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Sommario del 23/11/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: Chiesa è fedele se il suo tesoro è Gesù e non le sicurezze del mondo

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La Chiesa è fedele se il suo unico tesoro e il suo unico interesse è Gesù, ma è tiepida e mediocre se cerca la sua sicurezza nelle cose del mondo: è quanto ha detto il Papa nella Messa del mattino a Casa Santa Marta. Ce ne parla Sergio Centofanti

Unico tesoro della Chiesa è Gesù
Il Vangelo del giorno ci parla della povera vedova che getta nel tesoro del tempio due monetine mentre i ricchi fanno sfoggio delle loro grandi offerte. Gesù afferma che “questa vedova così povera ha gettato più di tutti”, perché gli altri hanno dato il loro superfluo, mentre lei, nella sua miseria, ha dato “tutto quello che aveva per vivere”. Nella Bibbia – commenta Papa Francesco – “la vedova è la donna sola, che non ha il marito che la custodisca; la donna che deve arrangiarsi come può, che vive della carità pubblica. La vedova di questo brano del Vangelo” era “una vedova che aveva la sua speranza soltanto nel Signore”. “A me piace vedere nelle vedove del Vangelo - afferma - l’immagine della ‘vedovanza’ della Chiesa che aspetta il ritorno di Gesù”:

“La Chiesa è sposa di Gesù, ma il suo Signore se ne è andato e il suo unico tesoro è il suo Signore. E la Chiesa, quando è fedele, lascia tutto in attesa del suo Signore. Invece quando la Chiesa non è fedele o non è tanto fedele o non ha tanta fede nell’amore del suo Signore cerca di arrangiarsi anche con altre cose, con altre sicurezze, più dal mondo che da Dio”.

Una Chiesa che piange e lotta per i suoi figli
“Le vedove del Vangelo – osserva Papa Francesco - ci dicono un bel messaggio di Gesù sulla Chiesa”:

“C’è quella sola, unica, che usciva da Nain, con la bara di suo figlio: piangeva, sola. Sì la gente tanto carina la accompagnava, ma il suo cuore era solo! La Chiesa vedova che piange quando i suoi figli muoiono alla vita di Gesù. C’è quell’altra che, per difendere i suoi figli, va dal giudice iniquo: gli fa la vita impossibile, bussandogli alla porta tutti i giorni, dicendo ‘fammi giustizia!’. Alla fine fa giustizia. E’ la Chiesa vedova che prega, intercede per i suoi figli. Ma il cuore della Chiesa è sempre col suo Sposo, con Gesù. E’ lassù. Anche la nostra anima – secondo i padri del deserto – assomiglia tanto alla Chiesa. E quando la nostra anima, la nostra vita, è più vicina a Gesù si allontana da tante cose mondane, cose che non servono, che non aiutano e che allontanano da Gesù. Così  è la nostra Chiesa che cerca il suo Sposo, aspetta il suo Sposo, aspetta quell’incontro, che piange per i suoi figli, lotta per i suoi figli, dà tutto quello che ha perché il suo interesse è soltanto il suo Sposo”.

Chiesa fedele e Chiesa mediocre
La ‘vedovanza’ della Chiesa - spiega il Papa - si riferisce al fatto che la Chiesa sta aspettando Gesù: “può essere una Chiesa fedele a questa attesa, attendendo con fiducia il ritorno del marito o una Chiesa non fedele a questa ‘vedovanza’, ricercando sicurezza in altre realtà… la Chiesa tiepida, la Chiesa mediocre, la Chiesa mondana”. Pensiamo anche alle nostre anime, è la sua esortazione conclusiva: “Le nostre anime cercano sicurezza soltanto nel Signore o cercano altre sicurezze che non piacciano al Signore?”:

“In questi ultimi giorni dell’Anno Liturgico ci farà bene domandarci sulla nostra anima: se è come questa Chiesa che vuole Gesù, se la nostra anima si rivolge al suo sposo e dice: ‘Vieni Signore Gesù! Vieni’. E che lasciamo da parte tutte queste cose che non servono, non aiutano alla fedeltà”.

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Francesco: vado in Africa come messaggero di pace e riconciliazione

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Attendo con gioia il momento in cui “saremo insieme”. E’ quanto afferma Papa Francesco in due videomessaggi alle popolazioni del Kenya, dell’Uganda e della Repubblica Centrafricana a due giorni dall’inizio del viaggio apostolico in Africa. Il Pontefice sottolinea di recarsi in terra africana come messaggero di pace e per promuovere “comprensione” e “rispetto” senza distinzioni di credo o etnia. Il servizio di Alessandro Gisotti

Vi rivolgo una parola “di saluto e di amicizia”. Inizia così il videomessaggio di Papa Francesco alle popolazioni del Kenya e Uganda, i primi due Paesi che visiterà nel suo imminente viaggio in Africa. Il Pontefice sottolinea che va in terra africana “per proclamare l’amore di Gesù Cristo e il suo messaggio di riconciliazione, perdono e pace”. E sottolinea che il Vangelo ci chiede “di aprire i nostri cuori agli altri, specialmente ai poveri e a coloro che sono in stato di bisogno”. Allo stesso tempo, afferma il Papa, “desidero incontrare tutte le genti di Kenya e Uganda e offrire a ciascuno una parola di incoraggiamento”.

In Kenya e Uganda per promuovere comprensione e rispetto
“Stiamo vivendo un tempo – constata – in cui ovunque i fedeli di ogni religlione e le persone di buona volontà sono chiamate a promuovere la comprensione e il rispetto reciproci, e a sostenersi gli uni con gli altri come membri della stessa famiglia umana. Per tutti noi sono figli di Dio”. Un momento “speciale della mia visita”, prosegue, “sarà rappresentato dagli incontri con i giovani, che sono la vostra principale risorsa e la nostra più promettente speranza per un futuro di solidarietà, pace e propgresso”.

In Centrafrica come messaggero di pace
Il Papa invia poi un videomessaggio alla popolazione del Centrafrica a cui manifesta innanzitutto la sua gioia e il suo affetto per tutti, “indifferentemente dall’etnia o dal credo religioso”. Il vostro caro Paese, rileva, “è attraversato da troppo tempo ormai da una situazione di violenza ed insicurezza delle quali molti tra voi sono vittime innocenti”. Lo scopo della mia visita, afferma, è dunque “innanzitutto quello di portarvi, in nome di Gesù, il conforto della consolazione  e della speranza”. “Spero con tutto il cuore – è l’auspicio di Francesco – che la mia visita possa contribuire, in un modo o nell’altro, ad alleviare le vostre ferite e a favorire le condizioni per un avvenire più sereno per il Centrafrica e tutti i suoi abitanti”. E aggiunge di andare nel Paese “in qualità di messaggero di pace”. “Desidererei sostenere il dialogo interreligioso – ribadisce – per incoraggiare la pacifica convivenza nel vostro Paese: so che questo è possibile, perché siamo tutti fratelli”.

Impegnarsi tutti per un mondo più giusto e fraterno
Il Papa riprende anche il motto della visita in Centrafrica, “Passiamo sull’altra sponda”. Un tema, evidenzia, che “invita le vostre comunità cristiane a guardare avanti con determinazione ed incoraggia ciascuno a rinnovare la propria relazione con Dio e con i propri fratelli per costruire un mondo più giusto e più fraterno”. Io nello specifico, conclude, “avrò la gioia di aprire per voi – con un po’ di anticipo – l’Anno giubilare della Misericordia, che spero sarà per ciascuno occasione provvidenziale di autentico perdono, occasione per ricevere e donare, e di rinnovamento nell’amore”.

