamente degli anziani e dei disabili che non hanno assistenza da parte delle cooperative e dei servizi convenzionati con il Comune.

D. – Voi cittadini, come state vivendo?

R. – Tanti si stanno adattando all’emergenza a e stanno comprendendo la gravità della situazione, cercano di essere collaborativi andando a mettersi in fila ordinatamente, dando un segnale di profonda educazione e senso civico e di rispetto verso gli altri, mettendosi in fila per ore per aspettare l’autobotte che arriva e rifornisce le zone, laddove per una differenza di livello l’erogazione non riesce a soddisfare le abitazioni. Quindi, la gente sta collaborando, però l’esasperazione c’è perché dopo tanto tempo inizia a essere dura. Stanno lavorando per riportare la situazione alle condizioni di normalità, con gli interventi che hanno stabilito con la Protezione Civile nazionale. Quindi, adesso il Dipartimento nazionale ha assunto il comando e la direzione di tutta la situazione e quindi, intanto, si procederà per tornare alla normalità nel più breve tempo possibile, compatibilmente con le possibilità di esecuzione dei lavori che dovrebbero garantire la risoluzione in maniera definitiva della situazione, bisogna attendere i tempi dovuti.

D. – Ciò che ci si augura è che questo non accada più, ovviamente…

R. – Certamente. Adesso si sta cercando di vedere, di pianificare tutto quello che può essere realizzato per poter mettere in sicurezza la linea dell’acquedotto che serve la città.

D. – Giuseppe Venuto, quali sono dunque le vostre speranze e qual è il vostro appello, se ne avete?

R. – Come volontari, già il “grazie” della gente che andiamo ad aiutare è ciò che ci ripaga. La nostra speranza è che questa situazione si risolva al più presto. Poi, ringraziamo il Dipartimento regionale di Protezione civile perché, vista l’emergenza, ha lasciato a Messina i mezzi antincendio che ci permettono di poter offrire questo servizio. Questa sinergia tra Consulta delle associazioni di Protezione civile e Consulta delle associazioni di volontariato dei servizi sociali sta dando buoni frutti. Quindi, insieme, si sta raggiungendo l’obiettivo e quindi, ancora una volta, la sinergia tra il terzo settore si dimostra fondamentale per poter raggiungere gli obiettivi.

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Premio Sciacca al card. Pell e a tre minorenni detenuti

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Oggi pomeriggio, nell’Aula Magna della Pontificia Università Urbaniana, si terrà la cerimonia ufficiale della 14.am edizione del Premio Internazionale “Giuseppe Sciacca”, che ogni anno conferisce riconoscimenti a chi ha saputo distinguersi nel proprio campo di lavoro o di studio. Tra i premiati dell’edizione 2015 figurano il cardinale George Pell, prefetto della Segreteria per l'Economia, altre personalità religiose, ma anche tre minorenni detenuti. Il servizio di Davide Dionisi

Assieme al genio precoce della fotografia, Carlos Perez Naval, al cardinale George Pell, all’arcivescovo di Tirana e Primate della Chiesa ortodossa di Albania, Anastasios, al Patriarca di Antiochia dei greco-melkiti, Gregorio III Laham, ci saranno anche tre ragazzi provenienti dagli Istituti di pena di Torino, Bari e Roma, oggi pomeriggio all’Urbaniana, per ritirare il Premio Sciacca. I tre minori hanno presentato lavori che hanno colpito la giuria per il valore artistico e l’anelito di speranza. Riceveranno il diploma di merito e una borsa di studio che permetterà loro di riprendere un percorso virtuoso e di lasciarsi alle spalle un passato difficile. Ma perché la scelta di questi ragazzi e quale significato assume il conferimento di un riconoscimento prestigioso a giovani che vengono da esperienza così difficili? Lo abbiamo chiesto a don Bruno Lima, presidente del Premio:

R. – Si è scelto di premiare i giovani in carico al Dipartimento della Giustizia minorile perché il Premio internazionale "Giuseppe Sciacca" ha la finalità di valorizzare i talenti giovanili. A maggior ragione, il riconoscimento a ragazzi che vivono situazioni difficili, di particolare disagio, vuole essere un segno di speranza, un incoraggiamento per la loro vita, per un recupero del tempo perduto, per un miglioramento della propria condizione di vita.

