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Sommario del 25/11/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa Francesco in Kenya: felice di essere in Africa

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Papa Francesco ha iniziato oggi a Nairobi, in Kenya, il suo primo viaggio apostolico in Africa. L’aereo papale è atterrato alle 16.45 locali (le 14.45 in Italia), con circa un quarto d'ora di anticipo sul programma. Un viaggio di sei giorni che porterà Francesco anche in Uganda e in Centrafrica. A Bangui, nella Cattedrale, aprirà la Porta Santa del Giubileo della Misericordia, una decina di giorni prima dell’inizio ufficiale dell’Anno Santo. 

Al suo arrivo, il Papa ha lanciato questo tweet: "Mungu abariki Kenya! Che Dio benedica il Kenya!". Nel saluto ai giornalisti del seguito Papa Francesco ha detto di recarsi con gioia in questo continente per incontrare i keniani, gli ugandesi e i fratelli della Repubblica centrafricana, auspicando che questo viaggio possa dare frutti spirituali e materiali. A un giornalista che gli chiedeva se fosse preoccupato per le questioni della sicurezza, ha risposto con un sorriso dicendo di essere preoccupato per le zanzare.

Il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha ricordato ai giornalisti che come al solito, ieri sera il Papa si è recato a pregare la Madonna a Santa Maria Maggiore, in forma privatissima, per chiedere la protezione di Maria per questo viaggio.

Il Papa è stato accolto all'aeroporto internazionale di Nairobi dal presidente Uhuru Kenyatta, dal cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi, accompagnato dai vescovi keniani, e da una piccola folla di fedeli con canti e balli tradizionali. Il Pontefice terrà il primo discorso del viaggio nel giardino del Palazzo presidenziale in occasione dell’incontro con le autorità del Kenya e il corpo diplomatico. Di lì il trasferimento alla nunziatura apostolica di Nairobi dove pernotterà. Da Nairobi, la cronaca dell’inviata, Adriana Masotti:

Gli appuntamenti
Qui in Kenya lo aspettano tutti il Papa, cattolici e non: in migliaia si sono mossi da tutto il Paese per poterlo incontrare e anche dai Paesi confinanti come il Sud Sudan in prevalenza di religione cristiana. Il primo appuntamento del Papa, subito dopo l’arrivo, sarà quello con il presidente, le autorità e il corpo diplomatico. In questo momento il rapporto tra Stato e Chiesa è buono e si sta lavorando ad un Concordato. Tra gli altri appuntamenti di domani l’incontro ecumenico ed interreligioso e la Messa al Campus dell’Università, un momento aperto a tutti e un'opportunità per tanti, si parla di un milione e mezzo, per vedere il Papa.

Papa in prima pagina
I mass-media hanno dedicato in questi giorni ampio spazio alla visita. Oggi non solo i primi titoli sono dedicati a Francesco, ma ci sono anche inserti di più pagine con foto, approfondimenti, la sua biografia, le visite precedenti di Giovanni Paolo II e altro ancora. E poi articoli sulla sicurezza, sottolineando però che non è straordinaria, ma che si è fatto ciò che si fa per qualunque altra autorità in visita al Paese.

No corruzione, sì riconciliazione
Altro tema la corruzione endemica in Kenya e che il governo cerca di contrastare con nuove misure. Papa Francesco è visto come il Papa della speranza, un Papa con il sorriso, umile, ma deciso. La Chiesa cattolica è molto importante per il Paese con i suoi ospedali, i dispensari, le scuole di qualità a servizio della gente. Qui ci si aspetta che Francesco parli di giustizia e di riconciliazione, ma anche di risorse naturali e sostenibilità ambientale.

Dall’Onu ai giovani
Domani  Francesco incontrerà il personale dell’Onu che lavora qui per tutta l’Africa. Le parole del Papa, dunque, avranno un uditorio qualificato e ci si augura lascino un segno. Si attende poi un incoraggiamento ai giovani perché non perdano la speranza nel futuro e un appello al rispetto reciproco tra le religioni e le diverse etnie presenti. C’è necessità di un Paese unito contro il terrorismo, come i vescovi e il presidente Kenyatta continuano a raccomandare.

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Mons. Musonde: il Papa darà ai giovani speranza e direzione

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È giovane il Kenya, oltre la metà della popolazione ha un’età media piuttosto “verde”. Per questo, uno degli appuntamenti più sentiti della visita del Papa è quello in programma dopodomani allo stadio Kasarani di Nairobi, quando Francesco si immergerà tra le migliaia di ragazze e ragazzi che stanno preparando per lui un’accoglienza calorosa e colorata. La nostra inviata, Linda Bordoni, parla di questo momento con l’arcivescovo di Mombasa, mons. Martin Kivuva Musonde

R. – It is a great today. We are preparing for the coming…
E’ un grande giorno oggi. Ci stiamo preparando alla visita e all’incontro del Santo Padre con i giovani. E’ emozionante, perché il Santo Padre ha scelto questo incontro con i giovani come il momento clou della sua visita. Penso porterà loro molta speranza, darà loro una direzione, l’energia per prendere il futuro del nostro Paese nelle loro mani, per un ritorno a un forte senso etico, a un’unità, un’armonia del Paese, superando le sfide, in modo particolare quella del radicalismo, della mancanza di lavoro che li porta a volte alla disperazione. Quindi, la visita del Papa è una buona opportunità per sollevare i cuori di questi giovani e per scaldarli.

D. – Il Kenya ha un’enorme popolazione giovane…

R. – Indeed, there’s no doubt…
Sì, non c’è dubbio. Penso si possa dire che il 60% della popolazione sia giovane.

D. – Quali sono le vostre speranze? Quale eredità sperate possa lasciare questa visita in Kenya?

R. – I do believe Kenya…
Credo che il Kenya dopo la visita di Papa Francesco vivrà una nuova alba e non sarà più lo stesso. I cuori saranno toccati dal potere di trasformazione di Papa Francesco, attraverso il suo esempio e le sue parole. Ma soprattutto rimarrà un’eredità nel cuore di quei giovani cui parlerà qui. Ci trasmetterà un senso di speranza, il senso che siamo noi ad avere il nostro futuro nelle nostre mani. E credo davvero che ci sarà un risveglio della nostra fede e un risveglio della nostra fede trasposta in azione, nelle linee che ci darà non solo in termini di partecipazione alla Messa, ma nell’essere orgogliosi, audaci, coraggiosi abbastanza nel confessare la nostra fede e di testimoniarla ogni qual volta la situazione lo richieda. Quindi, io sono molto speranzoso specialmente per i giovani, ma anche per tutto il Paese. L’immagine del Santo Padre, il suo esempio, il fatto che lui porti un messaggio di armonia di fronte alle difficoltà ci aiuterà a prepararci meglio, a immunizzarci, a essere vaccinati contro la tentazione del radicalismo. Molti giovani, infatti, si trovano in situazioni difficili, a causa di false promesse. Lui dunque ci presenterà Cristo come una reale soluzione, e non solo Cristo: l’umanità nella sua bontà. Spero davvero molto che questa visita possa essere un trampolino di lancio dal quale aiutare i giovani nel nostro Paese, i suoi leader e la nostra gente, non solo i cattolici. Naturalmente, per la Chiesa cattolica è una festa meravigliosa e un’occasione per rinnovarci.

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Kenya, il popolo "comunità" che vuole abbracciare Francesco

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Grande fermento tra le comunità cristiane del Kenya per la visita del Papa. Ma non solo i cattolici del Paese desiderano stringersi attorno a Francesco, come racconta al microfono dell'inviata, Adriana Masotti, la direttrice a Nairobi della rivista “Living City”, Liliane Mugombozi: 

R. – Certamente, c’è una grande attesa. Prima di tutto, in tutto il popolo – non solo cristiano, non solo cattolico, ma anche di altre religioni – ci sentiamo anche privilegiati: è una grazia. E’ il primo viaggio del Papa sul nostro continente, e proprio Nairobi e la sua porta per entrare tra i nostri popoli. Sentiamo che è un privilegio anche per questo.

