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Sommario del 08/11/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: rubare documenti vaticani è reato, le riforme vanno avanti

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“Voglio assicurarvi che questo triste fatto non mi distoglie certamente dal lavoro di riforma che stiamo portando avanti con i miei collaboratori e con il sostegno di tutti voi”. Con queste parole, pronunciate all’Angelus in Piazza San Pietro, Papa Francesco ha commentato la vicenda dei documenti vaticani Trafugati nei mesi scorsi e pubblicati in particolare in due libri appena usciti. Rubarli, ha detto Francesco, è stato “un reato”, “un fatto deplorevole che non aiuta”. Il servizio di Alessandro De Carolis: 

Niente paura, io vado avanti con fiducia e speranza. All’Angelus, Papa Francesco si affaccia dalla finestra più celebre del mondo per dire direttamente e schiettamente, accompagnato da uno scroscio praticamente continuo di applausi, cosa abbia pensato e ritenga di quando accaduto nei giorni scorsi, tra documenti rubati alle sue spalle e libri che li hanno resi noti sostenendo di fare il bene del Papa:

“So che molti di voi sono stati turbati dalle notizie circolate nei giorni scorsi a proposito di documenti riservati della Santa Sede che sono stati sottratti e pubblicati.

Per questo vorrei dirvi anzitutto che rubare quei documenti è un reato. E’ un atto deplorevole che non aiuta. Io stesso avevo chiesto di fare quello studio, e quei documenti io e i miei collaboratori già li conoscevamo bene e sono state prese delle misure che hanno incominciato a dare dei frutti, anche alcuni visibili”.

“Corvi” e “Vatileaks”, delatori e manovratori, qualsiasi fossero le loro trame e mire, non gli hanno tolto il sonno e soprattutto – scandisce Francesco con voce ferma, quasi soffocato da migliaia di battimani – non lo distraggono dai suoi dichiarati intenti di rinnovamento, che affida alla preghiera di chi la Chiesa la ama sul serio:

“Perciò voglio assicurarvi che questo triste fatto non mi distoglie certamente dal lavoro di riforma che stiamo portando avanti con i miei collaboratori e con il sostegno di tutti voi. Sì, con il sostegno di tutta la Chiesa, perché la Chiesa si rinnova con la preghiera e con la santità quotidiana di ogni battezzato. Quindi vi ringrazio e vi chiedo di continuare a pregare per il Papa e per la Chiesa, senza lasciarvi turbare ma andando avanti con fiducia e speranza”.

Anche la riflessione precedente aveva in certo modo fatto da preludio a queste affermazioni, incentrata com’era sul contrasto tra l'autenticità cristiana e la sua “apparenza”. Francesco ha commentato come sempre il Vangelo della domenica, quello della vedova povera che lascia nel tesoro del tempio tutto quanto ha per vivere a differenza dai maestri della legge che, dice, “si pavoneggiano in pubblico” mentre in privato “divorano le case delle vedove”:

“Anche oggi esiste il rischio di assumere questi atteggiamenti. Ad esempio, quando si separa la preghiera dalla giustizia, perché non si può rendere culto a Dio e causare danno ai poveri. O quando si dice di amare Dio, e invece si antepone a Lui la propria vanagloria, il proprio tornaconto”.

I ricchi che gettano nel tesoro monete in quantità, ma per loro superflue, sono ben lontani, osserva il Papa, dal “bell’esempio” di generosità della vedova, che “nella sua povertà – sottolinea – ha compreso che, avendo Dio, ha tutto”:

“Gesù, oggi, dice anche a noi che il metro di giudizio non è la quantità, ma la pienezza. C’è una differenza fra quantità e pienezza. Tu puoi avere tanti soldi, ma essere vuoto: non c’è pienezza nel tuo cuore. Pensate questa settimana alla differenza che c’è fra quantità e pienezza. Non è questione di portafoglio, ma di cuore (...) Amare Dio ‘con tutto il cuore’ significa fidarsi di Lui, della sua provvidenza, e servirlo nei fratelli più poveri senza attenderci nulla in cambio”.

E come spesso ama fare, il Papa condisce l’enunciazione di una verità di fede con un esempio concreto che ne dimostra la forza. L’esempio di una famiglia della sua diocesi in Argentina, che mentre è a tavola a mangiare delle cotolette viene interrotta da un mendicante che ha fame. La mamma chiede cosa intendano fare ai suoi tre figli, i quali di slancio la esortano a dare il cibo al povero. Dunque, questa mamma, spiega il Papa…

“…prende la forchetta e il coltello e toglie metà ad ognuna delle cotolette… ‘Ah no, mamma, no! Così no! Prendi dal frigo…’. ‘No, facciamo tre panini così’. E i figli hanno imparato che la vera carità si fa non da quello che ci avanza, ma da quello ci è necessario (…) Siamo chiamati a dare il tempo necessario, non solo quello che ci avanza; siamo chiamati a dare subito e senza riserve qualche nostro talento, non dopo averlo utilizzato per i nostri scopi personali o di gruppo”.

Al termine dell’Angelus, Francesco ricorda sia il Convegno nazionale della Chiesa italiana, al quale prenderà parte martedì prossimo recandosi a Firenze, sia la “Giornata del Ringraziamento”, che quest’anno ha per tema “Il suolo, bene comune”, che a Roma si svolge  in concomitanza con la “Giornata diocesana per la custodia del creato”, arricchita quest’anno dalla “Marcia per la terra”:

“Mi associo ai Vescovi nell’auspicare che tutti agiscano come amministratori responsabili di un prezioso bene collettivo, la terra, i cui frutti hanno una destinazione universale. Io sono vicino con gratitudine al mondo agricolo, e incoraggio a coltivare la terra in modo da custodirne la fertilità affinché produca cibo per tutti, oggi e per le generazioni future”.

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Papa a Firenze. Piovanelli: la città deve testimoniare Cristo

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"La pienezza dell'umanesimo è nel cristianesimo". L'arcivescovo emerito di Firenze, card. Silvano Piovanelli, sottolinea come l'Umanesimo abbia avuto il suo centro culturale a Firenze. Città che ancora oggi può svolgere un ruolo di raccordo tra umano e divino, tra laicità e cristianesimo. Alla vigilia dell'arrivo di Papa Francesco a Firenze, martedì prossimo, e a 29 anni dalla visita di San Giovanni Paolo II, Luca Collodi ha incontrato l'arcivescovo emerito del capoluogo toscano, il cardinale Silvano Piovanelli

R. – Il nostro Papa Francesco sicuramente sarà molto sentito. Papa Francesco ha un impatto positivo con la gente: sa mettersi subito in rapporto, e quindi sarà sicuramente un fatto grande.

