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Sommario del 21/11/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: educazione sia inclusiva, è un fallimento erigere muri

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L’educazione sia sempre inclusiva, mai fare proselitismo nelle scuole cattoliche. E’ quanto affermato da Papa Francesco nell’udienza ai partecipanti al Congresso Mondiale promosso dalla Congregazione per l'Educazione Cattolica, ricevuti in Aula Paolo VI. Rispondendo a braccio ad alcune domande, il Pontefice ha sottolineato che gli insegnanti sono tra gli operai più malpagati, ma svolgono un ruolo straordinario per la promozione dell’umanità. Ed ha messo in guardia da un’educazione selettiva che distanzi i ricchi dai poveri. Il servizio di Alessandro Gisotti

Dall’Africa alla Terra Santa, dall’India al Rione Sanità a Napoli. Sono state molte e toccanti le testimonianze offerte a Papa Francesco segno di quanto la Chiesa in ogni angolo del mondo cerca di promuovere la dignità umana, il dialogo, la cultura attraverso le sue istituzioni educative. Un’udienza calorosa, intervallata anche da canti e interventi in lingue diverse, a testimonianza dell’universalità della Chiesa anche nel campo dell’educazione.

Educare cristianamente, ma evitare di fare proselitismo
La prima domanda al Pontefice è stata proprio sul tema dell’impegno della Chiesa in contesti plurali, difficili, dove i cattolici sono minoranza. “Non si può parlare di educazione cattolica senza parlare di umanità – ha detto Francesco – perché precisamente l’identità cattolica è Dio che si è fatto uomo”.

“Educare cristianamente non è soltanto fare una catechesi: questa è una parte. Non è soltanto fare proselitismo: mai fate proselitismo nelle scuole, eh! Mai! Educare cristianamente è portare avanti i giovani, i bambini nei valori umani in tutta la realtà e una di quelle realtà è la trascendenza”.

Manca la trascendenza, educare ad aprire i cuori al Signore
Oggi, ha proseguito, c’è la tendenza ad “un neopositivismo, cioè educare nelle cose immanenti, al valore delle cose immanenti, e questo sia nei Paesi di tradizione cristiana sia nei Paesi” di altra tradizione. “Manca la trascendenza”, è stato il rammarico del Papa:

“Per me, la crisi più grande dell’educazione, per farla cristiana, è questa chiusura alla trascendenza. Siamo chiusi alla trascendenza. Preparare i cuori perché il Signore si manifesti: ma nella totalità. Cioè, nella totalità dell’umanità che ha anche questa dimensione di trascendenza. Educare umanamente ma con orizzonti aperti. Ogni sorta di chiusura non serve, per l’educazione”.

No a educazione selettiva che allontana i ricchi dai poveri
Francesco ha, quindi, risposto su una domanda sul vincolo tra scuola e famiglia. Il Papa ha sottolineato che “anche l’educazione è diventata troppo selettiva ed elitista” ed ha ammonito che sembra che abbiano diritto all’educazione solo alcuni popoli che hanno un certo livello economico:

“E’ una realtà che ci porta verso una selettività umana e che invece di avvicinare i popoli, li allontana; anche, allontana i ricchi dai poveri, che allontana questa cultura da un’altra. Ma questo anche accade nel piccolo: il patto educativo tra la famiglia e la scuola, è rotto! Si deve ricominciare”.

Rischiare sull’educazione informale, non bastano tecnicismi
“Anche il patto educativo tra la famiglia e lo Stato” è “rotto”, ha soggiunto, ed ha affermato che tra “gli operai più malpagati ci sono gli educatori”. E questo, ha detto, “vuol dire che lo Stato non ha interesse: semplicemente. Se l’avesse, le cose non andrebbero così”. Ecco perché, ha ripreso, “qui viene il nostro lavoro, di cercare strade nuove”. Ha così rammentato Don Bosco che in un tempo dominato dalla massoneria, ha cercato “un’educazione di emergenza”:

“E oggi ci vuole educazione di emergenza, bisogna rischiare sull’educazione informale, perché l’educazione formale si è impoverita perché è l’eredità del positivismo. Soltanto, concepisce un tecnicismo intellettualista e il linguaggio della testa. E per questo, si è impoverita. Bisogna rompere questo schema”.

L’insegnamento sia sempre inclusivo, non lasciare nessuno fuori
“Bisogna aprirsi a nuovi orizzonti – ha ripreso – fare nuovi modelli”. Ci sono tre linguaggi, ha indicato, “il linguaggio della testa, il linguaggio del cuore, il linguaggio delle mani. L’educazione deve andare per queste tre strade”:

“Insegnare a pensare, aiutare a sentire bene e accompagnare nel fare, cioè che i tre linguaggi siano in armonia; che il bambino, il ragazzo pensi quello che sente e che fa, senta quello che pensa e che fa, e faccia quello che pensa e sente. E così, un’educazione diviene inclusiva perché tutti hanno un posto; anche, inclusiva umanamente. Il patto educativo è stato rotto per il fenomeno dell’esclusione. Noi troviamo i migliori, i più selettivi, siano i più intelligenti, siano quelli che hanno più soldi per pagare la scuola o l’università migliore, e lasciamo da parte gli altri”.

E il mondo, ha ammonito, “non può andare avanti con un’educazione ‘selettiva’, perché non c’è un patto sociale che accomuni tutti”. Questa, ha soggiunto, “è una sfida: cercare strade di educazione informale”, non bisogna “cadere soltanto in un insegnamento di concetti”. La vera scuola, ha esortato, “deve insegnare concetti, abitudini e valori; e quando una scuola non è capace di fare questo insieme, questa scuola è selettiva ed esclusiva e per pochi”. Ed ha messo in guardia dal selezionare dei “super-uomini” ma solo “con il criterio dell’interesse”. Dietro a questo, ha detto, “sempre c’è il fantasma dei soldi: sempre!” e questi “rovinano la vera umanità”. Ancora, ha ribadito che “il dramma della chiusura incomincia nelle radici della rigidità” e che un genitore deve sempre “rischiare” nell’educazione di un figlio, “maestro di rischio ragionevole per andare avanti”.

Andare nelle periferie, far crescere i giovani in umanità
Il Papa ha infine risposto ad una domanda su come si possa essere educatori di pace in un tempo contrassegnato da quella che Francesco stesso ha definito “guerra mondiale a pezzi”. Il Pontefice ha innanzitutto affermato che la prima sfida è lasciare i “posti dove ci sono tanti educatori” e andare “alle periferie”, perché lì i giovani hanno “l’esperienza della sopravvivenza”, “hanno una umanità ferita”. E proprio da queste ferite deve partire il lavoro dell’educatore:

“Non si tratta di andare là per fare beneficienza, per insegnare a leggere, per dare da mangiare: no. Questo è necessario, ma è provvisorio. E’ il primo passo. Il problema – e quella è la sfida, e io vi incoraggio – è andare là per farli crescere in umanità, in intelligenza, in valori, in abitudini perché possano andare avanti e portare agli altri esperienze che non conoscono”.

Erigere muri è il più grande fallimento di un educatore
Il Papa ha così incoraggiato gli educatori ad andare avanti in questa sfida per vincere la “selettività”, l’“esclusione”, l’“eredità di un positivismo selettivo”. Andare in periferia, ha ribadito, non per fare beneficenza, ma per portare educazione proprio come faceva Don Bosco. Quindi, si è soffermato sull’educazione di pace in un tempo di guerra, ravvisando che la prima tentazione in questo momento è quella di erigere muri:

“I muri. Difendersi, i muri. Il fallimento più grande che può avere un educatore, è educare “entro i muri”. Educare dentro ai muri: muri di una cultura selettiva, muri di una cultura di sicurezza, i muri di un settore sociale che è benestante e non può andare più”.