D. – La visita di Papa Francesco aiuterà a rafforzare la coesione nazionale, minacciata da attacchi terroristici, corruzione, politiche che puntano alla divisione sfruttando l’elemento etnico. Questo scrivono i vescovi del Kenya. Si intravede una situazione piuttosto difficile, complessa del Paese…

R. – Sì, Papa Francesco è un Pontefice, il Vicario di Cristo, che vuole proprio entrare nella storia di un popolo con le sue gioie e con le sue sfide, anche con la voglia di cercare di fare il meglio per cercare di migliorare la vita delle persone. Incontrerà i leader politici, per esempio. Pensiamo poi ai leader religiosi: anche qui, se i leader religiosi si mettono insieme per combattere l’estremismo religioso, noi crediamo possano succedere veramente dei piccoli miracoli. Quindi, stiamo pregando anche che la sua voce venga ascoltata. Se penso, poi, all’incoraggiamento che darà ai giovani, di guardare al futuro con certezza, perché siamo popoli fatti da giovani… Anche i vescovi stanno incoraggiando tutti a guardare alla venuta del Papa come a un rinnovamento spirituale e crediamo che questo avrà delle conseguenze oltre i cristiani, oltre la Chiesa, fino alla società. Nairobi è come la capitale di tutta la regione dell’est dell’Africa, c’è anche un corpo diplomatico molto nutrito, c’è una base delle Nazioni Unite oltre a varie organizzazioni. Il Papa, secondo quello che abbiamo saputo, incontrerà alcuni di questi diplomatici presenti a Nairobi, e di conseguenza il suo messaggio sarà per tutti.

D. – Un altro importante momento della visita di Papa Francesco sarà l’incontro con gli abitanti di una baraccopoli di Nairobi, quindi l’incontro con i poveri. Quanto è diffusa la povertà in città e nel Kenya?

R. – Questa è veramente una piaga. Ci sono i poveri delle città, ci sono i poveri negli ambienti rurali… Si dice che qui a Nairobi c’è lo "slum", la baraccopoli più grande dell’Africa. Veramente, incontrando alcuni rappresentanti di alcune baraccopoli – a Nairobi ce ne sono un centinaio – il Papa vuole farci capire l’importanza, il posto della persona umana, della sua dignità. E questo è un segno molto, molto forte. Anche perché Nairobi è una città che si sta sviluppando e quindi possiamo avere questa tendenza di guardare alla ricchezza, all’efficienza e a dimenticare la persona umana.

D. – Il Kenya, e Nairobi in particolare, sarà sotto gli occhi della comunità internazionale, nei giorni in cui il Papa sarà lì presente. Che cosa il Kenya potrà dare di bello, offrire di positivo al mondo e alla Chiesa?

R. – Tantissimo, tantissimo! A me sta facendo moltissima impressione come la gente si sta preparando nei gruppi, quindi questa vita comunitaria… Si accoglie il Papa ma proprio come “comunità”. Ma anche l’aiutarsi economicamente, perché ci sono persone che verranno da ogni parte del Paese. Allora, il rapporto umano: penso che questo sia veramente un dono che l’Africa può dare. E da lì si costruisce tutto il resto, ovviamente.

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Centrafrica: attesa carica di speranza per l'arrivo del Papa

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Da domenica 29 novembre il Papa sarà in Repubblica Centrafricana, terza e ultima tappa di questo suo 11° viaggio apostolica. Il Paese, uno dei più poveri al mondo, soffre anche le conseguenza di una guerra civile. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Carla Pagani, presidente e fondatrice dell’Associazione Amici del Centrafrica: 

R. – Sicuramente era già un Paese povero. Soprattutto negli ultimi due anni, due anni e mezzo, però, ha sofferto molto e, in qualche momento, ha perso anche la speranza. Un Paese dove, tra l’altro, le diverse religioni hanno sempre convissuto pacificamente. Noi, come associazione, abbiamo fatto la scelta di restare, proprio per far rimanere viva la speranza.

D. – Un Paese, tra quelli africani, che è stato un po’ abbandonato dalla comunità internazionale, secondo lei?

R. – Secondo la mia impressione, rispondo di sì. Quello che vedo fare arriva da piccole associazioni, e molto anche dai missionari, ma l’ho visto come un Paese dimenticato dalla comunità internazionale. Devo dire che in 15 anni l’ho visto retrocedere.

D. – Il Papa ha fatto precedere il suo arrivo da un videomessaggio in cui parla di speranze di pace. Affinché questa speranza diventi concreta, secondo lei di che cosa c’è bisogno?

R. – Che la pace nasca dal capire quanto essa sia importante. Quindi far comprendere, a cominciare dalle scuole, che senza la pace non si può fare nulla. Io credo che, comunque, questo viaggio porterà speranza. C’è questa voglia. I bambini ne parlano, tanto è vero che adesso, secondo me, bisognerà cominciare anche con dei progetti di sviluppo, soprattutto per le donne. Proprio perché il Centrafrica ha bisogno, comunque, di rinascere. E io sono convinta che qualcosa cambierà. Anche questo stimolo della visita del Papa ci impegna a fare sempre di più.  

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Mattarella: Papa in Africa importante segnale di pace e fraternità

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Come di consueto, dopo il decollo del volo papale verso il Kenya, sono stati diffusi i testi dei telegrammi inviati dal Papa ai Paesi sorvolati. Questo il testo del messagio di Francesco al presidente italiano, Sergio Mattarella: "Nel momento in cui mi accingo a compiere un viaggio apostolico in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana, mosso dal vivo desiderio di incontrare i fratelli nella fede e gli abitanti di quelle care nazioni, mi è gradito rivolgere a lei signor presidente l’espressione del mio deferente saluto che accompagno con fervide preghiere per il bene e la prosperità dell’intero popolo italiano”.

Nel telegramma di risposta, il capo di Stato italiano sottolinea che "l'Italia e la comunita' internazionale guardano con grande attenzione" al primo viaggio apostolico "nel continente africano, il cui potenziale di crescita e sviluppo è tuttora ostacolato da guerre, instabilità politica, povertà e allarmanti disuguaglianze sociali". La "sua presenza", scrive Mattarella al Papa, "sarà di sostegno e incoraggiamento alle locali comunità cristiane e rechera' un importante segnale di pace, fraternità e dialogo ai paesi visitati e all'intero continente, fornendo altresì un prezioso messaggio di speranza per il futuro. Mi e' gradita, Santita', l'occasione per rinnovarle i sensi della mia piu' profonda stima e considerazione".

Analoghe espressioni di pace e prosperità, Papa Francesco ha indirizzato ai presidenti di Grecia, Egitto, Sudan ed Etiopia.

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Giornata Onu violenza donne, Papa riceve 11 vittime di abusi

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Nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il Papa prima di partire per l’Africa ha voluto, stamane, aprire le porte della sua residenza di Santa Marta ad undici donne (italiane, nigeriane, rumene e ucraine) con sei bambini, ospiti di una Casa Rifugio - gestita nel Lazio da una Congregazione religiosa - per vittime di violenza domestica e di tratta della prostituzione. Il Papa si è intrattenuto con loro e ha manifestato la sua vicinanza a tutte le persone che soffrono violenza e che sono in cammino per riprendere nella speranza la loro strada. Ma a che punto siamo nella difesa dei diritti fondamentali di donne e ragazze, ancora oggi massivamente vittime di violenze in tutto il mondo? I dati aggiornati sul fenomeno nel servizio di Roberta Gisotti: 

“La violenza contro le donne – denuncia l’Onu – continua ad essere una pandemia globale”. Oltre una donna su tre,  il 35%, nell’intero pianeta subisce nella vita abusi fisici e o sessuali, in alcuni Paesi la percentuale sale a 7 donne su 10. Si stima che 133 milioni di ragazze abbiano patito mutilazioni genitali in 29 Paesi in Africa e Medio Oriente. 700 milioni di donne si sono sposate minorenni, 250 milioni avevano meno di 15 anni, interrompendo sovente gli studi, più spesso subendo poi violenze domestiche e incontrando complicazioni nel parto.