D. – Come è cambiata la comunità cristiana di Firenze?

R. – Si fa male a dirlo, si fa male… Sicuramente, il laicismo si impone in qualche maniera. E quindi sicuramente, da un punto di vista numerico, abbiamo una diminuzione, però – e questo bisogna ricordarselo sempre – non è il numero che conta. Sappiamo bene che quello che conta è lo spirito. Se ci si ricorda dei primi cristiani nelle città, erano dei gruppetti, eppure brillavano in un modo tale da dar luce a tutti. Io spero che sia lo stesso anche oggi: non è una questione numerica, è una questione di spirito, l’accoglienza dello spirito, di impegno personale.

D. – Firenze è la città dell’Umanesimo, che ha unito il cielo e la terra, il divino e l’umano. Nell’esperienza cristiana, è ancora attuale questo periodo culturale?

R. – A me sembra che questo sia molto importante: la pienezza dell’umanesimo è nel cristianesimo. Perciò l’uomo "totale" – si direbbe – l’uomo perfetto, è il Signore Gesù: Lui è veramente l’ideale dell’uomo a cui bisogna guardare, a cui bisogna ispirarsi, e dal quale bisogna farsi condurre ed entusiasmare. E allora, il cammino dell’uomo diventa realmente un cammino non soltanto di verità e di amore, ma anche di speranza e di donazione per gli altri.

D. – Quale contributo può dare la storia della città alla vita cristiana di oggi?

R. – Io credo che La Pira dal cielo sicuramente esulti. Mi sembra di vederlo, felice, per questa cosa che avviene a Firenze: lui, che ora gode di una felicità di cui non c’è paragone, perché il Paradiso colma anche di felicità. Penso che Firenze, con anche la sua critica, con il suo voler le cose perfette, possa dare comunque un apporto al cristianesimo. O meglio, può far splendere il cristianesimo nella propria vita. Io sono profondamente convinto che è la città che deve dare testimonianza di fede cristiana. Noi sappiamo che, all’inizio, proprio le città sono state il punto di accoglienza della fede cristiana: i “pagi”, nella campagna, erano i pagani poi. Penso che Firenze possa realmente farlo, come del resto tutte le altre città. Ogni città – direi – ha la sua capacità di accogliere la fede e di esprimerla in un umanesimo intero. Ricordo che una volta La Pira, tornando da Gerusalemme, stava parlando con entusiasmo della sua esperienza, e diceva: “Firenze è Gerusalemme!”. Siccome si trovavano a Roma, uno gli fece un’osservazione: “Ma, Professore, siamo a Roma...”. E lui risponde: “Ah, anche Roma è Gerusalemme, tutte le città sono Gerusalemme!”. Sì, in fondo, credo davvero che ogni città è chiamata ad accogliere la fede cristiana e a esprimerla nella sua vita comunitaria.

D. – Firenze può essere la città della misericordia: siamo alla vigilia dell’Anno Santo…

R. – Lo è, la città della misericordia. Lo è, e in una maniera unica che è questa: a Firenze, nel 1244, è nata la “Misericordia”. Si è chiamata così un’Associazione di cristiani, i quali volontariamente si mettono a servizio degli altri. Prima si trattava soltanto di portare i defunti al cimitero, poi in seguito esclusivamente di portare i malati all’ospedale, andare a soccorrere nelle case... È un’istituzione antica – appunto del XIII secolo – che però c’è ancora, a Firenze c’è la “Misericordia”. Credo che la Misericordia, che è un’Associazione, debba in qualche modo darci l’occasione per dire che a Firenze, e in ogni città, deve esserci la misericordia come virtù, questo chinarsi sugli altri per servirli nel loro bisogno.

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Caritas Firenze: la gioia dei poveri per il pranzo con Francesco

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Ogni giorno, persone bisognose - italiane e straniere - trovano un pasto caldo e calore umano nella Mensa di San Francesco Poverino nel centro storico di Firenze. Martedì prossimo, 10 novembre, la Mensa gestita dalla Caritas diocesana avrà un ospite d’eccezione: Papa Francesco, che – in occasione della sua visita nel capoluogo toscano – ha chiesto di poter pranzare con i più poveri della città. Su questo importante momento della giornata fiorentina di Francesco, Alessandro Gisotti ha intervistato Alessandro Martini, direttore della Caritas di Firenze: 

R. – Il Papa ci onora della sua visita e del suo passaggio tra noi, è una grande emozione… passerà alla storia. In questi giorni, parlando un po’, pensavo appunto alla sua normalità: è la ferialità proprio del gesto, del mettersi a tavola...

D. – Che cosa le dicono, in questi giorni, tanto le persone che vengono accolte dalla mensa quando i volontari che la mensa la fanno vivere?

R. – C’è un senso di gioia da parte di tutti, anche di emozione… Naturalmente, ogni giorno abbiamo un gruppo di volontari, suddivisi nei giorni della settimana: per cui quel giorno serviranno a tavola i “volontari del martedì”… Ma, come era ovvio che fosse, tutti i volontari avrebbero voluto incontrare il Papa: allora il gruppo dei volontari di quelli degli altri giorni lo accoglieranno nella sala di ingresso e avranno così anche loro modo di salutarlo. Questo ha riempito di gioia tutti e ha riempito di gioia anche i giovani, gli anziani, italiani e stranieri – perché c’è una grande varietà da questo punto di vista – che potranno sedersi a mensa con lui. Per quella giornata, abbiamo pensato di fare un grande tavolo che accoglierà circa 70 persone, insieme con il Santo Padre e l’arcivescovo di Firenze, che è l’unico – diciamo – invitato "extra, anche perché il nostro cardinale è il responsabile della Caritas e potrà quindi pranzare insieme a questo gruppo di persone che ogni giorno vive l’esperienza della mensa.

D. – Pensa che gesti come questo potranno anche aiutare la comunità non solo cristiana, ma anche la società civile fiorentina, a dare maggiore aiuto e sostegno a chi ha bisogno?