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Beati 26 martiri Cappuccini. Amato: cristiani perseguitati e dimenticati

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Sono stati beatificati oggi nella Cattedrale di Barcellona 26 martiri Cappuccini uccisi in odio alla fede durante la guerra civile spagnola. Si tratta di padre Federico da Berga e 25 compagni, sacerdoti e fratelli laici. A presiedere il rito, il prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, il cardinale Angelo Amato, che ci parla dei nuovi Beati al microfono di Roberto Piermarini:

R. - Le uccisioni avvennero durante la persecuzione religiosa del 1936-37, quando la Chiesa spagnola divenne un tragico campo di morte con la soppressione violenta di migliaia e migliaia di vittime innocenti, vescovi, sacerdoti, consacrati e consacrate, laici. In questo tempo di terrore furono uccisi religiosi e religiose, tutti appartenenti a congregazioni benemerite della società spagnola e delle persone più bisognose. Erano Benedettini, Agostiniani, Francescani, Domenicani, Carmelitani, Trinitari, Mercedari, Gesuiti, Figlie della Carità, Figlie di Maria Ausiliatrice, Scolopi, Fratelli dell'Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, Maristi, Marianisti, Claretiani, Salesiani e tanti altri.

D. - Quale fu la sorte di questi martiri cappuccini?

R. - L'Ordine dei Frati Minori Cappuccini, il cui unico scopo era quello di beneficare i fedeli con l'eterno messaggio evangelico e francescano di "Pace e Bene", pagò anch'esso un elevato tributo di sangue, con l'uccisione di molti religiosi e, nel nostro caso, con il martirio di padre Federico da Berga e 25 confratelli sacerdoti e laici, dediti alla preghiera, allo studio, alla predicazione e alla carità verso i più poveri.

D. -  Come avvenne il loro martirio?

R. - Scoppiata la rivoluzione alla fine di luglio del 1936 i cappuccini furono cacciati dai loro conventi, che vennero saccheggiati e bruciati. Andarono distrutti mobili, biblioteche, dipinti preziosi, oggetti di culto. I religiosi si dispersero presso parenti, amici e conoscenti. Trentasei furono uccisi. Di essi, ventisei vengono proclamati beati come martiri della fede. La maggior parte di loro erano giovani entusiasti con un avvenire pieno di sogni apostolici. Fra Jordi de Santa Pau, ad esempio, era un diciannovenne buono, allegro, aperto alla vita. Disegnava bene e amava la pittura. Fu ucciso il 28 luglio del 1936. Fra Pacià Maria da Barcellona, anch'egli diciannovenne, da ragazzo era stato attivo nella Federazione dei Giovani Cristiani. Aveva emesso i voti nel marzo del 1936. Durante i primi mesi della persecuzione con coraggio portava la comunione agli ammalati e alle persone minacciate. Fu assassinato il 24 gennaio del 1937. Un altro diciannovenne, Fra Marçal de Vilafranca si congedò da sua madre dicendo: «Sta' tranquilla, mamma; la mia coscienza è in pace con Dio». I persecutori non risparmiarono nemmeno il più giovane, il diciottenne Fra Lluís d'Igualada, rifugiatosi in casa dei suoi parenti. Nato nel 1918, fu ucciso nel cimitero del villaggio di Claramunt il 31 ottobre del 1936.

Cacciati dai loro conventi bruciati e devastati, i frati erano consapevoli della loro sorte martiriale e abbracciarono «sorella morte» con la stessa serenità e gioia del loro patriarca San Francesco: «Laudato si', mi' Signore, per sora nostra morte corporale».

D. - Cosa dice oggi a noi tutti il martirio di questi Beati cappuccini?

R. - Il martirio di questo gruppo di Cappuccini ricorda a tutti noi che la ferocia anticristiana è viva ancora oggi. Secondo un rapporto dell'Aiuto alla Chiesa che soffre (ACS), pubblicato un mese fa, i cristiani sono il gruppo religioso più perseguitato, ma anche più dimenticato al mondo. I mezzi di comunicazione sociale, purtroppo, non parlano delle gravi limitazioni della libertà religiosa subite dai cristiani. Oggi sono almeno 22 i Paesi in cui i battezzati soffrono espulsioni, persecuzioni e uccisioni. Solo per fare un esempio, nell'aprile scorso, a Garissa, in Kenya, sono stati uccisi 147 studenti africani, solo perché erano cristiani e non conoscevano il Corano. Sono stati assassinati come animali da macello, per un odio insanabile verso la croce di Cristo, primo martire della Chiesa.

D. - Come reagire di fronte a questa carneficina?

R. - Guardando al Crocifisso. Il Signore ha perdonato i suoi carnefici, la Chiesa perdona i suoi nemici, i martiri spagnoli sono morti perdonando. Anche noi siamo chiamati a perdonare. Come dice la Lettera agli Ebrei, «manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza [...], cercando di stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (Eb 10,23-24). I Beati cappuccini catalani conoscevano bene l'insegnamento di Gesù: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,24-25).

D. - È un messaggio duro e controcorrente, anche tenendo conto dei tragici fatti di questi giorni avvenuti a Parigi.

R. - Ma è il cuore del Vangelo di Gesù. La Chiesa celebra il martirio dei suoi figli, consapevole che il Signore ha chiamato beati coloro che soffrono persecuzione e morte per il suo nome: «Beati voi, quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi» (Mt 5,11-12). E Gesù aggiunge: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20). Alla banalità del male di ieri e di oggi siamo tutti chiamati a rispondere con la nobiltà del bene, del perdono, della misericordia, della riconciliazione. I martiri cappuccini ci invitano a non serbare rancore né odio, ma a pregare, anzi ad amare. É Gesù Maestro che ci dà l'eterno insegnamento della carità senza confini: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico, amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (Mt 5,43-44). Sull'esempio del Crocifisso risorto, i cristiani sono gli uomini della magnanimità assoluta, della generosità sconfinata, della misericordia senza distinzione di persone. Solo così si può essere perfetti e veri figli del Padre nostro celeste, «che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). In tal modo i cristiani bonificano l'umanità dal fumo tossico della inimicizia, della divisione e della vendetta. Per questo, i cristiani sono oggi più che mai indispensabili per una umanità riconciliata e fraterna.

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Altre udienze e nomine

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Papa Francesco ha ricevuto questa mattina in udienza anche:

- S.E. il Sig. Hatem Seif El Nasr, Ambasciatore della Repubblica Araba d’Egitto presso la Santa Sede, in occasione della presentazione delle Lettere Credenziali;

- S.E. Mons. Henryk Józef Nowacki, Arcivescovo tit. di Blera, Nunzio Apostolico in Svezia, Islanda, Danimarca, Finlandia e Norvegia;

- Mons. Francesco Follo, Osservatore Permanente presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (U.N.E.S.C.O);

Il Santo Padre ha nominato Vescovo Ausiliare dell’arcidiocesi di Braga (Portogallo) il Rev.do Nuno Manuel dos Santos Almeida, del clero della diocesi di Viseu, assegnandogli la sede titolare di Ruspe. Il Rev.do Nuno Manuel dos Santos Almeida è nato il 1° agosto 1962 a Pedrosinhas, nel municipio di Sátão, diocesi di Viseu. Ha studiato nel Seminario diocesano di Viseu e nella Facoltà di Teologia dell’Università Cattolica di Porto, dove ha ottenuto la Licenza in Teologia. È stato ordinato sacerdote il 19 ottobre 1986, incardinandosi nella diocesi di Viseu, dove ha svolto l’incarico di Parroco in alcune parrocchie. Finora era Parroco in solidum di Fornos de Algodres, Presidente della Fraternità Sacerdotale di Viseu e membro del Collegio dei Consultori e del Consiglio Presbiterale.