Violenza non è inevitabile
Ma “la violenza contro le donne non è inevitabile”, ricorda l’Onu, lanciando da oggi al 10 dicembre, Giornata dei diritti umani, un campagna globale: 16 giorni di attivismo contro il femminicidio, le aggressioni sessuali, le mutilazioni genitali, i matrimoni precoci e le violenze di ogni tipo, anche virtuali. Tutte “pratiche – sottolinea il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon – che traumatizzano le persone e lacerano il tessuto sociale”, “costituiscono una seria minaccia per il progresso” dei Paesi e dell’intera umanità. Un dramma che coinvolge non solo Paesi poveri ma anche nazioni sviluppate, segno della discriminazione che colpisce ancora un numero cosi massivo di donne in ogni ambito della loro vita privata e pubblica, familiare e lavorativa.

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Rinunce e nomine episcopali in Brasile e Italia

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In Brasile, Papa Francesco ha nominato vescovo della diocesi di Paranaguá, mons. Edmar Peron, finora ausiliare dell’arcidiocesi di São Paulo. Il presule è nato il 4 marzo 1965 a Maringá, nell’omonima arcidiocesi, nello Stato di Paraná. Ha compiuto gli studi di Filosofia nel Seminario “Nossa Senhora da Glória” a Maringá e quelli di Teologia presso l’Istituto di Teologia “Paulo VI” a Londrina. Ha ottenuto poi la Licenza in Teologia Sacramentaria presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Il 21 gennaio 1990 è stato ordinato sacerdote e si è incardinato nell’arcidiocesi di Maringá, nella quale ha svolto gli incarichi di Amministratore parrocchiale, Vicario parrocchiale e Parroco in diverse parrocchie; Direttore Spirituale e poi Rettore del Seminario di Teologia “Santíssima Trindade”; Professore di Teologia presso la Pontificia Università Cattolica; Coordinatore della Commissione arcidiocesana di Liturgia e Canto; Membro del Collegio dei Consultori, del Consiglio Presbiterale e del Consiglio Pastorale. Il 30 dicembre 2009 è stato nominato Vescovo titolare di Mattiana ed Ausiliare di São Paulo e ha ricevuto l’ordinazione episcopale il 24 febbraio 2010. Nell’ambito della Conferenza Episcopale Brasiliana è stato Membro della Commissione Liturgica; nell’arcidiocesi di São Paulo è finora responsabile per la Regione Episcopale Belém. Sempre in Brasile, il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Nazaré, presentata da mons. Severino Batista de França, dei Francescani minori Cappuccini, in conformità al can. 401 – par. 2 del Codice di Diritto Canonico.

Ancora in Brasile, Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Campanha, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Diamantino Prata de Carvalho, Francescano. Al suo posto, il Pontefice ha nominato mons. Pedro Cunha Cruz, finora coadiutore della medesima diocesi.

In Italia, il Papa ha nominato vescovo della diocesi di Pescia mons. Roberto Filippini, del clero dell’arcidiocesi di Pisa, padre spirituale del Seminario della medesima arcidiocesi e cappellano del Carcere di Pisa. Il neo prsule è nato a Vinci (Firenze) il 6 giugno 1948. Ha compiuto gli studi nel Seminario Arcivescovile di Pisa; è stato inviato a completare gli studi teologici all’Almo Collegio Capranica, frequantando la Pontificia Università Gregoriana e il Pontificio Istituto Biblico, conseguendo la Licenza sia in Teologia sia in Sacra Scrittura. È stato ordinato Sacerdote il 14 aprile 1973, incardinandosi nell’arcidiocesi di Pisa. Nel suo ministero sacerdotale ha svolto i seguenti incarichi: Vicario parrocchiale nella parrocchia di S. Ermete a Forte dei marmi dal 1975 al 1978 e contemporaneamnete ha iniziato a insegnare nel Seminario di Pisa; Parroco a Calignola dal 1978 al 1984. Nel 1984 è stato nominato Parroco della parrochia di S. Sepolcro a Pisa e nel 1997 Parroco della contigua parrochia di San Martino. Nel 1996 è stato nominato Vicario Foraneo del Vicariato cittadino di San Martino e Preside dello Studio Teologico Interdiocesano di Camaiore (Lucca). Dal 1999 al settembre 2015 è stato Rettore del Seminario Arcivscovile “Santa Caterina”, in Pisa. Dal settembre 2015 è Padre Spirituale del medesimo Seminario arcivescovile. Dal 1999 ad oggi è Cappellano del Carcere di Pisa; Docente di teologia Fondamentale e di Sacra Scrittura presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Beato Nicolò Stenone” di Pisa e presso la Scuola di Formazione Teologica; è Delegato Arcivescovile per l’Ecumenismo, Direttore della Biblioteca Cathariniana del Seminario e Direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “B. N. Stenone”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, in apertura, In Africa con gioia. È iniziato dal Kenya l’undicesimo viaggio internazionale di Francesco.

Di spalla, Decretato in Tunisia lo stato di emergenza, dopo l’attentato che ha causato la morte di 15 soldati.

Sotto, Alta tensione dopo l’abbattimento di un jet russo da caccia turchi al confine con la Siria.

A pagina quattro, Questione di bulimia. Le acquisizioni che hanno fatto la storia della Biblioteca vaticana nel Seicento, di Antonio Paolucci e La vita in un barattolo. Irena Sendler e le sue eccezionali gesta quotidiane di Rossella Fabiani.

A pagina 5, Occasione di cambiamento. Il contributo diplomatico della Santa Sede al negoziato sull’ambiente, di Paul Richard Gallagher.

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Oggi in Primo Piano



Jet abbattuto da Turchia: Mosca, conseguenze ma non guerra

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È stato messo in salvo e si trova in una base russa vicino Latakia, in Siria, uno dei due piloti del jet russo abbattuto ieri dall’aviazione turca, perché – secondo Ankara – avrebbe sconfinato dai cieli della Siria a quelli della Turchia. È dunque terminata l'operazione ordinata da Mosca e durata 12 ore per ricuperare il militare; l’altro pilota era stato invece ucciso da un colpo sparato da terra mentre si paracadutava dall’aereo.

Il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha precisato che nel nord ovest della Siria - dov’è caduto l’aereo e dove i caccia russi stanno bombardando da giorni - “non ci sono terroristi” del sedicente Stato Islamico (Is) e che il proprio Paese “non ha mai favorito le tensioni e le crisi”. Ma il Presidente russo Vladimir Putin ha assicurato che utilizzerà “tutti i mezzi a sua disposizione per garantire la sicurezza”, rafforzando i sistemi di difesa anti missilistica nella base militare russa di Khmeimim, in Siria, e annunciando “conseguenze tragiche”. Quali potrebbero essere tali conseguenze, visto che il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov ha detto che Mosca “non farà guerra alla Turchia”? Giada Aquilino lo ha chiesto ad Aldo Ferrari, responsabile ricerche su Russia, Caucaso e Asia centrale dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano: 

R.  – Dietro l’espressione “conseguenze tragiche” non credo possa essere letta una minaccia bellica. La Russia è comunque una potenza prudente in politica estera, anche se spesso non ne approviamo i passi. La Turchia fa parte della Nato: un conflitto sarebbe impensabile. Tanto più che i due Paesi hanno importanti collaborazioni soprattutto nella sfera economica. Naturalmente ci saranno delle difficoltà, ma non interpreterei in maniera drammatica questa affermazione.

D. - Negli ultimi anni Turchia e Russia, pur rimanendo su posizioni differenti, si erano proprio avvicinate dal punto di vista per esempio commerciale: perché allora abbattere un jet di un Paese comunque non nemico, al di là delle ragioni degli sconfinamenti aerei?