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Il vescovo di Lira: Uganda attende dal Papa un raggio di luce

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L’Uganda sarà la seconda tappa del viaggio del Papa in Africa. Proveniente dal Kenya, il Pontefice arriverà ad Entebbe nel pomeriggio di venerdì 27 novembre. Lascerà il Paese alla volta del Centrafrica domenica 30 novembre. Sulle attese in Uganda, ascoltiamo mons. Giuseppe Franzelli, vescovo della diocesi ugandese di Lira, al microfono di Sergio Centofanti

R. – Le attese sono tante, perché chiaramente i cattolici, ma anche tutta la popolazione ugandese, è piena di entusiasmo all’idea che Papa Francesco venga a trovarci. Tra l’altro, siamo anche un pochino orgogliosi – e penso che il Signore ci perdonerà – perché l’Uganda a questo punto risulta essere l’unico Paese africano che ha avuto la visita di tre Papi: Paolo VI nel ’69, Giovanni Paolo II nel ’93 ed ora Papa Francesco. Questa aspettativa è grande, tanto che c’è tantissima gente che vorrebbe venire a Kampala per incontrarlo, cosa che evidentemente non sarà possibile a tutti. Ma questa aspettativa si basa sul fatto che la gente ha capito che è Pietro che, secondo la missione che gli ha dato Gesù, viene a visitare, a confermare nella fede i suoi fratelli. Il tema della visita del Papa è la citazione dagli Atti degli Apostoli “Voi sarete miei testimoni”, ed è un tema che si ricollega direttamente all’evento che viene celebrato, cioè il 50.mo anniversario della canonizzazione dei 22 martiri di Uganda. Allora sono proprio i martiri – “martiri” significa “testimoni” – che invitano a riflettere noi cattolici, o comunque noi cristiani, sulla qualità e la forza della nostra fede oggi, in Uganda, per vedere se anche noi come loro - in maggioranza erano giovani – siamo capaci di essere fermi nella nostra fede, senza compromessi, senza paure. E’ una sfida grande e per questo noi ci aspettiamo - e preghiamo – che la visita del Papa porti un rafforzamento, un rinnovamento di cui la Chiesa cattolica in Uganda, e anche tutto il Paese, hanno senz’altro bisogno.

D. – Che Paese trova Papa Francesco?

R. – Un Paese che il 9 ottobre scorso ha celebrato il 53.mo anniversario della sua indipendenza. 53 anni in cui tante cose belle sono successe, di cui abbiamo ringraziato il Signore: lo sviluppo che c’è stato e così via. Ma anche 53 anni che hanno visto un Paese che a più riprese è stato insanguinato da rivolte interne, colpi di Stato e così via, che in genere hanno visto sempre chi andava al potere vendicarsi su chi c’era prima, dividendo quindi il Paese. E’, dunque, un Paese ferito. Per quanto riguarda il Nord, la parte in cui opero come vescovo di Lira, siamo appena usciti, da pochi anni, da oltre 20 anni di ribellione del Lord’s Resistance Army di Joseph Kony, che hanno distrutto tutto ciò che era possibile e hanno diviso le famiglie. E allora c’è un grande bisogno di una ricostruzione che non sia solo materiale, di edifici distrutti, di strade che non ci sono più, ma di una ricostruzione – direi – della fibra morale della popolazione e anche dei valori cristiani che sono stati dimenticati oppure contraddetti da queste violenze, mutilazioni, rapimenti e così via, e dal desiderio che c’è di vendicarsi; o comunque di recuperare da questo trauma, perché almeno la nostra popolazione nel Nord è una popolazione traumatizzata da questi eventi e ci vorranno un paio di generazioni, penso, per venirne fuori. Ma non è che nel resto del Paese non ci siano problemi. Ci sono due visioni dal punto di vista etnico e politico. E’ una democrazia abbastanza fragile, dove per anni c’è stato il partito unico e dove poi è entrato il multipartitismo, con una tendenza a guardare chi è di un partito, di un gruppo diverso, non come fratello e sorella della stessa famiglia che ha idee diverse, ma come nemico. Questo sta venendo fuori ancora di più adesso, perché siamo in un periodo preelettorale, e nel febbraio dell’anno prossimo ci saranno le elezioni. Noi già avvertiamo come l’atmosfera si stia riscaldando. La venuta, quindi, di Papa Francesco speriamo, e preghiamo, che sia un po’ un invito alla riconciliazione, al rispetto reciproco, al fatto che siamo tutti figli dello stesso Padre. E questo anche al livello – direi – ecumenico, perché non è solo per noi cattolici. I martiri ugandesi sono 22 martiri che noi veneriamo - noi cattolici – e che sono stati canonizzati. Ci sono anche due martiri catechisti, giovani catechisti del Nord – Jildo e Daudi – che sono stati martirizzati e sono stati dichiarati Beati. Ma assieme ai 22 martiri cattolici, ci sono stati altri 22, 23 anglicani, che sono stati pure bruciati, ammazzati insieme ai nostri. Perché? Proprio perché cristiani. Allora ecco che la visita del Papa, con anche la sosta al sito anglicano del martirio, è un invito, è un richiamo a guardare più quello che ci unisce che quello che ci divide.

D. – Può descriverci com’è la Chiesa ugandese?

R. – E’ una Chiesa che, tra l’altro, è proprio il frutto del sangue dei martiri. Il sangue dei martiri è proprio seme dei cristiani. Adesso su 34 milioni di abitanti abbiamo circa 14, 15 milioni di cattolici; poi ci sono gli anglicani e altre denominazioni religiose, sempre cristiane, oltre ad un gruppo di musulmani che però è piuttosto in minoranza, specialmente in certe regioni del Paese; e poi associazioni, movimenti laici e così via, che testimoniano la vitalità di questa Chiesa. Questo è l’aspetto positivo. Le sfide sono nella coesistenza della fede cristiana con tradizioni culturali soggiacenti che spesso vengono fuori nei momenti di crisi. Per esempio, anche andando a Messa la domenica, se il martedì il bambino si ammala, spesso, in molti villaggi, si va dallo stregone oppure si fanno pratiche che non sono in armonia con il credo cristiano. C’è poi adesso la grossa sfida della corruzione, che ormai ha penetrato purtroppo la vita sociale, economica e politica del Paese a livelli veramente spaventosi. Ma il male più grosso sembra essere il fatto che molti ormai lo ritengano un male inevitabile, in fondo una cosa normale. C’è bisogno, quindi, di un risveglio, di un recupero di una vita di fede più autentica, che si veda nelle opere, nelle pratiche esterne e non solo nella preghiera. Per cui ci sono luci ed ombre, come dappertutto penso, nella vita della Chiesa ugandese. E noi speriamo e preghiamo che la venuta di Papa Francesco porti un raggio di luce e un incoraggiamento a far crescere quello che è positivo e a darci il coraggio di tagliare con quello che invece impedisce una vita cristiana autentica.

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Migranti e clima nel colloquio del Papa con governatore Antigua e Barbuda

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Papa Francesco ha ricevuto nel Palazzo Apostolico Vaticano il governatore generale di Antigua e Barbuda, Rodney Williams, che poi ha incontrato il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, accompagnato da mons. Paul Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati.