Il Papa ha nominato Vescovo Coadiutore di Antipolo (Filippine) S.E. Mons. Francisco Mendoza De Leon, finora Vescovo titolare di Boseta e Ausiliare della medesima diocesi. S.E. Mons. Francisco Mendoza De Leon è nato a Parañaque, Manila, l'11 giugno 1947. Ha frequentato i corsi di filosofia al seminario minore Our Lady of Guadalupe e i corsi di teologia al seminario maggiore di San Carlos ottenendo la Laurea. È stato ordinato sacerdote il 28 giugno 1975 per l’arcidiocesi di Manila. Dopo due anni come Vicario parrocchiale a Santa Clara Parish di Pasay, è stato Direttore degli Studi, Prefetto di Disciplina ed infine Rettore prima nel seminario minore Our Lady of Guadalupe e poi al seminario maggiore di San Carlos fino al 1991. Dal 1991 al 1998 è stato Parroco di St. Andrew Parish, a Makati, e poi di Holy Eucharist Parish, a Moonwalk Village, Parañaque. Tornato dal 1998 al 2001 alla guida del San Carlos Seminary, dal 2001 è stato Rettore del Santuario arcidiocesano della Divina Misericordia, Mandaluyong, Manila. Il 27 giugno 2007 è stato eletto Vescovo titolare di Boseta e Ausiliare di Antipolo. Ha ricevuto la consacrazione episcopale il 1° settembre dello stesso anno. Dal 25 gennaio 2013 al 14 ottobre 2015 è stato Amministratore Apostolico della diocesi di Kalookan.

Il Santo Padre ha nominato Amministratore Apostolico sede plena del Vicariato Apostolico di San Jose in Mindoro, nelle Filippine, S.E. Mons. David William V. Antonio, Vescovo titolare di Basti e Ausiliare dell’arcidiocesi di Nueva Segovia.

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Divulgazione documenti riservati: 5 richieste rinvio a giudizio

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Il Tribunale dello Stato della Città del Vaticano ha provveduto alla notifica agli imputati mons. Angel Lucio Vallejo Balda, Francesca Immacolata Chaouqui, Nicola Maio, Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi - e ai loro avvocati - della richiesta di rinvio a giudizio presentata dall’Ufficio del Promotore di Giustizia a conclusione della fase istruttoria del procedimento in corso per la divulgazione illecita di notizie e documenti riservati e del conseguente Decreto di rinvio a giudizio, emesso dal presidente del Tribunale in data 20 novembre.

I primi tre sono chiamati a rispondere del reato di cui all'art. 248 cod. pen. (quest'ultimo come sostituito ad opera dell'art. 25 della Legge n. IX dell'11 luglio 2013) «perché all'interno della Prefettura per gli affari economici e di COSEA si associavano tra loro formando un sodalizio criminale organizzato, dotato di una sua composizione e struttura autonoma, i cui promotori sono da individuarsi in Angel Lucio Vallejo Balda e Francesca Immacolata Chaouqui, allo scopo di commettere più delitti di divulgazione di notizie e documenti concernenti gli interessi fondamentali della Santa Sede e dello Stato».

Tutti e cinque gli imputati dovranno rispondere del reato di cui agli artt. 63 e 116-bis cod. pen. (quest'ultimo introdotto ad opera della Legge n. IX dell'11 luglio 2013) «perché, in concorso tra loro, Vallejo Balda nella qualità di segretario generale della Prefettura per gli affari economici, Chaouqui quale membro della COSEA, Maio quale collaboratore di Vallejo Balda per le questioni riguardanti la COSEA, Fittipaldi e Nuzzi quali giornalisti, si sono illegittimamente procurati e successivamente hanno rivelato notizie e documenti concernenti gli interessi fondamentali della Santa Sede e dello Stato; in particolare, Vallejo Balda, Chaouqui e Maio si procuravano tali notizie e documenti nell'ambito dei loro rispettivi incarichi nella Prefettura per gli affari economici e nella COSEA; mentre Fittipaldi e Nuzzi sollecitavano ed esercitavano pressioni, soprattutto su Vallejo Balda, per ottenere documenti e notizie riservati, che poi in parte hanno utilizzato per la redazione di due libri usciti in Italia nel novembre 2015».

Il presidente del Tribunale della Città del Vaticano, Giuseppe Dalla Torre, ha emesso il Decreto che stabilisce per il giorno 24 novembre 2015, alle ore 10.30, la prima udienza del processo nei confronti degli imputati, avvertendo che non comparendo saranno giudicati in contumacia. Il collegio giudicante è composto dal prof. Giuseppe Dalla Torre, i giudici Piero Antonio Bonnet e Paolo Papanti-Pelletier e il giudice supplente Venerando Marano. Il Decreto fissa al giorno 28 novembre 2015, alle ore 12.30, il termine per proporre le prove a difesa, mentre si riserva a successivo provvedimento la citazione dei testi.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Orizzonti aperti: il Papa invita gli insegnanti cristiani a sperimentare nuovi metodi inclusivi.

La risposta di Francesco: in prima pagina, un editoriale di Gualtiero Bassetti su viaggio in Africa e anno giubilare. 

Ballottaggio in un Paese già cambiato: Silvina Pérez sulle presidenziali argentine.

Quel penny sfigurato: Giulia Galeotti sulle suffragette e la lotta per il voto delle donne in Gran Bretagna.

Giovanni Battista in una conchiglia: Cristian Martini Grimaldi sulle chiese e i manufatti cristiani di Nagasaki in mostra a Roma.

Piangere con chi piange: Alberto Fabio Ambrosio sull'umanità colpita dalle stragi di Parigi.

Sergio Massironi sulle leggi della fortuna: ripubblicato "Il gallo d'oro" di Juan Rulfo.

L'impero della musica: una fiction su arte e guadagni facili in un articolo di Edoardo Zaccagnini.

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Oggi in Primo Piano



Terrorismo. Voto all'Onu contro l'Is, in Belgio allerta massima

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Il Belgio innalza al livello 4 l’allarme terrorismo nell’area di Bruxelles per “minacce imminenti”; a Parigi e in tutto l’Ile-de-France, intanto, prorogato il divieto di manifestazione fino al 30 novembre, data d’inizio della Conferenza internazionale sul clima. E mentre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approva all’unanimità la risoluzione sul coordinamento degli sforzi, l’intelligence britannica intercetta comunicazioni dell’Is ai foreign fighters: "Restate a casa e aspettate istruzioni". Roberta Barbi

Chiuse le metropolitane, i grandi magazzini, annullate le competizioni sportive più importanti: è un Belgio blindato, in particolare nell’area di Bruxelles, per “minaccia terroristica imminente” quello che presenta il premier Charles Michel alla popolazione, cui raccomanda di tenersi informati solo sui canali ufficiali. Ieri sera la polizia belga ha scoperto un arsenale di armi e prodotti chimici a Molenbeek, dove ha annunciato perquisizioni casa per casa. E sempre in Belgio, arrestati tre sospetti militanti dell’Is, uno dei quali potrebbe essere l’uomo che ha aiutato Salah Abdeslam a scappare dopo gli attentati a Parigi, da dove arriva la conferma che “la mente” degli attacchi, Abaaoud, aveva partecipato personalmente alle azioni. Intanto, secondo intercettazioni dell’intelligence britannica, l’Is starebbe ordinando ai “foreign fighters” di non andare in Siria, ma di attendere istruzioni per colpire in patria. Proprio nel tentativo di arginare il flusso di jihadisti, ieri il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità la risoluzione proposta dalla Francia che consente agli Stati “l’adozione di tutte le misure necessarie”, compresi maggiori controlli alle frontiere anche per i cittadini europei.