D. – In che modo un Premio come questo può spiegare all’opinione pubblica che qualsiasi ragazzo che ha avuto a che fare con la giustizia non è una persona finita?

R. – Come insegna il Santo Pontefice Giovanni Paolo II, di venerata memoria, la fede è cultura: la fede può farsi e può diventare cultura specialmente per coloro che vivono situazioni di difficoltà.

D. – Secondo lei, il carcere recupera le persona?

R. – Purtroppo, devo dire che molto spesso non è così, almeno da quello che si apprende dalle cronache. Ma potenzialmente il carcere, se gestito in un modo adeguato, potrebbe anche servire al recupero della persona umana.

Il Premio Sciacca è un riconoscimento che motiva fortemente ragazzi che stanno scontando una pena all’interno di un penitenziario. Ne è convinta Serenella Pesarin, già direttore generale del Dipartimento per la Giustizia minorile:

R. – Servono, come dice anche Papa Francesco, delle testimonianze di carne, vere, e questa è un’opportunità che si dà loro di uscire dal circuito dell’emarginazione, di uscire da quell’isolamento, per essere accolti anche in un contesto paritario dove ci sono presenti anche molte istituzioni religiose, militari, civili, ed essere riconosciuti in qualcosa che anche loro forse di se stessi non avevano avuto modo di apprendere, delle loro capacità sul versante dell’arte, del narrare… E quindi per loro è un segnale molto importante. Spesso, loro all’inizio hanno degli atteggiamenti e anche dei comportamenti provocatori perché si tratta di accoglierli e di accettarli per quello che sono. Sono storie anche di grande povertà, di grande povertà pedagogica, non solo economica, di mancanza di riferimenti, di stili. Tra l’altro, oggi la devianza sta anche attraversando ragazzi della cosiddette famiglie normali, no? Questa caduta di valori, di ideali, questo apparire, questo successo a qualunque costo, questo crescere in fretta e non avere la responsabilità perché le regole sembrano non avere più limiti... Spesso se si è abituati o si cresce in un ambiente pieno di violenza ci si educa alla violenza, come ci si educa alla pace, come ci si educa alla solidarietà, ai comportamenti prosociali. E quindi per loro è veramente significativo. E’ un riconoscimento paritario e poi serve anche per il contesto civile che spesso oscilla tra “buttiamo le chiavi” o “facciamoli uscire tutti”, non sapendo, come è stato dimostrato, che i luoghi così chiusi abbrutiscono, sono scuole di violenza. Noi dobbiamo richiederci se possiamo ricostruire una comunità partendo dal basso e partendo dai giovani. I giovani sono il vero capitale umano e noi non possiamo perderlo.

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Volontari carceri: in cella servono giustizia e misericordia

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Si è concluso oggi a Roma il 48.mo Convegno nazionale promosso dal Coordinamento Enti e Associazioni Volontariato Penitenziario (Seac). Le nuove sfide di un organismo che dal 1967 costituisce una presenza attiva nel volontariato delle carceri e della giustizia. Il servizio di Davide Dionisi

Definizione di un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere. Sono questi i principali temi discussi dai volontari del Seac, nella due giorni che si è conclusa oggi a Roma. Al centro dei dibattiti, le riforme, la giustizia e la misericordia dietro le sbarre e, non ultima, l’importanza del ruolo di chi sceglie di aiutare chi ha sbagliato e lo accompagna nel reinserimento nel tessuto sociale. Sono trascorsi 40 anni dalla legge penitenziaria, una legge avanzata e orientata a principi di umanità. Ma, tenuto conto della condizione degli Istituti di pena e delle condanne da parte della Corte Europea nei confronti del nostro sistema, cosa non ha funzionato? La risposta di Luisa Prodi, presidente del Seac:

R. – Non ha funzionato la capacità di far diventare fatto concreto il dettato di legge, che invece era un dettato molto aperto, anche molto umano. Un po’ di cose sono cambiate, perché sono cambiati i tempi: in questi 40 anni noi abbiamo maturato l’idea che la pena non necessariamente deve coincidere con il carcere, a livello teorico; a livello pratico non ci siamo ancora. Quindi, siamo ancora ancorati ad una visione che vede il carcere al centro e eventualmente delle pene alternative. Dovremmo cambiare il paradigma, rovesciandolo completamente, vedendo delle pene svolte all’interno della comunità, della società e nei casi più gravi ricorso al carcere. Questo rimane ancora un po’ troppo nella sfera dei buoni propositi… Non stiamo facendo passi concreti per arrivare, invece, a farlo diventare prassi.

D. – A proposito del volontariato, cosa spinge una persona a maturare una scelta così importante al fianco dei detenuti?

R. – L’idea e il desiderio di cambiare qualcosa nella società in cui vive probabilmente. Partire da motivazioni, che possono essere le più diverse: motivazioni di fede, motivazioni di un senso civico, di un senso umano… Quello che accomuna i volontari è il desiderio di accompagnare delle persone verso un cambiamento. Quando le persone sono persone che hanno sbagliato o che hanno contravvenuto a regole della vita sociale, questo è particolarmente impegnativo. Noi lo vediamo come un accompagnamento della persona in un percorso di cambiamento personale, ma anche un accompagnamento della società a una maggiore apertura e a un maggior senso dell’inclusione, che direi in questo momento è completamente assente dalla nostra visione.

D. – Barriere e pregiudizi. Quale contributo può dare il volontario per abbatterli?

R. – Mostrare che, in qualche modo e in qualche esperienza concreta, è possibile. Quando noi – per esempio nelle scuole – facciamo qualche giornata o qualche ora di riflessione con i ragazzi, magari invitando a parlare una persona in permesso, loro vedono che è una persona umana – che magari è un padre, che è una persona come loro – e questo cambia molto. Finché c’è questo isolamento del carcere, rispetto all’esterno, i pregiudizi rimarranno fortissimi. In questo senso, è necessario far diventare la pena un’altra cosa, perché la persona che ha sbagliato non sia isolata dalla società, ma sia dentro la società e faccia un percorso di restituzione – chiaro, visibile – assieme alla comunità che lo deve accogliere.

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Ad Assisi il pellegrinaggio degli universitari romani

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Sono oltre 3.000 i giovani che questa mattina sono arrivati da Roma ad Assisi, per partecipare al Pellegrinaggio degli universitari e accoglienza delle matricole organizzato dall’Ufficio per la Pastorale Universitaria del Vicariato di Roma. Filo conduttore di questa 13.ma edizione è stato il tema “Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Da Assisi, il servizio di Marina Tomarro

Il suono festoso delle campane di Santa Maria degli Angeli hanno accolto ad Assisi gli universitari arrivati da Roma. “Siate fedeli al signore nelle piccole cose, e egli vi ricompenserà nelle grandi”, ha detto loro nell’omelia il vescovo ausiliare, mons. Lorenzo Leuzzi, che li ha accompagnati nel pellegrinaggio. Ascoltiamo il suo commento:

R. – Il Signore ha chiamato Francesco per ricostruire la sua Chiesa. Credo che oggi abbiamo bisogno di discepoli, come più volte Papa Francesco ci ha ricordato, che siano davvero responsabili di ciò che hanno ricevuto. Ecco perché è una grande occasione oggi per i giovani di offrire al Signore le proprie capacità, i propri progetti, i propri desideri, le proprie competenze maturate nella vita universitaria. Il Signore chiede a questi giovani di mettere a servizio dell’evangelizzazione tutti i talenti che hanno ricevuto. E per far questo bisogna partire dalla scoperta della grandezza della chiamata. Solo a partire da questa esperienza, sarà possibile creare una nuova classe di uomini e donne capaci di dare testimonianza al Vangelo in tutti gli ambienti della vita.