R. – Credo che questo ordine di abbattimento vada inserito nella politica estera muscolare della Turchia degli ultimi anni. Per molti decenni, la Turchia ha potuto godere della sua vantaggiosa posizione geopolitica come baluardo in epoca bipolare contro l’Unione Sovietica, adesso come baluardo - reale o supposto - contro il radicalismo islamico. Questo molto spesso le ha consentito di portare avanti politiche che per altri Paesi sarebbero state facilmente condannabili. Purtroppo la Turchia è uno dei Paesi responsabili, tra i più responsabili, dell’aggravamento della crisi siriana: senza la Turchia non sarebbe stato possibile il passaggio di uomini, rifornimenti, al sedicente Stato Islamico. Probabilmente la Russia esagera nel dire che questo abbattimento conferma un’alleanza tra Turchia e Is: non c’è un’alleanza ma sicuramente un sostegno informale e indiretto. Ed Erdogan in questa maniera si è preso un grosso rischio: è riuscito almeno in parte a impedire quel riavvicinamento tra la Russia e l’Occidente che stava un po’ cambiando la situazione - non solo militare - in Siria, ma anche a livello globale l’isolamento della Russia dopo la crisi ucraina stava venendo meno e questa difficoltà con la Nato, accorsa a sostenere le ragioni dell’alleato turco, evidentemente pregiudica l’evoluzione della situazione.

D. – L’Alleanza atlantica ha invitato a una “de-escalation” delle tensioni. La crisi ucraina può essere una chiave di lettura di quanto sta avvenendo?

R. – Potrebbe e dovrebbe esserlo. Il problema è che la crisi ucraina è stata a mio giudizio gestita malissimo in primo luogo dagli europei e dagli occidentali, che hanno addossato alla Russia tutte le responsabilità di quanto avvenuto, nascondendo le proprie, e escludendo la Russia dai processi decisionali globali, cosa che l’Occidente e in generale lo scenario internazionale non possono permettersi. Ci sono naturalmente differenze, divergenze reali, ma non è possibile escludere questo Paese.

D. – Gli incontri di Vienna hanno fatto nascere la speranza che possa scattare una qualche transizione a Damasco. Quanto accaduto al jet russo può minare i passi verso tale transizione?

R. – Purtroppo sì perché è un episodio gravissimo che ha visualizzato il contrasto che già si conosceva fra la Russia e la Turchia, ma anche tra la Russia e l’Occidente. E’ chiaro che le potenze coinvolte in Siria - Russia, Turchia, Stati Uniti, Francia, Inghilterra - hanno obiettivi e visioni molto differenti tra loro. Trovare un equilibrio, trovare anche un comando militare comune è davvero difficile alla luce delle divisioni che esistevano e che la crisi di ieri ha ulteriormente aggravato.

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Attentato in Tunisia. Essebsi dichiara lo stato d'emergenza

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Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha condannato l'attentato di ieri al bus della guardia presidenziale, nel centro di Tunisi, costato la vita ad almeno 15 persone, diversi i feriti. Nel Paese intanto è stato d’emergenza. Massimiliano Menichetti: 

E’ il presidente tunisino Beji Caid Essebsi in un breve discorso trasmesso in diretta tv ad annunciare lo stato di emergenza di 30 giorni e il coprifuoco a Tunisi dalle 21 fino alle 5 del mattino. Sono le prime misure prese dopo l'attentato nella capitale contro il bus costato la vita a 15 guardie presidenziali. Per ora non ci sono rivendicazioni. Essebsi ha parlato di stato di guerra, chiedendo il sostegno della comunità internazionale. Abbiamo l'Is alle porte - ha detto - ribadendo che il Paese non si farà minacciare dal terrorismo. Dura la condanna delle Nazioni Unite per il gesto criminale che evidenzia la destabilizzazione dell’area e riposta alla memoria le recenti stragi di matrice jihadista sulla spiaggia di Sousse e al museo del Bardo. L'Alto rappresentante per la politica estera della Unione Europea, Federica Mogherini, ribadisce che l’Ue non risparmierà alcuno sforzo per assicurare il successo della transizione democratica tunisina.

Per un'analisi della situazione abbiamo intervistato Massimo Campanini, professore di Islamistica e Storia dei Paesi islamici all'Università di Trento: 

R. – La Tunisia sta  attraversando un momento di estrema precarietà, perché il fatto di essere stato l’unico Paese arabo coinvolto dalle cosiddette “primavere” ad avere imboccato una strada democratica non ha comunque risolto tutti i problemi interni ed esterni. Quindi, il tentativo di destabilizzare la Tunisia, che in questo momento appare come l’elemento più debole nel Nord Africa, è indubbiamente e potenzialmente funzionale a un disegno di destabilizzazione generale dell’area mediorientale e più in generale dell’area mediterranea, che sembra perseguito dallo Stato islamico.

D. – Il presidente tunisino Essebsi ha blindato i confini con la Libia, ha chiesto l’intervento della comunità internazionale. Ma la situazione libica ancora destabilizzata è simile a quella tunisina?

R. – Il destino della Tunisia e quello della Libia sono sempre stati diversificati. I due Paesi, sia dal punto di vista della composizione sociale sia dal punto di vista della tradizione storica a lungo termine, hanno avuto appunto storie diverse. Mentre la Tunisia è un Paese che ha sempre avuto in qualche modo una sua identità fin dal Medioevo, fin dall’epoca dei califfati degli Assiri nel 16.mo secolo, la Libia è stato un Paese costruito dal colonialismo italiano sulla carta, mettendo insieme Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, un insieme molto composito di tribù e tendenze. Quindi, alla caduta di Gheddafi, proprio nella mancanza di identità nazionale, nella fragilità dei legami reciproci che sono ancora molto spesso determinati su base tribale, la strategia destabilizzatrice dell’Is ha trovato terreno fertile.

D. – Altro Paese in questi mesi, in questi giorni, sotto attacco del terrorismo è l’Egitto: il presidente al-Sisi aveva promesso il pugno duro. Secondo lei, come stanno andando le cose?

R. – Al-Sisi sta cercando di applicare il pugno duro non solo perché è un generale e quindi è un po’ una tattica dei militari, ma anche perché da una parte ha paura perché, oggettivamente, teme le infiltrazioni terroristiche dall’interno e dall’esterno, dall’altra perché il Paese non ha più quell’autorevolezza sul piano internazionale che gli consente di avere una politica autonoma. Negli ultimi mesi, al-Sisi si è mosso molto spesso nella ruota dell’Arabia Saudita, però a mio parere c’è un difetto originale in questo: l’Egitto, diversamente dalla Tunisia, non ha tentato una via democratica, perché nel momento in cui, seppure con tutti gli errori che sono stati commessi, i Fratelli musulmani hanno cercato in modo molto approssimativo  di mettere in piedi un governo, questo tentativo è stato bloccato immediatamente da un intervento censorio dell’esercito.

D. – Ma se c’è interesse a destabilizzare, gli attentati in Libia, Somalia, Egitto, Mali – solo per fare alcuni esempi – vengono da un’unica regia? Quella dell’Is, del Califfato?

R. – La mia risposta è tendenzialmente “no”. Gli attentati hanno anche delle ragioni e motivazioni locali, perché il Califfato potenzialmente dovrebbe essere un’idea che compatta la comunità. Invece, dal punto di vista tattico questa politica di opposizione tra fazioni diverse – il vero, il falso musulmano… - è qualcosa che stride con l’obiettivo strategico finale dell’unità della comunità che poi è il significato del Califfato.

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Guerra in Yemen: emergenza umanitaria per 200 mila civili

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Di fronte all’escalation del conflitto siriano, quello in Yemen rischia di diventare una guerra dimenticata. Continuano i combattimenti tra forze governative, appoggiate dalla coalizione araba a guida saudita, e ribelli sciiti Houthi. Intanto, sono circa 200 mila i civili intrappolati, proprio a causa degli scontri, nel sud-ovest del Paese. Secondo l’Onu, l’emergenza umanitaria è sempre più precaria. Sul tipo di intervento che occorrerebbe in questo momento, Giancarlo La Vella ha intervistato Eleonora Ardemagni, esperta dell’area del Golfo Persico, dell’Istituto di Politica Internazionale (Ispi): 

R. – Certo, in questo momento lo Yemen è purtroppo stato relegato dai mass media e dalla diplomazia internazionale tra i conflitti dimenticati. In realtà è il secondo terreno di scontro indiretto tra Arabia Saudita e Iran, dopo la Siria. Quello che si può tentare di fare adesso è dare sostegno ai tentativi dell’inviato dell’Onu, per riattivare il processo negoziale già fallito mesi fa. Purtroppo le parti in campo non sembrano però avvertire l’urgenza di risolvere questo conflitto, tanto che i combattimenti stanno proseguendo, così come proseguono i bombardamenti della coalizione a guida saudita.