“Durante i cordiali colloqui – riferisce la Sala Stampa vaticana - sono state sottolineate le buone relazioni bilaterali, rafforzate negli ultimi anni dalla nomina di un Ambasciatore presso la Santa Sede. Nel prosieguo della conversazione ci si è soffermati sul contributo che la Chiesa cattolica offre alla promozione della tutela della dignità della persona umana, nonché nei settori dell’educazione e dell’assistenza ai più bisognosi, auspicando una proficua e mutua collaborazione. Infine, sono stati toccati alcuni temi di rilevanza regionale e globale, con particolare riferimento ai flussi migratori e ai cambiamenti climatici”.

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Nomine episcopali di Francesco in Polonia e Messico

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In Polonia, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Zielona Góra-Gorzów, presentata da mons. Stefan Regmunt, in conformità al can. 401 § 2 del Codice di Diritto Canonico. Il Papa ha nominato vescovo di Zielona Góra-Gorzów mons. Tadeusz Lityński, finora Vescovo titolare di Cemeriniano ed Ausiliare della medesima diocesi.

In Messico, il Papa ha nominato vescovo di Autlán mons. Rafael Sandoval Sandoval, M.N.M., finora vescovo di Tarahumara.

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Tagle: Giubileo della Misericordia è la riposta più forte alla violenza

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“Il Dio della Misericordia”. E’ il tema degli Esercizi spirituali che verranno predicati da oggi a venerdì prossimo dal cardinale Luis Antonio Tagle ai sacerdoti romani. Il tema richiama immediatamente al Giubileo straordinario voluto da Papa Francesco. Proprio su questo evento tanto atteso, Alessandro Gisotti ha intervistato il cardinale Tagle nella sede della Caritas Internationalis di cui è presidente. Nella prima parte dell’intervista, che oggi trasmettiamo, l’arcivescovo di Manila racconta con quali sentimenti ha accolto l’annuncio del Giubileo: 

R. – In verità, non sono stato sorpreso perché, sin dall’inizio del suo Pontificato, il Papa ha sempre accennato a questo aspetto della vita cristiana: la Misericordia di Dio. E quando ha annunciato questo Giubileo straordinario della Misericordia, per me è stata l’affermazione di un impulso spirituale di questo Papa, però anche un invito per tutta la Chiesa a rivedere la vita spirituale, pastorale e missionaria, affinché tutti questi aspetti della vita ecclesiale siano strumenti, vie, della Misericordia di Dio.

D. – Dopo i tragici eventi di Parigi, si può dire che il Giubileo della Misericordia è ancora più necessario?

R. – Sì, ogni atto di violenza è una manifestazione della mancanza di misericordia. Questo è il mistero che ci rende tutti silenziosi davanti alla violenza. Io, personalmente, non riesco a capire come un uomo, un essere umano, possa fare qualcosa del genere ad altre persone innocenti. Io non voglio condannare nessuno, però per me l’immaginare – solo immaginare – un cuore che arriva a fare queste cose... che pensieri e che spiriti hanno influenzato questo cuore? Una parola allora viene in mente: misericordia. C’è misericordia in questi cuori? Questo Giubileo è una risposta, una risposta chiara alla violenza senza misericordia, dappertutto.

D. – Papa Francesco, nella Misericordiae Vultus, afferma che il Giubileo è aperto anche ad ebrei e musulmani, perché anche per loro la misericordia è uno degli attributi, degli aggettivi più qualificanti di Dio…

R. – Sì e non solo gli ebrei e i musulmani. Da noi, in Asia, quasi tutte le antiche tradizioni religiose – il buddismo, l’induismo, il confucianesimo – tutte queste religioni hanno una tradizione della misericordia. Ad esempio, i monaci buddisti ogni mattina vanno in giro per tutta la città a chiedere cibo, vestiti, ma non per sé stessi: per i poveri. E per il pranzo, la tavola grande dei monaci buddisti è aperta a tutti! I monaci mangiano per ultimi: questa è misericordia! La mia speranza è che, in quest’Anno del Giubileo, il punto di riferimento per il dialogo interreligioso, non solo dal punto di vista accademico, ma anche da quello pratico, sia concentrato sulla misericordia.

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InfoGiubileo: il notiziario della Radio Vaticana per i pellegrini

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Presentato a Roma, alla presenza del prefetto Franco Gabrielli e del direttore generale di Radio Vaticana padre Federico Lombardi, InfoGiubileo, il “giornale radio” dedicato ai pellegrini, ai romani e ai turisti presenti nella capitale per l’Anno Santo della Misericordia. Sei volte al giorno, sul canale italiano della Radio Vaticana e sulla radio digitale, il Dab+  per Roma e l’Italia, gli ascoltatori saranno informati sulle notizie di servizio relative all’anno santo. Eugenio Murrali

Un lavoro di squadra per fornire notizie aggiornate e attendibili ai pellegrini e ai romani in occasione dell’Anno Santo, come spiega padre Federico Lombardi:

"La Radio Vaticana continua il suo servizio per il pubblico romano in particolare e per chi viene a Roma. E’ un servizio naturalmente di informazione e di partecipazione agli eventi spirituali, a tutto quello che avviene, però è anche un servizio di carattere organizzativo, di informazioni pratiche che permettono di partecipare agli eventi con ordine e con serenità."

Dal primo dicembre partirà dunque il servizio InfoGiubileo, che sarà introdotto da questa sigla:  

(audio sigla)

Informazioni su mobilità urbana e ferroviaria, servizi offerti dalla città, numeri per le emergenze forniti dal network formato da Radio Vaticana, Agenzia Roma Servizi per la Mobilità, Luce Verde Aci e Ferrovie dello Stato italiane, in collaborazione con la Prefettura, Roma capitale, Città metropolitana e Regione Lazio.

Le notizie di pubblica utilità saranno trasmesse prima e dopo le cerimonie religiose in italiano e in altre lingue europee. Oltre che su Radio Vaticana i notiziari, il primo alle 9.05 e gli altri 5 ogni due ore a partire dalle 10.30, saranno diffusi anche dal network Luceverde Roma e Lazio, da Roma Radio, Telesia e da FSNews Radio. Il servizio sistematizza iniziative di informazione che la Radio Vaticana aveva già avviato a partire dal Giubileo del 2000.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Pace e prosperità per l'Africa: all'Angelus il Papa parla dell'imminente viaggio in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana.

Per una scuola che non esclude nessuno: le risposte del Pontefice durante l'incontro con gli educatori cattolici.

Cambio in Argentina: Silvina Pérez sulle presidenziali in Argentina vinte al ballottaggio da Mauricio Macri.

Nuove vie per la pace: il cardinale segretario di Stato sul governo di un mondo multipolare a quarant'anni dalla conferenza di Helsinki.

L'infinitamente complesso: Carlo Maria Polvani sulla fisica secondo Werner Kinnebrock.

Alla ricerca delle fonti cistercensi in un articolo di Sergio Pagano.