D. – Cosa spinge tanti giovani a partecipare al pellegrinaggio ad Assisi?

R. – Credo che la vera motivazione sia che tutti desiderano rimotivare la propria vita, rimotivare le proprie scelte. Assisi offre un’occasione per andare un po’ più in profondità nella propria esperienza e poter rinnovare e ripartire con nuovi progetti e nuove disponibilità.

E grande la gioia per i tanti universitari arrivati ad Assisi per affidare il loro percorso a San Francesco. Ascoltiamole loro emozioni:

R.  – Per testimoniare che siamo giovani che crediamo e che vogliamo camminare insieme con la Chiesa, con San Francesco, con l’università e testimoniare agli altri universitari la nostra gioia di seguire Gesù.

D. – La figura di Francesco quanto è di esempio nella tua vita?

R. – Sicuramente, la figura di Francesco può essere un esempio soprattutto per noi giovani, quindi per insegnarci l’umiltà, l’importanza di una vocazione e ascoltare Dio, come Signore della nostra vita.

R. – E’ molto importante perché è quanto più attuale si possa pensare. Infatti, il messaggio è comunque un messaggio di tanti secoli fa che torna ancora oggi rumoroso a riempire il nostro cuore e la nostra mente. E’ qualcosa che ci riguarda veramente da vicino. Quindi, dobbiamo portarlo anche alle generazioni future.

D. – Perché è importante essere qui oggi?

R. – E’ importante per me perché è un continuare un po’ un anno di esperienze. Sono una matricola e per me è importante essere qui per trovare nelle persone che hanno le mie stesse convinzioni uno spirito di fraternità. Non ho mai visto Assisi e questo anche mi rende felice!

D. – Valentina per te è già la seconda volta che partecipi al pellegrinaggio degli universitari. Perché questa scelta?

R. – Sicuramente, anche perché è un momento di condivisione di quei valori che dovrebbero esserci nella nostra quotidianità e che dovremmo ricordare sempre. Quindi, è un’ottima occasione per caricarsi ancora di più di tantissima energia e cercare sempre di più di coinvolgere gli altri.

D. – Cosa rimane di questa giornata quando si torna a casa?

R. – Ci si sente rigenerati! Credo che sia per me la parola più adatta. E’ una bella esperienza.

D. – Perché è importante la figura di Francesco oggi?

R. – La figura d Francesco indubbiamente deve essere un riferimento per tutti i giovani. Penso che oggi i giovani abbiano bisogno di persone di riferimento come Francesco, a cui ispirarsi.

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Il commento di don Ezechiele Pasotti al Vangelo della Domenica

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Nella 32.ma Domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci presenta il Vangelo in cui Gesù loda una povera vedova che getta due monetine nel tesoro del Tempio mentre tanti ricchi ne gettavano molte e dice:

«In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere». 

 Su questa solennità ascoltiamo il commento di don Ezechiele Pasotti

Anche il Vangelo di questa domenica ci mette davanti una parola fondamentale: “Non potete servire Dio e la ricchezza” (Mt 6,24). Gesù si è seduto di fronte al tesoro del tempio e osserva la gente che passa e vi getta monete. E chiaramente la sua misura di giudizio è ben diversa dalla nostra, perché egli non guarda alla quantità – Dio non ha proprio bisogno dei nostri beni – ma al cuore di chi getta le monete. E commenta ai suoi discepoli il gesto di una vedova che vi ha gettato “solo” due spiccioli: ma mentre tutti gli altri hanno dato “tranquillamente” del loro superfluo, lei “vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”. Ciò che Dio guarda è proprio questa misura del cuore. E questa misura non è un optional per alcuni chiamati speciali nella Chiesa – per i religiosi, per esempio, che fanno un voto di povertà – ma per tutti coloro che vogliono essere cristiani. Ce lo ricorda senza ambiguità il Catechismo della Chiesa: “Ai suoi discepoli Gesù chiede di preferirlo a tutto e a tutti, e propone di ‘rinunziare a tutti’ i loro ‘averi’ per lui e per il Vangelo. Poco prima della sua Passione ha additato loro come esempio la povera vedova di Gerusalemme, la quale, nella sua miseria, ha dato tutto quanto aveva per vivere. Il precetto del distacco dalle ricchezze è vincolante per entrare nel Regno dei cieli” (CCC 2544). Chiediamo al Signore, oggi, come dono dell’Eucaristia, il cuore di questa vedova per amare così il Signore, senza paure, senza compromessi.