R. – Di questo ne sono certo. E ne sono certo perché ho molti segnali anche concreti: tanti amici, persone che conosco – tanti, tanti, tanti! – almeno qui a Firenze stanno aspettando questo giorno per incontrare una persona che è a loro cara, indipendentemente dal loro attaccamento a una esperienza di fede vissuta quotidianamente. Anche questo del mangiare con i poveri e farlo nel modo normale, come tutti i giorni facciano anche senza di lui, è un segno che viene molto apprezzato e soprattutto – direi – proprio da chi è un po’ distante, almeno formalmente, dal nostro vissuto ecclesiale.

D. – Come in tante altre mense della Caritas di altre città, ci sono anche molti italiani: sappiamo quanto sia pressante anche il problema della perdita del lavoro… Francesco tante volte ha sottolineato, con toni veramente vibranti, quanto la dignità del lavoro sia importante. Cosa può dire al riguardo?

R. – Noi abbiamo tante storie che si intrecciano anche nella nostra mensa storica. Abbiamo qualcuno che viene e ci chiede – con molta umiltà – di venire senza fare la fila, quella che normalmente si fa per entrare, perché si vergogna e ha paura che qualcuno da fuori lo veda. Ci sono persone che hanno avuto delle attività fino a poco tempo fa, che ora sono in grosse difficoltà, che sono rimaste sole… Per tradizione, alla nostra mensa non si arriva solo per mangiare: c’è una grande sale di ingresso in cui, già dalle 9 del mattino, specialmente le persone anziane del quartiere, che sono sole, si ritrovano a parlare fra di loro. E’ un luogo di umanità. E questo Papa viene a confermarci in questa umanità e viene a dirci che anche lui, che è così importante, così straordinario nella sua missione, è veramente uno di noi ed è uno che condivide con noi: non per fare lo "show", ma per darci un segno di come nella semplicità, nella sobrietà, nell’attenzione agli ultimi probabilmente si ritrovano anche le ragioni del nostro essere umani. E siccome il Convegno, all’interno del quale si svolge questa giornata, ci richiama all’umanesimo cristiano, questo è un modo per dimostrare che per noi l’umanesimo cristiano è lo sporcarci le mani tutti i giorni, stare con gli ultimi, starci con il cuore puro possibilmente – per grazia di Dio – ma anche con la voglia di “compromettersi” per e con quelli che fanno più fatica a tenere il passo di questa società, così complessa e così difficile da gestire.

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Oggi in Primo Piano



L'Is rivendica in un video l’attentato all’aereo russo

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I miliziani del sedicente Stato islamico hanno pubblicato un nuovo video in cui celebrano il recente abbattimento dell'aereo russo con 224 passeggeri, sui cieli del Sinai. Il britannico Sunday Times, citando fonti dell'"intelligence" di Londra, sostiene che l’organizzatore dell’attentato sarebbe l’egiziano Abu Osama al-Masri, leader dei miliziani integralisti che da anni operano nel Sinai. Intanto, prosegue il rientro di massa dei turisti occidentali da Sharm el-Sheikh, mentre le autorità del Cairo continuano a smentire l’ipotesi della bomba a bordo. Il servizio di Marco Guerra: 

Si intitola "Soddisfazione delle anime nell'uccisione dei russi" il video di 7 minuti pubblicato sul web dai militanti dell’Is per celebrare l'abbattimento, avvenuto la settimana scorsa, dell'A321 della russa Metrojet. Durante le immagini la voce di un jihadista rivendica l’attentato come vendetta dei raid condotti da Mosca in Siria. Nel video compaiono anche alcune persone che si complimentano dell'azione che inneggiano a nuove attacchi. E secondo indiscrezioni raccolte dal Sunday Times, la mente dell'attentato sarebbe il leader di un gruppo affiliato all'Is nel Sinai, l'egiziano Abu Osama al-Masri, già considerato “persona di interesse" da Londra. Sempre la stampa britannica, parla di intercettazione di conversazioni in inglese che celebrano la morte dei 224 passeggeri dell’aereo russo. E nuove conferme sull’ipotesi della bomba a bordo arrivano un membro del team di esperti che indaga sul disastro. Intanto, non si placano le polemiche sulla sicurezza all’aeroporto di Sharm el-Sheikh, alcuni addetti dello scalo raccontano di telecamere di sorveglianza rotte e posti di controllo lasciati senza personale.

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Iraq, raid Usa anti-Is. Mons. Yaldo: qui cristiani come eroi

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Ancora violenze in Iraq. Nelle ultime 24 ore, almeno 15 raid della coalizione internazionale guidata dagli Usa hanno colpito obiettivi del cosiddetto Stato islamico, dieci dei quali concentrati intorno a Ramadi o a Sinjar. Ieri, almeno nove persone sono morte in seguito a una serie di bombe esplose a Baghdad. Non si registrano rivendicazioni ma i sospetti ricadono i su miliziani dell’Is. Infine, almeno 15 jihadisti sono stati uccisi dai combattenti curdi peshmerga mentre tentavano di assaltare il villaggio di Bashary, a ovest di Mosul. Per una testimonianza sulla situazione in Iraq, e in particolare sulle condizioni della comunità cristiana, Klaudia Bumci ha intervistato l’ausiliare caldeo di Baghdad, mons. Basilio Yaldo, incontrato a Tirana, in Albania, al recente incontro del "Global Christian Forum":  

R. – La situazione dei cristiani in Iraq è molto difficile; ma posso dire che tutti gli iracheni soffrono della situazione attuale, per la mancanza dei servizi sociali, dell’assistenza sanitaria. Non si trova lavoro, mancano elettricità, acqua e altri servizi… La cosa più grave è la mancanza di sicurezza per la gente, perché ogni giorno succede qualcosa, specialmente a Baghdad, dove vivo con il patriarca nel Patriarcato… Per esempio, quando usciamo per visitare una chiesa o un’opera pastorale, non sappiamo se torneremo perché in strada potrebbe sorprenderci un’esplosione, una bomba… Viviamo ogni giorno con queste difficoltà. Percepiamo la sofferenza dei cristiani in Iraq, specialmente nel nord del Paese, e dopo l’ingresso del sedicente Stato islamico nella seconda città più grande dopo Baghdad, Ninive, che si chiama attualmente Mosul. Avevamo tanti villaggi cristiani. Adesso sono tutti fuggiti, molti cristiani hanno lasciato l’Iraq e questo per noi è una grave perdita, perché se il Paese sarà svuotato dai cristiani, non ci sarà più la ricchezza del Paese. I cristiani hanno lavorato molto per l’Iraq in ambito scientifico, culturale, religioso… Hanno dato tanto al Paese, all’Iraq. Gli altri lo sanno, questo: quasi tutte le persone istruite, come ingegneri, avvocati, medici, sono stati cristiani, fin dai primi secoli quando i musulmani sono arrivati in queste zone. Erano i cristiani quelli che hanno lavorato molto per questo Paese, per l’Iraq.