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Oggi in Primo Piano



Bruxelles, massima allerta: 21 arresti, ma ancora libero Abdeslam

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Ancora stato di massima allerta terrorismo a Bruxelles per una minaccia ritenuta dal governo “seria e imminente”: 21 gli  arresti e 19 le perquisizioni effettuate, ma resta a piede libero il super-ricercato Salah Abdeslam, responsabile degli attentati di Parigi del 13 novembre scorso. Al Bataclan, uno dei luoghi simbolo delle stragi in Francia, questa mattina si sono recati il presidente Hollande e il premier britannico Cameron. Il servizio di Paolo Ondarza: 

Lotta al terrorismo e crisi siriana al centro dell’incontro oggi a Parigi tra il premier britannico Cameron e il presidente francese Hollande, in raccoglimento questa mattina al Bataclan, uno dei teatri delle stragi di Parigi. La Gran Bretagna da parte sua si è detta pronta a collaborare ai raid francesci anti Califfato in Siria offrendo la base militare di Cipro. Intanto, è ancora stato di massima allerta a Bruxelles: chiusi grandi centri commerciali, scuole e metropolitane. Dopo l’ondata di perquisizioni e arresti, gli ultimi 5 nella tarda mattinata di oggi, “il lavoro non è finito” fa sapere il governo, nessun rischio specifico contro le istituzioni europee rassicura la Commissione Ue. La popolazione, in questa situazione, non cede al panico, come conferma don Giancarlo Quadri, incaricato della pastorale italiana a Bruxelles:

R. – Dobbiamo ringraziare le forze dell’ordine, così attente a tutto, e riteniamo che sia giusto curare in modo particolare alcuni settori, come la scuola, i trasporti, soprattutto i trasporti sotterranei e via dicendo. Però, non mi sembra che ci sia uno “stato di assedio”, come a volte sento. Si vive abbastanza normalmente. Con attenzione, questo sì. Una certa apprensione, certo … ma fino alla paura, al terrore, al blindamento, al coprifuoco … non mi sembra, ecco.

D. – Lei diceva: inevitabili i disagi per quanto riguarda il traffico, vista la chiusura delle metropolitane. Quindi, da questo punto di vista c’è un cambiamento della vita quotidiana …

R. – Certamente! Ad esempio, oggi è lunedì ed essendo bloccato il metrò ed essendo chiuse le scuole, il sistema di vita è cambiato: code di auto per le strade, etc… però, tutto sommato, siamo avvisati bene, siamo ben coperti dalle forze dell’ordine …

D. – Si poteva immaginare, tra la gente, che in Belgio potessero nascondersi cellule terroristiche?

R. – Immaginare cellule terroristiche no; però io, ad esempio, vengo da Milano, è un anno e mezzo che sono qui a Bruxelles, e mi sono trovato in una realtà molto più multiculturale … soprattutto vedendo come l’integrazione e il dialogo tra le diverse realtà presenti non siano così avanzati e coltivati, qualcosa si poteva anche pensare. Però… cellule terroristiche, veramente non l’avevamo pensato!

D. – Diceva: l’integrazione. Non è molto riuscita?

R. – E’ molto presente la multiculturalità. Però non vedo grandissime iniziative. Faccio un paragone: io ero il responsabile dell’immigrazione a Milano e ad esempio il dialogo interreligioso con i musulmani l’ho visto molto più avanzato nella realtà milanese che non qui, pur essendo qui la realtà musulmana molto più presente in quantità e numero.

D. – Ha avuto modo di vedere come la comunità musulmana a Bruxelles abbia reagito, rispetto a quanto accaduto a Parigi?

R. – Sabato sera, dopo il venerdì famoso, io ero nel quartiere di Molenbeek, ed ero stato invitato – proprio come sacerdote – da un gruppo di famiglie marocchine. Però, all’interno della realtà musulmana non vedo grandi iniziative per l’incontro, pur non vedendo difficoltà di nessun tipo nella relazione. La scuola, per esempio: le scuole cattoliche, qui a Bruxelles, sono ormai frequentate all’80% – di più! all’85% - da alunni musulmani …

D. – E dopo i fatti accaduti lei ha riscontrato una condanna degli attentanti da parte della comunità musulmana?

R. – Quelli che ho avvicinato io, sì. L’hanno fatto. Mi hanno chiesto scusa. E qui faccio un altro paragone: io ho vissuto quattro anni in Marocco all’epoca dei monaci di Tibhirine, alle uccisioni in Algeria: là avevo assistito da parte delle famiglie marocchine quasi ad una processione per chiedermi scusa e perdono per quanto avevano fatto i loro fratelli in Algeria! Qui a Bruxelles un movimento di massa contrario, non l’ho visto. Però … speriamo …

D. – Lei è fiducioso che questo avverrà?

R. – Molto, molto. Anche perché ho molti amici musulmani: io sono molto fiducioso che ci sia anche qui, a Bruxelles, almeno, una presa di posizione contraria al terrorismo, all’integralismi tipo Is o cose del genere …

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Giubileo. Gabrielli: sicurezza e libertà. Palumbo: coinvolgere cittadini

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Parte oggi il Piano di Sicurezza per il Giubileo, già illustrato nei giorni scorsi. 2 mila gli uomini di Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia municipale e Corpo forestale chiamati a presidiare nella città di Roma oltre mille obiettivi sensibili, eventi a rischio, autobus e metropolitane, stazioni, aeroporti, strade di accesso nella capitale. "Non cambierà nulla dal punto di vista delle libertà e dei diritti dei cittadini", ha assicurato stamane il prefetto Gabrielli, puntualizzando che saranno "semplicemente" utilizzati "strumenti che la normativa mette a disposizione". Ma quale ruolo potranno giocare gli stessi cittadini nella partita della sicurezza? Roberta Gisotti lo ha chiesto a Gianni Palumbo, portavoce del Forum Terzo settore, promotore nel luglio scorso insieme ad oltre 30 associazioni di un “Manifesto dei cittadini per il Giubileo”:

 

D. - Dopo gli attentati di Parigi e davanti alla strategia del terrore dei jihadisti dell’Is, il tema della sicurezza è divenuto prioritario… come reagire da parte dei cittadini?

R. – Il tema è sicuramente diventato prioritario, ma era già presente: insieme alla sicurezza armata, c’è anche quella disarmata che può essere messa in atto dai cittadini. Noi da questo punto di vista abbiamo fatto delle proposte al sindaco che si è dimesso e le stesse sono state presentate anche al prefetto Gabrielli. Chiediamo anzitutto che ci sia un riconoscimento dell’associazionismo e per i cittadini all’interno del progetto generale del Giubileo. Pensavamo quindi all’attivazione di una rete di strutture pubbliche, ma anche private, scelte tra quelle già attive per costituire dei presidi culturali, sociali, ambientali, educativi. E riteniamo che questi possano essere dei luoghi nei quali la sicurezza non sia necessariamente il dire: ‘state tranquilli’, ma il poter continuare a svolgere la propria attività nei luoghi dove si vive. Questo è sicuramente un elemento che porta tranquillità. Da questo punto di vista possiamo dare un importante segnale e un importante contributo.

D. – Ecco è importante infatti che l’ansia, la preoccupazione dei cittadini sia incanalata in comportamenti positivi …

R. – Esatto, questo è l’obiettivo. In alcuni municipi romani è già in corso l’attivazione di alcuni presidi vogliamo arrivare a coinvolgere tutti i municipi, perché in questi presidi si possono fare anche queste attività legate alla gestione dell’ansia e delle tematiche connesse; e questo sicuramente è un aspetto. L’altro aspetto riguarda la vita ordinaria: ad esempio, un servizio che riteniamo molto importante è quello che mira al contrasto della povertà e quindi alla messa a punto di azioni per ridurre e contenere le varie povertà: certamente quella sociale, quella alimentare, quella abitativa, quella economica, ma anche quella energetica, quella informativa, quella comunicativa… La povertà è fatta da una serie di elementi, non soltanto da uno. Allora, intervenire su questo ci aiuta a costruire un percorso di sicurezza per i cittadini, soprattutto per quelli più fragili.