D. – Accanto alla crisi di tipo politico-militare c’è poi anche quella umanitaria …

R. – Sì, purtroppo lo Yemen è uno dei Paesi in conflitto in cui è più difficile operare per le organizzazioni umanitarie in questo momento. Paradossalmente una delle regioni che sta accogliendo il numero maggiore di sfollati interni è  l’Hadramaut, la zona più ricca di petrolio dello Yemen, dove al Qaeda nella Penisola arabica controlla l’area costiera in collaborazione con alcune tribù locali. Questo avviene perché l’Hadramaut non ha registrato finora l’avanzata  dei miliziani sciiti e quindi non è stata colpita dai bombardamenti della coalizione saudita.

D. - Come lei ha detto, lo Yemen fu uno dei terreni di scontro tra Arabia Saudita e Iran: è solo questo il motivo del conflitto o ci sono altri interessi sul territorio yemenita?

R. – Il conflitto indiretto tra Arabia Saudita ed Iran è solo l’ultima delle motivazioni di conflitto nello scenario yemenita. La guerra in Yemen nasce come una guerra tra centro e periferia, quindi tra potere politico e militare di Sana’a e i territori del Nord, amministrati dagli Houthi, e i territori del Sud, che invece vedono una presenza di movimenti secessionisti. È un conflitto fortemente interno che ha ragione politiche ed economiche. La politica yemenita ha strumentalizzato lo scontro, connotandolo di toni settari. In questo caso all’evoluzione settaria del conflitto yemenita hanno contribuito indirettamente proprio i due rivali regionali, cioè Arabia Saudita e Iran.

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Il Gambia mette al bando le mutilazioni genitali femminili

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Dopo la Nigeria, nel luglio scorso, anche il Gambia ha annunciato due giorni fa la decisione di mettere fuorilegge la mutilazione genitale femminile, pratica molto diffusa nel piccolo Paese africano così come in tutto il resto del continente, dove si calcola che venga imposta al 76% delle donne e al 56% delle minori di 14 anni. Il provvedimento, annunciato dal presidente, Yahya Jammeh, avrà effetto immediato, ma molte associazioni femminili locali chiedono il varo di una legge che rafforzi la decisione. Francesca Sabatinelli ha intervistato Fabio Manenti, medico del Cuamm, Medici con l’Africa, per anni attivo in Uganda ed Etiopia: 

R. – E’ sicuramente il primo passo. Per la mia esperienza, per aver vissuto un po’ in Africa, avrà il limite poi di diventare quotidianità. Si parla in generale di mutilazione genitale femminile ma ce ne sono di diversi tipi, soprattutto alcuni tipi rispondono a consuetudini e pratiche legate alla iniziazione della donna verso i rapporti sessuali e poi al matrimonio. Quindi, fanno parte di quei motivi culturali per cui, al di là del fatto che diventi un reato penale, va a cozzare contro quelle abitudini che davvero per modificarsi richiedono un cambiamento culturale nelle persone, nelle famiglie, nella società stessa. Senza quello, difficilmente questa decisione avrà un reale impatto sulle donne, che continueranno a venire mutilate con le conseguenze che poi sappiamo.

D. – Spesso le autorità dei vari Paesi africani, le leadership dei Paesi africani, cercano di intervenire. Sono nate molte organizzazioni femminili che lottano affinché a questa pratica si metta un termine, eppure ancora oggi si contano nel mondo oltre 130 milioni tra donne e ragazzine che sono state violate da questa pratica. Come fare?

R. – Forse, bisogna proprio partire dal rendere pubblici il più possibile i danni, le conseguenze talvolta anche mortali, di queste pratiche. Bisogna far sapere che non servono a nulla, non servono neanche veramente a quello che vorrebbero prevenire da un punto di vista culturale. E bisogna partire dalle scuole. Questa pratica lede uno dei diritti fondamentali della persona, della donna in questo caso: si deve partire dall’educazione delle donne, ma anche dei maschi. Quindi, nelle scuole si deve ribadire cosa sia il diritto alla persona, l’inviolabilità del fisico stesso e, attraverso questo, cambiare anche le pratiche e i costumi abituali perché è entrata veramente come pratica di un costume, così come sposarsi con l’abito bianco è un po’ la stessa cosa. In queste culture, in questi ambienti, essere circoncisi o aver subito la mutilazione fa parte del rito, perché altrimenti non puoi arrivare a quel traguardo. Per cui, vuol dire proprio entrare a cambiare comportamenti che si possono cambiare solo dal basso, cioè solo dai più giovani. E bisogna arrivare ai maschi, perché in queste culture la discriminazione di genere è ancora molto importante.

D. – Lei ha un’esperienza decennale alle spalle: 12 anni in Africa, tra Uganda ed Etiopia, Paese quest’ultimo che ha messo al bando le mutilazioni genitali femminili…

R. – ...nel 2004...

D. – ...e come si è sviluppata l’attenzione in questi 11 anni?

R. – In Etiopia, si fa soprattutto la circoncisione, che quindi ha complicanze più limitate. Però, tutte le donne che ho sempre visto, anche dopo il 2004, le ho viste circoncise. Di quelle che arrivavano da me in ospedale, a partorire o per essere visitate, non ne ho vista una non circoncisa. Quindi, credo che la prevalenza resti ancora molto alta. Vere campagne, vere attività contro questo tipo di pratica, non le ho vissute.

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Violenza sulle donne, Istat: una su tre subisce abusi

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Sono sette milioni le donne che subiscono violenze in Italia. Praticamente una donna su tre nella fascia tra i 16 e i 70 anni. Il dato viene ricordato dall’Istat nella Giornata internazionale che richiama l'attenzione sui vari tipi di abusi patiti dalle donne. Fra loro, indica l'Istat, il 90% non denuncia le vuiolenze subite, che la maggior parte delle volte si verificano all'interno delle mura domestiche e nel 42% dei casi durante una gravidanza. Solo quest'anno, 74 donne hanno perso la vita uccise da uomini con cui avevano una relazione familiare. Veronica Di Benedetto Montaccini ne ha parlato con Alessia Sorgato, avvocato penalista del "Soccorso Rosa" e autrice del libro “Giù le mani dalle donne”: 

R. – La difficoltà a fare emergere le donne che ancora non denunciano le violenze, quello che si chiama “numero sommerso” o “numero oscuro”, che confermo essere ancora molto molto alto, sta in una serie di retaggi culturali e paure che le donne ancora provano e che nascono anche dall’ignoranza di tanti diritti e di tanti strumenti che la legge italiana riconosce e mette in azione nel momento in cui queste donne vengono a conoscenza della possibilità di attivarli. Mi spiego meglio: una delle paure più ricorrenti che le donne che poi raccontano è quella di vedersi portar via i figli, che è un ricatto sia contro le denunce sia soprattutto contro le separazioni. Molte non sanno che per legge il bambino viene quasi sempre affidato alla madre, al massimo con l'affiancamento di uno psicologo dopo la violenza subita. 

D. – Lei ha scritto il libro “Giù le mani dalle donne”. Cosa può fare la vittima stessa per riscattarsi?

R. – Nel libro, vengono elencati svariati rimedi circostanziati e contestualizzati a seconda del problema. Si passa dai maltrattamenti, allo stalking, agli atti persecutori, i reati attraverso Internet con queste nuove fattispecie del “cyber stalking” e del “revenge porn” e poi via via fino alle lesioni e, chiamiamolo per quello che è, all’omicidio. Il rimedio principale secondo me è chiedere aiuto, a chi lo sappia dare in maniera competente, esperta, professionale: i centri antiviolenza, gli sportelli anti-stalking, i presidi ospedalieri o ancora due nuove fattispecie che si chiamano “Stanza rosa” e “Codice rosa”.