D. – La cosa più impressionante di questo incontro è che la gente che sta dando testimonianza della persecuzione propria e della propria gente non dice: “Aiutateci in qualche modo a uscire da lì”, oppure: “Dateci denaro per sopravvivere”, ma dice soprattutto: “Noi torneremo lì, testimonieremo ancora Cristo: pregate per noi”. E’ una cosa veramente impressionante…

R. – Sì, ha ragione. Ho sentito anche altre testimonianze. Quando si sente parlare di persecuzioni negli altri Paesi, forse il tuo caso diventa più "facile" rispetto alle altre situazioni come quelle attuali in Siria, in India, in Nigeria con Boko Haram… Questo incontro ci lascia un messaggio, le testimonianze dei martiri: ci dicono di rimanere nel Paese, di dare questa testimonianza a Gesù Cristo con il martirio. Quando sono ritornato a Baghdad mi hanno detto: “Ma perché ritorni a Baghdad? Tu sei stato rapito…. Poi, c’è la paura di quei gruppi…”. Ho risposto: “Io non sono migliore degli altri, perché come il mio amico, padre Aghid, ha dato la sua vita. Io non sono migliore di lui o di altri: tutti siamo testimoni di Gesù Cristo”. Ritornare in Iraq significa proprio questo: ci incoraggia a stare con il nostro popolo che soffre, anche se non possiamo fare nulla. Quello che conta è stare con loro. Io sempre, ogni domenica, vado in una chiesa diversa di Baghdad. Lo faccio per incoraggiare il popolo, per dire: “Siamo con voi. Siamo tutti uguali. Siamo qui per testimoniare Gesù Cristo, perché siamo cristiani”. Il nostro popolo, per esempio, ha lasciato i villaggi, le case, le proprietà, tutto quello che avevano, ma non ha lasciato la sua fede. Questo è molto importante, perché i musulmani hanno chiesto tre cose: pagare la tassa, oppure diventare musulmani oppure la morte. Loro hanno lasciato tutto, ma non hanno lasciato la fede. Questo per noi è molto importante. Anche qui, chiediamo la solidarietà degli altri, la preghiera: è più importante dell’aspetto materiale, perché se tu aiuti con i soldi, dopo una settimana, un anno finiscono. Noi vogliamo una cosa che ci faccia sentire che il mondo è con noi, che tutti i cristiani nel mondo ci facciano sentire che non siamo soli. Questo per me è molto importante: è molto importante, questo messaggio che viene dal "Global Christian Forum", che siamo uniti, che seguiamo Cristo insieme, come Chiese dei martiri.

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Sierra Leone libera dall’Ebola. P. Boa: Paese prova a ripartire

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L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha dichiarato la Sierra Leone ufficialmente libera dall'Ebola. Sono infatti trascorsi 42 giorni, pari a due cicli di incubazione del virus, senza che sia stato segnalato alcun nuovo caso di infezione. Negli ultimi 18 mesi, l'epidemia ha ucciso nel Paese africano quasi quattromila persone, su un totale di 11.300 morti, registrati anche in Guinea – lo Stato più colpito – e in Liberia. Una cerimonia ufficiale ha celebrato il traguardo a Freetown: soddisfazione è stata espressa dal presidente Ernest Bai Koroma, dal 2007 alla guida della Sierra Leone, dopo una guerra civile che, tra il 1991 e il 2002, ha provocato oltre 120 mila vittime. Sulle celebrazioni di queste ore, Giada Aquilino ha intervistato padre Maurizio Boa, giuseppino del Murialdo, missionario a Freetown: 

R. – Ho visto ovunque tanta gente, festa, musica. Credo sia un senso di liberazione, di gioia: adesso tutto ricomincia daccapo, si può riprendere la vita normale! La gente è contenta: anche questa mattina nel mio ufficio sono venuti in tanti, tra cui i ragazzini del catechismo, e la prima notizia che mi hanno dato è stata: “Sai che non c’è più Ebola, non c’è più Ebola, non c’è più Ebola!”. Erano veramente contenti, come se facessero parte di tutti coloro che si erano dati da fare per sconfiggerla…

D – Questa tragedia come lascia di fatto il Paese?

R. – Soprattutto per la sanità e la scuola lascia un’impronta dura, difficile da risolvere immediatamente. Molti dottori, infermieri, insegnanti sono morti. Nove mesi, quasi un anno senza scuola! Tutti gli imprenditori stranieri se ne sono andati... Adesso, mi auguro che torneranno e riapriranno un po’ le attività che stavano facendo, così ci sarà lavoro. Però, certo, la nazione è giù...

D. – Perché questa epidemia ha provato il Paese anche dal punto di vista economico…

R. – Sì, certo, veramente si è rimasti senza sostentamento, tanto più che i mercati erano chiusi, il commercio era fermo, non ci si poteva toccare, non ci si poteva muovere, quindi un po’ tutto si era bloccato. Soltanto l’aiuto straniero, che è venuto dall’America, dall’Europa, da tante organizzazioni, ha potuto far continuare la vita qui, soprattutto agli orfani, alle vedove, a coloro che erano ammalati di Ebola, ai "survivors". Posso parlare per esperienza diretta del campo profughi di Waterloo, "Kissi Town", dove sono impegnato: non c’era niente da mangiare per parecchi mesi e abbiamo dovuto provvedere in qualche modo. Ieri, comunque, ho visto che anche i mercati erano aperti, quindi si è ripreso un po’ tutto.

D. – Un’altra conseguenza dell’epidemia è appunto quella dei bambini rimasti orfani: come si sta affrontando?

R. – I Salesiani hanno fatto molto. Io ne ho 134 in questo campo, a "Kissi Town". Stiamo cercando per loro famiglie e orfanotrofi: i tre orfanotrofi, le “Murialdo Homes”, sono aperti per loro, però sono tanti... Arrivare a casa e trovarsi senza nessuno è stato un colpo duro, per questi piccoli: abbiamo dovuto immediatamente trovare una famiglia, qualcuno che sostituisse l’affetto, l’attenzione che avevano i genitori. Ce l’abbiamo fatta e adesso, pian piano, cercheremo di risolvere la questione stabilmente. Cercheremo famiglie affidatarie o altro, perché questi ragazzi abbiano veramente un futuro sereno, tranquillo.