D. - Dunque è importante e pressante che il prefetto Gabrielli riprenda in considerazione questo vostro manifesto?

R. – Assolutamente sì, noi lo abbiamo già richiesto e abbiamo chiesto anche un incontro su questo al prefetto Tronca. Gabrielli si occupa del Giubileo e il prefetto Tronca si occupa del Comune: loro sono i nostri interlocutori. Abbiamo chiesto di nuovo che sia ripristinato un processo di presenze attive istituzionali. Stiamo aspettando di essere convocati.

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Argentina. Mauricio Macri presidente, finisce era peronismo

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Mauricio Macri, leader della coalizione di centrodestra “Cambiemos” ed ex sindaco di Buenos Aires, è il nuovo presidente dell’Argentina, eletto con il 51% dei consensi nel primo ballottaggio della storia elettorale del Paese sudamericano. Finirà così, il 10 dicembre prossimo – giorno del suo insediamento – l’era del peronismo-kichnerismo, durata 12 anni. Appena eletto, il neopresidente ha parlato di un “cambio epocale”. Roberta Barbi ne ha parlato con il giornalista argentino Alfredo Somoza, presidente dell’Icei, Istituto cooperazione economica internazionale: 

R. – Queste elezioni argentine segnano effettivamente un cambio d’epoca, perché in qualche modo sono una specie di ritorno alla normalità dopo il default del 2001. Néstor Kirchner prima e sua moglie Cristina Fernández poi hanno governato la lunga uscita dal default del 2001. Questa volta gli elettori hanno deciso di voltare pagina, scegliendo, tra l’altro per la prima volta dal 1916, un presidente che non appartiene a nessuno dei due partiti tradizionali: quindi né al peronismo, né al partito radicale. Mauricio Macri effettivamente è una novità nel panorama politico argentino: per quanto sia stato già sindaco dell’importante città di Buenos Aires, della capitale del Paese, presidente del Boca Juniors e un importante imprenditore nel campo edile, non è una new entry nella politica, ma è sicuramente una novità clamorosa che sia diventato presidente della Repubblica, perché politicamente e culturalmente ha un profilo liberale, di centrodestra. È la prima volta che in Argentina, dal ritorno alla democrazia, vince un presidente che appartiene a quella parte dello spettro politico.

D. – Macri ha promesso un’Argentina con “povertà zero”, la sconfitta del narcotraffico e il miglioramento della qualità della democrazia. Sono queste le sfide che dovrà affrontare?

R. – Questo sono quelle sicuramente più sentite e riguardano i problemi che non ha potuto risolvere, in questi ultimi due anni, la presidente uscente. La prova del fuoco in realtà sarà un’altra e sarà molto più ravvicinata: quella, cioè, dell’economia. Lui eredita un Paese quasi senza riserve valutarie; con un’inflazione che si aggira attorno al 30 per cento annuo; con un mercato parallelo del dollaro nel quale questo vale oltre il 60 per cento in più rispetto alla quotazione ufficiale; ma soprattutto un Paese che è tecnicamente in default.

D. – Il Paese è stato recentemente declassato a “economia sommergente”, dopo il secondo default in 12 anni. Qual è la situazione reale?

R. – La situazione reale è che questo default - rispetto a quello del 2001 - è un default tecnico ed è dovuto al mancato raggiungimento di una mediazione con i grandi fondi d’investimento che hanno fatto causa contro l’Argentina a New York, vincendola. Quella partita adesso sarà sicuramente chiusa, costerà qualche miliardo di dollari al Paese, ma chiuderà definitivamente le conseguenze del default. Questo poterà a un miglioramento della qualifica del Paese a livello internazionale, ma fondamentalmente aprirà il mercato internazionale dei capitali all’Argentina, che in questo momento le è precluso: una cosa di cui ha urgente bisogno l’Argentina, che non riceve investimenti esteri da oltre 10 anni. In questo negoziato con i fondi a New York si giocherà buona parte del futuro del governo Macri. Il secondo punto, sempre in campo economico, riguarda appunto l’inflazione, che sta erodendo il livello di vita, che era migliorato in questi anni, ma che da due anni a questa parte viene eroso dall’inflazione, che è ad oltre il 25 per cento e che non è mai stata riconosciuta come tale dal governo uscente.

D. – La ricetta che dovrà adottare il nuovo governo è, dunque, quella dell’austerità?

R. – Più che dell’austerità, l’Argentina si pone il problema delle entrate: in realtà l’Argentina non è un Paese che spende tanto attualmente, dopo anni e anni di tagli - prima all’epoca del governo Menem che privatizzò buona parte dell’apparato pubblico e poi dopo il default per ovvi motivi - lo Stato argentino è piuttosto “magro”, anche se devo dire che si è un po’ allargato, in questo ultimo mese, con delle assunzioni fatte dal governo uscente, immaginando che avrebbe perso, ma sono assunzioni che penso non saranno riconfermate da questo governo. L’Argentina, dopo quasi 7 anni con una crescita tra il 5 e il 7 per cento annuo dopo il default, sono due anni che è praticamente in recessione e che non cresce più e soprattutto non cresce più, perché da quando è ritornata a ripiombare nel default tecnico è rimasta un po’ una “appestata” per la comunità internazionale. A questo si è aggiunto l’errore della politica dei cambi, che ha bloccato molti investimenti, perché chi investe in Argentina in questo momento non riesce a portarsi via i dollari. Macri sicuramente agirà liberalizzando questi aspetti che erano stati congelati, nella speranza che riparta il ciclo della crescita. Se l’Argentina dovesse tornare a crescere il 2-3-4 per cento, non ci sono grandi problemi macroeconomici. Certamente l’Argentina è in un contesto – quello sudamericano – che attualmente sta scontando la crisi internazionale.

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Myanmar: frana in miniera, oltre 100 vittime

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Povera gente che passa la vita a scavare tra montagne di scarti, alla ricerca di qualche frammento di giada da rivendere. Sono questi i minatori improvvisati che domenica hanno perso la vita a causa di una frana di materiale di risulta in una miniera nello Stato di Kachin, nel Nord del Myanmar. Il bilancio ha superato i cento morti e almeno altrettanti sarebbero i dispersi. La tragedia si lega al fiorente business di estrazione ed esportazione della giada, fonte di enormi guadagni per un cerchia ristretta di affaristi legati alla vecchia giunta militare. Marco Guerra ne ha parlato con Francesco Montessoro, docente di Storia e istituzioni dell’Asia all'Università statale di Milano: 

R. – Si tratta di un fenomeno comune a tutti i Paesi poveri in realtà, nel senso che una buona parte dei minatori di giada di quest’area del Nord-Est della Birmania sono semplicemente dei disperati, dei poveri che cercano di raccogliere qualcosa in aree che sono ampiamente sfruttate da società che utilizzano mezzi meccanici per l’estrazione della giada. Abbiamo a che fare, dunque, con migranti, con persone che trovano un riparo occasionale nei pressi di giacimenti minerari ampiamente già sfruttati. La caduta di materiali che sono frutto di precedenti scavi è stata devastante, perché ha interessato un insediamento di capanne, di rifugi occasionali. In realtà, si tratta di qualcosa che rinvia più precisamente alla natura dell’economia di un Paese come il Myanmar, che è senz’altro ancora condizionato, a dispetto delle recentissime elezioni, dal ruolo preminente delle forze armate.