D. – Secondo l'Istat, le donne starniere sonole più esposte alle violenze. In base alla sua esperienza qual è l’estrazione sociale ed etnica delle vittime e anche delle persone che commettono violenza sulle donne?

R. – In questi sei anni di specializzazione – nei quali ho affrontato molti casi perché sono stata il legale di riferimento sia di sportelli anti-stalking che di un presidio anti violenza ospedaliero – il bacino di utenza che arrivava da questi presidi era molto variegato. All’inizio, registravamo soprattutto una categoria medio-bassa e con una prevalenza di straniere dislocate soprattutto nell’America Latina e nelle Filippine. In questi anni, ho registrato modifiche e trasformazioni: ci sono molte più professioniste, ci sono molte più italiane che chiedono aiuto. Anche il livello culturale e sociale si è elevato. L'incidenza in questo momento del fenomeno in famiglie borghesi e alto-borghesi è assolutamente in rialzo. Questo, secondo me, dipende non tanto e non solo dal fatto che il fenomeno purtroppo è a sua volta in aumento, ma soprattutto dalla circostanza che è in aumento la possibilità – e per noi è un successo – di poter affermare che ci sono più donne che escono allo scoperto, che chiedono aiuto e che magari scelgono anche la via della denuncia.

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Giubileo. Gabrielli: istituzioni in prima linea per la sicurezza

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"Il 2 dicembre faremo una prima esercitazione della Sala Gestione Giubileo, in occasione dell'udienza del Papa del mercoledì. Sarà la prima prova in cui testeremo tutto quello che abbiamo provato a realizzare in questi mesi". Lo ha detto stamani il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, durante la recente presentazione delle iniziative che la Prefettura ha avviato con le Università statali romane per assicurare un supporto scientifico e organizzativo al Giubileo circa le attività del "Press point"’ e della Sala Gestione Giubileo. Tra le iniziative di comunicazione alla città degli eventi giubilari, si inserisce “InfoGiubileo”,  network di servizio per pellegrini, romani e turisti presenti a Roma, promosso, tra gli altri, dalla Radio Vaticana. Luca Collodi ne ha parlato con il prefetto di Roma, Franco Gabrielli

R. – Intanto, diciamo che questo tipo di informazione era una buona pratica sperimentata addirittura nel Giubileo del Duemila: nasce proprio con  la Radio Vaticana, che nel tempo non è stata soltanto un’emittente radiofonica ma è anche uno strumento per gestire le situazioni che riguardavano le vicende di Piazza San Pietro o di via della Conciliazione. Un’iniziativa che poi ha trovato alcuni significativi compagni di strada, come l’Agenzia per la mobilità, Luce verde e Aci e oggi, grazie al Giubileo straordinario della Misericordia, anche Ferrovie italiane. Quindi, riteniamo "InfoGiubileo" una buona pratica che vogliamo proseguire e che, nella nostra ambizione, dovrà accompagnare la città di Roma non soltanto per l’anno giubilare ma per gli anni a seguire.

D. – Prefetto Gabrielli, molti guardano con preoccupazione alla sicurezza…

R. – Credo che il tema della sicurezza avesse già pesantemente caratterizzato questo appuntamento. I tristissimi nonché tragici eventi del 13 novembre di Parigi lo hanno ulteriormente riattualizzato. Questi sono temi con i quali bisogna saper convivere, sono temi che debbono vedere soprattutto le istituzioni presenti, perché alle istituzioni è demandata principalmente la garanzia della sicurezza. Anche i cittadini devono essere consapevoli della situazione di rischio, ma anche del fatto che le istituzioni stanno cercando di fare il possibile perché questo rischio ovviamente non si avveri, perché il "rischio zero" non esiste, la sicurezza assoluta non esiste. Però, certamente, ci si può avvicinare.

D. – Tuttavia, c’è chi scherza con il fuoco. Mi riferisco ai falsi allarmi che seminano paura e sospetti, frutto di persone che vogliono creare problemi alla comunità cittadina…

R. – Indubbiamente, questa è un’ulteriore variabile rispetto ai temi della sicurezza, quelli ovviamente più importanti, con i quali bisogna comunque fare i conti. In questo mondo della mitomania, o comunque del falso allarme, poi, convergono le situazioni più disparate: dallo psicolabile a chi vuole, come diceva lei correttamente, suscitare una situazione di ulteriore disagio e quindi di insofferenza e quindi di reazione soprattutto nei confronti delle istituzioni. Ripeto: queste purtroppo sono circostanze non tipiche di questo momento. Sono tipiche delle situazioni di crisi che il Paese ha già vissuto e sulle quali poi si innestano queste cose da sottolineare in negativo, non solo perché arrecano ulteriore disagio ai cittadini, ma perché stressano il sistema di sicurezza e rendono la nostra vita quotidiana assolutamente meno vivibile.

D. – E’ d’accordo nel dire che non si risolve il problema del terrorismo solo militarizzando la città?

R. – L’invito che sto cercando di rivolgere a tutti è quello di continuare a vivere la propria vita, perché di fronte a questo tipo di minaccia ci sono veramente pochi antidoti da parte della gente comune, mentre ce ne sono molti che attengono – ovviamente – alle istituzioni che devono mettere in campo tutto quello che è possibile perché la gente viva la propria vita. Io ritengo che la risposta migliore a questi attacchi terroristici sia quella di dimostrare che noi siamo più forti di queste minacce, di questi criminali. Pur consapevoli della loro esistenza e della loro possibilità di arrecarci gravi danni. Ma dobbiamo essere più forti.

D. – Quanto sarà importante un’informazione corretta durante l’anno giubilare?

R. – Fondamentale! Io – come Protezione civile – ritenevo che l’informazione nel suo complesso fosse una struttura operativa del Servizio nazionale di Protezione civile. A maggior ragione, lo ritengo in queste circostanze. L’informazione è fondamentale e tanto più l’informazione è fondamentale se è validata. Viviamo in un’epoca nella quale la possibilità di accedere all’informazione, alla notizia, è la più disparata, ma è assolutamente un accesso indiscriminato. Noi invece abbiamo bisogno di informazioni validate, di informazioni che diano ai cittadini le notizie di cui hanno bisogno per la loro vita, per la loro mobilità, per il loro essere parte di una comunità.

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Nella Chiesa e nel mondo



Siria: Is libera 10 cristiani assiri della comunità di Hassakè

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Il sedicente Stato islamico (Is) ha liberato un gruppo formato da 10 cristiani assiri, rapiti nel febbraio scorso nella zona nord-est della Siria.  Essi fanno parte di un gruppo di oltre 200 cristiani, trascinati via dai loro villaggi della regione di Khabur, provincia di Hassaké. Secondo quanto riferisce l’Assyrian Monitor for Human Rights, fra gli ostaggi rilasciati dai jihadisti vi sarebbero anche cinque donne. La liberazione è giunta al termine di una “serie estenuante di trattative condotte dalla Chiesa assira orientale”. Tuttora nelle mani dei miliziani dell'Is - riferisce l'agenzia AsiaNews - vi sarebbero almeno 140/150 fedeli; con cadenza regolare, sebbene non frequente, i jihadisti rilasciano piccoli gruppi di persone, con tutta probabilità dietro pagamento di un riscatto. Lo scorso agosto erano state liberate 22 persone della stessa comunità.

I cristiani assiri sono circa 30mila, il 2,5% dei cristiani in Siria 
La conferma della loro liberazione giunge in queste ore anche dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, gruppo con sede a Londra e una fitta rete di informatori sul terreno di battaglia. Secondo le stime aggiornate sarebbero oltre 250mila le vittime della guerra, milioni gli sfollati. I cristiani assiri sono circa 30mila, cioè il 2,5% dei cristiani in Siria (1,2 milioni). La maggior parte di loro viveva nella zona di Hassaké, sparsi in 35 villaggi; l’area è da tempo al centro di una lotta fra l'Is, le truppe regolari e altri gruppi estremisti islamici nemici di Bashar al-Assad e dell'Is. In febbraio la loro zona è stata occupata dall'Is, che ha preso in ostaggio (forse per usarli come scudi umani) centinaia di cristiani. Lo scorso maggio le forze kurde hanno sconfitto e cacciato l'Is da 14 villaggi cristiani.