D. – Tra le emergenze e le piaghe di questo Paese, c’è anche quello delle ragazze incinte, giovanissime, che hanno problemi con la scuola…

R. – Sono contento che venga fuori questo problema. Parlo direttamente del campo di "Kissi Town": il 70% delle ragazze al di sotto dei 18 anni ha un bambino o è incinta. Una cifra che quando l’ho sentita – e mi è stata riferita dai capi del villaggio, dai capi del campo – ho pensato: “Bisogna darci da fare, far qualcosa per queste ragazze”. Allora stiamo pensando a una nursery, a un asilo dove ospitare i bambini per permettere alle mamme di continuare ad andare a scuola. Stiamo costruendo un ospedale, adesso: l’asilo lo faremo a breve come risposta a questa emergenza.

D. – Lei è in Sierra Leone da 20 anni: quali sono le sue speranze?

R. – Dopo la guerra pensavamo che fosse impossibile tirarci su e invece si era riusciti ad andare avanti bene. La Sierra Leone era riuscita a venir via dall’ultimo posto nella lista dei Paesi sviluppati. Si riprenderanno ancora: sono convinto che si riuscirà a ripartire pian piano, come dopo il conflitto.

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Croazia, elezioni. Sfida tra partito al governo e centrodestra

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Si vota oggi per il nuovo parlamento in Croazia. Quasi quattro milioni gli aventi diritto, distribuiti in settemila seggi. Si prefigura un testa a testa dall’esito incerto tra le due grandi coalizioni del Paese : il centrosinistra “La Croazia cresce” del premier Milànovic, e la “Coalizione patriottica” di centrodestra, guidata da Karamarko, leader dell’Unione democratica. Ma su quali temi e come si è giocata la campagna elettorale per il futuro del Paese che versa in condizioni economiche difficili? Gabriella Ceraso lo ha chiesto ha Francesca Rolandi, corrispondente in Croazia del "QCode Magazine": 

R. – La campagna elettorale si è presentata particolarmente aspra e si è assistito a una forte personalizzazione dello scontro tra i leader. Due diversi universi valoriali, due diversi concetti di cittadinanza, con "Comunità democratica croata" che avrebbe contribuito alla creazione di un clima tollerante verso la diversità e in particolare verso la minoranza serba. A questo riguardo aggiungerei, però, che la carta nazionale è stata giocata anche dai socialdemocratici, che in questo modo hanno voluto ribattere alle accuse di mancare di realtà verso la patria e di non dare la dovuta importanza alla memoria della guerra patriottica degli anni Novanta. I socialdemocratici si fanno forti di alcuni risultati economici positivi, soprattutto nel campo dell’export e del turismo, e si vantano anche di aver portato la Croazia fuori dalla crisi. Anche se poi nessuna delle due coalizioni offre una soluzione approfondita e a lungo termine…

D. – Quindi, secondo il suo punto di vista, le priorità partono comunque sempre dall’economia per la Croazia?

R. – Sì, perché ci sono forti indicatori di povertà e un tasso di disoccupazione che supera il 16%. Molti giovani, spesso anche scolarizzati, lasciano questo Paese e il numero di coloro che vanno in Germania è sempre più alto.

D. – Da che cosa dipenderà il dopo voto?

R. – Dipende da altre sigle: in particolare, nei sondaggi è dato al 14% una lista, che si chiama “Most”, ”Ponte”, che si considererebbe come il terzo partito croato, richiamandosi a parole d’ordine come “la lotta contro la vecchia politica”, “la lotta contro la corruzione”… Potrebbero richiamare il Movimento 5 Stelle.

D. – Verso cosa sta andando la Croazia? Verso quale futuro politico, se così si può dire?

R. – E’ difficile dirlo. Chiaramente, una vittoria del partito di centrodestra porterebbe un cambiamento forse non tanto nelle misure politiche, ma probabilmente nella dialettica politica e potrebbe aumentare quello che è stato descritto da varie parti come un “clima di intolleranza montante”, che per alcuni aspetti richiama alcuni incubi degli anni Novanta.

D. – Invece, una vittoria del centrosinistra?

R. – Porterebbe certo una continuità con quelli che sono stati questi quattro anni, probabilmente con una situazione economica parzialmente migliorata rispetto a quella che questa coalizione si è trovata a fronteggiare nel 2011, ma comunque sempre altamente problematica per la Croazia, che ha di fronte alcune sfide, sia nel campo economico che nel campo delle riforme, la cui soluzione – in questo momento – non appare semplice.

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Roma, in migliaia alla "Marcia per la Terra" in difesa del creato

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In migliaia hanno marciato oggi a Roma in difesa della terra, con partenza dal Colosseo e arrivo in Piazza San Pietro, in tempo per l'Angelus di Papa Francesco, che ha rivolto loro un saluto e un ringraziamento. Un’iniziativa legata alla due giorni che il Vicariato dedica alla Giornata diocesana per la custodia del creato. Il servizio di Alessandro Guarasci

E’ compito di tutto noi prenderci “cura della casa comune”, nel segno dell’Enciclica “Laudato si'” scritta dal Papa. Oltre 70 associazioni italiane e internazionali hanno aderito alla "Marcia per la Terra". Il percorso ha attraversato il centro di Roma: alle 9 appuntamento al Colosseo per raggiungere piazza Santi Apostoli. Lì, è stato allestito il "villaggio Laudato si’" con mercatini solidali e laboratori per i bambini, mentre nella Basilica il cardinale Vallini ha celebrato la Messa. Un appuntamento che cade a 20 giorni dalla Conferenza dell’Onu sul clima a Parigi, come dice Pierluigi Sassi, presidente di "Earth Day Italia", principale organizzatore della marcia:

R. – E’ una marcia che vuole scendere in campo, perché a Parigi non saranno rappresentati gli interessi di tutti: persone che non abbiamo eletto decideranno del nostro futuro, decideranno del futuro del pianeta.

D. – Ma, secondo lei, ormai, nella società si è fatto breccia questo principio per cui l’ecosistema, la tutela dell’ambiente, è un bene prioritario?