Cosa cambierà nel quotidiano l’adozione di questa risoluzione delle Nazioni Unite? Lo abbiamo chiesto a Pietro Batacchi, direttore di Rivista Italiana Difesa: 

R. – Cambierà in questo senso: i Paesi che lo vorranno, potranno intensificare i loro sforzi contro il Daesh, contro l’Is, nell’ambito di questa risoluzione dell’Onu che quanto meno offre una cornice di minima legittimità. Molto verrà lasciato alla volontà, agli interessi delle parti in gioco perché mi pare di capire che non vi sia grande accordo nell’ambito della comunità internazionale su come effettivamente affrontare il Daesh. Credo si sia lontani da quella grande coalizione di cui si parlava.

D. - Intensificare i controlli alle frontiere anche per i cittadini europei è chiaramente una misura per arginare il flusso dei “foreign fighters”. Ma come la mettiamo con Schengen?

R. - Purtroppo noi paghiamo quattro anni di mancata politica di controllo in questo senso, perché i cosiddetti “foreign fighters” non si sono improvvisamente riversati in Europa negli ultimi mesi, è un fenomeno che va avanti da anni. Nel nostro piccolo, noi abbiamo messo in guardia da questo fenomeno, però si è deciso in nome di Schengen, in nome dei valori dell’Unione Europea, di lasciar fare. Il problema è che adesso qualcosa bisogna fare e rafforzare i controlli alle frontiere mi sembra il minimo necessario.

D. - In passato, per legittimare interventi armati internazionali, si invocò il Capitolo 7 della Carta Onu. In questa risoluzione invece mancano riferimenti all’ipotesi di utilizzo della forza. Perché?

R. – Mancano perché - come dicevo prima - non c’è accordo nell’ambito della comunità internazionale su come affrontare il Daesh. Non dimentichiamoci che un attore importante, probabilmente quello fondamentale in Siria, cioè la Russia, non combatte solo l’Is ma combatte anche gli altri ribelli che si oppongono al regime di Assad e tra questi ci sono gruppi più o meno qaedisti che sono apertamente finanziati e supportati da alcuni importanti Paesi: mi riferisco all’Arabia Saudita, al Qatar e alla Turchia. Per cui mettere d’accordo tutte le esigenze nell’ambito di una risoluzione più incisiva che si richiamasse specificamente al Capitolo 7 non era oggettivamente possibile.

D. - La risoluzione è stata approvata all’unanimità: si tratta di un segnale importante o no?

R. - Generalmente l’unanimità in consessi del genere significa scarsa incisività o quanto meno un’incisività non paragonabile a quella che ci sarebbe richiamandosi al Capitolo 7.

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Mali: caccia ai terroristi. Mons. Zerbo: dare lavoro ai giovani

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È caccia all’uomo in Mali all’indomani dell’attacco al Radisson Blu Hotel di Bamako, in cui hanno perso la vita 21 persone, tra cui 19 ostaggi di diverse nazionalità. L'azione è stata rivendicata dai gruppi terroristici al-Mourabitoun e al-Qaeda nel Maghreb islamico. Nel Paese sono stati proclamati 10 giorni di stato d'emergenza. Il servizio di Marco Guerra

Sarebbero almeno 3 i terroristi in fuga che hanno preso parte all’assalto all’Hotel Radisson di Bamako, dove ieri sono state prese in ostaggio 170 persone, 140 ospiti della struttura e 30 membri dello staff. Il bilancio finale, dopo il lungo blitz della polizia, è di 2 miliziani 19 civili uccisi. L'attacco è avvenuto al settimo piano della struttura dove, secondo il quotidiano francese Liberation, si trovano le camere utilizzate dal personale dell'Air France. Tuttavia non ci sono francesi tra le vittime, mentre si contano invece sei russi, dipendenti della compagnia aerea Volga-Dnepr, tre cinesi, di dirigenti di una ditta di costruzioni, e israeliano, un belga e una cittadina americana di origine indiana. Dietro l'attacco potrebbe esserci Mokhtar Belmokhtar, ex comandante di Al Qaida in Maghreb, il gruppo terroristico che lo scorso 29 ottobre diffuse un messaggio audio che lanciava un appello ad attaccare "gli interessi francesi in Mali" e invitava a "respingere l'accordo di pace e riconciliazione" nel Paese africano. Ai nostri microfoni l’arcivescovo di Bamako, mons. Jan Zerbo, ha confermato l’infiltrazione di gruppi jihadisti in territorio maliano, spiegando che il loro reclutamento fra la popolazione locale fa leva sulla povertà e la mancanza di prospettive di molti giovani: 

R. – Ci sono manifestazioni di questo radicalismo islamista. Da due anni ci troviamo in questa situazione. Il vento che tira in Africa è lo stesso che c’è nel mondo. La Nigeria, il Niger, il Ciad sono zone dove la popolazione è composta soprattutto da giovani. Il problema è trovare lavoro per tutte queste persone che diventano una preda facile del fondamentalismo che offre soldi e fa promesse.

D.  – I fatti di ieri arrivano ad una settimana dagli attacchi di Parigi. C’è un collegamento?

R. – Sì, questa è la verità. Credo ci sia una relazione. Dicono che la Francia ha fatto la guerra agli islamisti e noi stiamo uscendo da questo pericolo. È proprio per questa ragione che questi gruppi fanno del male non solo al nostro Paese ma anche alla Francia, perché siamo un Paese amico. Il Mali è stato molto aiutato dalla Francia in questi anni.

D. – Ma c’è un collegamento anche con il sedicente Stato islamico? Ci sono cellule jihadiste che sono arrivate in Africa? C’è qualcuno che sta cercando di imporre un califfato anche in Africa?

R. – E' chiaro no? Non da oggi ma da diverso tempo, hanno trovato accoglienza da parte della gente che ha accettato di prendere soldi da loro in un Paese dove c’è tanta povertà.

D. - Cosa può fare la comunità internazionale? Dovrebbe intervenire in Mali in maniera più decisa?

R. - Credo che la comunità internazionale debba aiutarci soprattutto per l’educazione dei giovani, per trovare una soluzione al problema occupazione. I giovani che vanno via sono preda di queste persone perché cercano da vivere e lo fanno vendendo il loro Paese, lasciando fuori tutti i valori fondamentali di convivenza e il rispetto degli altri. Devono aiutarci a trovare lavoro per i giovani.

D. - Lei si è accorto, ha visto, è stato testimone del radicalismo islamico? Si vede che la situazione è cambiata? Ci sono dei segni in Mali? è cresciuta l’intolleranza verso i cristiani?