L'incontro degli ostaggi con il padre Mourad
La comunità nelle mani dell'Is ha potuto incontrare nei mesi scorsi, durante la prigionia, padre Jacques Mourad, sacerdote della Chiesa siro-cattolica e priore del monastero di Mar Elian, anch’egli per mesi nelle mani dei miliziani. Nella testimonianza rilasciata ad AsiaNews, egli ha parlato anche dei momenti trascorsi con le decine di fedeli tuttora ostaggio dei jihadisti. (R.P.)

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Coree: per Giubileo movimento di preghiera per i fratelli del Nord

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Un movimento di preghiera in vista dell’apertura della Porta Santa per ricordare i fratelli del Nord. Si chiama “La Chiesa della Corea del Nord nel mio cuore” l’iniziativa promossa dall’arcivescovo di Seoul, card. Andrew Yeom Soo-jung, ed ha l’obiettivo di coinvolgere tanti fedeli coreani e di esprimere solidarietà, nell’anno giubilare, ai loro connazionali che vivono al di là del 38esimo parallelo.

L’arcivescovo di Seoul: non ho mai dimenticato i fratelli del Nord
 Il progetto è stato spiegato dallo stesso porporato lunedì scorso durante una cerimonia nella cattedrale di Myeongdong. “Non ho mai dimenticato i fratelli e le sorelle che vivono lì. Li ricordo sempre nelle mie preghiere” ha detto l’arcivescovo di Seoul, aggiungendo che: “Papa Francesco ha indetto il Giubileo della Misericordia e credo che la penisola coreana sia una delle aree che nel mondo abbiano più bisogno della misericordia di Dio. Per questo invito tutti ad unirsi a questo movimento di preghiera per dimostrare tutto il nostro affetto e la nostra vicinanza” ha sottolineato.

Nel Nord solo pochi cattolici che vivono in clandestinità
Dopo la liberazione della Corea, nel Nord si contavano 57 parrocchie e 5.200 fedeli. Una volta terminato il conflitto, il Nord divenne vittima delle persecuzioni del governo ed oggi si pensa ci siano solo pochi cattolici che vivono in clandestinità.

L'iniziativa della Chiesa per promuovere la riconciliazione tra le due Coree
​Il 2015 segna il 70.mo anniversario della divisione del Paese e l’arcidiocesi di Seoul ha voluto lanciare così un segnale forte per ribadire la necessità di una pronta riconciliazione. Il movimento di preghiera è aperto a tutti e sarà possibile “adottare” una o più parrocchie delle 57 esistenti oltre confine e pregare per la pace due volte al giorno. Si potrà aderire al movimento attraverso un sito internet ufficiale predisposto dall’arcidiocesi. Oltre al card. Andrew Yeom Soo-jung, che è anche amministratore apostolico di Pyeongyang, alla cerimonia hanno partecipato mons. Lucas Kim Woon-hoe, vescovo di Chunchon e amministratore apostolico di Hamheung, e l’abate Blasio Parco Hyun-dong, amministratore apostolico di Tokwon. (A cura di Davide Dionisi)

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Costa Rica: appello vescovi centroamericani per emigrati cubani

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Nell'ambito della riunione ordinaria del “Secretariado Episcopal de América Central (Sedac)”, che si svolge dal 23 al 27 novembre a San José de Costa Rica con lo slogan "Una sola rete, una sola regione", i vescovi dell'America Centrale hanno incontrato il Presidente della Repubblica di Costa Rica, Luis Guillermo Solis, per affrontare la drammatica situazione degli emigrati cubani. Più di 3.000 cubani infatti, nel loro viaggio verso gli Stati Uniti, sono bloccati da oltre una settimana alla frontiera tra Costa Rica e Nicaragua, in quanto il Nicaragua non consente il loro ingresso nel Paese, neanche per il solo transito.

Quella dei migranti cubani è una questione umanitaria
Il governo del Costa Rica e i vescovi del Sedac hanno concordato nel definire questo stato di cose “una questione umanitaria”, sollecitando quindi una “soluzione umanitaria” ed aspettandosi qualche decisione in merito dall'incontro dei Primi ministri degli Esteri del Centro America, che si sta svolgendo a El Salvador. Il card. Leopoldo Brenes, arcivescovo di Managua - riferisce l'agenzia Fides - ha sottolineato che questo problema non è di un solo Paese, ma dell'intera regione centroamericana, e il dialogo è l’unico modo per trovare una soluzione. Ha quindi esortato tutte le persone della regione a continuare a pregare perché ci siano dei frutti dal dialogo fra queste autorità. 

Nell’agenda dell’incontro del Sedac 
E' prevista l’analisi della vita sociale ed ecclesiale di ogni Paese centramericano. Oltre ai vescovi vi partecipano le rispettive Commissioni per la famiglia, la gioventù, le vocazioni, la pastorale sociale e le comunicazioni sociali. (C.E.)

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Karachi: uomini mascherati bruciano sede di una Tv cristiana

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Un gruppo di uomini mascherati nella notte ha appiccato il fuoco alla sede di Gawahi Tv, un’emittente cristiana di Karachi. L’edificio è crollato per l’incendio. Secondo il personale della televisione, l’incidente è avvenuto alle 2.30 di notte (ora locale), e gli uomini sono stati visti mentre fuggivano dal posto, dopo aver dato alle fiamme l’intero complesso.

Circa 12 milioni di persone seguono la Tv in modo regolare
Gawahi Tv - riferisce l'agenzia AsiaNews - è un’emittente fondata nel febbraio del 2013 in collaborazione con la Chiesa cattolica e quelle protestanti, per “diffondere il Vangelo di Gesù Cristo a persone di tutte le religioni che vivono in Pakistan”. Il canale trasmette 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Come riportato dal sito della televisione, circa 12 milioni di persone lo seguono in modo regolare.

In passato l’emittente aveva ricevuto minacce
​La direzione della Televisione ha sporto denuncia e la polizia ha iniziato ad indagare sull’incidente. In passato vi erano già state minacce all’emittente e nonostante le molte richieste, le autorità non sono state in grado di fornire la sicurezza necessaria. Alcuni membri della Chiesa cattolica, compresi diversi sacerdoti, hanno fatto visita al luogo dell’incendio, esprimendo disappunto per quanto accaduto. Padre John Arif, della diocesi di Karachi, dice: “È stato sconfortante vedere tutto l’edificio e tutte le attrezzature bruciate. Il canale era attivo per comunicare la parola di Dio. Ci sono state delle minacce e ora la questione è sotto investigazione. Speriamo di poter vedere presto di nuovo il canale. Preghiamo per la pace e per la tolleranza”. (J.K.)

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India: Giornata per i dalit dedicata a clima e ambiente

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Sarà incentrata sul tema “Clima, caste e cura per la Terra”, la Giornata per la Liberazione dei dalit (i fuori casta) che ogni anno la Chiesa cattolica in India celebra nelle vicinanze della Giornata Onu dei diritti umani (10 dicembre). Quest’anno la Giornata è fissata al 13 dicembre e avrà un carattere ecumenico, dato che sarà celebrata con il Consiglio nazionale delle Chiese in India, che riunisce le chiese protestanti. La giornata – informa un comunicato ripreso dall’agenzia Fides e firmato da mons A. Neethinathan, presidente dell’ufficio per i dalit della Conferenza episcopale indiana – quest’anno sarà anche collegata al Giubileo della Misericordia: “Possano i dalit trovare misericordia nel Signore e troveranno conforto in Lui nelle loro sofferenze” auspica la nota.