R. – Sicuramente. La “Laudato si'” ha sugellato una volta per sempre che economia, ambiente e società, soprattutto, sono parti di uno stesso ingranaggio, di uno stesso meccanismo: non si può toccare l’uno, senza condizionare l’altro. E, soprattutto, questa folle ricerca del profitto e del benessere tecnologico ha ridotto drammaticamente la qualità delle nostre vite. I cambiamenti climatici sono sotto gli occhi di tutti e anche i Paesi ricchi oggi devono fare i conti con i disastri ambientali. Questo ci ha fatto capire come anche fenomeni che erano in realtà silenti, rispetto ai loro significati – come per esempio le grandi migrazioni che nascono dalle povertà, che sono collegatissime ai disastri ambientali e al cambiamento climatico – poi finiscono per ricadere anche su di noi.

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Progetto "Freedom of moving", domotica a servizio della disabilità

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Aiuta le persone con disabilità a superare le barriere architettoniche e a facilitare la loro quotidianità: è la casa "hi-tech", totalmente accessibile e dotata di innovazioni tecnologiche. Fa parte del progetto “Freedom of Moving”,  ideato dall’imprenditore Dario Rolfi, al quale Maria Cristina Montagnaro ha chiesto come sia strutturata questa casa per persone diversamente abiliti: 

R. – La casa è sotto progetto e di conseguenza, quindi, in "working progress". E’ chiaro che la casa sarà – immaginandocela – una casa a cubo, un po’ come quelle case che adesso vanno tanto di moda fra gli architetti internazionali, quindi una casa non di tradizione italiana, ma un po’ più, diciamo, "californiana". Un cubo completamente vetrato, una parete molto grande vetrata, divisa semplicemente in due zone: una zona giorno e una zona notte. La zona notte non sarà la tipica zona notte nella quale una persona va solo a dormire, ma sarà una zona notte in cui la persona disabile potrà anche avere il proprio ufficio, la propria sala di massaggi, la propria sala di riabilitazione, perché solitamente vediamo che questa zona è quella un po’ più sfruttata.

D. – Dove si progetterà?

R. – La progetteremo nella nostra azienda. Abbiamo contattato una serie di esperti, che stanno già mettendo le basi per questo progetto. Abbiamo ascoltato, sì, gli esperti, ma anche i genitori, perché le più grandi innovazioni che noi abbiamo fatto nel nostro settore – nel trasporto, in questo caso – le abbiamo fatte ascoltando le mamme dei bambini disabili…

D. – Quali sono le difficoltà più comuni che incontrano nella loro vita quotidiana?

R. – Non si ricordano con dispiacere o con tanto dispiacere le operazioni che hanno subito o il dolore o la sala operatoria, ma si ricordano tutti della difficoltà di poter perdere la loro privacy e andare in bagno… E’ un progetto che sta maturando e che permette di avere dei denominatori minimi da cui partire, ma anche riuscire fare una casa che possa essere vivibile da un punto di vista anche psicologico. Pensiamo che una persona costretta in casa per gran parte del proprio tempo debba avere anche degli spazi che, dal punto di vista psicologico, la facciano sentire come se fosse all’esterno.

D. – Ci può fare qualche esempio?

R. – Avere degli spazi interni che non abbiano pareti o che abbiano meno pareti possibili e che la stanza possa diventare una stanza in cui dal letto si possa andare in bagno, ma senza dover per forza passare cinque porte. E all’interno, vorremmo mettere molte piante.

D. – Quanto conta la tecnologia nel semplificare la vita delle persone con disabilità?

R. – All’interno di una casa domotica, ci può essere sicuramente qualcosa che possa far sì che una persona con limitata funzionalità possa con il proprio smartphone comandare gran parte della casa, ad esempio, nell’accensione e nello spegnimento delle luci e soprattutto nel modificare quelle che sono le misure standard del letto, del tavolo della cucina, che per forza devono subire delle variazioni nel senso della propria altezza. Qual è il problema che esiste oggi? Una persona può acquistare un veicolo, anche il miglior veicolo che possa esistere, ma il veicolo difficilmente entra in garage. Una volta entrato in garage, la carrozzella, con difficoltà, sale le scale. Poi, bisogna cambiare un servoscale che consenta alla persona di entrare nel proprio bagno, dal proprio bagno nella propria camera da letto…

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Gli 800 anni dei Domenicani. Il Papa: grazie per ciò che siete e fate

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“Che il Signore vi benedica tanto in questa ricorrenza. E grazie tante per tutto quello che fate nella e per la Chiesa”. Con queste parole, al termine dell’Angelus, Papa Francesco ha ricordato l’Ordine Domenicano, che ieri ha inaugurato solennemente, con una Messa nella Basilica romana di Santa Sabina, un anno giubilare indetto per celebrare gli 800 anni dalla propria fondazione. A presiedere la liturgia è stato il maestro dei Frati Predicatori, Fr. Bruno Cadoré, nel giorno in cui l’Ordine ricorda tutti i propri Santi. L’anno speciale si concluderà il 21 gennaio 2017, data della Bolla “Gratiarum omnium largitori” con cui Papa Onorio III riconosceva l’Istituto. Il tema che guiderà questi mesi è “Mandati a predicare il Vangelo”. Hélènes Destombes ne ha parlato con lo stesso maestro dell’Ordine, Fr. Cadoré: 

R. – L'évangélisation est toujours nouvelle…
L’evangelizzazione, in fondo, è sempre nuova. Oggi, il contesto è nuovo e cambia continuamente e ogni volta bisogna trovare il modo di incontrare la gente, alla quale poter dire che il nome di Gesù Cristo è la Buona Novella per loro, per noi e per tutti. E’ necessario quindi riuscire a trovare sempre nuovi metodi: metodi di incontri, metodi di ascolto per comprendere quali siano le  attese, le nuove aspettative: le aspettative della parola, del sostegno, della consolazione, le aspettative della misericordia.

D. – Quali sono questi nuovi metodi che voi richiamate?

R. – le monde a de nouveaux réseaux sociaux...
Per esempio, il mondo ha una nuova rete sociale: ci sono nuovi modi di incontrarsi, nuove vie di essere comunità, nuove vie di entrare in amicizia. Questo è il nuovo. Ma c’è anche il “vecchio”, che non passerà mai: l’incontro con le persone e l’ascolto delle persone. C’è qualcosa che deve essere ancora scoperto: come nel mezzo di questa globalizzazione, al centro delle attività degli uni e degli altri, di tutti gli stili di vita, sia possibile prendersi del tempo per sedersi, per fermarsi, per ascoltare, per cambiare… Per avere il tempo di comprendere che è la ricerca che ci anima. E’ la cosa più fondamentale.