D. – Infatti, il business della giada è controllato da una cerchia di affaristi legati alla vecchia giunta militare. Nonostante la transizione politica questa classe dirigente continua ad esercitare un certo peso nel Paese?   

R. – E’ naturale, anche perché le forze armate hanno impresso una profonda trasformazione della società, a partire già dagli anni ’60, e hanno assunto un ruolo preminente in attività civili. Sono i militari stessi in carica, infatti, oppure, a partire dagli anni ’90, più precisamente i familiari, l’entourage familiare, di coloro che avevano responsabilità militari maggiori, che hanno intrapreso attività economiche e le hanno controllate per fini che sono eminentemente privati. Si tratta, dunque, dello sfruttamento di giacimenti che erano proprietà del demanio, proprietà dello Stato da parte di uomini legati naturalmente alle forze armate.

D. - Secondo un rapporto dell’Organizzazione non governativa Global Witness, il commercio di giada ammonterebbe a 31 miliardi di dollari annui. Tale ricchezza non raggiunge però la popolazione e, infatti, l’Ong l’ha definita la più grande rapina di risorse naturali della storia moderna…

R. – Sì, è difficile però valutare la correttezza di questi dati, perché una cifra di questo genere potrebbe equivalere quasi o circa alla metà del prodotto interno lordo birmano. Ma si tratta, comunque, di risorse estremamente ingenti. Bisogna considerare che il mercato della giada è sostanzialmente cinese, perché per ragioni culturali la giada è la pietra preziosa per eccellenza dei cinesi e geograficamente non è difficile contrabbandare giada dallo Stato Kachin, dalla Birmania del Nord, alla Cina, perché è un Paese frontaliero. Da questo punto di vista, dunque, gli affari sono stati sicuramente ingentissimi negli ultimi decenni.

D. – Sì, infatti l’esportazione è quasi rivolta tutta verso la Cina…

R. – La giada viene lavorata e ha un mercato che è prima di tutto un mercato cinese.

D. – Ci sono anche danni ambientali legati a questo fenomeno?

R. – La descrizione, le fotografie, le immagini che si hanno della miniera, che è stata teatro del disastro, sono terrificanti. Queste miniere, infatti, hanno una dimensione enorme sotto il profilo territoriale e hanno suoli sostanzialmente scorticati da mezzi meccanici. Coloro che sono morti non lavoravano nella miniera, erano coloro che si accontentavano di una ricerca tra i detriti, ai margini della miniera, che ci dice tuttavia quanto sia rilevante la produzione di giada in queste regioni.

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Rapporto Onu sull'apolidia: il dramma dei cittadini inesistenti

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“I’m here. I Belong", “Sono qui. Appartengo" con questo slogan l'Acnur, l'Alto Commissariato Onu per i rifugiati, ha presentato il Rapporto che fa il punto sullo stato degli apolidi, individui senza cittadinanza. Lo studio, il cui approfondimento riguarda in particolare i bambini, segue di un anno il lancio della campagna per contrastare l'apolidìa che condanna di fatto ad un’esistenza di discriminazione basata sulla frustrazione e la mancanza di diritti dovuti al non appartenere ad alcuno Stato. Sull'importanza del diritto alla patria e sulle conseguenze dell’apolidìa, Francesca Di Folco ha chiesto a Federico Fossi dell’Acnur un’analisi sui risultanti dal rapporto: 

R. – Sì, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha lanciato un interessantissimo Rapporto sui minori apolidi, che ha preso in esame casi di oltre 250 persone – non solo bambini, giovani, ma anche genitori e tutori – in sette Paesi: la Costa d’Avorio, la Repubblica Dominicana, la Georgia, la Giordania, la Malesia e la Thailandia, oltre al nostro Paese. E’ un Rapporto che viene lanciato a un anno, invece, dall’inizio di una campagna globale dell’Acnur – “I belong” – che ha come obiettivo quello di porre fine all’apolidia entro il 2024. In particolare, questa campagna propone una serie di misure che gli Stati dovrebbero adottare al fine di porre fine all’apolidia, e queste sono: consentire ai bambini di acquisire la cittadinanza del Paese in cui sono nati, bambini che altrimenti sarebbero apolidi, quindi privi di nazionalità; riformare – appunto – le leggi che impediscono alle madri di trasferire la propria cittadinanza ai figli in condizione di parità rispetto ai padri, cioè il trasferimento ereditario dalla madre ai figli; eliminare le leggi e le pratiche che negano la cittadinanza ai bambini a causa della loro nazionalità, etnia, razza o religione e assicurare infine che venga realizzata universalmente la registrazione delle nascite in modo da prevenire l’apolidia, cosa che non avviene in tutti i Paesi del mondo.

D. – Quali sono, di fatto, le conseguenze che comporta l’essere apolide?

R. – Bambini che si descrivono come “invisibili”, come “alieni”, come “persone che vivono nell’ombra”, “inutili”, addirittura come “cani randagi”: questo vi dà un’idea di cosa voglia dire essere apolide. Essere apolide è una condizione di estrema vulnerabilità e assenza di diritti: di fatto, l’apolide è una persona a cui è negato un diritto umano fondamentale, che è quello della nazionalità, riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Essere privi della nazionalità comporta una serie di difficoltà enormi, impensabili proprio perché diamo per scontato il godimento di tutti i diritti che sono correlati, appunto, alla nazionalità: quindi, l’accesso all’istruzione, alle scuole, all’università, al sistema sanitario nazionale; l’apolide non ha libertà di movimento, addirittura non può sposarsi. Quindi vive una situazione di irregolarità perenne e anche di soggiorno, se non ha riconosciuto lo status di apolide: può essere soggetto a periodi di detenzione amministrativa, a ordini di espulsione … sono persone che si sentono straniere nel Paese in cui in realtà sono nate …

D. – Intorno a che cifre orbita il fenomeno, sia a livello mondiale sia italiano?

R. – Gli apolidi nel mondo sono stimati in circa 10 milioni: è una stima, non è un dato scientifico, proprio perché sono solo 64 i Paesi che hanno comunicato all’Anur i dati che permettono di contare le persone. Il dato sull’Italia è mancante, se non una stima approssimativa che dovrebbe superare i 10 mila, ma sul quale non ci sono dati ufficiali.

D. – L’Italia ha recentemente aderito alla Convenzione del 1961 sulla riduzione dell’apolidia: a che punto è la normativa attualmente vigente e come modificarla per salvaguardare i diritti di ognuno?

R.- Sì, l’Italia – il 10 settembre – ha approvato in via definitiva la legge di adesione alla Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 1961 e questo fa sì che l’Italia si aggiunga a 64 Paesi che hanno aderito a questa Convenzione. Ma in realtà, sono due le Convenzioni: la Convenzione relativa allo Statuto delle persone apolide del 1954 e la Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del ’61. E’ molto importante che gli Stati aderiscano a questa convenzione perché possa essere previsto in ogni Stato il riconoscimento dello status di apolidia. Pur rimanendo senza nazionalità, lo status di apolidia permette quantomeno di non incorrere nel pericolo di detenzione o ordini di espulsione da parte dello Stato in cui la persona vive.