R. - Nel linguaggio, si vede talvolta in alcune prediche. Ma noi siamo in comunione profonda con i responsabili della comunità islamica. Abbiamo creato un’alleanza sacra tra musulmani, protestanti e cattolici per pregare insieme e per intervenire contro questa forza tutti insieme per cercare di fare capire che l’integralismo non è il bene del nostro Paese.

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Musulmani italiani in piazza per dire no al terrorismo

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Il mondo islamico senza se e senza ma contro il terrorismo. Questo lo scopo della la manifestazione “Not in my name”, che si tiene nel pomeriggio a Roma, in Piazza Santi Apostoli, promossa dall’Unione delle comunità islamiche italiane per condannare le stragi di Parigi. Numerosi anche gli intellettuali e gli esponenti di altre religioni che hanno aderito all’appello. "Noi dobbiamo fare la nostra parte come musulmani e come cittadini italiani ed europei per combattere e sconfiggere il terrorismo, dobbiamo rimanere uniti contro questo male assoluto". Queste le parole di Abdallah Redouane, segretario generale della Moschea di Roma, ricevuto oggi dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, insieme agli altri rappresentanti delle comunità islamiche in Italia in vista della manifestazione. Sul significato di questo appuntamento, Elvira Ragosta ha intervistato il parlamentare italiano del Partito democratico, di origini marocchine, Khalid Chaouki, tra i promotori della manifestazione: 

R. – E’ una risposta storica, a partire da Roma, contro il terrorismo in nome di Dio e in solidarietà con il popolo francese, musulmani da tutta Italia, e tutte le sigle insieme senza differenze, insieme a tante associazioni religiose e laiche, per affermare che la nostra società multireligiosa, multiculturale, non può cedere alla paura di fronte al terrorismo di matrice islamica.

D. – Una risposta culturale, lei dice, che viene dal basso, che deve necessariamente avvenire di pari passo con l’attività di intelligence e di sicurezza…

R. – Assolutamente sì. E’ ovvio che di fronte a questa aggressione militare nel cuore dell’Europa, ma che miete anche vittime dentro il mondo islamico - come è accaduto ieri in Mali - merita una risposta sicuramente di intelligence, di sicurezza, ma senza un’alleanza con la stragrande maggioranza silenziosa di musulmani in Italia e nel mondo, non riusciremo mai a combattere quest’estremismo. E penso che da Roma possa partire un messaggio molto importante, grazie anche al sostegno, alle parole molto importanti di Papa Francesco, in vista di un Giubileo che è storico per la sua natura, ma può essere anche una grande sfida per tutti noi.

D. – Dopo la manifestazione di questo pomeriggio, come continuare questo impegno?

R. – Penso che, innanzitutto, servirà aprire un tavolo istituzionale con lo Stato italiano, per definire un patto di cittadinanza attraverso un’intesa con i musulmani italiani, dove stabilire appunto quelle che sono le regole di convivenza, nel rispetto del diritto di culto, ma anche di piena trasparenza e legalità della presenza islamica italiana, del ruolo delle moschee e dell’imam. E successivamente è molto importante anche rafforzare il lavoro nell’ambito del dialogo interreligioso, del confronto soprattutto tra i giovani e dell’impegno a livello sociale per evitare gli errori di altri Paesi europei.

D. – Lei è tra i promotori di questa manifestazione lanciata dall’Unione delle comunità islamiche in Italia che ha ricevuto anche moltissime adesioni, sia da parte di intellettuali che di esponenti di altre religioni. Quali sono le previsioni per oggi pomeriggio?

R. – Credo che, nonostante il tempo, che non ci aiuta, ci sarà una risposta molto ampia e anche le adesioni di associazioni studentesche, universitarie, personalità – come diceva lei – istituzionali e non solo, associazioni sindacali. Insomma, penso che sarà una risposta davvero di coesione e di unità in un momento difficile per tutti, dove non possiamo rimanere ostaggio delle paure, dei pregiudizi e invece dovremmo affermare quelli che sono i nostri valori comuni.

D. – Si parla, a livello teologico, del problema dell’interpretazione del Corano. Come superare questo scoglio?

R. – Questo è un problema interno al mondo islamico, in questo momento di grave crisi, anche identitaria. Penso che gli imam, gli uomini di fede, i teologi, debbano prendere l’iniziativa in modo molto forte, con coraggio, garantendo spazi di libertà nel confronto interno al mondo islamico. E penso che anche i musulmani di Occidente, in un clima di maggiore libertà, potranno aiutare questo percorso fondamentale.

D. – La manifestazione di oggi serve anche a manifestare sostegno a quei musulmani che oggi in Europa vivono nella paura…

R. – Questo è uno dei messaggi che io sento ripetere più spesso, soprattutto dai più giovani: guai a fare il regalo più grande a Daesh, cioè quello di consegnare milioni di musulmani nella cella dell’estremismo. Oggi la stragrande maggioranza dei musulmani vive pacificamente insieme a noi, vuole appunto preservare la vita e combattere questi estremismi, e non possiamo vivere questi momenti alimentando islamofobia o paure. Quindi è un invito dalla piazza di oggi agli organi di informazione, ai rappresentanti politici, anche ad essere responsabili, a distinguere bene tra gli estremisti, i terroristi, e la stragrande maggioranza di persone che meritano rispetto e meritano sostegno in questo momento difficile.

D. – A proposito di quetso clima, anche lei è stato oggetto di minacce ed è sotto scorta da ieri sera…

R. – Purtroppo sì, il clima non è un clima molto positivo. C’è stato un degrado negli ultimi tempi, anche nel linguaggio pubblico. Noi, però, non dobbiamo arretrare di un millimetro di fronte a questa battaglia, che è una battaglia di civiltà, che riguarda il nostro destino comune. E penso che in questo momento, idealmente, da Roma, noi possiamo lanciare anche un grande messaggio di coraggio, nonostante tutte le difficoltà che tutti quanti possiamo trovare sulla via della convivenza.

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In Etiopia un meeting per battere le malattie della povertà

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In Etiopia, ad Addis Abeba, è in corso un convegno internazionale per discutere delle malattie ancora da debellare nei Paesi in via di sviluppo. La sfida è combattere da una parte la povertà che porta a contrarre malattie rare, dall’altra migliorare le condizioni igieniche per non morire più con patologie ormai trascurabili in Europa. Veronica Di Benedetto Montaccini ha chiesto ad Aldo Morrone, presidente dell'Istituto Mediterraneo di Ematologia, quali sono le prospettive di ricerca per contrastare questa piaga che colpisce ancora due miliardi di persone: 

R. – Il Convegno internazionale abbiamo deciso di organizzarlo in territorio etiopico partendo dalla capitale Addis Abeba e poi spostandoci al confine con l’Eritrea perché è una zona dove le malattie si diffondono drammaticamente e in questo modo possiamo mostrare ai vari ricercatori internazionali che intervengono con noi in questo convegno quello che può fare l’Occidente per contrastare la diffusione delle malattie della povertà che qui vengono chiamate “Neglected Tropical Diseases” e che colpiscono oltre due miliardi di persone nel mondo, determinando la morte di oltre 400 milioni.

D. – Il Nobel per la Medicina è stato assegnato a ricercatori che si sono impegnati contro le malattie della povertà. Quali sono queste malattie, e rappresentano effettivamente una piaga ancora oggi?