D. – L’inculturazione e l’interculturalità sono delle priorità…

R. – L’inculturacion est important dans le Évangile depuis le début…
L'inculturazione è importante nel Vangelo fin dall'inizio: si comprende immediatamente come il Vangelo entri in dialogo con le culture che incontra. Come è entrato in dialogo ad Atene o quando i primi predicatori si sono avvicinati all’Europa che noi conosciamo… L’inculturazione è sempre importante. Il Vangelo è sempre incompleto quando non parla con gli altri. L’interculturalità è oggi estremamente importante in un mondo globalizzato, perché  le nostre chiese, le nostre parrocchie, le nostre comunità sono composte da membri che arrivano da tutte le culture. Si tratta quindi di inventare una nuova fraternità, partendo proprio da quanto ciascuno porta a questa fraternità dell’eredità della sua propria cultura. Questo è un qualcosa di magnifico! Ci vuole molto tempo per scoprire se si è compresa la cultura dell’altro…

D. – Lei ha invitato i Domenicani ad approfittare di questo Giubileo per dare prova di “audacia”. Ma come deve essere espressa questa audacia?

R. – Surtout oser: aller à la rencontre de ce qui ne vient pas…
Soprattutto osare. Incontrare colui che non viene al nostro incontro. Le nostre chiese hanno la possibilità di riunire i fedeli, di riunire i credenti, di riunire le comunità, di riunire gli amici di Dio. Allo stesso tempo, è però necessario che questa possibilità non ci impedisca di avere il desiderio di aprire le porte e di andare all’incontro di coloro che non hanno ancora sentito il nome di Gesù Cristo, all’incontro di tutti coloro in cui il nome di Gesù Cristo non è ancora risuonato nel cuore come una Buona Novella. Questa è l’“audacia”: avere l’audacia di incontrare coloro che non vengono…

D. – Questo Giubileo si è aperto un mese prima del Giubileo straordinario della Misericordia, voluto da Papa Francesco. E’ tutto molto simbolico…

R. – Je suis très touchet de cette occurence…
Sono molto toccato da questo evento: per noi è un segno della Provvidenza, perché la FRamiglia domenicana, sin della sua fondazione, è stata molto spesso indicata come “predicatrice dalla Misericordia”. La Misericordia è sempre qualcosa che viene dal Signore, qualcosa del Signore che viene all’incontro col mondo per farlo nascere, per farlo rinascere. Quindi, che questo nostro Giubileo si tenga proprio mentre Papa Francesco apre l’Anno giubilare della Misericordia richiama in noi il fatto che questo tema, questa realtà è centrale ed essenziale.

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"Malala", film sul coraggio della pace che nasce dalla paura

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Dopo essere stato proiettato nella Camera dei Deputati italiana, alla presenza della presidente, Laura Boldrini – un evento organizzato in collaborazione con Sky e 20th Century Fox – "Malala", il film dedicato alla più giovane vincitrice del Premio Nobel per la Pace, è arrivato nelle sale italiane. Per dare voce a una storia di straordinario impegno civile e di coraggio in aiuto di tutte le ragazze del mondo alle quali è negato il diritto all'istruzione. Il servizio di Luca Pellegrini: 

(clip dal film)

Ziauddin (papà di Malala): “In tutto questo tempo non hai mai provato rabbia?”

Malala: “No, nemmeno un briciolo, nemmeno un atomo o il nucleo di un atomo, nemmeno un protone… l’islam ci insegna l’uguaglianza del genere umano, il perdono”.

Il 9 ottobre del 2012, una pallottola tentò di fermare Malala Yousafzai per sempre, annientando non solo il corpo di una sedicenne, ma ciò che rappresentava per la sua comunità e il suo Paese. Lei perdonò. La sua era la voce, come lei stessa disse nel 2014 a Oslo ricevendo il Premio Nobel per la Pace - la più giovane della storia - di 66 milioni di bambine alle quali viene negato il diritto alla scuola, all'istruzione, alla conoscenza. Il film “Malala”, diretto dal celebre documentarista Davis Guggenheim, è il ritratto intimo di questa ragazzina pakistana vissuta nel distretto dello Swat e che, per la follia del regime talebano di cui è stata bersaglio e vittima, è divenuta un simbolo di giustizia e libertà.

La bellezza di una famiglia
Gugghenheim ha voluto avvicinare questo soggetto così delicato soprattutto raccontando "la storia di una famiglia sono le sue parole la storia dell’amore di un padre e di una figlia che si sente sostenuta e autorizzata a fare cose bellissime. La cosa più straordinaria della storia di Malala è la sua famiglia, i suoi rapporti e le scelte che hanno fatto nelle loro vite", conclude. Anche se il ricordo di quell'autobus macchiato del suo stesso sangue e quello di due compagne non l'abbandona mai.

Dalla paura è nato il coraggio
Non prova rabbia per ciò che le è successo: "Nella mia vita non è cambiato niente a parte questo – afferma risoluta nel film – la debolezza, la paura e il pessimismo sono morti; sono nati la forza, la potenza e il coraggio". Confermando l'amore per il suo Paese, il Pakistan, e la sua fedeltà all'Islam, per lei religione di pace e di dialogo, perché «Dio non è come dicono loro, i talebani", esclama. Al suo fianco il padre, Ziauddin, che l'aiuta e accompagna anche nei suoi compiti istituzionali, quando parla con Obama, la Regina Elisabetta e l'ex presidente della Nigeria, Jonathan, al quale si rivolge con franchezza, sostenendo l'intervento per la liberazione delle 200 studentesse rapite da Boko Haram. Mentre ricorda quello che è successo in Pakistan dopo la presa del potere, nella sua incantevole valle, da parte dei talebani: 400 scuole rase al suolo, privando 40 mila ragazze del diritto all'istruzione.

Malala, una forza di pace
Gugghenheim capovolge la prospettiva della distruzione credendo nella capacità del suo film di costruire, facendo di Malala una forza di dialogo, pace e progresso per proteggere le ragazze e chiedere istruzione per tutti. "Se qualcun altro venisse ispirato a parlare a gran voce vedendo questo film, sarebbe qualcosa di speciale", è l’auspicio del regista. Mentre le immagini sullo schermo sono quelle dei tre milioni di bambini in Siria che hanno smesso di andare a scuola. Un altro fronte tragico, un altro dramma senza fine.