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Nella Chiesa e nel mondo



Oxfam: allarme "El Niňo", milioni di persone a rischio fame

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Sono circa dieci milioni le persone che dal prossimo anno potrebbero trovarsi a serio rischio di fame, secondo un Rapporto appena pubblicato dall’Oxfam, una delle organizzazioni più autorevoli nel campo della cooperazione e dell’aiuto umanitario, che riunisce ben 17 Paesi. Il grande colpevole sarebbe “El niňo”, un fenomeno che si verificherebbe ogni 7-8 anni e che quest’anno sembra particolarmente intenso, ancora più che nel 1997-98, quando raggiunse il picco mai registrato, causando duemila morti e 35 milioni di dollari di danni. Questo fenomeno è responsabile di condizioni climatiche estreme in diverse parti del mondo, tra siccità, oppure piogge anomale, temperature record o allagamenti che distruggono i raccolti.

Le possibili conseguenze in Africa e America
Quattro milioni e mezzo sarebbero le persone a rischio in Etiopia, mentre nel Malawi la siccità sta portando la produzione di mais ai minimi storici e si calcola perciò che da gennaio potrebbero essere due milioni le persone che dovranno combattere con la fame. Nello Zimbabwe, infine, la siccità avrebbe ridotto già di un terzo il raccolto del mais. Clima anomali anche in America: anche qui il mais scarseggia soprattutto tra Guatemala e Honduras.

L’impatto sugli Stati insulari del Pacifico
"El Niňo" non risparmia neppure l’Asia. Se in India ha già ridotto i monsoni, l’Indonesia ha dichiarato lo stato di siccità in 34 province del Paese. Le conseguenze più gravi, però, potrebbero verificarsi per gli Stati insulari del Pacifico, dove si è appena conclusa la Conferenza delle comunità locali a Niue, nel Pacifico meridionale. Qui, il rischio maggiore è l’innalzamento dei mari che potrebbe far scomparire molte di queste piccole isole. L’Oxfam, infine, sottolinea l’urgenza di agire soprattutto in vista dell’impegno Onu per l’obiettivo “fame zero” da raggiungere entro il 2030. (R.B.)

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Egitto. Alluvioni danneggiano monasteri copti ortodossi

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Ammonterebbero a diversi milioni i danni ai quattro storici monasteri copti della regione egiziana di Wadi al Natrun, colpita nei giorni scorso da pesanti alluvioni, come riportato dall’agenzia Fides. Le quattro strutture in questione sarebbero Anba Bishoy, Al Suryan, Al Baramos e San Macario il Grande, i cui primi insediamenti risalgono al IV secolo dopo Cristo. Fortunatamente, le eccezionali piogge non hanno causato vittime, ma molti problemi ai tetti e alle mura di cinta, come riferito dal portavoce della Chiesa copta ortodossa, padre Boulos Halim.

Danni alle reliquie di San Mosé
In particolare, nel monastero di Al Baramos, le acque torrenziali hanno danneggiato anche il Santuario contenente le reliquie di San Mosè l’Etiope, anacoreta vissuto nel IV secolo. Le organizzazioni copte internazionali si stanno già mobilitando per raccogliere fondi da destinare ai restauri e al recupero di queste importanti opere storiche e artistiche. (R.B.)

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Filippine. Due anni fa il tifone Hayan, un bilancio

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Due anni fa il terribile tifone "Hayan" – localmente noto come "Yolanda" – si abbatteva sulle Filippine con venti che soffiavano a oltre 300 km all’ora, uccidendo circa 6.500 persone e causando un migliaio di dispersi. Tra le cifre di questa enorme tragedia, vanno citati anche i 16 milioni di persone che ne hanno sofferto le conseguenze (circa un milione le case distrutte o danneggiate), tra cui 5 milioni di bambini.