R. – Sono molto contento che il Premio Nobel per la Medicina quest’anno sia stato assegnato a tre ricercatori che hanno lavorato soprattutto sull’individuazione di un farmaco – l’ivermectina – che può contrastare e guarire quella che viene chiamata “la cecità dei fiumi”: l’oncocerchiasi, la filariasi, la leishmaniosi e a un’altra ricercatrice su un farmaco per far guarire dalla malaria, l’artemisina. Queste sono malattie che in questa area del mondo uccidono milioni di persone dopo aver distrutto la loro vita perché prima ancora di ammalarsi con febbre alta, diventano cieche. Ora si tratta però di far sì che questi farmaci possano essere alla portata di tutti, anche delle persone più povere che sono la maggioranza in quest’area del mondo.

D. – Malattie curabili in Occidente sono ancora mortali in Paesi in via di sviluppo. Perché succede ancora questo?

R. – Dall’ipertensione arteriosa al diabete all’ulcera gastrica, a problemi cardiocircolatori, a problemi polmonari come una polmonite o una bronchite, ma mentre in Occidente sono facilmente guaribili, qui diventano drammatiche. Uno, perché vengono diagnosticate tardivamente; due, perché non ci sono i farmaci; tre, non ci sono gli ospedali dove possono essere ricoverate queste persone. Noi abbiamo costruito e aperto alle persone più povere tre ospedali in quest’area del mondo, e tutte e tre ai confini con l’Eritrea dove sono presenti centinaia di migliaia di rifugiati eritrei fuggiti dal loro Paese, molti dei quali sono in attesa di poter attraversare i confini con il Sud Sudan e avviarsi verso quel terribile percorso che potrebbe portarli in Libia e poi in gran parte a morire nel Mediterraneo. La nostra presenza tende ad aiutarli a rimanere qui, a curarli, a fare in modo che abbiano un futuro invece di affrontare il rischio di morire.

D. – Quali sono le misure concrete per debellare queste malattie?

R. – Noi dobbiamo fare un piano, come fu fatto dopo la guerra per l’Europa: il cosiddetto “Piano Marshall”. Bisogna che gli studiosi, i ricercatori delle università dei Paesi occidentali – qui al convegno internazionale sono rappresentati oltre 22 Paesi occidentali – si mettano insieme e investano risorse professionali, risorse finanziarie e soprattutto risorse strutturali per far sì che anche in questa parte del mondo ci sia un futuro di dignità soprattutto per donne e bambini. La gravidanza diventa sempre più un pericolo di morte, la nascita diventa un elemento pericoloso per le mamme e per i bambini. Per questo abbiamo aperto dei centri materno-infantili dove le donne possano partorire gratuitamente con l’assistenza di personale locale qualificato e preparato da noi. Questo vuol dire dare futuro, dignità e salute a queste popolazioni e in questo modo darle anche all’Europa.

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Prof. Felice: Dottrina sociale Chiesa è sguardo di Cristo sull'uomo

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“Bene comune, dignità e libertà tra ragioni e regole”. E’ il tema del Colloquio annuale di Dottrina sociale della Chiesa che si terrà alla Pontificia Università Lateranense il 24 e 25 novembre prossimi. L’evento celebra inoltre il 50.mo della Dignitatis Humanae e il decennale dalla morte di San Giovanni Paolo II. L’evento è promosso dal prof. Flavio Felice, direttore delll’Area di ricerca Caritas in Veritate della Lateranense che – al microfono di Alessandro Gisotti – illustra l’iniziativa: 

R. – L’idea che ci ha mosso è stata la continuità con i precedenti quattro colloqui, tutti dedicati in un certo senso ai principi fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa, la solidarietà, la sussidiarietà, la dignità, in un quadro, possiamo dire, teorico ben definito, quello delle istituzioni: pensare che la Dottrina sociale della Chiesa nel momento in cui si occupa dei principi fondamentali del vivere comune ha bisogno poi di implementarsi, di concretizzarsi nelle istituzioni sociale. Allora abbiamo pensato che il colloquio di quest’anno potesse tenere conto di tre aspetti fondamentali della Dignitatis humanae, a 50 anni: il tema del bene comune, una visione plurale del bene comune, il tema della dignità, e infine il tema della libertà.

D. – Oggi in un periodo anche di incertezze a livello sociale, economico, politico, la dottrina sociale della Chiesa se vogliamo trova un rinnovato interesse e non solo in ambito ecclesiale, come una bussola a cui poi rivolgersi per poi trovare un’indicazione e anche una direzione…

R.  – La Dottrina sociale della Chiesa ha avuto sempre, da Giovanni Paolo II in poi, ma anche già da Paolo VI, sicuramente, ma da Giovanni Paolo II in poi, un particolare impulso. Credo che il magistero di Papa Francesco stia ulteriormente spingendo nella direzione di uno studio, di una riflessione e della testimonianza della Dottrina sociale della Chiesa. Non c’è giorno in cui Papa Francesco non ci ricordi l’importanza dei principi della solidarietà, l’importanza dei temi che hanno a che fare con la cura dell’altro, questo mettere al centro i poveri e i poveri intesi come coloro che maggiormente hanno bisogno del nostro aiuto. Ma povertà intesa anche come rifiuto della dipendenza, rifiuto dell’essere assoggettati alle volontà dei potenti e dei ricchi. Ecco tutto questo evidenzia sicuramente un aspetto fondamentale del magistero di Papa Francesco che rinvia proprio alla Dottrina sociale della Chiesa.

D. – A Firenze, a Santa Maria del Fiore, rivolgendosi al Convegno ecclesiale nazionale, Papa Francesco ha rinnovato un appello per un nuovo protagonismo dei cattolici, proprio per il bene comune…

R. – Papa Francesco in realtà a Firenze ha parlato ai laici dell’impegno dei laici nella vita civile proprio con riferimento però a Cristo. L’impegno di noi laici, dei laici in generale, dei cattolici, non è un impegno che nasce da una difesa corporativa, è importante sempre ripeterlo, ma come ci dice Papa Francesco è il precipitato, è ciò che resta dello sguardo di Cristo a ciascun uomo e dello sguardo che ciascun uomo volge verso il Cristo misericordioso. Quindi è questa la radice ed è questa anche la prospettiva dell’impegno dei laici nella vita civile, non solo politica. Credo che in quel discorso Papa Francesco abbia centrato esattamente il cuore dell’impegno dei cattolici nella vita civile: il volto di Cristo, il volto che ci interpella e il nostro volto che si rivolge a Cristo misericordioso.

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Giornata Pro Orantibus per sostenere i religiosi di clausura

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Il 21 novembre, la Chiesa celebra la festa della Presentazione di Maria e la Giornata Pro Orantibus. I fedeli, in questo giorno, sono invitati a sostenere i religiosi e le religiose di clausura. Per l’occasione a Roma, al Pontificio Ateneo Sant'Anselmo, si è svolto il convegno “Declinare la gioia nella vita monastica” organizzato dal Segretariato Assistenza Monache. Con Tiziana Campisi conosciamo la realtà delle monache di Betlemme dell’Assunzione della Vergine Maria e di San Bruno del Monastero “Madonna del Deserto Monte Camporeggiano” di Gubbio. Al suo microfono la sorella priora Anastasis

R. – La nostra spiritualità è il Vangelo vissuto secondo la scuola della Vergine Maria. Per prima cosa è una contemplazione del Volto di Gesù e, in lui, del Padre invisibile, nascosto. Abbiamo ricevuto la paternità di San Bruno. È un profeta dell’assoluto di Dio vissuto insieme ad alcuni fratelli nel deserto. È lui che secondo il suo carisma di solitudine e di comunione ci aiuta ad incarnare questa contemplazione di Maria, questa vita di Maria, nella Santissima Trinità.