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Salute immigrati, Oms: il vaccino è un diritto umano

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Per la salute dei migranti è fondamentale un’azione di prevenzione nei Paesi di provenienza e nella primissima accoglienza. Questa è la sfida lanciata dalle 53 nazioni che si sono incontrate oggi a Roma, per la Conferenza Internazionale sulla salute dei rifugiati e dei migranti promossa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il servizio di Veronica Di Benedetto Montaccini:

Guardare l'uomo sostenendo il diritto all’assistenza sanitaria come risposta alla crisi migratoria. E' una delle priorità affermate dalla prima Conferenza Internazionale sulla Salute dei Rifugiati. Una necessità che va favorita a livello globale sottolinea la direttrice dell'Organizzazione Mondiale della Sanità per l’Europa, Zsuzsanna Jakab

R. - Migration that we have now …
La migrazione di oggi non è un’emergenza, ci ha accompagnato per numerosi anni e continuerà a farlo. Ed ecco perché è importante avviare una collaborazione tra Paesi. Riteniamo che sia importante lavorare insieme e anche rivedere il profilo delle malattie dei migranti che arrivano in Europa. E’ stata pianificata una dichiarazione congiunta tra Oms, Unicef e Unhcr sulla necessità di vaccinare i rifugiati e migranti che arrivano in Europa. Abbiamo redatto un comunicato congiunto nel quale ci appelliamo agli Stati membri affinché tutti i rifugiati e i migranti siano vaccinati contro la poliomielite, il morbillo, le malattie infantili quando si fermano per più di una settimana sul territorio nazionale. Si tratta di applicare i diritti umani: il vaccino è un diritto umano. Tra le priorità ovviamente anche la solidarietà, di cui l’Europa è sempre andata molto orgogliosa e  il rispetto della dignità. Tutto questo è quello che intendiamo incrementare per i  rifugiati e i migranti. A volte è difficile, ma è fattibile, e l’Italia è stata d’esempio al resto d’Europa.

E’ proprio dall’Italia che partirà una delle iniziative utili per la prevenzione delle malattie più comuni, ovvero "la Campagna europea di vaccinazioni per i migranti". Ad annunciarlo il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin:

R. - L’aspetto sanitario riguarda sempre più donne e minori. Innanzitutto, vaccinarli è già una cosa importantissima: l’Italia questo lo ha sempre fatto e vogliamo farlo a livello europeo, anche nei Paesi di provenienza. Questo per garantire la salute non solo delle persone migranti, ma di tutti gli europei. Quindi, noi abbiamo bisogno di un lavoro che possono fare solo le Nazioni Unite nel loro complesso, nei Paesi dai quali queste persone si muovono.

Alle giuste cure si deve legare un’informazione corretta: i migranti non portano malattie infettive, spiega Santino Severi, coordinatore del Dipartimento migrazioni e salute per l’Oms:

R. - I problemi relativi alle malattie infettive sono fondamentalmente quasi irrilevanti, riguardo ai flussi migratori. Al contrario, si dovrebbe incominciare a pensare e a parlare dei problemi relativi alle malattie non infettive, perché in questo caso i migranti hanno un rischio superiore dovuto a stili di vita drammatici, spesso siamo in presenza di malattie croniche. Quindi, se lei mi chiede dove dovrei investire se fossi responsabile del sistema sanitario di un Paese, investirei su programmi a medio e a lungo termine di prevenzione e di accesso riguardo alle malattie croniche, e manterrei invece una capacità minima di sorveglianza per le malattie infettive, perché lì il rischio è minore.

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Piano salvabanche, Quadrio Curzio: è responsabilità solidale

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In Italia, il Consiglio dei ministri ha approvato il piano per il salvataggio di 4 banche in crisi. Per evitare il loro fallimento, gli istituti bancari sani garantiranno un fondo di oltre 3,6 miliardi di euro. Il provvedimento non prevede finanziamenti pubblici o contributi da parte di azionisti, obbligazionisti e correntisti. Su questo piano di salvataggio, Amedeo Lomonaco ha intervistato l’economista Alberto Quadrio Curzio

R. – Le banche italiane si sono accordate per un evento che avrebbe generato il panico con la messa in liquidazione dei quattro istituti salvati. Questo è un evidente segno di responsabilità e di solidarietà del sistema bancario italiano, che bada nel suo complesso all’interesse del nostro Paese e dei risparmiatori.

D. – E infatti è stato anche evitato il nuovo schema europeo che, in caso di crisi bancaria, coinvolge azionisti, obbligazionisti e, se necessario, correntisti con oltre 100 mila euro…

R. – In questa vicenda, l’Unione Europea, in particolare la Commissione, non ha fatto altro che mettere intralci all’Italia, persino impedendo che fosse utilizzato il fondo di garanzia dei depositi. Questo sconcerta, perché in casi precedenti sono stati ampiamente usati fondi pubblici. Si pensi che in Germania, per quanto si sa, circa 64 miliardi di fondi pubblici sono stati usati per salvare banche. In ogni caso, la soluzione italiana è impeccabile, perché non prevede un euro di fondi pubblici e perché il sistema bancario, sotto la vigilanza della Banca d’Italia, ha trovato una soluzione molto confacente a quelle che sono le esigenze del sistema privati risparmiatori.

D. – Questo piano di salvataggio italiano può diventare un modello per l’intera Unione Europea?

R. – Io spero che diventi un modello. In ogni caso, l’Italia farà molto bene ad enfatizzare questa sua scelta, per dimostrare ancora una volta come il nostro Paese, nel contesto della grande crisi  2008-2014, se l’è sempre cavata per conto suo, anche con forti sacrifici, talvolta eccessivi per l’intero sistema Paese. Segnalo, per esempio, che la Spagna ha preso 50 miliardi di prestiti per ricapitalizzare, sistemare il proprio sistema bancario, e l’Italia neppure li ha chiesti. Forse ha fatto un errore a non chiederli nel 2012, tuttavia non li ha chiesti e se l’è cavata comunque, per conto suo, piuttosto bene.

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Nella Chiesa e nel mondo



Vescovi Regno Unito: aiutare profughi siriani senza paura

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“I barbari attacchi di Parigi non devono dissuadere dall’aiutare” le persone più vulnerabili “che fuggono dalla persecuzione e dalle guerre”. È l’appello rivolto dai vescovi inglesi e gallesi al termine della loro plenaria svoltasi in questi giorni a Leeds, in cui esortano il governo ad accelerare l’attuazione del piano di dislocamento dei rifugiati dalla Siria nel Regno Unito.

Si può e si deve fare di più
“I nostri governi - si sottolinea nella dichiarazione - hanno la responsabilità di fare la loro parte” nell’attuale emergenza umanitaria. Secondo i presuli inglesi e gallesi, si può e si deve fare di più: accogliere più persone, ma anche aiutarle ad inserirsi e integrarsi nelle comunità di accoglienza. Non basta infatti dare la loro residenza. L’impegno del governo Cameron ad offrire corsi di lingua inglese si muove in questo senso, ma occorre anche eliminare gli ostacoli che impediscono ai richiedenti asilo di trovare propri mezzi di sostentamento.