Ricordata l'enciclica di Papa Francesco 'Laudato si'
“La domenica per la liberazione dei dalit viene celebrata in tutta la Chiesa in India mostrando solidarietà ai fratelli e sorelle di origine Dalit, soprattutto cristiani” osserva il testo, ricordando che Papa Francesco nella enciclica “Laudato si” illustra il legame inscindibile tra preoccupazione per la natura, giustizia per poveri, impegno per la società, pace interiore. “I dalit non sono solo poveri economicamente, ma anche poveri dei loro diritti, dato che vengono loro negati diritti politici e sociali. La casta è un sistema umano che assegna uno stigma sociale tramandato per generazioni. Noi, come cittadini dell'India e come membri della Chiesa indiana, non possiamo trascurare la condizione dei fratelli e sorelle dalit” rimarca il comunicato.

Discriminare i dalit, significa violare i valori del Vangelo
​“Il cambiamento – nota l’Ufficio dei vescovi – non è possibile senza motivazione e senza un’opera capillare di educazione. Molti di noi che non sono a conoscenza della situazione dei dalit e alcuni di noi consapevolmente, li discriminano, violando i valori del Vangelo”, mentre “tutti noi abbiamo la responsabilità di promuovere la pace, portare gioia agli altri e prenderci cura di nostra Madre Terra”, conclude il testo. (P.A.)

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India: premio Madre Teresa alla vedova del pastore Graham Staines

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La Fondazione Harmony ha conferito il prestigioso premio internazionale Madre Teresa Memorial a Gladys Staines, vedova del pastore Graham Staines assassinato nel 1999 da radicali indù insieme ai due figli più piccoli. La donna è stata insignita per il suo impegno in favore dei malati di lebbra nello Stato indiano dell’Orissa. Con queste parole commenta all'agenzia AsiaNews la nomina della Fondazione: “Non ho mai lavorato per ottenere riconoscimenti. È incredibile che io sia stata scelta per questo premio. Per un certo periodo non ho vissuto in India, ma venivo qui e visitavo il lebbrosario aperto da mio marito. Ringrazio Dio per avermi aiutata a portare avanti le cure in favore dei lebbrosi, nonostante l’omicidio di mio marito”.

Il brutale omicidio del missionario, preludio delle violenze anticristiane in Orissa
Gladys Staines è la vedova del missionario australiano Graham Staines. Nella notte tra il 22 e il 23 gennaio del 1999 estremisti indù hanno bruciato vivi il pastore e i figli Philip e Timothy (9 e 7 anni), mentre dormivano nella loro station wagon nel villaggio Manoharpur (distretto di Keonjhar, nell’Orissa). Il brutale omicidio del missionario è stato preludio delle violenze contro i cristiani dell’Orissa scatenate nel 2008 dai fondamentalisti indù. Gladys ricorda che la sua prima reazione di fronte all’atroce delitto è stata quella di ritornare in Australia. “Ma poi – dice – ho realizzato che l’India era stata la mia casa per 15 anni. Volevo continuare a vivere qui e portare avanti il lavoro iniziato insieme a mio marito”. Dopo due mesi dall’omicidio, la donna torna a vivere nel villaggio insieme alla figlia superstite Esther. Dichiara: “Tornare a lavorare mi ha aiutato ad elaborare il lutto. Anche il personale e i pazienti hanno condiviso con me il dolore della perdita. Questo premio è un onore per me, mio marito e la mia famiglia”.

La casa per i lebbrosi trasformata in un vero e proprio ospedale
Grazie al contributo ricevuto per il premio Padma Shri, ottenuto nel 2004, la vedova è riuscita a trasformare la casa per i lebbrosi in un vero e proprio ospedale, dove i pazienti possono ricevere tutte le cure di cui hanno bisogno. Gladys continua: “Ringrazio Dio per la sua grazia e il sostegno che dà alle persone che continuano a servire gli altri con compassione. Attraverso questo premio intitolato a Madre Terasa, voglio onorare la popolazione dell’India. L’ospedale è specializzato nella cura dei lebbrosi, ma dopo l’assassinio di mio marito siamo riusciti ad aprire anche un ostello per i bambini, dove forniamo loro un’educazione. Il Signore Gesù Cristo ha infuso pace nel mio cuore. Il mio più grande desiderio è che le persone dell’Orissa possano diventare indipendenti e forti, vivere insieme in armonia e avere pace nei loro cuori”.

Un Premio in ricordo di Madre Teresa che ha speso la sua vita per gli ultimi ed emarginati
​Abraham Mathai, presidente della Harmony Foundation, ha poi riferito: “La nostra Fondazione ha come scopo dare luce alla ‘Invisible India’. Mentre i riflettori sono puntati solo sulla ‘Incredible India’, noi vorremmo far conoscere alla comunità mondiale anche la parte invisibile del Paese, le persone e organizzazioni che lavorano senza sosta per favorire la conoscenza tra le comunità, in modo da creare un mondo migliore”. Riguardo il motivo che li ha spinti a conferire il premio alla signora Gladys, conclude: “Oggi la società ha bisogno di pace, tolleranza, uguaglianza e giustizia sociale. Perciò abbiamo deciso di premiare chi incoraggia questi valori e spinge la società ad assimilarli. Questa è anche l’eredità di Madre Teresa, che ha speso la sua vita nel servire in modo instancabile la causa dei dalit, poveri ed emarginati nella nostra società”. (N.C.)

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Cop21: mobilitazione e richieste delle Chiese asiatiche

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Le Chiese cattoliche di India, Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka – tra i Paesi asiatici più colpiti dai cambiamenti climatici, dove i cattolici sono una minoranza – chiedono ai leader mondiali che si riuniranno il 30 novembre a Parigi per la Cop21 (la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), di assumere misure immediate per difendere l’ambiente. Una presa di posizione - riferisce l'agenzia Sir - rafforzata dall’eco che ha avuto in Asia l’enciclica di Papa Francesco “Laudato si’”.

I disastri naturali in India
In India l’arcidiocesi di Delhi ha messo in campo alcuni programmi per tutelare le comunità dalle imprevedibili condizioni meteorologiche, che hanno provocato imprevedibili disastri: il più recente questo mese in Tamil Nadu, con 20 morti; nel 2014 in Jammu e Kashmir sono morte 300 persone, nel 2013 nell’Uttarakand più di 1.000 vittime. In India sono sempre più frequenti le alluvioni e i lunghi periodi di siccità, che hanno causato 300mila suicidi di contadini negli ultimi 10 anni, per l’impossibilità di ripagare i debiti per le sementi acquistate. “È nostro dovere seguire l’appello del Papa e provare a riparare il danno causato alla madre terra”, dice padre Savai Raj, direttore dell’ufficio sociale dell’arcidiocesi di Delhi.

Gli effetti dei cambiamenti climatici in Pakistan e Bangladesh
A Lahore, in Pakistan, lo scorso 21 novembre si è svolta una marcia interreligiosa che ha riunito cristiani, musulmani, indù, sikh. Anche il Pakistan sta scontando gli effetti dei cambiamenti climatici: alluvioni, degrado ambientale, inquinamento dell’acqua e conseguenze negative sul bestiame e sulle pratiche agricole. Per non parlare del Bangladesh, uno dei Paesi più vulnerabili al mondo: “Dio perdona e le persone possono perdonarsi tra loro – afferma Francis Atul Sarkar, di Caritas Bangladesh, all’agenzia cattolica Ucanews -. Ma la natura non perdona i nostri errori”. 

Sri Lanka: lo spostamento dei periodi dei monsoni creerà danni all'agricoltura
In Sri Lanka il governo ha già annunciato che lo spostamento del periodo dei monsoni causato dai cambiamenti climatici potrebbe provocare scarsità di acqua in molte zone dell’isola, con ripercussioni negative sulla vita dei contadini più poveri. Padre Reid Shelton Fernando, cappellano del movimento dei giovani lavoratori cristiani dell’arcidiocesi di Colombo, spiega che molti gruppi cristiani si stanno impegnando per sensibilizzare la popolazione e prevenire ulteriori danni, portando il messaggio della “Laudato si’” nei contesti locali. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 329

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.