D. – Quanti sono i vostri monasteri e come sono integrati nelle diverse realtà in cui si trovano?

R. – I monasteri sono una trentina, sparsi nei diversi continenti. Siamo presenti ai nostri fratelli nel mondo con l’offerta delle nostre vite e della preghiera per chi ci è vicino, per chi è intorno a noi, e per la Chiesa locale che ci accoglie.

D. – Siete anche presenti in Medio Oriente. In che modo siete inserite in quella realtà così difficile?

R. – Vivere in Oriente è il modo privilegiato che abbiamo per rimanere vicini a tanti nostri fratelli che - come sappiamo - si trovano in situazioni così difficili di conflitto, di divisione, di precarietà e di violenza. È importante rimanere qui per noi in quanto cristiani.

D. - È possibile bussare ai vostri monasteri?

R. - È sempre possibile bussare alle porte dei nostri monasteri. Abbiamo uno spazio di accoglienza; per gli ospiti che desiderano dimorare per qualche giorno in un ritiro in solitudine e partecipare alle celebrazioni liturgiche con la comunità mettiamo a disposizione qualche eremo. Le persone che vengono, anche nella loro diversità, e qualche volta con le loro contraddizioni, sono sempre degli inviati di Dio assetati in cerca di un pozzo di acqua viva.

D. – Come si svolge la vita nei vostri monasteri?

R. – In semplicità, in povertà, nella gioia, in un continuo ricominciare senza mai scoraggiarsi. Ci sono anche battaglie spirituali nel deserto che passano attraverso l’accettazione dei nostri molti limiti, delle miserie, delle mediocrità e il nostro io egoista. La nostra giornata si alterna tra vita solitaria e vita comunitaria. Dimoriamo nel silenzio e nella solitudine della nostra cella in una preghiera che vorremmo intensa e gratuita, a partire dai Vespri che celebriamo alla sera, fino all’indomani quando celebriamo la Santa Messa della mattina. Ci abbeveriamo della Parola di Dio preghiamo, meditiamo, adoriamo il Signore, celebriamo le ore minori, studiamo, facciamo il pranzo. Il pomeriggio è solitamente dedicato alle diverse attività lavorative.

D. – Qual è il vostro impegno nella nuova evangelizzazione?

R. – Ogni evangelizzazione inizia da noi stessi. Siamo evangelizzati dalla Parola di Dio, dal suo amore sconfinato ed evangelizziamo attraverso le nostre azioni nascoste. Sappiamo, crediamo, che la Chiesa abbia bisogno di noi attraverso tutta la nostra povertà e le nostre insufficienze e che non ci sarebbe evangelizzazione senza la nostra preghiera. Santa Teresina diceva: “Nel cuore della Chiesa io sarò l’amore”.

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Il Torino Film Festival inaugurato da "Suffragette"

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Inaugurato ieri sera al Lingotto il 33° Torino Film Festival con "Suffragette" della regista Sarah Gavron. Una manifestazione, diretta da Emanuela Martini con passione, entusiasmo e spirito di ricerca, che ogni anno e per dieci intensissimi giorni sa coinvolgere il pubblico della città. Il servizio di Luca Pellegrini: 

Si era rimasti all'immagine di un colorato gruppo di donne in costume che combattevano per uno dei diritti fondamentali delle società moderne, quello al voto. Le suffragette - termine coniato in senso derisorio dalla stampa britannica per indicarle - al cinema non erano ancora approdate, se non per l'amabile presenza in "Mary Poppins" della Signora Banks e delle sue amiche attiviste che spensieratamente cantavano e marciavano. Il film di Sarah Gavron, invece, ci racconta tutta un'altra storia e un'altra realtà:  era una organizzazione energica, grintosa e votata al sacrificio, che portò in Inghilterra al risultato del voto alle donne oltre i 30 anni nel 1918 e il suffragio universale dieci anni dopo - mentre in Italia accadrà soltanto nel 1946 e in molti Paesi di cultura araba è ancora totalmente ignorato. Una vera e propria lotta contro uno Stato che appare intollerante, immobile all'appello dei diritti civili e autoreferenziale. Giustamente la regista inglese dichiara di essere rimasta esterrefatta che una storia così straordinaria e potente come quella della giovane Maud - moglie, madre e lavoratrice sottoposta a angherie, sfruttamento e oppressione, privata dei figli, del lavoro e spesso della libertà -, non fosse ancora stata raccontata in un film. Sei anni fa ha creato un gruppo di filmaker donne e il progetto è iniziato. L'adesione di due attrici come Carey Mulligan e Maryl Streep hanno contribuito a dare visibilità al lavoro e creare attesa tra il pubblico. Che può così finalmente scoprire quanto la società, anche quella anglosassone, terra di  democrazia, fosse asseragliata e chiusa nelle trame di un maschilismo conservatore e autoreferenziale. Senza il sacrificio di quel gruppo di indomite contestatrici, con la loro destrezza nella comunicazione e nell'organizzazione del movimento e i loro eclatanti atti di insubordinazione e disturbo, politici e governo sarebbero rimasti ciechi e immobili. Appaiono testarde e coraggiose, affrontano la brutalità della polizia, il soffuso ostracismo delle classi abbienti, la distrazione di quelle povere, l'insofferenza del governo. Subirono il carcere, le percosse, trattamenti al limite della tortura, fino alla morte di Emily, colpita dal cavallo di re Giorgio V al derby di galoppo di Epsom, gesto eclatante che ebbe risonanza mondiale, figura che giustamente viene al termine del film ricordata con le vere immagini di repertorio del suo silenzioso e commovente corteo funebre a Londra, il 14 giugno 1913. Un titolo, dunque, perfetto per il Torino Film Festival, che anche quest'anno presenta film dai contenuti mai scontati, senza temi e fili rossi, sparsi in dieci giorni di intensa programmazione nelle diverse sezioni, accreditando interesse da parte degli appassionati e creando grande curiosità. Quella soprattutto dei giovani, che affollano le sale e partecipano con un entusiasmo raro. Ancor più sorprendente e rasserenate dopo i fatti di sangue che hanno macchiato e macchiano la loro età e la nostra.

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Il commento di don Ezechiele Pasotti al Vangelo della Domenica

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Questa Domenica la Chiesa celebra la Solennità di Cristo Re dell’Universo. La liturgia ci presenta il Vangelo in cui Pilato chiede a Gesù se sia il re dei Giudei. Il Signore risponde:

«Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». 