L’attuale crisi umanitaria è una sfida per tutti
L’esperienza della comunità cattolica è un incoraggiamento all’accoglienza, affermano quindi i vescovi, ricordando che l’attuale crisi umanitaria “è una sfida che interpella tutti”:  “Tutti - si legge - possono aiutare a costruire una cultura dell’accoglienza, anche con un semplice gesto di amicizia” verso i nuovi arrivati.  (L.Z.)

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Vescovi polacchi e tedeschi per la pace e l’unità europea

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“Desideriamo appoggiare le Chiese di diversi Paesi del mondo nei loro sforzi a favore della riconciliazione”, si legge nella dichiarazione congiunta dei vescovi polacchi e tedeschi pubblicata in occasione del 50.mo anniversario dello scambio di lettere di perdono reciproco dopo la Seconda Guerra Mondiale tra le Chiese dei due Paesi (18 novembre 1965). Il documento – riferisce l’agenzia Sir - è stato sottoscritto ieri, domenica 22 novembre, al santuario di Jasna Gora a Czestochowa, in Polonia, dal presidente dell’episcopato polacco, arcivescovo di Poznan, Stanislaw Gadecki, e dal cardinale Reinhard Marx, presidente dei vescovi tedeschi.

Costruire il futuro in spirito di riconciliazione
I presuli di Polonia e Germania che si definiscono “cristiani, polacchi e tedeschi, ma insieme europei”, rilevano che la Chiesa dei due Paesi è in modo particolare rivestita dalla “missione di costruire il futuro nello spirito di riconciliazione”. “Come Chiesa desideriamo impegnarci attivamente e con forza per la costruzione dell’unità dell’Europa basata sul cristianesimo”, affermano i vescovi preannunciando dei contatti “soprattutto con le Chiese in Bosnia ed Erzegovina, in altre parti della ex Jugoslavia nonché con le Chiese dell’Est europeo”.

Dignità umana, dono di Dio
Le due Chiese, prosegue il documento, “anche oggi devono dare all’Europa la loro testimonianza di fede”. In conclusione entrambi gli episcopati ribadiscono la ferma convinzione che “quando la dignità di ogni persona verrà intesa come dono di Dio, la nostra civiltà riuscirà a difendersi dalle idee fuorvianti di possibilismo e di autodeterminazione errate”. (I.P.)

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Chiesa Colombia: chiarezza su referendum, impegnarsi per la pace

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La Chiesa in Colombia, attraverso il presidente della Conferenza episcopale, mons. Luis Augusto Castro Quiroga, ha chiesto chiarimenti sulla questione del referendum della pace, proposto dal governo Santos, relativamente ai rapporti con la guerriglia delle Farc. “Spero – afferma il presule, in una nota riportata dall’agenzia Fides - che qualcuno spieghi di cosa tratta questa consultazione, e chiarisca il contesto dei trenta e più punti citati per capire non solo il referendum, ma altri aspetti importanti: spiegare se il referendum è costituzionale e se rispetta gli standard della giustizia internazionale”.

Fondare la pace su basi forti
Il presidente dei vescovi colombiani ha sottolineato anche l'importanza della struttura del processo di pace, ribadendo che essa deve “essere ben fondata, su basi forti, senza tralasciare nulla”. Mons. Castro Quiroga ha parlato al "Congreso Nacional de Planeación", che si svolge questi giorni a Tunja, dove ha relazionato sul tema “Riconciliazione e costruzione del tessuto sociale per la pace”. In particolare, il presule ha espresso la preoccupazione della Chiesa sui temi dell’accompagnamento delle vittime e sul contesto culturale e sociale del Paese, nella fase del post-conflitto.

Da ricordare che lo scorso 23 settembre, in uno storico incontro svoltosi a Cuba, il presidente colombiano Juan Manuel Santos ed il leader delle Forze Armate Rivoluzionarie (Farc) Rodrigo Londoño hanno preso l’impegno di creare un tribunale speciale per giudicare i delitti perpetrati in decenni di conflitto, un punto rimasto tra i principali ostacoli ai negoziati di pace avviati da tempo. Il presidente colombiano ha anche assicurato tempi brevi – circa sei mesi – per il raggiungimento di un accordo di pace definitivo. La pace sarà firmata ufficialmente il 23 marzo 2016. I cittadini dovranno approvare l’accordo con un referendum. (I.P.)

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Vescovo giapponese: sviluppo umano è chiave contro terrorismo

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Rilanciare lo sviluppo integrale dell’uomo e sostenere con forza la sacralità della vita come chiave per fermare il terrorismo: parte da questa considerazione mons. Tarcisio Isao Kikuchi, vescovo di Niigata, in Giappone, e presidente di Caritas Asia, in un documento diffuso in seguito agli attentati di Parigi. “Non serve una rappresaglia violenta – scrive il presule nella nota citata da AsiaNews - Questa può bloccare nuovi attentati, ma è un rimedio a breve termine. Noi, in quanto cattolici, crediamo che la vita umana sia il dono più prezioso che ci è stato fatto da Dio”.

Nessuna giustificazione per attacchi violenti alla vita umana
“Per questo - aggiunge il presule - non possiamo essere d’accordo con alcuna giustificazione di questi violenti attacchi alla vita umana. Come ha detto il Santo Padre “non ci sono giustificazioni religiose o umane. Questo non è umano”. “Le radici di questa violenza si trovano nei nostri cuori, nelle nostre emozioni”, sottolinea ancora il vescovo nipponico, auspicando che “quanto avvenuto a Parigi non spinga l’opinione pubblica a scegliere la risposta violenta. Spero invece che quanto successo spinga le persone a capire che portare via la vita umana – in ogni caso e con ogni giustificazione – è sempre un atto contrario al volere del nostro Dio, creatore di tutto, che ci ha regalato questo prezioso dono”.

La pace è opera della giustizia
Di qui, il richiamo di mons. Isao Kikuchi allo “sviluppo umano integrale”, definito “chiave per una vera pace”, intesa secondo la Gaudium et Spes, ovvero non “semplice assenza della guerra, né riduzione ad equilibrio stabile delle forze avverse; non effetto di una dispotica dominazione, bensì opera della giustizia”. Per questo, il presidente di Caritas Asia sottolinea che “i diritti umani di base devono essere rispettati e messi in pratica nella società”, perché “questa è la base del concetto secondo cui lo sviluppo umano integrale è fondamentale per una vera pace”.

Accrescere la dignità della persona umana
Il presule ricorda anche quanto scritto nella Centesimus Annus di San Papa Giovanni Paolo II: “Lo sviluppo non deve essere inteso in un modo esclusivamente economico, ma in senso integralmente umano”, perché “non si tratta solo di elevare tutti i popoli al livello di cui godono oggi i Paesi più ricchi, ma di costruire nel lavoro solidale una vita più degna, di far crescere effettivamente la dignità e la creatività di ogni singola persona, la sua capacità di rispondere alla propria vocazione e, dunque, all'appello di Dio, in essa contenuto”.

Ci vuole coraggio per costruire realmente la pace
“Io spero – conclude il vescovo di Niigata - che avremo il coraggio di fermare questo malvagio circolo di violenza non con una rappresaglia anch’essa violenta, ma con un processo reale di costruzione della pace attraverso lo sviluppo umano integrale”. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 327

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.