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Nella Chiesa e nel mondo



Birmania, elezioni: affluenza all'80%. Favorita Aung San Suu Kyi

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Si sono chiusi i seggi per le prime elezioni libere in Birmania dal 1990. Secondo la Commissione elettorale, l'affluenza è intorno all'80% e per gli osservatori dell’Ue le operazioni di voto si sono svolte in maniera “regolare”, sebbene in diversi seggi cittadini, già dall'apertura si sono registrate code di decine di metri.

La leader della Lega nazionale per la democrazia (Nld) e Premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, ha votato oggi per la prima volta nella sua vita. San Suu Kyi, 70 anni, ha sorriso ai giornalisti che l'attendevano nel seggio vicino alla sua abitazione ma non ha rilasciato commenti. Il partito di opposizione Nld è dato per favorito. Per 15 anni, la leader dell’opposizione birmana Aung San Suu Kyi è entrata e uscita dagli arresti domiciliari e anche per questo non ha mai avuto modo di votare. Nel 2010, la giunta militare al potere accettò di indire le elezioni che portarono all'attuale governo, ma il suo partito le boicottò contestando le leggi elettorali. E di nuovo Aung San Suu Kyi venne messa agli arresti domiciliari. (M.G.)

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Nuovi attacchi contro israeliani. Uccisi due palestinesi

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Domenica di violenze in Cisgiordania e a Gerusalemme per la nuova Intifada palestinese. Quattro cittadini israeliani, tra i quali una donna incinta, sono rimasti feriti quando un'auto guidata da un palestinese, secondo le ricostruzioni, ha intenzionalmente investito il gruppo nel nord della West Bank. Due uomini, di 22 e 21 anni, sono rimasti gravemente feriti, mentre altre due persone, tra le quali la donna, hanno subito danni minori. L'autista dell'auto è stato colpito a morte dalla polizia di frontiera israeliana. Circa un'ora dopo, una donna palestinese di 22 anni è stata colpita a morte dopo aver accoltellato una guardia di sicurezza all'ingresso dell'insediamento di Beitar Illit, a sud di Gerusalemme. La donna proveniva da un villaggio nei pressi di Betlemme.

Secondo il ministero degli Esteri israeliano, sono 10 i cittadini israeliani che dall'inizio di ottobre sono stati uccisi in attacchi da parte di palestinesi. Dal canto suo, il Ministero della sanità palestinese riferisce che, nello stesso periodo, i palestinesi uccisi sono stati 80, la maggior parte coinvolti in attacchi con coltelli o con veicoli a motore. Altri sono rimasti uccisi in scontri con le forze di sicurezza israeliane. (M.G.)

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Burundi, scaduto ultimatum all’opposizione. Ancora vittime

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In Burundi, sono scaduti ieri i cinque giorni di ultimatum lanciato del presidente, Pierre Nkurunziza, affinché gli oppositori consegnino le armi da fuoco illegali in cambio di un'amnistia. Nei quartieri settentrionali della capitale Bujumbura, alcuni manifestanti hanno ignorato la scadenza dell’ultimatum e in un bar frequentato da membri dell’opposizione hanno fatto irruzione uomini armati uccidendo almeno sette persone. Le vittime sono state fatte uscire all'esterno del locale e freddate a colpi d'arma da fuoco. La presidenza ieri ha cercato rassicurare la comunità internazionale circa i timori di una ondata di violenza etnica su vasta scala, mentre gli abitanti dei quartieri più interessati dalle manifestazioni antigovernative stanno fuggendo da queste aree in preda al panico. Sono almeno 198 le persone uccise nel Paese da aprile, quando il presidente Pierre Nkurunziza si è candidato per il terzo mandato.

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Aleppo, Porta Santa verrà aperta tra le macerie di una parrocchia

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Il 13 dicembre, pochi giorni dopo l’inizio ufficiale del Giubileo della Misericordia, nella città martire siriana di Aleppo, sotto assedio dal 2012, verrà aperta una Porta Santa nella parrocchia di san Francesco. Come ricorda il quotidiano Avvenire, il luogo scelto è altamente simbolico perché la chiesa di San Francesco il 25 ottobre scorso è stata colpita e danneggiata da un lancio di granate. Poteva essere una strage se l’ordigno fosse esploso all’interno del struttura, dove si stava celebrando la Messa, invece che all’esterno. L’esplosione ha comunque squarciato la cupola e ferito sette persone in maniera non grave. Quella di San Francesco è l’unica chiesa della zona ad essere ancora agibile, un rifugio per molti fedeli. Delle 30 chiese attive ad Aleppo prima delle ostilità, oggi metà sono distrutte o inaccessibili. Nonostante ciò, saranno centinaia i fedeli che attraverseranno la Porta Santa nella città siriana. Il vicario apostolico di Aleppo, il francescano Georges Abou Khazen, ha detto che questa guerra sarà vinta “con la preghiera, la solidarietà tra di noi e con la misericordia”. In occasione del Giubileo, altre due Porte Sante saranno aperte in Siria, una a Damasco e una a Latakia. (M.G.)

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Perù, programma per la Beatificazione dei preti uccisi nel '91

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In Perù, cresce l’attesa per la Beatificazione dei tre sacerdoti uccisi nel 1991 dal gruppo terroristico "Sendero Luminoso". Il programma ufficiale della cerimonia dei sacerdoti martiri, Michael Tomaszek, Zbigniew Strzalkowski e Alessandro Dordi, uccisi a Pariacoto, è stato presentato presso la sede del Congresso della Repubblica peruviana.

La presentazione, di cui riferisce l’agenzia Fides, si è svolta nella sala "Alberto Andrade", dove una delegazione della diocesi di Chimbote e rappresentanti di altre organizzazioni hanno fornito i dettagli della celebrazione in programma il prossimo 5 dicembre. Padre Juan Roger Rodriguez, presidente del Comitato per Beatificazione, ha spiegato che i tre sacerdoti verranno portati agli altari come martiri in "odium fidei". "I terroristi - ha spiegato il sacerdote - hanno voluto annientarli per sempre, ma oggi la Chiesa li propone come martiri della fede e testimoni della speranza". All’incontro di presentazione, svoltosi nella sede del parlamento peruviano, ha preso parte anche mons. Luis Bambarén Gastelumendi, vescovo emerito di Chimbote, che ha ricordato i tempi difficili del terrorismo e la fermezza dei sacerdoti, uccisi in odio alla fede. (M.G.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 312

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.