Su questa solennità ascoltiamo il commento di don Ezechiele Pasotti: 

Sorprende certamente tutte le nostre povere categorie umane questo Re innalzato sulla croce. Un processo iniquo lo condanna, e sulla croce splende la sua regalità: Re, perché sulla croce; “vittorioso perché vittima” (victor, quia victima), esclama S. Agostino, in una pagina delle Confessioni: “Quanto amasti noi, Padre buono, che non risparmiasti il tuo unico Figlio, consegnandolo agli empi per noi (Rm 8,32). Quanto amasti noi, per i quali egli, non giudicando un’usurpazione la sua uguaglianza con te, si fece suddito fino a morire in croce (Fil 2,6), lui, l’unico ad essere libero fra i morti (Sal 87,6), avendo il potere di deporre la sua vita e il potere di riprenderla (Gv 10,18), vittorioso e vittima per noi al tuo cospetto, e vittorioso in quanto vittima; sacerdote e sacrificio per noi al tuo cospetto, e sacerdote in quanto sacrificio; che ci rese, di servi, tuoi figli, nascendo da te e servendo a noi! A ragione è salda la mia speranza in lui che guarirai tutte le mie debolezze, grazie a Chi siede alla tua destra intercede per noi (Rm 8,34) presso di te. Senza di lui dispererei. Le mie debolezze sono molte e grandi, sono molte, e grandi. Ma più abbondante è la tua medicina” (Confessioni, X, 43). Questo Re in croce è un’immagine tragica e bella ad un tempo: tragica, perché dice cos’è il cuore dell’uomo, di cosa è capace, di cosa è stato capace nella storia, di cosa è stato capace in questo ultimo secolo; bella, perché dice il cuore di Dio, di cosa è stato capace Dio per noi, di cosa Egli è capace per te e per me, oggi!

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Nella Chiesa e nel mondo



Presidenziali in Argentina, ballottaggio tra Macri e Scioli

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Voltare pagina o proseguire sulla stessa strada - anche se con alcune correzioni di rotta - o un prevedibile spostamento verso il centro. Questa è la scelta che dovranno fare questa domenica, al secondo turno delle presidenziali, gli elettori argentini. Daniel Scioli, candidato del partito al governo, ha promesso che continuerà a costruire su quanto fatto finora dal Frente para la victoria, espressione dell’ala sinistra del peronismo. Il suo rivale al ballottaggio, Mauricio Macri, della coalizione di centro-destra Cambiemos, propone invece per l’Argentina un nuovo modello politico ed economico. Dopo il risultato del primo turno - il candidato oppositore ha ottenuto molti più voti del previsto - i sondaggi lo danno come favorito, ma i seguaci del governo sperano in una nuova sorpresa di segno contrario, che conceda all’erede dell’attuale presidente Cristina Kirchner di entrare nella Casa Rosada. Gli equilibri saranno comunque diversi: difficilmente il vincitore avrà la maggioranza al Parlamento e, per la prima volta in 30 anni, la provincia di Buenos Aires, la più ricca e popolata del Paese, non sarà governata dal peronismo ma dall’opposizione. Dal prossimo 10 dicembre, data prevista per l’insediamento, l’Argentina sarà governata da un oriundo. Entrambi i candidati sono infatti figli di emigrati italiani. (Da Buenos Aires, Francesca Ambrogetti) 

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Il presidente dell’Amecea saluta la visita del Papa in Africa

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“Santità Papa Francesco siamo molto felici della sua visita in Africa. Benvenuto in Africa, ‘seconda casa’ di Nostro Signore Gesù Cristo venuto come rifugiato in questo continente quando il Re Erode voleva ucciderlo”. Con queste parole il card. Berhaneyesus D. Souraphiel, arcivescovo di Addis Abeba e presidente dell’AMECEA, l’Associazione dei Membri delle Conferenze Episcopali dell’Africa Orientale, saluta in un messaggio il prossimo viaggio africano del Santo Padre.

“Siamo particolarmente onorati – scrive il porporato – che questa visita inizi in Kenya, dove ha sede il Segretariato dell’Amecea. Gli africani - prosegue il messaggio - amano e difendono la vita e la famiglia, hanno un grande rispetto per gli anziani e gli ospiti, ma anche cura della natura e dell’ambiente. Questi valori ci sono cari nell’AMECEA e vogliamo trasmetterli e rifiutare alcuni retaggi negativi”, sottolinea in conclusione il messaggio, ricordando tra questi gli abusi sui minori: dalla piaga dei  bambini-soldato nelle guerre che affliggono tanti Paesi africani, ai maltrattamenti sui minori immigrati senza documenti al traffico di traffico di esseri umani. L’Amecea riunisce i vescovi di Eritrea, Etiopia, Kenya, Malawi, Sudan, Tanzania, Uganda and Zambia, a cui si aggiungono Gibuti e la Somalia come affiliati. (A cura di Lisa Zengarini)

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Elezioni in Myanmar. Card Bo: hanno vinto democrazia e speranza

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“Quasi l'80% del nostro popolo, poveri e ricchi, vecchi e giovani, hanno votato per un cambiamento. Avete condotto una rivoluzione silenziosa”: così il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon, si rivolge alla popolazione birmana, mentre sono ufficiali i risultati delle elezioni dell’8 novembre, che hanno sancito la netta vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia. “La democrazia è stata affermata in ogni angolo di questo paese. Mi congratulo con la Commissione elettorale. La democrazia in questa nazione è stato garantita dalla trasparenza e dal duro lavoro”, afferma il porporato in una nota inviata a Fides.

“Siamo profondamente incoraggiati dalla prontezza del presidente Thein Sein e del comandante dell'esercito nel riconoscere i risultati”, nota il cardinale. “In Myanmar oggi c’è un faro di speranza nella transizione verso la pace”. In questo processo, “in un contesto lacerato dalla guerra e dall'odio, Aung San Suu Kyi rimane l'unico simbolo di potere morale. Tutte le razze e religioni del Myanmar hanno scelto come loro capo di speranza. Lei è l'icona di speranza per milioni di persone”, nota Bo, ricordando le sfide che affronta la nazione: “estrema povertà, conflitti e rifugiati, negazione dei diritti, aumento del fondamentalismo religioso, proliferazione di droghe, traffico di esseri umani.

“Speriamo che questa grande ‘nazione arcobaleno’, benedetta con così tante risorse - conclude il cardinale - possa prendere il suo posto sulla scena mondiale confidando sulla giustizia e sulla pace. Inizia il viaggio verso libertà, pace e sviluppo”.

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Caritas Jerusalem: punizione collettiva dei palestinesi deve cessare

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Ogni giorno che passa, il popolo della Terra Santa “sta perdendo ogni senso di empatia, e di mutua comprensione della nostra comune umanità e del nostro futuro condiviso”. Così inizia il messaggio diffuso da Caritas Jerusalem in vista dell'imminente Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese. Lo riferisce l'Agenzia Fides. Nel testo, firmato da p. Raed Abusahlia, direttore generale di Caritas Jerusalem, si ribadisce che la pace deve essere costruita sui diritti per tutti e sulla protezione per tutti”. Per questo “la punizione collettiva dei palestinesi deve cessare immediatamente. La detenzione senza accuse o senza processo, le demolizioni di case, la chiusura dei check-point e altri metodi di punizione indiscriminata hanno effetti devastanti sulla vita quotidiana dei palestinesi, e alimentano soltanto astio e intolleranza”.

Caritas Jerusalem denuncia “le violazioni dei diritti umani fondamentali e chiede alla comunità internazionale a intervenire per mettere fine a una situazione che continua a aggravarsi e a stroncare vite giorno dopo giorno”. Nella Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese, p. Raed invita tutti a pregare affinché “Dio doni saggezza e coraggio ai leader del mondo”, così che sia possibile mettere in atto “scelte giuste e porre fine all'occupazione”.

La Giornata internazionale di solidarietà per il popolo palestinese è una ricorrenza indetta dall'Organizzazione delle Nazioni Unite ed ha luogo tutti gli anni il 29 novembre, per ricordare l'anniversario dell'approvazione della risoluzione 181 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (1947), che proponeva l'istituzione di due Stati – uno ebraico e l'altro arabo palestinese – nei territori palestinesi rima sottoposti al Mandato britannico.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 325

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.