Salesiani accanto alla popolazione
Da subito i Salesiani del Paese si sono mobilitati per portare soccorsi e conforto alla popolazione così duramente colpita: i centri di Manila e di Cebu furono trasformati in centri di raccolta di generi alimentari e beni di prima necessità per far fronte alle emergenze. Molte, inoltre, le strutture salesiane che nei primi giorni hanno distribuito quasi tremila kit d’assistenza. Alla prima fase di aiuti, poi, è seguita quella della ricostruzione.

Il bilancio di Caritas
Anche la presenza di Nassa-Caritas Filippine è stata fondamentale per affrontare la devastazione lasciata dalla furia di Hayan. “Oggi Caritas è impegnata in una campagna di sensibilizzazione e di advocay per assicurare che gli aiuti vadano a diretto beneficio delle vittime del disastro, evitando ingiusti profitti e speculazioni a vantaggio di pochi”. Ben 43 Caritas nazionali da tutto il mondo hanno sostenuto economicamente la Caritas locale, con oltre due milioni di euro di fondi raccolti. (R.B.)

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In Bolivia, nel 2018, il Congresso americano missionario

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La Bolivia ospiterà il prossimo Congresso americano missionario, in programma nel 2018, grazie all’interessamento e all’incoraggiamento in merito espresso dai vescovi boliviani, come riportato dall’agenzia Fides. “Un grande senso di responsabilità da parte dei nostri presuli”, è stato il commento di suor Cilenia Rojas, coordinatrice nazionale delle Pontificie Opere Missionarie nel Paese sudamericano.

La decisione nell’assemblea a Cochabamba
La religiosa ha preso parte all’assemblea dell’episcopato boliviano a Cochabamba, nel corso della quale ha potuto informare i vescovi di quanto in cantiere in vista del Congresso. “I nostri vescovi sono stati i primi a mettere a tema, nelle loro riunioni, l’organizzazione e i passi che si devono compiere insieme ai membri dei comitati coinvolti nell’organizzazione del Congresso”, ha spiegato. La suora ha fatto riferimento in particolare al Simposio internazionale di missionologia, svoltosi a Puerto Rico il mese scorso, e all’imminente Primo simposio nazionale di missionologia, in calendario dall’11 al 13 novembre presso il Seminario Mayor Nacional di San Josè di Cochabamba, cui prenderanno parte anche i direttori diocesani delle Pontificie Opere Missionarie. (R.B.)

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Perù. Tutto pronto a Chimbote per Beatificazioni del 5 dicembre

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È stato presentato ufficialmente al Congresso della Repubblica peruviana il programma della cerimonia di beatificazione dei sacerdoti martiri Michael Tomaszek, Zbigniew Strzalkowski e Alessandro Dordi - uccisi nell’agosto 1991 tra Pariacoto e Rinconada dai terroristi del gruppo Sendero Luminoso – che si svolgerà il 5 dicembre prossimo a Lima. A presentare l’evento – riporta l’agenzia Fides – una delegazione della diocesi di Chimbote e rappresentanti di altre organizzazioni impegnate nella celebrazione.

Sacerdoti uccisi “in odium fidei” da Sendero Luminoso
I tre sacerdoti verranno beatificati come martiri “in odium fidei”, ha spiegato il presidente del Comitato per la beatificazione, padre Juan Roger Rodruguez: “I terroristi hanno voluto annientarli per sempre – ha detto – ma oggi la Chiesa li propone come martiri della fede e testimoni di speranza”. Alla presentazione ha partecipato anche il vescovo emerito di Chimbote, mons. Luis Bambarén Gastelumendi, che nel suo intervento ha ricordato i tempi bui in cui nel Paese era attivo Sendero Luminoso.

Due corpi traslati nel Santuario dei Martiri
Lo scorso 13 ottobre, come annunciato dal vescovo di Chimbote, mons. Angel Francisco Simon Piorno, sono stati riesumati i corpi dei due francescani polacchi, che verranno poi traslati nel santuario dei Martiri, mentre resterà in Italia il corpo del religioso italiano. (R.B.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 311

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.